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---
title: "Arhitekt kot intelektualec"
description: |
Izpiski iz Marco Biraghi, *L'architetto come intellettuale*
[@biraghi2019larchitetto]
...
::: {lang=it}
> > Ma ciò che ci appare necessario è sempre anche altamente improbabile.
> >
> > *Massimo Cacciari*
:::
## Introduzione
La constatazione della crisi dell'intellettuale nell'epoca contemporanea è ormai
talmente diffusa e generalizzata da essere divenuta un luogo comune; un
argomento oggetto di facili ironie[^i1] e oggi quasi "di moda", non fosse che
l'intellettuale in quanto tale raramente si lascia rapportare alla moda.
In realtà, la crisi dell'intellettuale ha origini ben più lontane e profonde,
tanto da aver generato, a partire dalla seconda metà del Novecento, una lunga
serie di diagnosi al capezzale del malato, vuoi per prescrivergli possibili
rimedi, vuoi per preconizzarne il decesso ormai prossimo[^i2].
Come tutto ciò che viene insistentemente osservato o ripetuto, anche la
categoria di "intellettuale" ha perduto, nel corso del tempo, il suo contenuto,
o piuttosto ha visto progressivamente venir meno il suo senso, finendo per
apparire un corpo svuotato. Lasciando da parte antichi e nuovi pregiudizi, per
cercare di comprendere che cosa sia l'intellettuale, e quale possa essere il suo
eventuale ruolo -- e, più nello specifico, quale possa essere il ruolo
dell'architetto inteso come intellettuale -- nel mondo attuale, è opportuno
ripartire dalla "classica" analisi fatta da Antonio Gramsci[^i3]. Per questi,
innanzitutto, "tutti gli uomini sono intellettuali", anche se "non tutti gli
uomini hanno nella società la funzione di intellettuali"[^i4]. Da ciò deriva che
"non si può parlare di non-intellettuali, perché non-intellettuali non esistono.
(...) Non c'è attività umana da cui si possa escludere ogni intervento
intellettuale, non si può separare l'*homo faber* dall'*homo sapiens*"[^i5].
Questa precisazione (o questa non-distinzione) risulta fondamentale per non
confinare la categoria dell'"intellettuale" all'interno di una gabbia separata,
dorata o meno che sia.
> Ogni uomo (...), all'infuori della sua professione esplica una qualche
> attività intellettuale, è cioè un "filosofo", un artista, un uomo di gusto,
> partecipa di una concezione del mondo, ha una consapevole linea di condotta
> morale, quindi contribuisce a sostenere o a modificare una concezione del
> mondo, cioè a suscitare nuovi modi di pensare[^i6].
Il problema semmai per Gramsci consiste nella "creazione di un nuovo ceto
intellettuale" che sia capace di
> ... elaborare criticamente l'attività intellettuale che in ognuno esiste in un
> certo grado di sviluppo, modificando il suo rapporto con lo sforzo
> muscolare-nervoso verso un nuovo equilibrio e ottenendo che lo stesso sforzo
> muscolare-nervoso, in quanto elemento di un'attività pratica generale, che
> innova perpetuamente il mondo fisico e sociale, diventi il fondamento di una
> nuova e integrale concezione del mondo[^i7].
In questo senso Gramsci, al di là della figura dell'intellettuale
"tradizionale", appartenente a una "categoria sociale cristallizzata"[^i8] e
legato alle funzioni culturali più consuete, vede un terreno d'azione più
fertile per l'intellettuale nell'applicazione diretta di questi allo "sviluppo
delle forme reali di vita"[^i9]:
> Nel mondo moderno l'educazione tecnica, strettamente legata al lavoro
> industriale anche il più primitivo o squalificato, deve formare la base del
> nuovo tipo di intellettuale.
Di conseguenza,
> ... il modo di essere del nuovo intellettuale non può più consistere
> nell'eloquenza, motrice esteriore e momentanea degli affetti e delle passioni,
> ma nel mescolarsi attivamente alla vita pratica, come costruttore,
> organizzatore, "persuasore permanentemente".
Con l'ulteriore avvertenza che tale tipo di intellettuale deve altresí
oltrepassare la "tecnica-lavoro" per giungere "alla tecnica-scienza e alla
concezione umanistica storica, senza la quale si rimane "specialista"".
Non è un caso che per Gramsci l'effetto più immediato di tale ingresso nel mondo
tecnico-scientifico (ma anche storico-umanistico) da parte degli intellettuali
sia la relazione che questi istituiscono con la politica. Politica da intendersi
nel senso più originario, come *technē politikē*, come arte-tecnica di indirizzo
e gestione della *polis*, e più in generale della cosa pubblica. Se ciò dapprima
produce una classe di "intellettuali di partito" "pronti a piegarsi in caso di
necessità all'ineludibile disciplina richiesta dalla tattica e
dall'organizzazione", come rileva Habermas[^i10], in seguito -- e in particolare
dopo il termine del secondo conflitto mondiale -- le cose cambieranno:
> Gli intellettuali che si imposero dopo il 1945 -- come Camus e Sartre, Adorno
> e Marcuse, Max Frisch e Heinrich Böll -- assomigliavano ai modelli più antichi
> di scrittori e professori che assumevano sí posizioni di parte, ma non erano
> politicamente legati a nessun partito. Cogliendo una data occasione, senza
> essere stati richiesti o averlo concordato con qualcuno, essi si inducevano,
> al di là della loro professione, a fare un uso pubblico del loro sapere
> professionale. Senza pretendere alcuno *status* elitario, non si richiamavano
> ad altra legittimazione che non fosse il loro ruolo di cittadino di uno Stato
> democratico[^i11].
All'interno dei rapporti tra intellettuali e politica -- cosí come ovviamente di
quelli tra intellettuali e mondo della tecnica -- rientra a pieno titolo anche
la figura dell'architetto. Vale la pena forse citare a questo proposito quanto
scriveva Manfredo Tafuri nelle pagine finali di *Progetto e utopia*:
> La riflessione sull'architettura, in quanto critica dell'ideologia concreta,
> "realizzata" dall'architettura stessa, non può che (...) raggiungere una
> dimensione specificamente politica. È solo a questo punto -- dopo, cioè, aver
> fatto ragione di ogni ideologia disciplinare -- che è lecito riproporre il
> tema dei ruoli nuovi del tecnico, dell'organizzatore dell'edilizia, del
> *planner*, nell'ambito delle nuove forme dello sviluppo capitalistico. E
> quindi, delle tangenze possibili o delle inevitabili contraddittorietà fra
> tale tipo di lavoro tecnico-intellettuale e le condizioni materiali della
> lotta di classe[^i12].
Quest'ultimo accenno non deve far perdere di vista l'attualità della notazione
tafuriana. Il fatto che oggi la "lotta di classe" possa apparire un reperto
archeologico (questione che verrà ridiscussa più oltre) non deve indurre l'idea
che la relazione tra architetti e politica sia venuta meno; e lo stesso vale per
quella tra architetti e sfera intellettuale.
Che l'architetto sia un intellettuale è cosa evidente non soltanto nell'ottica
della distinzione gramsciana tra "sforzo di elaborazione intellettuale-cerebrale
e sforzo muscolare-nervoso"[^i13]: lo è anche in un senso immediatamente
intuitivo, almeno per "noi moderni". Ed è probabilmente inutile rispolverare le
vecchie analisi marxiste sulla separazione tra lavoro intellettuale e lavoro
manuale[^i14] per affermare qualcosa che risulta di per sé sufficientemente
chiaro. Del resto, già la celeberrima definizione datane da Vitruvio ("Et ut
litteratus sit, peritus graphidos, eruditus geometria, historias complures
noverit, philosophos diligenter audierit, musicam scierit, medicinae non sit
ignarus, responsa iurisconsultorum noverit, astrologiam caelique rationes
cognitas habeat")[^i15] fa emergere il carattere iperintellettuale della
preparazione dell'architetto, una somma di conoscenze "tecnico-scientifiche" e
"storico-umanistiche", per dirla con le parole di Gramsci.
> Il sapere dell'architetto è ricco degli apporti di numerosi ambiti
> disciplinari \[o "specialismi", come li si denominerebbe oggi\] e di
> conoscenze relative a vari campi, e al suo giudizio vengono sottoposti i
> risultati prodotti dalle altre tecniche[^i16].
Proprio quest'ultima considerazione vitruviana illumina il senso che ha per lui
tale accumulazione di saperi, e di conseguenza il ruolo rivestito
dall'architetto: non tanto quello dell'erudito, del multi-*connoisseur* fine a
se stesso, quanto piuttosto quello del coordinatore, del supervisore, del
regista (dal latino *regere*, dirigere); tutte attività per le quali necessita
-- al di là delle singole competenze -- il possesso di uno sguardo ampio e di
una visione sintetica. Una comprensione e un'organizzazione di molti elementi
contemporaneamente, per le quali sono appunto richieste spiccate capacità
intellettuali.
E tuttavia, se l'architetto possiede storicamente una vocazione intellettuale,
ciò non significa che il suo non sia anche -- e molto -- un lavoro manuale.
Basti solo pensare al disegno, o a tutte le attività che stanno dietro, e
*dentro*, il compimento di un'opera di architettura, e che prevedono per
l'appunto l'erogazione di un lavoro ri-produttivo, vale a dire non squisitamente
produttivo o "creativo"[^i17]. All'interno di questa pluralità di attività svolte
dall'architetto, l'attività intellettuale non è distinguibile come una
dimensione isolata e specifica: piuttosto, si tratta della modalità generale
entro cui questi *comprende* tutte le proprie attività, incluse quelle manuali
come, appunto, il disegno (per Filarete "fondamento e via d'ogni arte che di
mano si faccia"[^i18], vale a dire strumento per comunicare l'"idea"). Una
modalità di *comprehendere* (letteralmente, di mettere insieme i particolari
aspetti sensibili che una molteplicità di entità hanno tra loro in comune) che
definisce in quanto tale il suo operare da architetto, ma che alcuni tra loro
dimostrano di possedere in maniera più accentuata di altri. E lo stesso vale
anche per alcune epoche. Ad esempio, in Italia -- dalla metà degli anni
cinquanta fino all'incirca alla metà degli anni settanta, come si vedrà meglio
più oltre -- la spiccata attitudine degli architetti a pensare e ad agire come
intellettuali ha fortemente influenzato, nel bene e nel male, il quadro
complessivo dell'epoca: da un lato concorrendo a dar vita a uno dei momenti più
fecondi della recente storia disciplinare italiana, mediante la produzione di
alcuni edifici di altissima qualità, cosí come con l'elaborazione di altrettanto
fondamentali contributi teorici; dall'altro facendo fin troppo spesso astrazione
dal campo di applicazione concreto dell'architettura, e dando cosí spazio al
fiorire -- avvenuto precisamente in quel periodo -- della speculazione
edilizia[^i19] e al compiersi di un vero assalto ai territori italiani, di cui
proprio la parte migliore dell'architettura italiana, arroccata in una posizione
di aristocratica "separatezza", ha finito per rendersi involontariamente
complice.
Sono probabilmente i cascami di questa stagione della cultura architettonica
italiana, intensa ma contraddittoria, ad aver lasciato in eredità alle fasi
storiche successive -- in particolar modo nel nostro paese -- un'idea di
architetto come prototipo per eccellenza dell'intellettuale fumoso e
inconcludente: una sorta di Fuffas *ante litteram*, una figura un po' ridicola e
un po' patetica, autoreferenziale e incapace di rapportarsi alla realtà. Questo
modello pur parodistico dell'architetto intellettuale ha però sicuramente
giocato un ruolo nella scarsa considerazione di cui la categoria nel suo
complesso ha goduto in Italia nello scorso cinquantennio, e fors'anche nella
collettiva "ritirata" degli architetti da posizioni di impegno politico e
sociale, vale a dire, in una parola sola, intellettuale.
D'altronde, la crisi dell'architetto intellettuale (cosí come quella
dell'intellettuale *tout court*) va di pari passo con la crisi più generale --
ed epocale -- di un sistema di valori a cui tradizionalmente il mondo degli
intellettuali si rifaceva. E ciò su scala planetaria, non certo solo locale. Ed
è sintomatico che sia proprio un architetto intellettuale -- Tomás Maldonado,
d'origini argentine ma con lunghe frequentazioni europee e italiane -- a tornare
a interrogarsi, nel 1995, sul mutevole significato della figura
dell'intellettuale nel corso del tempo e sul suo incerto destino in quello
attuale[^i20]. Un'incertezza (o una "crisi d'identità")[^i21] che troverebbe una
sua spiegazione, tra le altre possibili, nella "democratizzazione del sapere" e
nella diffusione generalizzata del lavoro intellettuale (e -- andrebbe aggiunto
-- nell'elevata taylorizzazione e proletarizzazione subita dai lavoratori di
tali settori), che avrebbe come effetto la crescita smisurata di un "pensiero
operante", vale a dire direttamente applicato ai contesti produttivi e
comunicativi. Ciò che non impedisce tuttavia a Maldonado di chiudere la sua
analisi sulle note di una "sorprendente" speranza in merito alla possibilità di
una futura rinascita di un "pensiero discorrente", dialogico, capace in ultima
analisi di tornare a "scompaginare (...) l'appiattimento della nostra visione
del mondo"[^i22].
Gli eventi, almeno per il momento, non sembrano aver dato ragione alle attese di
Maldonado. Il generalizzato ritorno in auge, in tempi più recenti,
dell'architetto come professionista, ovvero come figura "semplicemente" dotata
di capacità tecniche e di competenze specifiche, e disinteressata invece allo
sviluppo di un proprio pensiero teorico, sembra segnare un cambio di tendenza
dal significato apparentemente inequivocabile e forse irrevocabile. Di ciò
potrebbe costituire un'ulteriore conferma, da vent'anni circa a questa parte,
l'imporsi del fenomeno dell'*archistar* (o *star architect*, o
*starchitect*)[^i23]: una nuova forma di celebrità fortemente mediatizzata che
non ha paragoni con quella sperimentata da architetti di epoche precedenti, e
che assimila invece l'architetto contemporaneo ad altri protagonisti dello *show
business* globale (attori, personaggi televisivi, sportivi, ecc.). Una notorietà
originata assai più dall'aspetto spettacolare e sorprendente dei loro edifici
che non dalla comprensione (ma in fondo si potrebbe anche dire: dalla
sussistenza stessa) del loro "messaggio".
Le conseguenze di questo fenomeno, anche dopo che esso pare avere ormai superato
la sua fase più acuta, non hanno tardato a farsi sentire: l'architettura, nel
corso degli ultimi due decenni, sembra avere accresciuto la propria popolarità
presso un pubblico sempre più allargato. Non che ovviamente l'architettura di
oggi sia più conosciuta o studiata di quella delle epoche precedenti: piuttosto,
essa pare essere entrata nell'orizzonte percettivo di persone che per il resto
continuano a non occuparsene affatto, almeno in maniera diretta e cosciente.
Se tale impressione corrisponde effettivamente alla realtà, ciò è da far
risalire, oltreché alla sporadica capacità dell'architettura attuale di
"scandalizzare" i ben (poco) pensanti, a quella di dare forma e sostanza --
almeno in apparenza -- ai "desideri" della società contemporanea, vale a dire di
rispondere soddisfacentemente alle sue "attese". Il discorso in realtà è un po'
più complicato. Affermare che nel corso della sua storia l'architettura sia
sempre stata espressione delle società in cui si è sviluppata è una verità tanto
ovvia da rischiare di essere confutabile. Nella *polis* greca, il tempio, il
teatro, persino gli edifici sportivi (si pensi a Olimpia, a Nemea o a Epidauro),
ben al di là dall'essere semplici contenitori di funzioni sociali, svolgevano il
ruolo di riattivatori rituali di un fondamento rimosso da cui l'intera comunità
originava. Nella città romana (soprattutto con l'espansione imperiale), gli
edifici e gli spazi pubblici si facevano portatori di un messaggio politico che
non era affatto espressione della realtà in cui si inserivano. Nella città
rinascimentale, gli edifici rappresentavano frammenti di un ordine dotato di una
ben precisa funzione ideologica, che spesso però è entrato in conflitto con la
città precedente. E altrettanto si potrebbe dire delle altre epoche.
Rispetto alle attese cui architettura e città hanno saputo rispondere nel corso
del Novecento (per la gran parte attese di tipo sociale: richieste di abitazioni
per tutti, di servizi sociali, di spazi pubblici), quelle odierne possiedono un
carattere ben diverso. In realtà non tanto diverso da risultare imprevedibile.
Lo spazio della città, nella storia, è stato teatro di una continua "contesa"
tra idee di suo uso addirittura opposte:
> Da un lato la città come un luogo di *otium*, luogo di scambio umano,
> sicuramente fattivo, attivo, intelligente, una dimora insomma, e da un altro
> il luogo dove poter sviluppare nel modo più efficace i *nec-otia*[^i24].
Oggi all'architettura (e alla città) sembra non si chieda nulla di più che dar
forma visibile e tangibile ai *negotia*, agli affari, vale a dire a quello
"spirito commerciale" cui sono improntate nel modo più profondo e completo le
società -- e all'interno di esse, le *vite* -- occidentali[^i25]. Ciò non va
inteso in un senso ristretto, limitatamente a quegli spazi destinati alla
vendita di cui pure gli architetti nell'ultimo secolo si sono intensamente
occupati[^i26]. Piuttosto, svettanti grattacieli e sfavillanti shopping center --
ma anche edifici per l'intrattenimento e il tempo libero variamente concepiti --
paiono rispondere perfettamente "a tono" alle più o meno esplicite richieste dei
cittadini-consumatori che non soltanto li utilizzano, ma che addirittura
sembrano aderire totalmente al programma "ideologico" di cui questi edifici
costituiscono l'oggettivazione. Un programma "ideologico" -- quello disposto dal
sistema capitalistico -- che si lascia assumere senza troppi pensieri, con
leggerezza, e nel quale i cittadini-consumatori paiono felici di rispecchiarsi.
Si potrebbe obiettare che tali domande "collettive" sono probabilmente assai
poco spontanee, poco realistiche, e che addirittura esse sono del tutto irreali,
nel senso che non sono formulate affatto dalla maggioranza di coloro che
usufruiscono delle città e dei suoi edifici; e che piuttosto sono il prodotto
della *simulazione di un desiderio* che le forze economiche oggi dominanti nelle
nostre società proiettano sull'inconscio collettivo dei cittadini-consumatori,
con un'intensità tanto maggiore al crescere delle dimensioni dei contesti
urbani[^i27]. Ma, quale che sia la verità, questa "illusione di soddisfazione
sociale" nei confronti dell'architettura urbana per il momento funziona, e trova
una piena rispondenza negli architetti incaricati di realizzarla.
L'architetto -- oggi come nei momenti storici precedenti -- mette la propria
opera a disposizione della società in cui vive. Lo faceva Filippo Brunelleschi
con la Repubblica di Firenze, lo facevano Gian Lorenzo Bernini e Francesco
Borromini con il Papato di Roma, e lo fanno gli architetti attuali con i loro
committenti. In apparenza, non vi è nessuna differenza; in realtà, i modi in cui
gli architetti si sono messi al servizio della società nel corso del tempo
presentano tra di loro difformità consistenti[^i28]. L'architetto ha spesso
rivestito un ruolo di consigliere e di propositore, oltreché di realizzatore. E
in non poche occasioni è arrivato anche a calarsi -- in passato -- nei panni del
pensatore, dell'utopista, del sognatore, declinando l'etimologia del progetto
nel suo senso più diretto e immediato: quello di un'evocazione -- qui e ora --
del futuro (*proiectus* in latino è propriamente l'azione del gettare in avanti,
e dunque del proiettare).
Oggi invece, almeno in una gran parte dei casi, l'architetto appare preda di
intricate dinamiche che, se da un lato le/gli vietano di porsi in una posizione
di "ingenua" neutralità, dall'altro la/lo portano a vedere in maniera quasi
"connaturata" ("naturalizzata", si potrebbe dire in termini marxisti) il proprio
ruolo di "operatore specializzato" all'interno di un processo ben più vasto e
composito di cui il proprio progetto rappresenta con tutta evidenza soltanto un
"momento". Ed è degno di nota che, proprio in questo ambito, all'architetto sia
richiesto non soltanto di svolgere ruoli esecutivi, ma anche -- in alcuni casi
particolarmente complessi -- di fornire contributi "ideativi", spingendosi al di
là delle proprie "tradizionali competenze disciplinari"[^i29], in qualità di
"suggeritore" di possibili funzioni e utilizzi, sempre comunque inseriti in una
logica complessiva che non le/gli è dato in alcun modo di mettere in
discussione, per non parlare poi di criticarla apertamente. Ciò, ben lungi dal
conferire all'architetto un ruolo "decisionale" autonomo, finisce per attestarne
la posizione ancillare, riducendo il suo contributo a uno "scandaglio
preliminare di ipotesi formalizzate"[^i30]. Ed è dunque palese come, stando le
cose in questo modo, la sua "massima aspirazione" possa essere quella di
limitarsi a farsi interprete di "programmi ideologici" già stabiliti da altri,
aggiungendovi al più il valore di un'effettiva o presunta "originalità" della
forma.
Quale sia il messaggio in questione, potrebbe risultare a questo punto quasi
enigmatico, se non fosse invece sin troppo evidente, trattandosi dell'"eterna"
(nella logica capitalistica) esortazione al consumo di cui il sistema ha
endemicamente bisogno; un consumo che non va inteso esclusivamente nel senso
dell'acquisizione di merci, di beni materiali, ma anche in quello più astratto e
generale dell'assunzione del sistema in quanto tale come *valore*. In questo
senso, l'esortazione al consumo capitalistico -- consumo di sé, oltreché di ogni
singola merce -- si traduce immediatamente nell'*affermazione* (niente affatto
nella semplice "richiesta") di un *consenso* nei propri stessi confronti[^i31]:
nei confronti delle proprie "regole", dei propri "valori". In quest'opera cosí
importante di persuasione, che il capitalismo conduce in quel modo seduttivo e
apparentemente non coercitivo che gli è proprio, l'architettura ha l'incombenza
fondamentale di tradurre tutto ciò in oggetti, spazi e luoghi concreti.
A cinquant'anni di distanza dal saggio *Per una critica dell'ideologia
architettonica*[^i32], e a poco meno dalla sua già citata rielaborazione in forma
di libro, in cui Tafuri stilava una lucida diagnosi in merito ai "compiti che lo
sviluppo capitalistico ha tolto all'architettura" -- primo e fondamentale fra
questi, la dimensione utopica -- lasciando ad essa soltanto il "dramma" di
"vedersi obbligata a tornare *pura architettura*, istanza di forma priva di
utopia, nei casi migliori, sublime inutilità"[^i33], l'architetto si ritrova a
fare i conti con una condizione nella quale davvero la possibilità dell'utopia
sembra essere ormai tramontata, e in cui non rimane null'altro che la dimensione
della realtà (sublimemente inutile, o piuttosto pragmaticamente utilissima)
quale suo campo d'azione. Una realtà niente affatto neutrale, e che anzi il suo
stesso apporto -- insieme a quello di altre forze[^i34] -- contribuisce a
configurare nella sua forma consensuale.
::: horizontal
> Ta knjiga želi opredeliti pogoje, v katerih se je znašel današnji arhitekt,
> prepoznati njegove omejitve in razumeti načine, kako jih je mogoče premagati.
> Pri tem se jasno zaveda, da nikakor ni mogoče predlagati obrata smeri,
> poenostavljene in nostalgične "vrnitve k začetkom". Zgodovinske poti, naj
> bodo še tako vijugaste in na videz (ali dejansko) ne preveč logične, so vedno
> in v vsakem primeru neizpodbitne. Zato se je potrebno vprašati, potem ko smo
> ustrezno raziskali profil in področje delovanja arhitektov iz daljne ali
> bližnje preteklosti, ki so opravljali svojo vlogo intelektualcev, kakšen je
> danes -- in še bolj, kakšen bi lahko bil *v prihodnosti* -- pomen arhitekta,
> ki je sposoben preseči izvajanje dodeljenih nalog, arhitekta, ki zna biti
> *aktivni* razlagalec realnosti, ji napoveduje alternativne možnosti ali jo
> vsaj poskuša postaviti v krizo. [@biraghi2019larchitetto, 14-15]
::: {lang=it}
> Individuare le condizioni in cui l'architetto odierno si trova, riconoscerne i
> limiti, cercare di comprendere i modi di un loro possibile superamento, è
> quanto si prefigge il presente libro. A partire dalla chiara consapevolezza
> che non è in ogni caso proponibile alcuna inversione di rotta, alcun
> semplicistico e nostalgico "ritorno alle origini". I percorsi della storia,
> per quanto tortuosi e apparentemente (o effettivamente) poco logici, sono
> sempre e comunque incontrovertibili. Ciò su cui dunque è necessario
> interrogarsi, dopo avere debitamente esplorato il profilo e il campo d'azione
> degli architetti di un passato lontano o recente che hanno esercitato il
> proprio ruolo di intellettuali, è quale sia il senso oggi -- e, ancora di più,
> quale potrà essere il senso *in futuro* -- di un architetto capace di andare
> oltre l'esecuzione di incarichi assegnati, un architetto che sappia farsi
> interprete *attivo* della realtà, prefigurando per essa possibilità
> alternative, o quantomeno cercando di metterla in crisi.
:::
:::
[^i1]: Vedi ad esempio *Intello Academy* dell'economista e psicanalista Corinne
Maier, tradotto in italiano con l'imbarazzante titolo *Intellettualoidi di tutto
il mondo, unitevi!*, Bompiani, Milano 2007.
[^i2]: Vedi, tra i molti altri, Elémire Zolla, *L'eclissi dell'intellettuale*,
Bompiani, Milano 1959; Zygmunt Bauman, *La decadenza degli intellettuali. Da
legislatori a interpreti*, Bollati Boringhieri, Torino 2007; Frank Furedi, *Che
fine hanno fatto gli intellettuali?*, Cortina, Milano 2007.
[^i3]: Antonio Gramsci, *Quaderni del carcere* (1929-35), 4 voll., a cura di
Valentino Gerratana, Einaudi, Torino 2014.
[^i4]: Gramsci, *Quaderni del carcere* cit., vol. III, Quaderno 12 (XXIX), § 1,
p. 1516.
[^i5]: *Ibid.*, § 3, p. 1550.
[^i6]: *Ibid.*, pp. 1550-51.
[^i7]: *Ibid.*, p. 1551.
[^i8]: *Ibid.*, Quaderno 11 (XVIII), § 16, p. 1406.
[^i9]: *Ibid.*, vol III, Quaderno 12 (XXIX), § 3, p. 1551.
[^i10]: Jürgen Habermas, *Il ruolo dell'intellettuale e la causa dell'Europa*,
Laterza, Roma-Bari 2011, p. 7.
[^i11]: *Ibid*. Su ciò vedi anche Michael Walzer, *L'intellettuale militante.
Critica sociale e impegno politico nel Novecento*, il Mulino, Bologna 1991.
[^i12]: Manfredo Tafuri, *Progetto e utopia. Architettura e sviluppo
capitalistico*, Laterza, Roma-Bari 1973, pp. 169-70.
[^i13]: Gramsci, *Quaderni del carcere* cit., vol. III, Quaderno 12 (XXIX), § 3,
p. 1550.
[^i14]: Oltre a Karl Marx e Friedrich Engels, *L'ideologia tedesca* (1845),
Editori Riuniti, Roma 1971, p. 21 e *passim*, vedi, tra gli altri, Alfred
Sohn-Rethel, *Lavoro intellettuale e lavoro manuale. Per la teoria della sintesi
sociale*, Feltrinelli, Milano 1977.
[^i15]: "... e che tu abbia una istruzione letteraria, che sia esperto nel
disegno, preparato in geometria, che conosca un buon numero di racconti storici,
che abbia seguito con attenzione lezioni di filosofia, che conosca la musica,
che abbia qualche nozione di medicina, che conosca i pareri dei giuristi, che
abbia acquisito le leggi dell'astronomia": Vitruvio, *De Architectura*, 2 voll.,
Einaudi, Torino 1997, libro I.3, p. 14.
[^i16]: *Ibid.*, libro I.1, p. 13.
[^i17]: Per la distinzione tra "lavoro" e "opera" vedi Hannah Arendt, *Vita
activa. La condizione umana* (1958), Bompiani, Milano 2011, pp. 58 sgg. Per
un'applicazione di questa distinzione all'architettura, vedi Pier Vittorio
Aureli, *Labor and Work in Architecture*, in "Harvard Design Magazine", n. 46,
2018, pp. 71-81.
[^i18]: Antonio Averlino detto il Filarete, *Trattato di architettura* (1464
circa), 2 voll., a cura di Anna Maria Finoli e Liliana Grassi, Il Polifilo,
Milano 1972, libro I, pp. 10-11.
[^i19]: Emblematico al proposito è il racconto di Italo Calvino, *La speculazione
edilizia*, Einaudi, Torino 1963 (ma finito di scrivere nel 1957), il cui
protagonista è un giovane intellettuale che, trascinato dallo "spirito
dell'epoca", si imbarca in un'operazione immobiliare sulla Riviera ligure
affiancato a un equivoco imprenditore edile.
[^i20]: Tomás Maldonado, *Che cos'è un intellettuale? Avventure e disavventure di
un ruolo*, Feltrinelli, Milano 1995. Altrettanto sintomatico, comunque, è il
fatto che, tra tutti i nomi citati nel libro, non ve ne sia neppure uno d'un
architetto.
[^i21]: *Ibid.*, p. 95.
[^i22]: *Ibid.*, p. 94.
[^i23]: Gabriella Lo Ricco e Silvia Micheli, *Lo spettacolo dell'architettura.
Profilo dell'archistar*^©^, Bruno Mondadori, Milano 2003.
[^i24]: Massimo Cacciari, *La città*, Pazzini Editore, Rimini 2009, p. 23.
[^i25]: *The Harvard Design School Guide to Shopping*, a cura di Chuihua Judy
Chung, Jeffrey Inaba, Rem Koolhaas e Sze Tsung Leong, Taschen, Köln 2001.
[^i26]: Vedi, ad esempio, Dario Scodeller, *Negozi. L'architetto nello spazio
della merce*, Electa, Milano 2007.
[^i27]: Su ciò vedi Jean Baudrillard, *La società dei consumi. I suoi miti e le
sue strutture*, il Mulino, Bologna
2010\. Al proposito vedi anche le ricerche condotte da Vanni Codeluppi, *Lo
spettacolo della merce. I luoghi del consumo dai 'passages' a 'Disney World'*,
Bompiani, Milano 2000; Id., *La vetrinizzazione sociale. Il processo di
spettacolarizzazione degli individui e della società*, Bollati Boringhieri,
Torino 2007; Id., *Metropoli e luoghi del consumo*, Mimesis, Milano 2014.
[^i28]: Spiro Kostof (a cura di), *The Architect. Chapters in the History of the
Profession*, University of California Press, Berkeley 2000, che tuttavia -- per
quanto riguarda i periodi dal 1700 in avanti -- si limita ad analizzare il
contesto anglosassone e nordamericano.
[^i29]: Manfredo Tafuri, *Storia dell'architettura italiana 1944-1985*, Einaudi,
Torino 1986, p. 206. Il "caso" in questione è quello del Lingotto di Torino.
[^i30]: *Ibid.*, p. 207. più in generale vedi anche -- per limitarsi alla sola
Italia -- il capitolo *"Reconversio urbis I": Venezia, Milano, Torino, Firenze*,
in Marco Biraghi e Silvia Micheli, *Storia dell'architettura italiana
1985-2015*, Einaudi, Torino 2013, pp. 38-59.
[^i31]: Interessante a questo proposito constatare come la società capitalistica
abbia il proprio modello nella fabbrica. E non a caso proprio qui mutano -- con
il passare del tempo -- i rapporti sociali, indirizzandosi progressivamente
verso l'ottenimento di un consenso. Sull'argomento vedi il fondamentale Michael
Burawoy, *Manufacturing Consent: Changes in the Labor Process under Monopoly
Capitalism*, University of Chicago Press, Chicago 1979. "Per comprendere le
dinamiche sociali che avvengono nelle fabbriche a capitalismo sviluppato occorre
riconoscere che le politiche di produzione un tempo fondate unicamente su metodi
coercitivi si modificano e si ampliano in modo da rendere possibile un
progressivo coinvolgimento consensuale della manodopera nel proprio lavoro. In
altri termini, con l'evoluzione storica del capitalismo, le politiche di
produzione passano gradualmente dal dispotismo all'egemonia. Con questa
espressione, tratta da Gramsci, Burawoy intende una politica che combina
organicamente forza e persuasione, coercizione e consenso, e che fornisce una
base ideologica di legittimazione al proprio esercizio che è accettata anche da
coloro su cui il potere è esercitato": Giuseppe Bonazzi, *Storia del pensiero
organizzativo*, Franco Angeli, Milano 2008, p. 145.
[^i32]: Manfredo Tafuri, *Per una critica dell'ideologia architettonica*, in
"Contropiano", n. 1, 1969, pp. 31-79.
[^i33]: Tafuri, *Progetto e utopia* cit., p. 3.
[^i34]: Edward S. Herman e Noam Chomsky, *La fabbrica del consenso. La politica e
i mass media*, Il Saggiatore, Milano 2014.
## L'architettura come merce e l'architetto come "rifornitore"
> Una trasformazione profonda, lenta e apparentemente inesorabile ha avuto luogo
> con particolare intensità nel corso degli ultimi cento anni: la trasformazione
> dell'architettura (intesa come fatto concreto, materiale, tridimensionale) da
> "oggetto d'uso" a merce. Questo fenomeno non costituisce nulla di sorprendente,
> o di anormale, considerato il contesto generale nel quale si svolge. Ciò
> nondimeno, per chi se ne occupa da un punto di vista "interno" (disciplinare o
> "scientifico" che dir si voglia), cosí come per chi la osserva distrattamente da
> lontano, da "fuori", l'architettura può risultare "strana" in queste vesti.
> Perciò, provare a fissare brevemente tale fenomeno può valere a intenderlo
> nell'ottica della disciplina e a cercare di comprendere le sue conseguenze in un
> senso più generale.
Tale trasformazione in realtà ha avuto inizio ben da prima: in quanto oggetto
d'uso, l'architettura ha da gran tempo cessato di essere prodotta da colei/colui
cui era destinata, proprietario o fruitore che fosse, e dunque il suo valore
d'uso si è presto tramutato in valore d'uso sociale; e in qualità di valore
d'uso sociale è divenuto un oggetto di scambio e ha acquisito un valore di
scambio[^ii1]. Con ciò l'architettura, come qualsiasi altro oggetto nelle società
nelle quali predomina il modo di produzione capitalistico, ha già virtualmente
compiuto la sua trasmutazione in merce: arrivando anzi a costituire -- come a
tutti ben noto -- uno dei fondamenti stessi della ricchezza pubblica e privata,
e rappresentando valori economici spesso assai cospicui, nella forma di
proprietà immobiliari dotate di un proprio specifico mercato.
Ma pur se tecnicamente avvenuto ormai da lungo tempo, il passaggio
dell'architettura da oggetto d'uso a merce è privo fino al principio del XX
secolo di un elemento fondamentale al suo definitivo compimento: il trapassare
del carattere di merce dal livello del puro valore di scambio alla totalità dei
suoi aspetti. Progettazione, rappresentazione, costruzione, commercializzazione,
sono tutti momenti del processo produttivo dell'architettura che a vario titolo
vengono sottoposti a una più o meno palese e intensa mercificazione. La storia
dell'architettura del Novecento è, sotto molti riguardi, la storia del
progressivo cammino di questa, non tanto o soltanto verso una "modernità"
genericamente o stilisticamente intesa, quanto piuttosto verso il suo divenire
*prodotto di consumo*[^ii2]. L'abitazione, di questo processo, rappresenta il caso
forse maggiormente emblematico. Se si pone mente allo sviluppo della residenza,
in tutte le sue forme e a tutti i suoi livelli, nel corso dell'ultimo
secolo[^ii3], ad esempio, non si può che constatare il suo completo coinvolgimento
in questo processo: l'industrializzazione dei metodi costruttivi, la
standardizzazione e la prefabbricazione dei componenti edilizi e degli elementi
d'arredo, la serializzazione dei "modelli" abitativi, le stesse tecniche di
pubblicizzazione e di vendita: non c'è campo in cui la residenza non abbia
adottato le medesime strategie utilizzate per gli altri prodotti di consumo. Ciò
-- si badi bene -- ha avuto conseguenze tanto positive quanto negative. Cosí,
dagli inizi del Novecento in avanti, la residenza è stata spesso oggetto di
ricerche e di sperimentazioni tecnicamente e socialmente all'avanguardia, volte
a migliorarne le "prestazioni", e non di rado anche a diminuirne i costi; ma è
stata pure oggetto di sfruttamenti intensivi e di operazioni a carattere
puramente speculativo, oltreché funzionali a precise politiche di ghettizzazione
sociale, come risulta evidente osservando quanto è accaduto nelle periferie
delle città di molti paesi occidentali, in particolare negli anni cinquanta e
sessanta.
Non sono qui in discussione gli esiti di queste operazioni. E il problema non è
neppure quello di distribuire "promozioni e bocciature" ai rispettivi
architetti. La funzione dell'architettura rimane comunque strutturale al
sistema; e neppure il "mito riformista", che ha lungamente attraversato l'Europa
nel corso del Novecento, è riuscito ad avere ragione delle sue contraddizioni.
A questa vicenda appartengono alcune delle migliori idee e realizzazioni -- in
termini di impegno politico sul piano urbano e di studio di soluzioni innovative
alla scala architettonica -- che si possano annoverare nell'ambito del XX
secolo. Si pensi ad esempio al caso della Francoforte di Ernst May. Il lavoro
svolto in qualità di assessore all'edilizia, con la collaborazione di un ingente
numero di architetti che formeranno la cosiddetta "brigata May", rivela in pieno
lo sforzo per riscattare le condizioni di partenza -- in termini di possibilità
economiche e di standard dimensionali -- delle numerose *Siedlungen* (per un
ammontare totale di circa 12 000 appartamenti) progettate tra il 1926 e il 1930,
mediante l'impiego di equipaggiamenti tecnologici e di dispositivi di altra
natura del tutto inusitato per quelle che sono e rimangono a tutti gli effetti
case popolari. Dovendo sottostare a vincoli dimensionali alquanto esigui (40-45
mq per un alloggio per quattro persone), May e i suoi collaboratori riservano
una particolare attenzione ai servizi (tra essi la famosa *Frankfurter Küche*,
la cucina-laboratorio ultra-efficente di Margarete Schütte-Lihotzky)[^ii4], agli
impianti, agli spazi comuni, agli edifici pubblici e alle attrezzature
collettive. In questo senso, la dotazione di impianti di riscaldamento e di
lavanderie centralizzati, di asili infantili, di campi da gioco e di
ricreazione, di centri sociali, e persino l'installazione in ciascun complesso
residenziale di impianti-radio centrali per offrire "la possibilità di
promuovere in futuro lo spirito comunitario attraverso trasmissioni radiofoniche
interne che abbracciano la sfera di una *Siedlung*"[^ii5], pongono in evidenza
l'importanza che May assegna a tutto ciò che può fungere da fattore di
connessione sociale. Si tratta di una complessa operazione culturale e
organizzativa condotta sia con strumenti specificamente architettonici (la
standardizzazione delle componenti edilizie e l'utilizzo per la costruzione di
pannelli prefabbricati) sia con altri mezzi, tra cui -- oltre a quelli già
citati -- la pubblicazione di una rivista mensile, "Das neue Frankfurt", che tra
il 1926 e il 1931 affronta una serie di questioni cruciali come
l'*Existenzminimum*, l'istruzione e l'igiene, ma anche questioni a prima vista
estranee alla cultura architettonica, come la fotografia sperimentale, il
teatro, il film documentario, l'automobile utilitaria. Nonostante la
molteplicità degli approcci, ogni elemento messo in campo da May risulta
riconducibile a una concezione unitaria che pone al suo centro -- come ha
scritto Giorgio Grassi -- uno "stile di vita" ispirato "a una disciplina
rigorosa, a una norma morale"[^ii6]. È significativo che tutti questi accorgimenti
si connettano tra loro secondo una metodologia che attinge dal repertorio della
tecnica avanguardistica del "montaggio" (non a caso Tafuri, a proposito della
nuova Francoforte di May, evoca la "catena di montaggio")[^ii7]. E tuttavia,
questo "sogno di un "socialismo dal volto umano" (...) mistifica il proprio
essere tutto rivolto a stimolare i processi produttivi"[^ii8]: un'anticipazione
della "meccanizzazione" della casa borghese.
Diverso il caso -- ma non diversi gli effetti -- delle proposte residenziali
avanzate da Le Corbusier a partire dai primi anni venti. La *machine-à-habiter*
è per lui lo strumento sociale per "evitare la rivoluzione"[^ii9], ovvero per
attuarla in termini architettonici, in modo pacifico. Come l'automobile
utilitaria (la stessa di cui si occupava "Das neue Frankfurt"), l'architettura
prodotta in serie gli appare destinata a cambiare la vita dei suoi utenti, e non
semplicemente a mettere loro a disposizione le proprie prestazioni in una
versione più aggiornata. Quale diretta conseguenza di ciò, i tradizionali
elementi dell'edificio (pareti, finestre, coperture, ecc.) risultano
profondamente aggiornati, come lo sarebbero i pezzi di un meccanismo per effetto
di un'innovazione tecnologica, di un ruolo e di un funzionamento differenti, e
non per ragioni estetiche o di "gusto". Montandoli uno a uno secondo un "sistema
logico" che dalla cellula elementare della Maison Dom-Ino giunge fino al
complesso macchinario urbano della Ville Radieuse, Le Corbusier pone in evidenza
il necessario legame tra tutte le parti -- o i "pezzi" -- della costruzione
dello spazio sociale, da quello privato a quello pubblico, e ne mostra la
riducibilità a un unico "discorso".
Che la "rivoluzione" architettonica attuata (o quantomeno, attuabile) in questo
modo sia concepita da Le Corbusier in termini del tutto antirivoluzionari da un
punto di vista politico -- com'è reso esplicito dall'aut aut che egli stesso
insistentemente propone: "Architettura o rivoluzione" --, non la priva affatto
di un carattere a propria volta politico: infatti
> ... la strategia politica dietro questo progetto è chiara: la Maison Dom-Ino
> doveva risolvere la penuria di abitazioni per lavoratori, e i lavoratori erano
> intesi come i potenziali proprietari delle proprie abitazioni. Il modello
> Dom-Ino inscriveva la proprietà privata -- ovvero il miglior modo, per il
> capitale, per controllare i lavoratori -- direttamente nel processo
> costruttivo della casa. Qui il legame tra forma urbana e investimento
> economico già stabilito dalla trasformazione di Parigi di Haussmann è
> perfezionato alla scala della singola abitazione[^ii10].
L'intento politico del ciclo che connette la cellula alla città va dunque
valutato nella sua interezza come espressione della volontà di costruire un
mondo nuovo per l'"uomo nuovo" prodotto dal capitalismo (vale a dire per "l'uomo
contemporaneo" di cui lo stesso Le Corbusier parla, il quale "avverte (...)
l'esistenza di un mondo che si va elaborando regolarmente, logicamente,
chiaramente, che produce con purezza cose utili e utilizzabili")[^ii11]. E se le
condizioni di esistenza capitalistiche non risultano in alcun modo sovvertite
bensì casomai potenziate dal programma lecorbusieriano, è in ogni caso una
mutazione fondamentale quella di cui esso si fa interprete, come riconosce anche
Benjamin: "La *ville contemporaine* di Le Corbusier è pur sempre un complesso
edilizio lungo una strada maestra. Senonché, col fatto che questa strada è ora
percorsa da automobili e che nel centro del complesso atterrano gli aerei, tutto
si è trasformato"[^ii12]. Inoltre, in quanto "regolabile e movibile" e priva di
"aura"[^ii13], la *machine-à-habiter* costituisce "l'epilogo della "casa" come
figurazione mitologica"[^ii14]. Essa è pronta per diventare un prodotto di serie,
un dispositivo, vale a dire un prodotto dell'industria:
> La grande industria deve occuparsi della costruzione e produrre in serie gli
> elementi della casa. (...) Se si sradicano dal proprio cuore e dalla propria
> mente i concetti sorpassati della casa e si esamina la questione da un punto
> di vista critico e oggettivo, si arriverà alla casa-strumento, casa in serie,
> sana (anche moralmente) e bella dell'estetica degli strumenti di lavoro che
> accompagnano la nostra esistenza[^ii15].
Da qui alla casa-merce il passo è breve.
Tuttavia, nonostante i fervidi auspici di Le Corbusier, è soprattutto sotto un
profilo formale e figurativo che l'architettura mostra -- soprattutto a partire
dal secondo dopoguerra, e in modo ancora più evidente negli ultimi trent'anni --
la sua integrale assimilazione a una merce. È stato nel corso di questo periodo,
infatti, che si è verificato un sempre più rilevante processo di identificazione
dell'architettura con l'immagine. Facendo ricorso a diversi "espedienti", essa
ha fatto gradualmente registrare lo spostamento del proprio "baricentro" dalla
mitologia centrale del moderno, consistente essenzialmente nella
rappresentazione delle funzioni, a quella -- precipuamente postmoderna -- della
comunicazione e della mediatizzazione di se stessa. Nel compiere questa
"evoluzione" l'architettura si dichiara idonea, prima che a ogni altra cosa,
alla propria diffusione e circolazione. Ed è precisamente in quest'ottica che va
intesa la sua trasformazione in immagine.
Già nel 1967, con sorprendente lucidità, Guy Debord aveva diagnosticato il
destino che attendeva "tutta la vita delle società nelle quali predominano
condizioni moderne di produzione"[^ii16], vale a dire il modo di produzione
capitalistico: trasformarsi in "un'immensa accumulazione di spettacoli". Per
Debord, nell'epoca del capitalismo avanzato, tutto ciò che in precedenza "era
direttamente vissuto si è allontanato in una rappresentazione". In essa
l'accumulazione del capitale è giunta a un tale grado da farsi spettacolo, "da
divenire immagine"[^ii17]. E se "lo spettacolo (...) è l'equivalente generale
astratto di tutte le merci"[^ii18], nella proliferazione delle immagini dobbiamo
riconoscere null'altro che la proliferazione totale della merce. Anche il
rovesciamento dell'affermazione di Debord proposto più recentemente da Matteo
Pasquinelli ("Il capitale è spettacolo ad un tale grado di accumulazione da
trasformarsi in una skyline di cemento")[^ii19] non sposta -- e anzi conferma --
la propensione del capitale a investire in merce-architettura. Ed è proprio in
quanto merce che essa persegue l'obiettivo che accomuna tutte le merci
nell'epoca moderna e contemporanea: presentarsi come perenne novità. "La novità
è una qualità indipendente dal valore d'uso della merce"[^ii20]: non si potrebbe
esprimere in maniera più sintetica la relazione che interconnette merce, nuovo e
apparenza. Essa appartiene al regno dell'immaginario, non a quello dell'utile.
Nonostante l'affermazione di Alois Riegl che il "valore di novità" sia il
*beatus possidens* di "un luogo occupato per millenni", esso ha fatto il suo
ingresso nell'ambito architettonico relativamente di recente[^ii21]. L'apposizione
del prefisso neo- di fronte alla parata degli stili del passato, lungo tutto
l'Ottocento, costituisce la prima avvisaglia di un fenomeno in precedenza del
tutto sconosciuto, almeno in quei termini; mentre la denominazione di Art
Nouveau, utilizzata tra fine Ottocento e primo Novecento per indicare il
complesso di manifestazioni artistiche tese a segnare una svolta rispetto al
passato, da un lato, e a dare un volto alla classe borghese divenuta soggetto
ormai dominante sulla scena della storia, dall'altro, parla chiaramente
dell'ansia di arte e architettura di quel periodo di caratterizzarsi in senso
innovativo; anzi, di identificarsi *tout court* con il nuovo. Cosí come -- in
maniera se possibile ancora più esplicita -- è significativo che negli anni
venti e trenta, soprattutto in ambito tedesco e olandese, vengano impiegate
formule come "Neues Bauen", "Neue Baukunst" o "Nieuwbouw" per riferirsi
all'insieme delle esperienze relative all'architettura moderna[^ii22]. Soltanto in
seguito il termine "nuovo" scomparirà dal lessico ufficiale dell'architettura,
per penetrare in compenso sempre più nel profondo della sua ideologia. "Nuovo" a
questo punto non è più l'attributo di una determinata "famiglia" architettonica,
comprendente edifici e progetti contraddistinti da caratteri comuni e
riconoscibili, riconducibili nel loro complesso alla categoria di "moderno",
quanto piuttosto quello di ogni architettura dotata di una propria spiccata
individualità, ovvero -- per dirlo in modo più preciso -- di una propria
*singolarità*; un'architettura la cui "novità" è dunque fondamentalmente
rappresentata dalla propensione per una "differenza" che è spesso sinonimo di
stravaganza. Il "nuovo", in quest'ottica, serve all'architettura soprattutto per
distinguersi, per attrarre l'attenzione: un accorgimento che essa ha
evidentemente assimilato dalla pubblicità, e che, nel rimarcare la sua riduzione
a immagine, ne conferma in pieno il carattere di merce. Cosí come, secondo
Tafuri, per converso, "non è un caso che il destino dei formalismi si concluda
sempre nell'utilizzazione "pubblicitaria" del *lavoro sulla forma*"[^ii23].
In realtà il potere delle immagini *sub specie architecturae* ha una storia ben
più lunga e prestigiosa. Anche volendo limitarsi al XX secolo, si potrebbero
ricordare i grandi edifici del potere politico nei regimi totalitari, cosí come
quelli del potere economico nelle democrazie: edifici che, nell'adempimento
delle proprie funzioni, trasmettono un fascio di idee che comprendono variamente
-- e spesso contemporaneamente -- ufficialità, autorità, eternità,
inattaccabilità, solidità, stabilità. Del tutto diverso è invece il discorso per
quanto riguarda quegli edifici il cui "scopo" precipuo è rivestire il ruolo di
*icone*[^ii24]. Gli "edifici iconici", nella definizione che ne dà Pier Vittorio
Aureli,
> ... sono tipicamente landmarks singolari il cui scopo è interamente iscritto
> all'interno della logica dell'urbanizzazione. E infatti, l'obiettivo
> dell'edificio iconico è un'architettura post-politica spogliata da qualsiasi
> significato che non sia la celebrazione della performance economica
> aziendale[^ii25].
Prima di questa fase, l'iconicità ha rappresentato la caratteristica distintiva
di alcuni edifici eccezionali, nel senso che -- letteralmente -- costituivano
delle eccezioni. Nel corso del XX secolo edifici iconici in un modo del tutto
diverso da quelli successivi sono stati ad esempio il Salomon R. Guggenheim
Museum (1943-59) a New York di Frank Lloyd Wright e l'Opera House (1957-73) di
Sydney, di Jørn Utzon. In entrambi i casi i loro autori hanno fatto ricorso a
soluzioni formali che sembrano aver tenuto conto della singolarità di cui essi
ritenevano fossero portatori i loro edifici. In realtà, nel caso del Guggenheim,
ciò che viene progressivamente emergendo dalla lunghissima gestazione
dell'edificio è -- più di ogni altra cosa -- una volontà "iconoclasta"[^ii26],
anziché iconica, e di conseguenza un autoritratto della personalità del suo
autore, di cui esso ha finito per diventare il massimo emblema; mentre nel caso
dell'Opera House -- pur tra le enormi difficoltà progettuali e realizzative che
hanno portato il suo autore a disconoscerne la paternità[^ii27] -- è non soltanto
Sydney ma addirittura l'Australia intera a essere "condensata" nella sua celebre
immagine.
Ma è forse con il Centre Georges Pompidou (1971-77) che architettura e immagine
sembrano arrivare a identificarsi perfettamente. E tuttavia, ancora una volta,
con molte radicali differenze rispetto non solo ai suoi successori, ma anche a
ogni banale pretesa simbolica. Per quanto assai rilevante sotto molteplici punti
di vista, infatti, il Centre Pompidou non può certo ambire a rappresentare, come
parte per il tutto, il luogo in cui sorge -- Parigi o la Francia --, e neppure
l'intera opera dei suoi autori: Renzo Piano, Richard Rogers o Peter Rice. Esso
piuttosto rappresenta nella maniera più compiuta il tentativo delle autorità
francesi -- e del presidente Pompidou in primo luogo -- di dare vita a un
edificio che rispondesse, incorporandole, alle istanze del Maggio '68 francese.
Ciò di cui la grande "macchina per comunicare"[^ii28] è la rappresentazione è la
totale *autonomia* della sua immagine rispetto a qualsiasi suo "contenuto". Come
ha rilevato Jean Baudrillard,
> ... con il suo intreccio di tubi (...) con la sua fragilità (calcolata?), che
> dissuade da ogni mentalità o monumentalità tradizionale,
la macchina Beaubourg
> ... proclama apertamente che il nostro tempo non sarà mai più quello della
> durata, che la nostra sola temporalità è quella del ciclo accelerato e del
> riciclaggio, quella del circuito e del transito di fluidi[^ii29].
In questo processo di trasmutazione il Centre Pompidou si afferma come immagine,
non certo dell'istituzione museale che nega di essere, bensì della "rottura
delle molecole culturali e \[del\] loro ricombinarsi in prodotti di sintesi".
Immagine dunque della frantumazione di un'immagine, sostituita da un festoso
apparato di strutture metalliche, tubi colorati e spazi liberi (almeno nelle
intenzioni) per usi diversi.
È interessante notare al proposito come -- attraverso un'operazione di grande
complessità, condotta in tempi rapidissimi (il bando di concorso è messo a punto
già nel 1970, ad appena due anni di distanza dall'acme del movimento) e in cui
sono coinvolti numerosissimi soggetti con svariate competenze -- la
"controcultura" del '68, ovvero la cultura "alternativa" sviluppatasi in Francia
e non solo in quell'intorno di anni, venga fatta propria, integrata in un
edificio sorto per volontà di un potere destinato comunque ad affermare (e a
confermare) la propria indiscussa centralità. E non è meno sorprendente il fatto
che il potere compia un cosí vistoso "spostamento" dalla propria
auto-rappresentazione tradizionale di quanto lo sia il fatto che per farlo
utilizzi le medesime "armi" del nemico (tra essi, gli echi del progetto del Fun
Palace di Cedric Price per Joan Littlewood e dei disegni "tecno-utopici" di
Archigram). Ed è altresí interessante che le istanze di rinnovamento e le
aspirazioni di egemonia culturale dello Stato francese vengano incanalate in una
forma corrispondente a ciò che nuovamente Baudrillard definirà un "ipermercato
della cultura", ovvero "un oggetto da consumare, (...) un edificio da
manipolare"[^ii30]: dove i processi di reificazione e di mercificazione sono ormai
trasparenti.
Pur radicandosi sul medesimo "ceppo", la ramificazione del discorso relativa
agli *iconic buildings* si sviluppa in un modo differente, a partire proprio dal
ruolo da essi occupato all'interno dei rispettivi contesti urbani. Il Guggenheim
Museum di Bilbao (1991-97) di Frank O. Gehry si è guadagnato il titolo di
capostipite della famiglia degli *iconic buildings* non soltanto per le sue
forme vistose e sorprendenti ma anche per lo studiato posizionamento in un punto
strategico della città, sulla riva del fiume Nervión[^ii31]. L'intera vicenda del
Guggenheim -- compresi gli articolati rapporti tra il governo dei Paesi Baschi,
il direttore della Solomon R. Guggenheim Foundation, Thomas Krens, e
l'architetto Gehry -- costituisce in questo senso un esempio da manuale, che in
molte altre occasioni in seguito si è cercato di replicare[^ii32]. È soprattutto
in queste ultime, tuttavia, che in modo sempre più lampante emerge come le
presunte "eccezioni" siano in realtà funzionali a confermare la regola.
Eccentricità formali e appariscenze cromatiche propagano ai quattro venti il
roboante annuncio che "tutto rimarrà come prima", ovvero che non è in corso
alcuna "rivoluzione", o meglio ancora che l'"ordine costituito" non verrà
minimamente smentito o scalfito dal nuovo inserimento. "Piuttosto che essere
forme agonistiche, le "icone" contemporanee sono la manifestazione finale e
celebrativa della *Grundnorm* dell'urbanizzazione: la vittoria
dell'ottimizzazione economica sul giudizio politico"[^ii33]. Nell'estensione
sconfinata delle città contemporanee, gli edifici iconici assumono il valore di
un "richiamo" (da intendersi nel senso in cui la medicina utilizza il termine:
la re-inoculazione di una sostanza per consolidare uno stato d'immunità. Dove
l'immunità in questione è riferita a qualsiasi cambiamento sostanziale da parte
dell'"organismo" complessivo).
Ma che cosa ne è dell'architetto allorché l'architettura abbia fatto il suo
ingresso nel "circuito" della spettacolarizzazione capitalistica? Da quel
momento in avanti -- e poi con sempre maggiore frequenza -- si trova a rivestire
il ruolo del "creatore di spettacoli". Non si tratta ovviamente di un ruolo
inedito per lui: in svariati momenti della storia agli architetti è spettato il
compito di allestire feste, di mettere in scena rappresentazioni e di progettare
edifici effimeri di vario genere[^ii34]; e la "festa del capitale", da questo
punto di vista, non pare discostarsi troppo dalla festa barocca. Ma anche nel
vero e proprio esercizio della loro professione gli architetti hanno avuto
spesso modo di conferire ai propri edifici caratteri altamente spettacolari. Ciò
di per sé non costituisce un problema, al di fuori di quei casi in cui tale
spettacolarità assume tratti del tutto gratuiti; cosí come, per converso, non
per forza di cose l'elemento che accomuna tra loro gli edifici iconici
contemporanei è un'esplicita spettacolarità. In fondo, lo stesso fenomeno degli
*iconic buildings* costituisce soltanto il caso particolare (e forse oggi --
almeno in parte -- esaurito, o comunque "attutito" rispetto ad alcuni anni fa)
di un discorso più vasto e generalizzato; la punta di un iceberg la cui
"spettacolarità" consente a esso di emergere con maggiore evidenza.
Sulla possibile reversibilità di questo aspetto hanno contato coloro che -- in
controtendenza rispetto all'orientamento più largamente diffuso -- hanno cercato
di mettere in scacco tale spettacolarizzazione. Cercare di farlo, tuttavia, può
costringere a compiere "salti" singolari, apportatori di illuminanti paradossi.
Nel 2006 lo studio OMA ha progettato il Dubai Renaissance, un bianco volume
monolitico di 300 metri di altezza per 200 di larghezza, destinato a uffici,
hotel e suite residenziali. Nel testo di presentazione dell'edificio si legge:
> L'ambizione di questo progetto è di concludere la fase attuale dell'idolatria
> architettonica -- l'età dell'icona -- in cui l'ossessione del genio
> individuale supera di gran lunga l'impegno per lo sforzo collettivo necessario
> a costruire la città. Invece di un'architettura della forma e dell'immagine,
> abbiamo creato una reintegrazione di architettura e ingegneria, dove
> l'intelligenza non è investita in effetti, ma in una logica strutturale e
> concettuale, che offre un nuovo tipo di prestazioni e funzionalità[^ii35].
L'edificio che ne deriva s'ispira a una nuova Simplicity^TM^ (si badi bene,
affiancata dal *trademark*) che tra i suoi attributi enumera qualità come
*pure*, *straight*, *substantial*, *objective*, *predictable*, *original*,
*honest* e *fair*. Nonostante le sue "buone" intenzioni, tuttavia, il Dubai
Renaissance risulta soltanto una falsa reazione all'"idolatria architettonica":
come appare evidente dalla tavola elaborata dallo stesso OMA, dove esso è messo
a confronto con una parata di "vanità" architettoniche (dalle Petronas Towers di
César Pelli a Kuala Lumpur, al Burj al-'Arab di Tom Wright nella stessa Dubai),
dalle quali in realtà si distingue soltanto per le sembianze candide e per i
lineamenti uniformi. Pur rinunciando all'espressività delle forme e all'impatto
dei colori, il Dubai Renaissance è animato dalla medesima volontà di stupire
presente negli altri edifici iconici che insieme a esso compongono una surreale
"città analoga" nel deserto arabico.
Affermare una "iconoclastia" in luogo di una "iconolatria", cosí come
vagheggiare una città post-iconica[^ii36] in un mondo post-iconico, da questo
punto di vista, appaiono tentativi ineffettuali destinati al fallimento, o a
essere rapidamente assorbiti nelle capaci fauci di un onnivoro capitalismo.
::: horizontal
> Kot smo že omenili, bistvo zadeve ni v "izvirnosti" vloge arhitektov danes v
> primerjavi z vlogo, ki so jo imeli v preteklosti, niti v ekscentričnosti
> njihovih projektov v primerjavi s "kanoničnostjo" (resnično ali domnevno)
> projektov iz drugih zgodovinskih obdobij. Prav tako ne gre za položaj, ki ga
> imajo arhitekti danes nasproti družbe, v kateri delujejo. Dejansko vprašanje
> je, kakšen položaj imajo arhitekti v aktualnih proizvodnih procesih. Ne gre
> torej za subjektivni problem, temveč -- kot je že v tridesetih letih
> prejšnjega stoletja dobro razumel Walter Benjamin -- za problem *tehnike*. Z
> drugimi besedami, problem je, ali -- in v kolikšni meri -- so današnji
> arhitekti z izvajanjem svoje vloge "ustvarjalcev spektaklov" oziroma s
> prevzemanjem druge vloge sposobni povzročiti "preobrazbo" proizvodnega aparata
> in ali -- in v kolikšni meri -- mu zgolj "dobavljajo".
::: {lang=it}
> Come già detto, comunque, il nocciolo della questione non sta
> nell'"originalità" del ruolo degli architetti odierni rispetto a quello
> rivestito da essi in passato; né nell'eccentricità dei loro progetti rispetto
> alla "canonicità" (vera o presunta) di quelli di altre epoche storiche. E non
> consiste neppure nella posizione oggi assunta dagli architetti nei confronti
> della società in cui operano. Il vero problema è piuttosto quale posizione
> occupino gli architetti nei processi produttivi attuali. Non si tratta dunque
> di un problema soggettivo, bensì di un problema -- come già ben compreso da
> Walter Benjamin negli anni trenta[^ii37] -- *tecnico*. Detto in altri termini,
> il problema è se -- e in quale misura -- gli architetti odierni, esercitando
> il loro ruolo di "creatori di spettacoli", oppure piuttosto rivestendone un
> altro, riescano a operare una *trasformazione* dell'apparato produttivo, e se
> -- e quanto -- invece compiano nei confronti di questo un "semplice
> rifornimento"[^ii38].
:::
:::
::: horizontal
> Kot je pojasnil Benjamin sam,
>
> > ... gre pri dobavljanju materiala produkcijskemu aparatu, ne da bi tega
> > obenem spreminjali v skladu z možnostmi, za skrajno sporen postopek, in
> > sicer tudi takrat, ko je videti, da je snov, s katero se aparat oskrbuje,
> > revolucionarne narave. [@benjamin2016avtor, 88]
>
> V tem pogledu je "dobavitelj" produkcijskemu aparatu tisti, ki ga zgolj
> ohranja ali kvečjemu obnavlja "od znotraj [...] po modi" in ga zato pušča
> "kakršen je". Pomembno je, da Benjamin uporablja tudi francoski izraz
> *routiniers* (tisti, ki se podrejajo navadi, ki utrujeno ponavljajo že znano)
> za označevanje "dobaviteljev", torej tistih, ki se odpovedujejo popravkom v
> sistemu proizvodnje. Temu nasproti je postavljen *Produzent* (proizvajalec):
> ne le tisti, ki proizvaja (ali bolje, ki enostavno re-producira), temveč
> tisti, ki preoblikuje proizvodni aparat v tehničnem smislu.
>
> Vprašanje, ki si ga je treba zastaviti na tej točki, je: ali lahko sodobni
> arhitekti s svojimi posegi preoblikujejo proizvodni aparat, v katerega so
> vpeti? [@biraghi2019larchitetto, 32-33]
::: {lang=it}
> Come chiarisce lo stesso Benjamin,
>
> > ... rifornire un apparato produttivo senza trasformarlo (nella misura del
> > possibile) rappresenta un procedimento estremamente oppugnabile persino quando
> > i contenuti di cui è rifornito questo apparato sembrano di natura
> > rivoluzionaria.
>
> In questa prospettiva, il "rifornitore" di un apparato produttivo è colui che si
> limita a perpetuarlo, o che al più lo rinnova "dall'interno (...) secondo la
> moda", di conseguenza "lasciandolo cosí com'è"[^ii39]. Significativamente, per
> indicare i "rifornitori", Benjamin fa ricorso anche al termine francese
> *routiniers* (coloro che si conformano all'abitudine, che ripetono stancamente
> il già noto), intendendo con esso coloro che rinunciano ad apportare correzioni
> al sistema di produzione[^ii40]. A ciò egli contrappone il *Produzent*
> (produttore): non semplicemente colui che produce (o piuttosto, che banalmente
> ri-produce), quanto piuttosto colui che trasforma in senso tecnico l'apparato
> produttivo.
>
> La domanda da porsi a questo punto è: sono in grado gli architetti attuali, con
> il loro intervento, di trasformare l'apparato produttivo nel quale sono
> inseriti?
:::
:::
Le trasformazioni verificatasi nell'architettura nel corso dell'ultimo secolo --
e poi, in modo sempre più rapido, nel corso degli ultimi decenni (trasformazioni
che, al di là degli aspetti strutturali e di quelli estetico-formali, hanno
contrassegnato il suo progressivo *divenir-merce*) -- hanno inesorabilmente
modificato anche la posizione occupata dagli architetti all'interno
dell'apparato produttivo. Non che in precedenza questi godessero di una maggiore
indipendenza, ma ancora nel corso degli anni venti e nei primi anni trenta, e
successivamente tra gli anni cinquanta e sessanta, vi sono stati tentativi --
pur spesso conclusisi in delusioni, sconfitte, o in strategici ripiegamenti --
di *spostare* sostanzialmente il senso del lavoro dell'architetto, a volte anche
a costo di scontri o di rinunce: si pensi ad esempio all'impostazione della
didattica del Bauhaus di Dessau da parte di Hannes Meyer, tutta improntata a una
"scientificizzazione spinta dei processi architettonici"[^ii41]; o ai progetti
radicali -- architettonici e urbani -- di Ludwig Hilberseimer, rigorosi al punto
da superare ogni ipotesi funzionalista o formalista, e rivolgersi piuttosto a un
soggetto post-umanista[^ii42]; o al ripensamento profondo della stessa idea di
progetto -- e conseguentemente di oggetto -- architettonico da parte di Cedric
Price[^ii43]; o ancora, alla monumentale opera "minimale" compiuta da Aldo van
Eyck con la realizzazione di oltre settecento *playgrounds* nell'ambito
dell'intervento per la municipalità di Amsterdam[^ii44]. In seguito, invece, una
stessa "sorte" epocale sembra aver coinvolto molti architetti, più ancora che a
compiere una consapevole o prudente ritirata verso posizioni più riparate, ad
"accomodarsi" semplicemente nei ruoli loro offerti da un intendimento sociale.
Al punto che oggi una delle loro funzioni preminenti, per dirla ancora una volta
con le parole di Benjamin, "è quella di rinnovare il mondo dall'interno -- in
altre parole: secondo la moda --, lasciandolo cosí com'è".
Ma se, come si è visto, la trasformazione dell'architettura in merce ha quale
suo necessario corollario la trasformazione dell'architetto in "rifornitore"
(*rifornitore di merci*), vi è però un'ulteriore ed estrema trasformazione che
questi subisce nel corso di tale processo, e in diretta conseguenza di esso: la
trasformazione dell'architetto stesso in merce. Ciò può essere inteso in due
accezioni diverse, corrispondenti a due "profili" di architetti ritenuti --
nella gran parte dei casi, a torto -- altrettanto diversi tra loro. La prima
accezione è quella che tende a identificare l'architetto contemporaneo con un
moderno demiurgo, dotato di spiccate doti autoriali e di una forte
riconoscibilità stilistica. Questa figura si confonde con il mito
dell'architetto-*archistar*. In qualità di merce -- e merce di "lusso" --
l'architetto-*archistar* ha fama di essere molto prezioso, e perciò anche
altrettanto desiderato e "corteggiato"; inoltre, lo si ritiene capace di
disporre pienamente dei propri strumenti, delle proprie tecniche, dei propri
linguaggi, e ancora di più, di disporre di sé nel senso più generale, di
autodeterminarsi, ma al tempo stesso pure di essere libero d'imporre le proprie
scelte. Per tutte queste ragioni, *in quanto merce*, l'architetto-*archistar*
induce l'idea di non essere "soggetto" al mercato, bensì piuttosto di occuparvi
una posizione privilegiata, se non addirittura di dominarlo. Questa prima
accezione -- che è la più largamente diffusa -- è al tempo stesso anche la più
facilmente falsificabile.
La seconda accezione è legata a una situazione come quella attuale, in cui una
grandissima sovrabbondanza di architetti disponibili sul mercato fa aumentare a
dismisura la concorrenza tra loro, costringendo molti ad accettare condizioni di
pesante deprezzamento del proprio lavoro. L'architetto in questo modo finisce
per vendere se stesso come una merce svalutata. È il caso di moltissimi giovani
architetti che lavorano gratis, o sottopagati, senza contratto, senza orari,
senza riposi settimanali, senza ferie pagate, senza pensione. Di questi
architetti-lavoratori sfruttati e delle condizioni di produzione del progetto
negli studi contemporanei bisognerà tornare a parlare più oltre. In questo caso
come nell'altro, comunque, al di là delle differenze più o meno apparenti, la
mercificazione investe direttamente l'architetto, il quale in tal modo -- oltre
che delle proprie "merci" -- rifornisce il mercato anche di se stesso.
[^ii1]: Per le nozioni di valore d'uso, valore d'uso sociale, valore di scambio,
il riferimento è ovviamente Karl Marx, *Il Capitale*, Editori Riuniti, Roma
1980, vol. I, pp. 67 e sgg.
[^ii2]: Per un'utile (per quanto episodica) lettura in tal senso vedi
*Architecture and Capitalism. 1845 to the Present*, a cura di Peggy Deamer,
Routledge, New York 2014.
[^ii3]: Sul tema vedi, tra gli altri, le interessanti raccolte *Housing in Europa
1. 1900-1960* e *Housing in Europa 2. 1960-1979*, Luigi Parma, Bologna 1978 e
1979; Roger Sherwood, *Modern Housing Prototypes*, Harvard University Press,
Cambridge (Mass.) 1978; e inoltre *Las formas de la residencia en la ciudad
moderna*, a cura di Carlos Martí Arís, Edicions UPC, Barcelona 2000.
[^ii4]: Vedi *Die Frankfurter Küche von Margarete Schütte-Lihotzky*, a cura di
Peter Neover, Ernst & Sohn, Berlin 1991.
[^ii5]: Ernst May, *Cinque anni di attività di edilizia residenziale a Francoforte
sul Meno*, in "Das neue Frankfurt", n. 2-3, 1930, ora in G. Grassi (a cura di),
*Das neue Frankfurt 1926-1931*, Edizioni Dedalo, Bari 1975, p. 208.
[^ii6]: Giorgio Grassi, *Das neue Frankfurt e l'architettura della nuova
Francoforte*, in Grassi (a cura di), *Das neue Frankfurt 1926-1931* cit., p. 9.
[^ii7]: Tafuri, *Progetto e utopia* cit., p. 107; Manfredo Tafuri e Francesco Dal
Co, *Architettura contemporanea*, Electa, Milano 1976, p. 153.
[^ii8]: Francesco Dal Co, *Architetti e città -- Unione Sovietica 1917-1934*, in
*Socialismo, città, architettura -- URSS 1917-1937. Il contributo degli
architetti europei*, testi di Alberto Asor Rosa, Bruno Cassetti, Giorgio Ciucci,
Francesco Dal Co, Marco De Michelis, Rita Di Leo, Kurt Junghanns, Gerritt
Oorthuys, Vítězslav Procházka, Hans Schmidt, Manfredo Tafuri, Officina Edizioni,
Roma 1971, p. 106.
[^ii9]: Le Corbusier, *Verso una architettura* (1923), Longanesi, Milano 1973, p.
243.
[^ii10]: Pier Vittorio Aureli, *Means to an End. The Rise and Fall of the
Architec­tural Project of the City*, in Id. (a cura di), *The City as a
Project*, Ruby Press, Berlin 2013, p. 37.
[^ii11]: Le Corbusier, *Verso una architettura* cit., pp. 241-43.
[^ii12]: Walter Benjamin, *Parigi capitale del* *XIX* *secolo*, Einaudi, Torino
1986, p. 533.
[^ii13]: Vedi Walter Benjamin, *Esperienza e povertà* (1933), in Id., *Esperienza
e povertà*, a cura di Massimo Palma, Castelvecchi, Roma 2018, p. 55.
[^ii14]: Benjamin, *Parigi capitale del* *XIX* *secolo* cit.
[^ii15]: Le Corbusier, *Verso una architettura* cit., p. 187.
[^ii16]: Guy Debord, *La società dello spettacolo* (1967), Sugarco, Milano 1990,
p. 85.
[^ii17]: *Ibid.*, p. 97.
[^ii18]: Debord, *La società dello spettacolo* cit., p. 108.
[^ii19]: Matteo Pasquinelli, *Oltre le rovine della Città Creativa: la fabbrica
della cultura e il sabotaggio della rendita*, in Marco Baravalle (a cura di),
*L'arte della sovversione*, Manifestolibri, Roma 2009, p. 152. L'affermazione
originale di Debord recita "Lo spettacolo è il capitale ad un tal grado di
accumulazione da divenire immagine".
[^ii20]: Benjamin, *Parigi capitale del* *XIX* *secolo* cit., p. 15.
[^ii21]: Alois Riegl, *Il culto moderno dei monumenti. Il suo carattere e i suoi
inizi* (1903), a cura di Sandro Scarrocchia, Abscondita, Milano 2017, p. 55.
[^ii22]: Vedi, tra i molti altri, Ludwig Hilberseimer, *Internationale Neue
Baukunst*, Julius Hoffmann, Stuttgart 1927; Bruno Taut, *Die neue Baukunst in
Europa und Amerika*, Julius Hoffmann, Stuttgart 1929; Adolf Behne, *Neues
Wohnen, neues Bauen*, Hesse & Becker, Leipzig 1930; Jacobus Johannes Pieter Oud,
*Nieuwe bouwkunst in Holland en Europa*, De Driehoek, 's-Graveland 1935.
[^ii23]: Manfredo Tafuri, *Lavoro intellettuale e sviluppo capitalistico*, in
"Contropiano", n. 2, 1970, p. 268.
[^ii24]: Charles Jencks, *The Iconic Building. The Power of Enigma*, Rizzoli, New
York 2005.
[^ii25]: Pier Vittorio Aureli, *The Possibility of an Absolute Architecture*, MIT
Press, Cambridge (Mass.) 2011, p. XII.
[^ii26]: Francesco Dal Co, *The Guggenheim. Frank Lloyd Wright's Iconoclastic
Masterpiece*, Yale University Press, New Haven 2017.
[^ii27]: Françoise Fromonot, *Jørn Utzon architetto della Sydney Opera House*,
Electa, Milano 1998.
[^ii28]: Francesco Dal Co, *Centre Pompidou. Renzo Piano, Richard Rogers, and the
Making of a Modern Monument*, Yale University Press, New Haven 2016.
[^ii29]: Jean Baudrillard, *L'effetto Beaubourg. Implosione e dissuasione*, in
Id., *Simulacri e impostura. Bestie, Beaubourg, apparenze e altri oggetti*, a
cura di Matteo G. Brega, Pgreco, Milano 2008, pp. 27-44, e in particolare p. 31.
[^ii30]: Baudrillard, *L'effetto Beaubourg* cit., pp. 35 e 38.
[^ii31]: Coosje Van Bruggen, *Frank O. Gehry. Guggenheim Museum Bilbao*,
Guggenheim Museum Publ., New York 1999; John Rajchman, *Effetto Bilbao*, in
"Casabella", n. 673-74, 1999-2000, pp. 10-11.
[^ii32]: Vedi ad esempio Davide Ponzini e Michele Nastasi, *Starchitecture. Scene,
attori e spettacoli nelle città contemporanee*, Allemandi, Torino 2011.
[^ii33]: Aureli, *The Possibility of an Absolute Architecture* cit., p. XII.
[^ii34]: Sul tema della festa barocca vedi, tra gli altri, Marcello Fagiolo, *La
festa barocca*, De Luca, Roma 1997, nonché Id. (a cura di), *Le capitali della
festa. Italia settentrionale e Italia centrale e meridionale*, 2 voll., De Luca,
Roma 2007-2008.
[^ii35]: Vedi http://www.oma.eu/projects/2006/dubai-renaissance/.
[^ii36]: Josep Lluís Mateo e altri (a cura di), *Iconoclastia. News from a
Post-Iconic World. Architectural Papers IV*, ETH -- Eidgenössische Technische
Hochschule -- Ed. Actar, Zürich -- Barcelona 2009.
[^ii37]: Walter Benjamin, *L'autore come produttore* (1934), in Id., *Avanguardia
e rivoluzione. Saggi sulla letteratura*, Einaudi, Torino 1973, pp. 199-217 (ora
in *Opere complete*, VI. *Scritti 1934-1937*, ivi 2004). Si tratta del medesimo
saggio citato da Manfredo Tafuri in *La sfera e il labirinto. Avanguardie e
architettura da Piranesi agli anni '70*, Einaudi, Torino 1980, p. 352, a
proposito delle ricerche architettoniche degli anni sessanta e settanta. Sulle
sue considerazioni al proposito si dovrà tornare più oltre.
[^ii38]: Benjamin, *L'autore come produttore* cit., p. 207.
[^ii39]: *Ibid.*, p. 209.
[^ii40]: *Ibid.*, p. 208.
[^ii41]: Francesco Dal Co, *Hannes Meyer e la venerabile scuola di Dessau*, in
Hannes Meyer, *Scritti 1921-1942. Architettura o rivoluzione*, a cura di F. Dal
Co, Marsilio, Padova 1969, p. 38.
[^ii42]: K. Michael Hays, *Modernism and the Posthumanist Subject. The
Architecture of Hannes Meyer and Ludwig Hilberseimer*, The MIT Press, Cambridge
(Mass.) 1992.
[^ii43]: Stanley Mathews, *From Agit-Prop to Free Space: The Architecture of
Cedric Price*, Black Dog Publishing, London 2007.
[^ii44]: Liane Lefaivre e Ingeborg de Roode (a cura di), *Aldo van Eyck.
Playgrounds*, NAi Publishers, Rotterdam 2002.
## Vloga arhitekta-intelektualca {#vloga}
::: horizontal
> Začetek zgodovine moderne arhitekture naj bi po mnenju številnih raziskovalcev
> sovpadal z zasnovo kupole Santa Maria del Fiore Filippa Brunelleschija. Znana
> afera povezana z zaključkom florentinske katedrale, ki bi tradicionalno bila
> rešena z uporabo lesenih opažev (reber), a v tem primeru, zaradi velikih
> dimenzij prostora, ki bi ga bilo treba obokati, niso bile uporabne, je za
> Brunelleschija postala priložnost, da ne le uporabi svoje konstrukcijsko
> znanje, ki je plod neposrednega študija antike, temveč tudi "prvič potrdi in
> zagovarja 'strokovnost' arhitekta proti ohlapnem 'poklicu' rokodelca, prednost
> tehnične invencije pred izvedenostjo obrti". Ne gre le za "kategorično
> zahtevo": v razlikovanju med momentom projekta in momentom izvedbe gre tudi za
> razlikovanje med "svobodno" in "mehanično" dejavnostjo in s tem za prevzem
> naloge organizacije in vodenja družbe s strani izobraženega posameznika. Gre
> za rojstvo intelektualca kot aktivnega subjekta in spekulativne figure.
> [@biraghi2019larchitetto, 37]
::: {lang=it}
> L'esordio della storia dell'architettura moderna viene fatto coincidere,
> secondo il parere di molti studiosi, con la concezione della cupola di Santa
> Maria del Fiore da parte di Filippo Brunelleschi[^iii1]. La nota vicenda
> legata al completamento del Duomo di Firenze, risolvibile tradizionalmente
> facendo ricorso all'impiego di armature (centine) di legno, nella circostanza
> non applicabili a causa delle grandi dimensioni dello spazio da voltare,
> diviene l'occasione per Brunelleschi non soltanto per applicare il proprio
> sapere costruttivo, frutto dello studio diretto dell'antico, ma anche per
> affermare e difendere, "per la prima volta, (...) la "professionalità"
> dell'architetto contro il vago "magistero" dell'artefice, la priorità
> dell'invenzione tecnica sulla perizia del mestiere"[^iii2]. Non si tratta
> soltanto di una "rivendicazione di categoria": nella distinzione tra il
> momento del progetto e quello dell'esecuzione è in gioco anche la distinzione
> tra un'attività "liberale" e un'attività "meccanica", e dunque l'assunzione da
> parte dell'individuo colto del compito di organizzare e guidare la società. È
> la nascita dell'intellettuale come soggetto attivo, oltreché come figura
> speculativa.
:::
:::
::: horizontal
> Pomenljivo Antonio Manetti, prvi Brunelleschijev biograf, poudarja predvsem
> njegov velik in čudovit "intelekt". Intelekt, ki zagotovo ne deluje izolirano
> in za svoje "delovanje" potrebuje druge, hkrati pa sebe in svoje delovanje
> postavlja na povsem drugo raven, kot jo zasedajo njegovi sogovorniki. Ni
> naključje, da vse njegove biografije ne pozabijo poročati -- čeprav v
> različnih različicah -- o emblematični epizodi: leta 1430 se je po protestu
> zidarjev ["maestri di cazzuola"] zaradi napornega in nevarnega dela na kupoli
> odločil, da jih odpusti in nadomesti z lombardskimi delavci, le da jih je
> pozneje vse (razen enega) znova zaposlil za nižjo plačo. To je najbolj jasen
> prikaz dejstva, da se premoč intelektualnega človeka izvaja v terminih moči
> poveljevanja in nadzora, hkrati pa dobi tudi konotacije, ki ga ne ne ločujejo
> toliko po nalogi ali vlogi kot po pripadnosti *razredu*. To kar epizoda naglo
> izpostavi -- tako kot celoten Brunelleschijev poseg v Santa Maria del Fiore --
> je "tema moderne družbene delitve dela". [@biraghi2019larchitetto, 37-38]
::: {lang=it}
> Significativamente, Antonio Manetti, il primo biografo di Brunelleschi, ne
> mette in rilievo sopra ogni altra cosa il grande e meraviglioso
> "intelletto"[^iii3]. Un intelletto che non agisce certo nell'isolamento e che
> necessita degli altri per poter compiere la propria "azione"[^iii4], ma che al
> tempo medesimo pone se stesso e il proprio operare su un piano completamente
> diverso rispetto a quello occupato dai suoi interlocutori. Non a caso, tutte
> le sue biografie non mancano di riportare -- sia pure in versioni differenti
> -- un episodio emblematico: nel 1430, in seguito alle proteste dei "maestri di
> cazzuola" per le fatiche e i pericoli del lavoro sulla cupola, egli decide di
> licenziarli e di sostituirli con maestranze lombarde, salvo in seguito
> riassumerli tutti (tranne uno) a un salario più basso[^iii5]. Si tratta della
> dimostrazione più evidente del fatto che la supremazia dell'uomo d'intelletto
> si esercita in termini di potere di comando e di controllo, ma assume anche
> connotazioni che ne distinguono non tanto la mansione o il ruolo quanto
> piuttosto l'appartenenza a una *classe*. Ciò che l'episodio fa emergere
> impetuosamente -- cosí come l'intero intervento di Brunelleschi a Santa Maria
> del Fiore -- è cioè "il tema della moderna divisione sociale del
> lavoro"[^iii6].
:::
:::
V tem primeru začetek moderne arhitekture ni opredeljen v formalnih, oblikovnih
ali tehničnih, kriterijih, temveč začetek označuje vzpostavitev arhitektov v
njihovi družbeni distinkciji, kot intelektualcev in vodilnih figur na gradbišču.
Na to, kakšen značaj bo nova "premoč" intelekta imela, nakazuje epizoda iz leta
1430, ko Brunelleschi zidarje, ki so stavkali zaradi napornega in nevarnega dela
na kupoli, odpusti le da jih nazadnje spet zaposli za nižje plačilo.
Pri tem ni ključna osnovna interpretacija, da se avtonomija arhitekta izvaja v
terminih komande in nadzora, temveč objektivni značaj Brunelleschijevega izuma.
Rešitev zasnove kupole na način, da je ni potrebno pred gradnjo centrirati ter
med gradnjo podpirati, ker je na vsaki stopnji izgradnje samostoječa in
samouravnalna, odpravi privilegije mojstrov saj se ne zanaša več na njihovo
tradicionalno vednost, prav tako pa lažje prenese zaustavitve del in menjave
delovnih ekip. Učinkovanje arhitekture je v tem primeru pravzaprav neodvisno od
strokovnih, umetniških ali političnih interesov arhitekta in z njimi sovpada le
slučajno.
La coincidenza del sorgere della figura dell'architetto come intellettuale e del
manifestarsi di rapporti di classe prefiguranti quelli che si instaureranno con
la rivoluzione industriale tra la borghesia e il proletariato non è
evidentemente casuale. Come rileva ancora Tafuri, "l'intellettuale-architetto
(...) rivendicando l'autonomia del proprio ruolo, (...) si pone all'avanguardia
delle nuove classi al potere". E aggiunge: "tanto da poter persino entrare in
conflitto con esse là dove queste non siano disposte ad essere conseguenti fino
in fondo con le proprie premesse".
L'episodio a cui allude Tafuri è probabilmente quello riferito da Vasari,
secondo il quale, avendo ricevuto da Cosimo de' Medici l'incarico di progettare
un palazzo in piazza San Lorenzo, a Firenze, Brunelleschi ne "fece un bellissimo
e gran modello"; ma poi, "parendo a Cosimo troppo sontuosa e gran fabbrica, più
per fuggire l'invidia che la spesa, lasciò di metterla in opera"; al che
Brunelleschi, "intendendo la resoluzione di Cosimo, che non voleva tal cosa
mettere in opera, con sdegno in mille pezzi il disegno ruppe"[^iii7].
Non sono tuttavia numerosi i casi in cui l'architetto si ribellerà -- o
addirittura, si opporrà concretamente -- al potere e ai potenti, nei secoli
successivi. E semmai un indizio della sempre maggiore assimilazione degli
architetti al sistema di potere di volta in volta vigente si lascia rintracciare
nel loro parallelo cercare rifugio in un'attività che tende sempre meno a
identificarsi -- come accadeva ancora nel caso di Brunelleschi -- con il solo
progetto architettonico, e che si apre via via ad altre espressioni e linguaggi:
dal disegno come tecnica (almeno potenzialmente) affrancata dalla realizzazione
concreta, alla scrittura come pratica finalizzata non esclusivamente a
verbalizzare le "regole" dell'architettura ma anche a produrre su di essa
"discorsi" di natura diversa, spesso scopertamente soggettivi: non più trattati,
insomma, quanto piuttosto "punti di vista", "opinioni" sull'architettura. Ciò
che ne deriva è una forma di indipendenza dell'architetto non solo nei confronti
della committenza ma anche nei confronti della propria stessa attività;
sviluppando la *teoria* come una dimensione al tempo stesso organica e autonoma
di questa, l'architetto porta a compimento il processo di autoaffermazione di sé
come intellettuale.
In questo senso, Leon Battista Alberti incarna al suo massimo grado la figura
dell'intellettuale-umanista che estende *anche* all'architettura il proprio
ambito d'interessi, tanto scrivendone (nella forma canonica del trattato)[^iii8],
quanto progettandola (senza però interessarsi attivamente alle fasi
costruttive)[^iii9]. E infatti nella definizione che egli dà dell'architetto si
preoccupa prima di ogni altra cosa di sgombrare il campo dai possibili equivoci
circa il ruolo di questi come artista-intellettuale, distinguendolo nettamente
da quello di altre figure che si occupano in modo diverso di costruzioni, come
il *faber tignarius*:
> ... non prenderò certo in considerazione un carpentiere, per paragonarlo ai
> più qualificati esponenti delle altre discipline: il lavoro del carpentiere
> infatti non è che strumentale rispetto a quello dell'architetto[^iii10].
E invece
> ... architetto chiamerò colui che con metodo sicuro e perfetto sappia
> progettare razionalmente e realizzare praticamente, attraverso lo spostamento
> dei pesi e mediante la riunione e la congiunzione dei corpi, opere che nel
> modo migliore si adattino ai più importanti bisogni dell'uomo.
Dove anche il "realizzare praticamente" va inteso piuttosto come capacità di
compiere *reali* verifiche delle ipotesi progettuali formulate che non come un
diretto intervento dell'architetto nelle fasi costruttive dell'edificio.
Pur non essendo possibile seguire analiticamente le avventure dell'architetto
intellettuale dal Rinascimento in avanti (in larga parte coincidenti, del resto
-- almeno fino a tempi abbastanza recenti --, con la storia dell'architettura
*tout court*), non si può mancare almeno di ricordare il ruolo occupato
all'interno di esse da Andrea Palladio: non soltanto in qualità di progettista
di un'imprescindibile "rete" di edifici in terra veneta, ma soprattutto in
quanto autore dei *Quattro Libri dell'Architettura* (1570). Sono proprio questi
ultimi a costituire il perfetto paradigma -- a ben guardare mai eguagliato da
alcuno né prima né dopo di lui -- del tradursi *in atto* di un'intellettualità
architettonica. Fuggendo "la lunghezza delle parole", limitandosi dunque a
"quelle avvertenze, che mi parranno più necessarie"[^iii11], e affiancandovi
"alcuni disegni" di cui fornisce le "misure, da' quali potrà ciascuno
facilmente, secondo che se gli offerirà l'occasione, esercitando l'acutezza del
suo ingegno, pigliar partito e far opera degna di esser lodata"[^iii12], Palladio
consegue la più compiuta sintesi tra testi e immagini raggiunta in un trattato:
dove i disegni "dicono" ciò a cui le parole alludono soltanto. La sorprendente
"perspicuità" dell'*opus* palladiano, se costituisce l'irrefutabile presupposto
della sua fortuna planetaria[^iii13], è anche lo specchio ingannevole con il quale
abbagliare coloro che non sono "in tale arte istruiti". Ciò rende *I Quattro
Libri*, al tempo stesso, "per tutti e per nessuno", o perlomeno per quel numero
ristretto d'"intendenti" che sappia comprenderne e applicarne il codice sotteso.
Ed è straordinariamente significativo che sia proprio lo strumento del disegno
-- nella semplice forma della proiezione ortogonale in pianta, sezione e alzato
-- a rendere pienamente effettuale l'operazione intellettuale compiuta
dall'architetto. Con una notazione ulteriore: pur raccogliendo opere esemplari
realizzate da autori antichi e "moderni" (tra questi ultimi, soltanto Donato
Bramante, oltre a se stesso), il trattato di Palladio richiede di essere letto
come una teoria generale della progettazione basata sul sistema degli ordini e
delle proporzioni; una teoria capace di approssimarsi tanto all'"idea" da
distanziarsi persino dalla realtà[^iii14].
Sarà Giovanni Battista Piranesi -- trecento anni più tardi -- a mostrare invece
come l'architetto possa ormai concepire se stesso in modo quasi del tutto
svincolato dalla produzione progettuale, senza con questo cessare di
considerarsi architetto a tutti gli effetti. Piranesi fa del disegno qualcosa di
più di un mezzo di prefigurazione o di rappresentazione della realtà: e infatti,
nelle *Antichità Romane* (1756), come nelle *Vedute di Roma* (1778), esso ha il
compito di dissezionare e di catalogare in ogni sua parte il "corpo" della
città, al fine di farne non tanto un semplice rilievo, quanto piuttosto un
approfondito studio analitico-critico[^iii15]; nel caso delle *Carceri
d'invenzione* (1761) e del *Campo Marzio dell'Antica Roma* (1762), invece, il
disegno rimane volutamente incerto tra memoria archeologica e progetto del
nuovo, escludendo comunque dal proprio orizzonte qualsiasi eventualità di
realizzazione. In entrambi i casi, oltrepassa il valore di strumento meramente
tecnico, per divenire un vero e proprio dispositivo che permette a Piranesi di
definire senza condizionamenti il proprio campo d'azione. Un'assenza di
condizionamenti che si può misurare innanzitutto sul piano intellettuale. Non
per nulla, il testo teorico più importante di Piranesi, il *Parere
sull'Architettura* (1765), è organizzato in forma *dialogica*, vale a dire la
modalità espressiva più lontana dalla prescrittività della trattatistica. Nella
composizione dialettica delle opinioni sostenute da Protopiro e Didascalo è
sintetizzabile il "parere" piranesiano, sostenitore del "libero gioco della
creatività, che si esprime nella sede "privilegiata" dell'ornamento", ma anche
della necessità di dotare quest'ultimo dei "criteri compositivi" ispirati "ai
metodi con i quali la natura crea e dispone i propri fenomeni"[^iii16].
La libertà creativa individuale, sia pur temperata dal riferimento al piano
"oggettivo" e condivisibile della natura, è dunque la manifestazione della presa
di coscienza del ruolo ormai compiutamente *intellettuale* dell'architetto. Ma è
anche la chiara manifestazione di una crisi. Mentre si emancipa progressivamente
dalla "fisica" del potere (soltanto più tardi scoprirà di essere inesorabilmente
immerso nella sua "microfisica")[^iii17], l'architetto intellettuale si trova
sempre di più al cospetto di una frantumazione che riguarda la disciplina di cui
si occupa non meno che il proprio io. Ancora una volta, Piranesi è il precoce
annunciatore di entrambi i fenomeni. Ma più in generale, il fiorire -- tra XVII
e XIX secolo -- di polemiche[^iii18], pamphlet e saggi[^iii19] di ogni genere relativi
all'architettura è indice dell'affermarsi di certezze proclamate con tanto più
vigore e animosità quanto più si rivelano il frutto di una costitutiva
arbitrarietà e soggettività. Tramontata l'epoca in cui poteva esercitare le sue
funzioni ricorrendo *sola mente* ai lucidi schemi desunti dagli *aeterna
exempla* del classico, ora l'architetto è costretto a ripiegarsi su se stesso
per trovare frammenti di "verità" individuali, ma sempre più spesso per
nascondere la propria inadeguatezza e per coprire i propri dubbi. La
"personalità" dell'architetto, in certi casi, inizia ad assumere maggiore
importanza della sua stessa opera.
L'affermarsi di una dimensione teorica ormai non più correlata con una stretta
normatività comporta la necessità di connotare fortemente ciascuna teoria, al
fine di differenziare l'una dall'altra, in un gioco di prese di posizione e di
distanza che in molti casi ha l'effetto di radicalizzarle. Si ripensi
all'*incipit* di *Architecture. Essai sur l'art* di Étienne-Louis Boullée: "Che
cos'è l'architettura? La definirò forse con Vitruvio l'arte del costruire?
No"[^iii20]. La "sacralità" degli antichi -- e di Vitruvio quale massima autorità
in materia architettonica -- viene deliberatamente infranta. Per Boullée
l'architettura ha piuttosto a che fare con la "poesia", ovvero con il
"carattere" che ciascun tipo di costruzione deve esprimere, sulla base di un
preciso rapporto *analogico* tra forma e contenuto degli edifici: "Le immagini
che essi offrono ai nostri sensi dovrebbero suscitare in noi sentimenti
corrispondenti all'uso al quale essi sono consacrati"[^iii21].
La radicalizzazione della teoria si manifesta però al suo massimo grado
nell'opera di un allievo di Boullée, Jean-Nicolas-Louis Durand. Nei due libri
del *Précis des leçons données à l'École Polytechnique* (1802-809), la *raison*
è ormai diventata un'*ideé fixe*, una vera e propria ossessione; ed è nelle
tavole che l'accompagnano (in particolar modo della seconda parte), più ancora
che nel testo, che essa trova la sua più piena espressione: planimetrie e alzati
le cui combinazioni e permutazioni rigorosamente geometriche lasciano pochi
dubbi in merito alla "natura" della teoria sostenuta. Il cui autore, con
altrettanta chiarezza, risulta tramutato in un suo "sostenitore"[^iii22].
Ma è proprio a fronte dell'esasperazione delle posizioni e dell'inoperatività
che spesso vi si associa -- e al conseguente rischio di isolamento nel quale con
sempre maggiore frequenza incorre l'architetto intellettuale -- che questi tende
ad "aprire" la propria visione a una dimensione più allargata, collettiva,
caratterizzata non di rado in senso spiccatamente utopico. A partire da
*L'architecture considérée sous le rapport de l'art, des moeurs et de la
législation* (1804) di Claude-Nicolas Ledoux, l'architetto si propone come
"pensatore" -- o "ripensatore" -- della città e della società. Affiancandosi, o
sostituendosi addirittura, alle tradizionali figure di riferimento (il filosofo,
il politico, l'industriale, il pedagogo, il filantropo)[^iii23], l'architetto si
appropria del mito riformista, sia pure proiettato in un mondo soltanto
immaginato, in senso grafico o letterario. Gli esiti di questo passaggio si
lasceranno rintracciare ancora nella *Cité industrielle* (1917) di Tony
Garnier[^iii24] e nella *Ville contemporaine de trois millions d'habitants* (1922)
di Le Corbusier[^iii25].
Proprio Le Corbusier può essere considerato l'architetto intellettuale più
significativo e influente del XX secolo. Il suo apporto, in questo senso, non è
valutabile esclusivamente in termini produttivi, cosí come non lo è neppure in
chiave meramente progettuale, o almeno non nell'accezione usuale del termine,
come fase preparatoria "in vista" della sua realizzazione concreta. Dalla Maison
Dom-Ino alla Ville Radieuse e oltre, Le Corbusier elabora un discorso articolato
in varie "puntate" ma unitario, le cui singole parti scaturiscono da un'*idea di
spazio* e da un'*idea di costruzione e struttura* ben precise, declinate su
scale diverse, fino a giungere a formulare una visione "totale", completamente
alternativa al mondo reale; una visione che affida all'architettura il compito
di ripensare radicalmente la società.
Anche sotto il profilo pubblicistico, non soltanto Le Corbusier si rivela
probabilmente il più prolifico scrittore di architettura del secolo[^iii26], ma
pure quello più di ogni altro capace di funzionalizzare tale attività al ruolo
autoassegnatosi di architetto intellettuale: che non consiste né nell'assolvere
a compiti puramente tecnici, di semplice illustrazione e diffusione dei
progetti, né nell'affermare valori esclusivamente ideologici o letterari,
l'intenzione del raggiungimento dei quali potrebbe anche prescindere dallo
svolgimento di un'attività progettuale. Adottando via via la forma del
manifesto, del pamphlet, dello scritto polemico, i libri di Le Corbusier si
presentano come vere e proprie "crociate"[^iii27] combattute con le armi della
critica, della provocazione e dell'ironia; il tutto finalizzato a fornire ogni
supporto possibile a una concezione dell'architettura che -- come poc'anzi
rilevato -- è tanto ideale quanto concreta, ovvero traducibile in termini
spaziali e in termini costruttivo-strutturali: perfetta sintesi del compito che
per tutta la vita Le Corbusier ostinatamente persegue.
È nell'Italia del secondo dopoguerra, tuttavia, che la figura dell'architetto
intellettuale assume una forte connotazione sociale, e in certi casi pure
politica, con il conseguente riconoscimento del suo ruolo anche al di fuori
dell'ambito strettamente disciplinare. Emblematico, in questo senso, è il caso
di Bruno Zevi: laureatosi nel 1942 alla Graduate School of Design di Harvard
diretta da Walter Gropius, negli anni successivi Zevi torna in Italia dove
lavora come architetto, ma soprattutto si fa propagatore della "buona novella"
dell'architettura organica di Frank Lloyd Wright[^iii28]. Non meno importante è la
posizione da lui assunta all'interno di svariate istituzioni, tra le quali
l'Istituto Nazionale di Urbanistica (INU), di cui riveste la carica di
segretario generale dal 1952 al 1968, e l'IN/ARCH (Istituto Nazionale di
Architettura), da lui stesso fondato nel 1959. Un impegno civile che verrà
profuso anche all'interno di movimenti e partiti politici, a partire dalla
militanza in Giustizia e Libertà, negli anni della guerra e della Resistenza,
per passare poi al Partito d'Azione, a Unità Popolare, al Partito socialista
unificato e infine al Partito radicale, per il quale nel 1987 sarà eletto
deputato al parlamento e del quale diverrà presidente tra la fine degli anni
ottanta e i primi novanta[^iii29].
Ma è l'implicazione nel campo della produzione culturale direttamente legata
all'architettura ciò che caratterizza in modo particolare l'azione di Zevi. Il
forte coinvolgimento in qualità di redattore dapprima e poi di condirettore
nella rivista "Metron", tra il 1946 e il 1954, e la fondazione nel 1955 e la
direzione fino al 2000 di "L'architettura. Cronache e storia", insieme a una
produzione libraria qualitativamente e quantitativamente ragguardevole -- in cui
spiccano, tra i molti altri, titoli fondamentali quali *Saper vedere
l'architettura*, *Storia dell'architettura moderna*, *Poetica dell'architettura
neoplastica*, *Il linguaggio moderno dell'architettura*[^iii30] -- sono i segni
tangibili di un coinvolgimento che va evidentemente oltre il consueto piano di
lavoro dello studioso e dello storico. È proprio *Verso un'architettura
organica*, del resto, che dà avvio a quello che a tutti gli effetti -- anche al
di là del più immediato riferimento wrightiano -- è un tentativo di portare un
contributo fattivo, da architetto e da intellettuale, alla ricostruzione
italiana. In quest'ottica va letta la *Prefazione*, datata febbraio 1944, in cui
sottolinea che
> ... forse sarebbe stato più esatto intitolare questo libretto "verso
> un'edilizia organica", stabilendo cosí dall'inizio che, invece di fare una
> storia dell'arte, ci si accingeva al compito più modesto di trovare un
> indirizzo comune nel lavoro contemporaneo[^iii31].
Un concetto su cui ritorna più oltre con chiarezza ancora maggiore:
> Alla fine del conflitto mondiale, l'Italia avrà bisogno di pane e di case.
> Nelle sue terre distrutte, contadini, operai, intellettuali domanderanno case.
> L'opera degli architetti dovrà rispondere alle esigenze materiali e
> psicologiche dell'edilizia di un paese finalmente libero[^iii32].
Un'edilizia organica, nell'auspicio di Zevi: vale a dire che "ha alla sua base
un'idea sociale, non un'idea figurativa; (...) che vuole essere, prima che
umanistica, umana"[^iii33].
Nella medesima prospettiva va inscritto anche il suo coinvolgimento nella
realizzazione del *Manuale dell'architetto*[^iii34]: una complessa operazione, a
cui partecipano, tra gli altri, Gustavo Colonnetti, Mario Ridolfi, Pier Luigi
Nervi e Mario Fiorentino, che ha come scopo l'"alfabetizzazione" degli
architetti italiani in vista della ricostruzione. Ed è appunto questa finalità
*operativa* che contraddistingue la totalità degli interventi di Zevi: dalla
scrittura all'insegnamento, dalla pratica professionale alla difesa del
territorio, nulla è concepito come impegno puramente "accademico"; piuttosto,
come altrettante "cause" per le quali battersi con veemente passione. Una
finalità che non manca di toccare anche la storia, da lui utilizzata per
affermare le proprie convinzioni -- in campo progettuale come in campo
politico-ideologico --, oltreché per fini conoscitivi.
Tafuri, definendo tale attitudine storico-critica "operativa" come
> ... un'analisi dell'architettura (o delle arti in generale), che abbia come
> suo obiettivo non un astratto rilevamento, bensì la "progettazione" di un
> preciso indirizzo poetico, anticipato nelle sue strutture, e fatto scaturire
> da analisi storiche programmaticamente finalizzate e deformate[^iii35],
ha voluto criticarne gli intendimenti strumentali, non sufficientemente
distaccati a suo avviso dal raggiungimento di presunti propositi esterni. Al
"punto di incontro fra la storia e la progettazione, -- come scrive ancora
Tafuri, -- la critica operativa *progetta* la storia passata proiettandola verso
il futuro". Tra coloro che egli vede come "i più validi assertori, in Europa, di
un rilancio ideologico rivolto a colmare il salto fra impegno civile e azione
culturale"[^iii36], nel secondo dopoguerra, Tafuri cita tre soli nomi: Jean-Paul
Sartre, Elio Vittorini e -- appunto -- Bruno Zevi. E se quelli dei primi due,
dal punto di vista tafuriano, sembrano parlare legittimamente di un ruolo di
*engagement* intellettuale che mescola fino a fonderle del tutto letteratura e
politica, giungendo a un'"identificazione tra pensiero e azione", il nome di
Zevi -- in quella stessa ottica -- pare stare a testimoniare piuttosto una
"forzatura" di tale identificazione. Vi è insomma un intento apertamente
polemico nei confronti di Zevi *in quanto* architetto intellettuale che si
servirebbe della storia per affermare il proprio credo progettuale. "La storia,
-- scrive Tafuri, -- per sua natura, è un gioco di equilibrio, che la critica
operativa forza facendo precipitare la dimensione del presente"[^iii37]. In ciò
dunque consisterebbe ai suoi occhi l'"errore" di Zevi: nell'"*attualizzare* la
storia*"*, nel "renderla duttile strumento per l'azione*"*[^iii38].
Il più emblematico *casus* di attualizzazione storica zeviana (nonché flagrante
ragione di "rottura" tra i due) si verificherà in occasione della Mostra critica
delle opere michelangiolesche (Roma, Palazzo delle Esposizioni, 1964).
L'attualità di Michelangelo verrà "dimostrata" da Zevi mediante letture
volumetriche e spaziali che fanno dell'artista rinascimentale a tutti gli
effetti un "moderno"[^iii39]; e a ciò vanno aggiunti i discussi "plastici critici"
realizzati dagli studenti dello IUAV di Venezia ed esposti in mostra. La censura
nei confronti di questi da parte di Tafuri non avviene però sulla base del
presunto "scandalo" che essi susciterebbero, bollato invece come "ingenuo";
piuttosto sulla base di una duplice incoerenza: da una lato la mancanza di
"sorveglianza" delle loro trasformazioni rispetto agli originali, e dall'altro
il tentativo (fallito) di "una dilettantesca traduzione del linguaggio
architettonico in astratti e astorici giochi scultorei"[^iii40].
La condanna tafuriana del modo di interpretare il ruolo dell'architetto
intellettuale da parte di Zevi non avrebbe in fondo particolare rilevanza in
questo contesto, se non fosse che lo stesso Tafuri imprimerà una svolta decisiva
alla propria carriera staccandosi -- intorno alla metà degli anni sessanta --
dallo studio AUA (Architetti Urbanisti Associati)[^iii41], con cui aveva
collaborato tanto da un punto di vista teorico che progettuale, per dedicarsi
interamente alla storia. In realtà, già negli intendimenti del gruppo, composto
da giovani architetti romani (tra cui Giorgio Piccinato e Vieri Quilici), vi era
una presa di distanza dall'architettura come pratica professionale separata
dagli altri "piani d'azione" della realtà; e infatti in AUA, nel nome e nei
fatti, l'attività progettuale è affiancata da -- e integrata con -- ricerche
urbane[^iii42] e piani urbanistici.
> Il gruppo concepisce il proprio mestiere come una vera e propria militanza
> etica e politica. La professione architettonica, la critica e la storiografia,
> non sono intesi tanto come discipline tecniche, come mestieri o specialismi
> del mercato del lavoro, bensì come "impegno integrale", come componenti di un
> universo disciplinare che agisce allo stesso tempo politicamente e
> tecnicamente, contribuendo in maniera attiva alla trasformazione della città e
> della realtà. In tal senso, è comprensibile la vicinanza che il gruppo esprime
> nei confronti delle istanze riformatrici delle avanguardie degli anni venti, e
> come sembri evidente anche il riferimento alla figura dell'intellettuale
> organico nella celebre definizione di Antonio Gramsci[^iii43].
La storia praticata da Tafuri, però, sarà concepita in modo affatto diverso
rispetto a quella di Zevi: una storia caratterizzata dalla "più totale
indifferenza nei confronti dell'*azione positiva*"[^iii44] (ovvero di quell'azione
che cerchi di modellare l'architettura a propria immagine, sulla base
dell'autorità del passato), e impegnata piuttosto in una "continua
*contestazione del presente*"[^iii45], che si traduce in una "minaccia (...) ai
tranquillizzanti miti in cui si acquietano le inquietudini e i dubbi degli
architetti moderni"[^iii46]. Il compito dell'intellettuale impegnato nel campo
della storia dell'architettura, in questo senso, diviene quello di "esasperare"
la condizione di disagio in cui versano l'architetto e l'architettura "di fronte
alla dinamica dello sviluppo capitalista"[^iii47], mostrando tutta la
problematicità di una situazione "assurda eppure reale".
> ... Ponendo di continuo in crisi gli obiettivi apparentemente avanzati su cui
> rischiano di acquietarsi la ricerca e il dibattito, il critico deve (...) --
> con un rigore cui è obbligato dalle vicende storiche in cui opera -- (...)
> stimola\[re\] dubbi sempre più coscienti, dissensi sempre più costruttivi,
> disagi sempre più generalizzati.
L'attività storica diviene cosí per Tafuri ""critica delle ideologie
architettoniche", e, in quanto tale, attività "politica" -- anche se
mediatamente politica"[^iii48]; più che l'enunciazione di una vaga intenzione, la
formulazione di un vero e proprio "programma" che -- con un anno di anticipo
rispetto alla pubblicazione del saggio intitolato precisamente *Per una critica
dell'ideologia architettonica* -- ne preannuncia a grandi linee i contenuti e,
ancor di più, il disegno strategico complessivo:
> La messa in luce di ciò che l'architettura è, *in quanto disciplina
> storicamente condizionata e istituzionalmente funzionale al "progresso" della
> borghesia precapitalistica prima, alle nuove prospettive della "Zivilisation"
> capitalistica poi*, va quindi riconosciuto come l'unico scopo rivestito di
> senso storico, da parte di chi intenda forzare il ruolo istituzionale
> assegnato agli intellettuali dall'Illuminismo in poi[^iii49].
Si tratta da un lato di un'opera di demistificazione, vale a dire del
disvelamento delle "incrostazioni" ideologiche che rivestono (spesso arrivando a
occultarla del tutto) la vicenda dell'architettura moderna, a partire da
Brunelleschi in avanti; e dall'altro del tentativo di istituire rapporti
positivi, costruttivi, con la funzione più intrinsecamente politica della
storia. Ciò che ne deriva non è soltanto un "progetto" storico radicalmente
diverso dalla "storia progettuale" zeviana[^iii50], ma anche una figura di storico
in grado di riappropriarsi correttamente del proprio ruolo di intellettuale.
Ciò nondimeno, malgrado la presenza di almeno altre due personalità di alto
profilo intellettuale operanti nell'ambito degli studi storico-architettonici --
Giulio Carlo Argan e Leonardo Benevolo[^iii51] -- non è prevalentemente dal
punto di vista storico che l'architetto intellettuale italiano giunge a occupare
un posto di particolare rilievo nel panorama architettonico degli anni
cinquanta, sessanta e settanta. È anzi proprio attraverso la pacifica e proficua
convivenza e integrazione di attività progettuale (architettonica o urbanistica)
e attività culturale (significativamente segnata, in molti casi, se non da una
vera e propria militanza, da una dichiarata *appartenenza* politica) che alcuni
dei principali protagonisti della scena italiana acquisiranno autorevolezza a
livello nazionale e internazionale, e conferiranno all'Italia un singolare
primato nella produzione di architetti intellettuali.
Nel rilevare *"*la scissione tra architetti e intellettuali"[^iii52], a partire
dalla seconda metà del Novecento, con particolare riferimento alla Francia,
Jean-Louis Cohen ha nel contempo evidenziato l'esistenza -- per converso -- di
un intenso rapporto tra architetti e intellettuali in Italia, ovvero "il fatto
che gli architetti italiani siano degli intellettuali"[^iii53]. Le ragioni
individuate a supporto di questa peculiare situazione sono molteplici:
> Se i rapporti tra intellettuali italiani e architetti sono cosí particolari, è
> senza dubbio prima di tutto perché gli architetti stessi, in linea con i
> pionieri dell'architettura razionale del periodo fascista, sono capaci di
> scrivere e di chiarire intellettualmente i loro punti di riferimento e il loro
> approccio progettuale[^iii54].
A ciò va aggiunta la specificità delle scuole di architettura italiane in cui la
gran parte di tali architetti sono inseriti, che reclutano i propri insegnanti
"sulla base della loro produzione culturale (articoli, libri) tanto quanto su
quella delle loro opere architettoniche"[^iii55]. Inoltre -- nota Cohen -- in
assenza di un forte controllo statale delle commesse pubbliche, come accade in
Francia, il sistema politico e amministrativo frammentato e spesso clientelare
italiano favorisce lo sviluppo di competenze da parte dell'architetto che
esulano da quelle puramente progettuali, ivi compresa una certa *"*aura
culturale". Infine in Italia, tra gli anni cinquanta e settanta, si riscontra
una vera e propria esplosione nel campo della produzione editoriale di
architettura, riguardante tanto i libri che le riviste[^iii56], cui si aggiunge il
contributo critico apportato da associazioni quali il Movimento di Studi per
l'Architettura (MSA), composto, tra gli altri, da Franco Albini, Lodovico
Belgiojoso, Piero Bottoni, Giancarlo De Carlo, Ignazio Gardella, Marco Zanuso, o
il Movimento Comunità di Adriano Olivetti[^iii57], oltreché il citato APAO; senza
dimenticare ambiti culturali più ampi, qual è il Gruppo 63, con le riviste a
esso correlate come "Marcatré" e "Quindici"[^iii58]; o ancora, riviste apertamente
politiche come "Contropiano*",* diretta da Alberto Asor Rosa e Massimo Cacciari
(dopo l'abbandono di Antonio Negri all'indomani dell'uscita del primo numero, a
causa di insanabili dissidi sulla linea politica da conferire alla rivista),
espressione della corrente operaista nel periodo a cavallo tra anni sessanta e
settanta, cui collaborano, tra gli altri, Manfredo Tafuri, Francesco Dal Co e
Marco De Michelis. Tutto ciò -- conclude Cohen -- rende la "qualità
intellettuale del dibattito italiano il frutto meno di un caso che di una
necessità"[^iii59].
Dalla ricchezza complessiva di questo quadro si stagliano un ristretto numero di
individualità di grande rilevanza e influenza: Giuseppe Samonà, Ludovico
Quaroni, Ernesto Nathan Rogers, Vittorio Gregotti, Carlo Aymonino, Aldo Rossi,
per nominarne solo qualcuna. Significativo è che per tutti costoro non soltanto
la dimensione operativa si intrecci costantemente con quella teorica, ma che per
lo più la questione architettonica sia affiancata dalla questione urbana.
*L'urbanistica e l'avvenire delle città*[^iii60], *La Torre di Babele*[^iii61], *Il
problema del costruire nelle preesistenze ambientali*[^iii62], *Il territorio
dell'architettura*[^iii63], *Origini e sviluppo della città moderna*[^iii64],
*L'architettura della città*[^iii65] sono soltanto una piccola rappresentanza dei
titoli di scritti che testimoniano l'interesse degli architetti appena citati
per la disciplina intesa in un senso che non è mai restrittivamente localistico
o settoriale, cosí come l'urbanistica non vi è mai intesa come questione
puramente tecnica o gestionale. Persino nel caso di studi pubblicati in quegli
anni, sotto la guida di alcuni dei medesimi autori, dedicati all'analisi di
luoghi o casi specifici[^iii66], la circoscrizione e precisione del campo di
ricerca non vanno mai disgiunte dall'intenzione di dare a tali studi un
carattere emblematico e generalizzabile, in particolar modo da un punto di vista
metodologico.
Con tutto ciò, diversi rimangono gli approcci alla figura dell'architetto *sub
specie intellectualis*. Per Samonà è soprattutto la direzione dell'Istituto
Universitario di Architettura di Venezia (IUAV) a divenire l'occasione per
compiere una grande operazione culturale, oltreché didattica: chiamando a
raccolta, a partire dal secondo dopoguerra, un corpo docente altamente
qualificato -- comprendente personaggi del calibro di Franco Albini, Ignazio
Gardella, Saverio Muratori, Lodovico Belgiojoso, Giancarlo De Carlo, Luigi
Piccinato, Giovanni Astengo e Bruno Zevi, rinnovato poi nel corso degli anni
sessanta con l'immissione, tra gli altri, di Carlo Aymonino, Guido Canella, Gino
Valle, Gianugo Polesello, Luciano Semerani, Costantino Dardi, Leonardo Benevolo,
Manfredo Tafuri e Mario Manieri Elia -- egli ha posto le fondamenta di quella
che assumerà vasta notorietà internazionale sotto il nome di "Scuola di
Venezia"[^iii67].
Per Ludovico Quaroni i campi d'applicazione della particolare modalità con cui
egli declina il ruolo di architetto intellettuale sono molteplici: quello di un
impegno politico che incrocia, tra gli altri, il Movimento Comunità di Adriano
Olivetti, e che si connette fattivamente ai numerosi piani urbanistici e ai
progetti di quartieri popolari da lui elaborati nel corso della sua carriera;
quella di una produzione saggistica che testimonia -- più che di una propensione
"teorica" nei confronti dell'architettura e della città -- di un'assidua
presenza nel dibattito vivo e attuale del suo tempo, spesso attuata per mezzo di
apparizioni su testate secondarie o comunque defilate rispetto ai più consueti
luoghi di elaborazione culturale[^iii68]; e infine quello dell'insegnamento
universitario (a Firenze, Napoli e Roma), vero e proprio fronte di affermazione
e verifica d'un atteggiamento dialettico di cui beneficeranno intere generazioni
di allievi (molti dei quali destinati a loro volta a un illustre futuro)[^iii69],
anziché luogo di semplice esposizione di "certezze" disciplinari[^iii70].
Per Ernesto Nathan Rogers, invece, lo strumento principale della propria azione
culturale sono le riviste: dapprima "Domus", di cui diviene direttore subito
dopo la guerra, e poi "Casabella", da lui diretta dal 1953 al 1964. È in special
modo nella redazione di "Casabella-Continuità" (secondo la nuova denominazione
da lui data alla testata) e attraverso i suoi editoriali che Rogers svolge
un'opera di "educazione" all'architettura moderna, rivista alla luce del
rapporto con la città storica e intesa come paradigma non soltanto estetico ma
anche *etico* per la ricostruzione dell'Italia dopo il secondo conflitto
mondiale e il ventennio fascista. In questo senso vanno intesi i numeri di
"Casabella-Continuità" che inquadrano tematiche più generali, spesso relative a
problematiche urbane e territoriali, all'interno delle quali i singoli progetti
di architettura si inseriscono non come semplice vetrina per la vanità
dell'architetto di turno[^iii71]. Ma è soprattutto grazie a Rogers che ha luogo il
decisivo incontro tra la cultura architettonica del periodo e la corrente più
avanzata della filosofia italiana, rappresentata in quel momento da Antonio
Banfi e da Enzo Paci. Con quest'ultimo in particolare il dialogo tra
architettura e filosofia si fa serrato, apportando tangibili conseguenze
sull'uno e sull'altro fronte[^iii72]. Dal punto di vista dell'architettura, Rogers
coglie dalla lezione di Paci elementi che gli consentono di mettere a fuoco più
compiutamente un pensiero che già aveva sviluppato in modo embrionale fin dal
primo editoriale di "Casabella-Continuità":
> Noi crediamo nel fecondo ciclo *uomo-architettura-uomo* e vogliamo
> rappresentarne il drammatico svolgimento: le crisi; le poche, indispensabili
> certezze e i molti dubbi, ancor più necessari; siccome pensiamo che essere
> vivi significhi, soprattutto, accettare la fatica del quotidiano rinnovamento,
> col rifiuto delle posizioni acquisite, nell'ansia fino all'angoscia, nel
> perpetuarsi dell'agone, nell'allargare il campo dell'umana "simpatia"[^iii73].
Dall'acquisizione di una maggior consapevolezza filosofica derivano le
evoluzioni di tale pensiero, come dimostra l'utilizzo di concetti come
"esperienza"[^iii74] o di coppie di termini come "continuità-crisi", o
"discontinuità-continuità" al di fuori di una dimensione puramente esistenziale
e intuitiva. Cosí è, ad esempio, nella valutazione del contributo dato
dall'architettura moderna, non riducibile per Rogers a semplici "apparenze
figurative", e da ricondurre invece alle
> ... espressioni di un metodo che ha tentato di stabilire nuove e più chiare
> relazioni tra i contenuti e le forme, entro la fenomenologia di un processo
> storico-pragmatico, sempre aperto, che, come esclude ogni apriorismo nella
> determinazione di quelle relazioni, cosí non può essere giudicato per
> schemi[^iii75].
Nella prospettiva filosofica di Paci, d'altronde, la crisi dell'architettura
moderna è
> ... da addebitare a una troppo rigida e dogmatica interpretazione del
> razionalismo del Movimento Moderno che, saldandosi all'istanza tecnicista del
> processo di industrializzazione edilizia in atto, ha finito per produrre il
> declassamento dell'architettura da Arte ad un "insieme coerente e strumentale
> di operazioni tecniche"[^iii76].
Ma va inscritta anche in un discorso molto più ampio che riguarda la "storicità"
della crisi e la sua necessità per "prospettare un nuovo orizzonte"[^iii77] nel
quale il passato possa rivivere in forma trasformata.
Questa prospettiva induce Rogers a una profonda revisione del senso
dell'architettura. Logica e ragione (ovvero le categorie che l'avevano innervata
ancora negli anni tra le due guerre) non sono più sufficienti per lui a definire
-- ma soprattutto a *incarnare* nella maniera più compiuta -- un'architettura
che, pur senza rinunciare alla sua "missione" di modernità, debba però farsi
carico di tutte le contraddizioni che lo stesso sviluppo moderno ha incontrato
sul suo cammino. Ciò rende niente affatto semplice, e anzi del tutto
*drammatico*, il compito dell'architetto: "Fra gli altri uomini, l'architetto
rappresenta questa personalità singolare cui è devoluto il compito di tentare la
sintesi tra gli opposti poli"[^iii78]. Si tratta di quella che Rogers concepisce
come una vera e propria "lotta tra utilità e bellezza". "Dobbiamo sentire in
ogni momento creativo il dramma fondamentale dell'esistenza perché la vita pone
continuamente in contraddizione i bisogni pratici e le aspirazioni
spirituali"[^iii79]; un dramma che l'architetto deve affrontare *operativamente*,
lasciando che le contraddizioni convivano "traducendole" in opera. Ma anche:
"Dobbiamo aspirare all'universale dando valore alle energie latenti nella
contingenza"[^iii80]. Ciò comporta una diversa concezione della temporalità e della
spazialità (intesa anche in senso allargato, come ambiente o contesto) del
progetto, portatrici entrambe di "occasioni" che l'architetto non deve mancare
di cogliere[^iii81].
Frutto non secondario dell'intenso lavoro svolto da Rogers in vista della
costruzione di un agire progettuale "in relazione", sarà uno stuolo di seguaci
cresciuti all'interno della stessa redazione di "Casabella-Continuità", la cui
precipua caratteristica è la libertà intellettuale e la capacità di esercitarla
in modi che non ricalcano però quasi per nulla quelli del "maestro". Cosí
Vittorio Gregotti ha ereditato da Rogers la vocazione per la conduzione di
riviste ("Edilizia moderna", "Casabella", "Rassegna") come forma di militanza
che trova espressione nella scelta delle tematiche da affrontare e delle opere
da presentare, oltreché -- in maniera ancora più diretta ed esplicita --
attraverso gli editoriali da lui pubblicati mensilmente. A tale cospicuo lavoro
svolto nell'ambito dei periodici (cosí come pure dei quotidiani) Gregotti ha
affiancato nel corso degli anni una altrettanto considerevole produzione
libraria che, con ritmo cadenzato, ha accompagnato il trascorrere delle diverse
stagioni dell'architettura[^iii82]. Senza dimenticare il suo ruolo di direttore
della sezione Arti visive e Architettura della Biennale di Venezia del 1976,
preludio alle successive Biennali Internazionali di Architettura. Tutti questi
fattori hanno determinato l'indiscussa centralità di Gregotti all'interno del
panorama architettonico italiano e internazionale, una centralità ribadita anche
sotto il profilo progettuale e costruttivo[^iii83].
Nel caso di Carlo Aymonino e Aldo Rossi -- a loro volta membri della redazione
della "Casabella-Continuità" rogersiana -- il modello cui entrambi si ispirano è
l'intellettuale culturalmente e politicamente impegnato che domina la scena
nell'Italia degli anni cinquanta, discendente a sua volta dalla concezione
gramsciana dell'"intellettuale organico" inteso come "costruttore", e non come
semplice "oratore", disponibile a confrontarsi con la realtà, a "mescolarsi
attivamente alla vita pratica"[^iii84]; un intellettuale che però, proprio nel
dopoguerra, conosce una profonda crisi d'identità e di coscienza che lo porta
spesso a entrare in rotta di collisione con la linea dettata dal Partito
comunista italiano, che pure in questo campo costituisce per molti di loro un
punto di riferimento imprescindibile.
Strettamente legate al Pci sono le riviste "Critica marxista", "Il
Contemporaneo", "Società", "Voce comunista", su cui scrivono -- in particolar
modo nel periodo giovanile -- Aymonino e Rossi[^iii85]. Ma è soprattutto con la
produzione di ricerche all'interno dell'università, che non di rado troveranno
la via della pubblicazione come semplici dispense[^iii86], che Aymonino e Rossi (ma
con loro anche altri giovani architetti e professori come Costantino Dardi,
Luciano Semerani, Gianugo Polesello, Guido Canella, Giorgio Grassi) giungono a
definire l'esatta "funzione" dell'architetto intellettuale italiano degli anni
sessanta e settanta: quella di mettere a punto un apparato teorico utilizzabile
in vista di un agire pratico, al di fuori però di qualsiasi prospettiva
"personale", soggettiva, e in grado piuttosto -- stante la "natura collettiva
dell'architettura"[^iii87] -- di essere condivisa dal maggior numero di persone
possibile, e dunque socializzabile. A questo fine sono indispensabili una
metodologia rigorosa, una strumentazione chiara e obiettivi altrettanto
riconoscibili. Si legga ad esempio quanto scrive Rossi a introduzione del volume
che raccoglie i contributi al dibattito svoltosi all'interno del gruppo di
ricerca da lui diretto alla Facoltà di architettura del Politecnico di Milano
nell'anno accademico 1968-69:
> La nostra ricerca si propone principalmente la costruzione di una teoria
> razionale dell'architettura. Tale costruzione è principalmente fondata sullo
> studio dei rapporti esistenti tra l'analisi urbana e la progettazione
> architettonica[^iii88].
Un metodo, appunto, il più possibile oggettivo e condivisibile.
E tuttavia, dietro la "scientificità" dell'approccio alla ricerca emerge la
determinazione da parte del giovane Rossi a ridare *necessità* al processo
progettuale, prendendo le distanze dall'empirismo "professionalistico" imperante
nell'Italia degli anni cinquanta e sessanta, e al tempo stesso a riconquistare
per l'architetto una *libertà intellettuale* che la stretta osservanza
dell'"ortodossia" moderna non riusciva (più) a garantire. Per Rossi, come per
gli altri architetti animati da un'ideologia comunista, ciò che è in gioco è una
"visione del mondo"[^iii89] di cui l'architetto e l'architettura devono farsi
portatori, *oltre* le pratiche del mestiere e l'adempimento delle funzioni.
È un'impostazione condivisa anche da Antonio Monestiroli (non a caso tra i
membri del gruppo di ricerca diretto da Rossi alla fine degli anni sessanta): un
architetto che alla costruzione di una "visione del mondo" oggettiva e condivisa
dedicherà il suo costante e coerente impegno intellettuale.
> Questo legame stretto (...) fra il progetto e la collettività, fa sí che il
> progetto acquisti un senso compiuto quando è determinato esplicitamente da una
> volontà collettiva, quando cioè si manifesta generalmente la volontà di
> definizione da parte della collettività della città sua propria e
> dell'architettura. Questo è il motivo per cui, solo quando si verificano
> queste condizioni, l'architettura raggiunge il suo massimo sviluppo. Questo è
> anche il motivo per cui quando l'impegno della collettività nei confronti
> dell'architettura viene meno, questa o si riduce al suo aspetto
> tecnico-costruttivo, o ricerca nostalgicamente se stessa, o si deforma a
> criticare la realtà che la nega[^iii90].
Da ciò discende quasi logicamente la definizione che egli dà del progetto di
architettura, "che consiste nello *svelamento della sua ragione collettiva*, del
senso della sua appartenenza alla collettività*"*[^iii91].
Ed è proprio la coscienza del valore e della necessità di una *visione
collettiva* che contraddistingue la stagione degli architetti intellettuali
italiani da quella immediatamente successiva, che annovera, tra gli altri,
teorici come Peter Eisenman e Rem Koolhaas. La distanza che separa questi ultimi
da una concezione *politica* del ruolo dell'architetto è del tutto evidente,
distanza non colmata neppure dal fatto che loro "incubatore" sia stato
l'Institute for Architecture and Urban Studies di New York, strettamente legato
all'Italia, e in particolar modo allo IUAV, a partire dai primi anni
settanta[^iii92]. Se la "traduzione americana" della teoria si configura come un
tentativo di riscatto dell'architettura dal dominio dei grandi studi commerciali
(il cui unico "impegno" consiste nell'eterna ripetizione delle soluzioni
elaborate dal *Functionalist style*) e da una classe di architetti più colti ma
sin troppo compiacenti nel fornire risposte alle eterogenee richieste del
mercato attraverso il nuovo eclettismo *post-modern*, ciò non può avvenire che a
costo di uno "svuotamento" di senso: la riduzione al "grado zero" di "ogni
ideologia, ogni sogno di funzione sociale, ogni residuo utopico", come ha
lucidamente scritto Tafuri[^iii93]. È l'avvio di una trasformazione radicale
dell'architetto intellettuale che, anche allorché sopravvive in quanto tale -- e
ancor di più, proprio *per* sopravvivere in quanto tale --, deve rinunciare a
ogni possibilità di connotare politicamente e socialmente il suo agire,
ponendosi al centro di un universo di discorso interamente autoriferito[^iii94].
Non a caso le speculazioni eisenmaniane tendono verso la concettualizzazione e
l'astrazione[^iii95], tanto quanto -- simmetricamente -- le analisi di Koolhaas
provengono direttamente dalla realtà[^iii96].
Ma prima di analizzare quali siano gli apporti derivanti all'architetto
intellettuale da questi due autori, vale la pena ricordare come siano Robert
Venturi e Denise Scott Brown -- prima dello stesso Koolhaas -- a spalancare allo
sguardo degli architetti (e non solo, ovviamente) le porte di una realtà che non
è niente affatto "possibile" (e quindi ancora potenziale) e "diversa dalla
realtà che ci circonda"[^iii97], ma è invece del tutto tangibile e verificabile. In
qualità di esploratore urbano armato di macchina fotografica, l'intellettuale
scende letteralmente in strada e si dispone a imparare da essa, senza più la
mediazione di quegli "apparati" che l'avevano tradizionalmente supportato fin
lí: i libri e -- si potrebbe dire, in una certa misura -- la stessa cultura.
*Complexity and Contradiction in Architecture* (1966) ma soprattutto *Learning
from Las Vegas* (1972)[^iii98] si propongono come nuovi canoni per letture degli
edifici e della città che a questo punto si aprono a una molteplicità di
fenomeni, di stimolazioni, di interferenze. Per parafrasare l'*incipit* di
*Delirious New York* di Rem Koolhaas, "una montagna di realtà priva di qualsiasi
teoria"; e nel momento in cui è la realtà a parlare, le teorie che se ne
lasciano dedurre si trovano inscritte direttamente nella materia. Dalle
intelligenti analisi di Venturi e Scott Brown nascerà un'intera generazione di
"detective dello spazio"[^iii99].
Per Koolhaas la realtà -- anche grazie allo studio OMA ("an international
practice operating within the traditional boundaries of architecture and
urbanism")[^iii100] e alla sua "costola" culturale AMO ("a research and design
studio, applies architectural thinking to domains beyond ... AMO often works in
parallel with OMA's clients to fertilize architecture with intelligence from
this array of disciplines") -- è la base d'appoggio per costruire un'idea di
architettura che si spinge spesso assai oltre il semplice edificio, per divenire
interpretazione di singoli fenomeni, di complessi urbani o di interi
territori[^iii101]. Lo sguardo sfaccettato e disincantato adottato in queste
letture -- che intrecciano sociologia, economia, politica e arti -- è divenuto
una modalità di osservazione che ha rapidamente fatto scuola, pur con
rivisitazioni, deformazioni ed eccessi[^iii102].
Nonostante le evidenti difformità -- "stilistiche" non meno che sostanziali --,
Koolhaas risulta ancor oggi, all'interno del panorama internazionale e in
un'epoca qual è quella odierna inequivocabilmente postmoderna, l'unico erede
(non è dato sapere quanto volontario o inconsapevole) di una tradizione
intellettuale che affonda le sue radici nel moderno; una tradizione
fondamentalmente *critica*, che sottopone la realtà al vaglio delle
contraddizioni che essa stessa genera, senza con questo ridurle all'unità. È in
questa accettazione -- e utilizzazione -- della funzione produttiva della
contraddizione che Koolhaas appare finalmente libero dalla nostalgia per il
feticcio della "coerenza"; anche se questo implica al tempo medesimo aver fatto
piazza pulita di ogni "ideologia", con tutte le distorsioni ma pure con le
possibilità di ancorarsi a un "cielo delle stelle fisse" dal punto di vista
valoriale che questa portava con sé. E anche se questo comporta -- per usare le
parole che Tafuri riserva a Venturi -- una "disincantata accettazione della
realtà fino al cinismo"[^iii103].
Indiscutibilmente moderno, almeno nei suoi presupposti, è altresí il "progetto"
eisenmaniano di fornire un contrappeso alla "insostenibile leggerezza" di
un'epoca in cui sembra essersi dissolta ogni necessità di conferire
"significato" alle cose. Finendo con l'incorrere, tuttavia, nel problema
opposto. L'intero operare di Eisenman, tanto progettuale che teorico, pare
irretito in un *entretien infini* con un inesauribile numero di interpretazioni
e di significati, in qualche modo tutti equivalenti, tutti possibili[^iii104]. Ciò
genera un gioco di specchi tanto affascinante (si pensi al proposito all'intenso
dialogo da lui intrattenuto con Jacques Derrida)[^iii105] quanto sospetto di
essere, alla lunga, sterile. E dove quanto si afferma non è più una visione
complessiva -- o quantomeno estesa -- del mondo, oppure è una *Weltanschauung
sub specie architecturae*, e dunque esposta al rischio di essere
autoreferenziale.
Dalla frammentazione di cui Eisenman si fa portatore emerge però anche una
straordinaria ricchezza interpretativa, a testimonianza del fatto che la
pluralità dei punti di vista costituisce ormai uno strumento intellettuale
imprescindibile in una prospettiva postmoderna. La stessa pluralità di punti di
vista e ricchezza interpretativa che si può rintracciare nelle pagine della
rivista "Oppositions" che lo stesso Eisenman -- affiancato dallo storico
dell'architettura inglese Kenneth Frampton e dal critico d'origini argentine
Mario Gandelsonas -- dirige dal 1973 al 1984[^iii106]. Fin dal nome, "Oppositions"
preannuncia una conflittualità che rimane tuttavia interamente confinata al
piano della teoria. Ma proprio su questo terreno si registrano contributi
significativi da parte di autori dagli sguardi molti diversi. Tra loro, oltre a
nomi già segnalati, si possono menzionare Rafael Moneo e Bernard Tschumi, due
autori che incarnano in senso diametralmente opposto la figura dell'architetto
intellettuale. Il primo, concentrando la propria attenzione sulla materialità
degli edifici, sul loro essere portatori di una vita che eccede tanto quella di
chi li frequenta e abita, quanto quella di chi li ha progettati; ma anche
interrogandosi -- da architetto -- sulle opere e sul mestiere di altri
architetti, animato dalla volontà di andare al di là di quanto a loro riguardo
potrebbe apparire scontato[^iii107]. Il secondo, cercando di spostare
l'architettura sul piano dell'evento, e più in generale di spostarla rispetto ai
piani sui quali di consueto "riposa" da un punto di vista critico; una "messa in
allarme" della disciplina, che utilizza gli strumenti della "disgiunzione",
della "disgregazione" e della "violenza" per farla reagire[^iii108].
Da questi affondi sia pure molto parziali si evidenzia una condizione di
crescente criticità -- con l'avvicinarsi al tempo presente -- nell'interpretare
il ruolo dell'intellettuale da parte degli architetti; criticità che trova
conferma negli anni novanta del secolo scorso e nei primi anni del Duemila,
improntati a un generale ripiegamento verso posizioni più pragmatiche, spesso
coincidenti con un "isolamento" dentro gli studi professionali. Se questo
mutamento ha almeno in parte carattere congiunturale (essendo cioè legato alla
favorevole contingenza economica di quel periodo), il riapparire -- in anni più
recenti -- di timidi segnali di inversione di tendenza si lascia forse
interpretare come una conseguenza del proliferare della crisi; una crisi
(economica e sociale) che in molte parti del mondo ha assunto una natura
pressoché endemica. È in ogni caso all'interno di condizioni di crisi evidente
-- in cui il mercato del lavoro (anche nel settore dell'architettura) subisce
una significativa contrazione, e soprattutto risente degli effetti dell'ingresso
della produzione economica nella fase post-fordista[^iii109] -- che una giovane
generazione di architetti sviluppa un rinnovato interesse per il pensiero
radicale degli anni sessanta e settanta, nelle sue diverse forme: da quello più
latamente politico, a quello dei *Radicals* italiani (Superstudio,
Archizoom)[^iii110] e di alcuni degli interpreti del neo-razionalismo, in special
modo l'Aldo Rossi dell'*Architettura della città* e il Giorgio Grassi della
*Costruzione logica dell'architettura* (ma anche Guido Canella, Gianugo
Polesello e altri)[^iii111]. Un *repêchage* che prende le mosse da presupposti
molto distanti da quelli originari, e che in larga parte è anche estraneo alla
cultura e all'ambito di appartenenza dei "discendenti" più diretti di quei
protagonisti.
Nel fatale incontro tra scarse opportunità lavorative e fascinazione per i
"maestri" di un'età precedente si compie il riavvicinamento alla scrittura
critica di molti architetti in quel momento spesso soltanto ipotetici: se non
già una vera e propria riattivazione della coscienza e del ruolo
dell'intellettuale, perlomeno il riaffiorare di questi alla percezione di
un'epoca che aveva finito per dimenticarli. Emblematica di questo momento è una
rivista come "San Rocco", ideata, tra gli altri, da membri dei gruppi italiani
2A+P/A (Matteo Costanzo, Gianfranco Bombaci) e baukuh (Pier Paolo Tamburelli,
Vittorio Pizzigoni, Andrea Zanderigo e altri) e del belga Office Kersten Geers
David Van Severen, e diretta da Matteo Ghidoni. Ad essa collaborano autori di
generazioni e di provenienze diverse (tra i quali architetti del calibro di
Oliver Thill, Mark Lee, Freek Persyn, Harry Gugger, Pascal Flammer, Job Floris).
Nel tempo per eccellenza della tirannia delle immagini, "San Rocco" decide
programmaticamente di limitare l'uso di queste (pur enfatizzandole mediante uno
studiatissimo impiego dell'assonometria), dando spazio ai testi (ma omettendo
dalla copertina il nome della rivista). Inoltre opta per "non durare per
sempre", predeterminando in tal modo il proprio decesso.
Da tutti questi indizi è lecito desumere qualche considerazione: per gli
architetti nati nell'ultimo quarto del secolo scorso la riscoperta della cultura
degli anni sessanta e settanta -- e con essa degli architetti intellettuali che
vi fiorivano -- equivale a un ideale ritorno alle origini; se non il recupero di
un "rimosso", di certo un percorso a ritroso per cercare di ritrovare un filo
perduto. È poi significativo che tale iniziativa abbia come "centro operativo"
l'Italia. È proprio in Italia infatti, più che in ogni altro luogo, che si è
mantenuto uno stretto legame, un dialogo, tra architettura, storia e teoria. Ed
è proprio l'Italia che può forse vantare la maggior concentrazione di architetti
intellettuali nel corso della sua storia. Pur discontinua, tale presenza si
lascia riscontrare anche in momenti difficili (si pensi ad esempio a Edoardo
Persico e a Giuseppe Pagano durante il fascismo). Infine, le modalità secondo
cui ciò avviene sono integralmente figlie dell'epoca attuale, e non esistono vie
rapide e agevoli per mettere in connessione forme e contenuti di ora con forme e
contenuti di allora.
Vi sono infatti alcune caratteristiche peculiari dell'architetto intellettuale
-- e dell'intellettuale *in generale* -- italiano degli anni sessanta e settanta
che difficilmente possono essere fatte oggetto di illusorie rinascite, e che non
casualmente sono scomparse nelle epoche successive e in altri contesti: tra
queste, la consapevolezza non soltanto del proprio compito ma anche delle
condizioni del proprio operare, ovvero dei propri *limiti storici*. Per Franco
Fortini, scrittore, poeta, critico e saggista, fortemente impegnato in quegli
anni in una lucida analisi delle condizioni di lavoro all'interno
dell'"industria culturale", il ruolo da assegnare all'intellettuale parte dalla
constatazione che lo sviluppo capitalistico realizza la progressiva distruzione
della coscienza degli individui, ovvero -- come è stato scritto -- la
"trasformazione antropologica dell'uomo da soggetto volitivo a merce, da essere
dotato di pensiero, volontà, desiderio e coscienza a precipitato inerte di tempo
ed energia inintenzionale"[^iii112]. In questa prospettiva, la trasformazione della
società in senso comunista da lui vagheggiata poteva avvenire soltanto con il
contributo di un lavoro intellettuale capace di concorrere alla creazione di una
coscienza del presente comune e condivisa. E tuttavia, questo compito non
potrebbe essere concepito per Fortini al di fuori di una verifica attenta e
continua dei "criteri di valore" adottati per leggere la realtà. Cosí, ad
esempio, l'"ordine storico, ideologico, estetico" di un libro e di un autore
deve essere continuamente verificato "sul contesto sociale, produttivo,
culturale, che quel libro, quegli autori, producono e ricevono"[^iii113]; ciò che
implica la necessità -- come già Benjamin aveva compreso -- di non limitarsi a
"schierarsi" politicamente ma di cercare di modificare *dall'interno* le
condizioni politiche, ovvero i rapporti di produzione dell'epoca[^iii114]. Ma non
potrebbe essere concepito neppure al di fuori delle condizioni effettive cui
soggiace lo stesso lavoro intellettuale all'interno della società, e della
società capitalista nello specifico: condizioni che sono per molti versi
analoghe a quelle imposte al lavoro operaio. A partire dal fatto che il lavoro
intellettuale diventa sempre più dipendente dall'industria culturale
privata[^iii115], per giungere a quello -- diretta conseguenza della "riduzione di
ogni forma di lavoro a lavoro industriale"[^iii116] -- che anche il lavoro
intellettuale, all'interno dello sviluppo capitalistico, tende a divenire lavoro
astratto, parcellizzandosi in mansioni sempre più indifferenziate ed equivalenti
tra di loro.
Qualche anno più tardi Tafuri dedicherà un saggio al lavoro intellettuale che
prende le mosse precisamente da questi presupposti:
> ... siamo in presenza di un costante aumento dell'estraneità
> dell'intellettuale al contenuto del proprio lavoro, che si realizza tanto più
> concretamente tanto più quest'ultimo si caratterizza esattamente come
> "lavoro": più esattamente, anzi, come lavoro salariato[^iii117].
Nel solco della linea "operaista" perseguita da Mario Tronti e dalla rivista
"Contropiano" su cui Tafuri scrive, tale tendenza non va tuttavia rifiutata
quanto piuttosto assecondata, portandola fino alle sue conseguenze ultime:
> Leggere nelle condizioni attuali del lavoro intellettuale una concreta
> tendenza verso un'omogeneizzazione materiale, che passa attraverso i processi
> di ristrutturazione sociale e produttiva capitalistici, significa riconoscere
> nella massificazione e nella mobilità dei ruoli, nella perdita dei privilegi
> tradizionali riservati al lavoro intellettuale, nel distacco -- che avviene
> già nella fase di preparazione scolastica e universitaria -- dai contenuti del
> proprio lavoro, nell'estraneità che finalmente anche l'intellettuale è
> *obbligato* a sperimentare nei confronti dell'organizzazione capitalistica del
> lavoro, alcune delle condizioni *positive* da cui ripartire, per elaborare un
> programma di attacco al piano complessivo.
E ancora, più oltre:
> Non crediamo alle ripetute invenzioni di nuovi *alleati* della classe operaia.
> Ma sarebbe suicida non riconoscere che sono le stesse linee dello sviluppo
> capitalista a ricomporre, ai propri fini, una forza lavoro tendenzialmente
> omogenea, che è possibile far funzionare sotto il segno degli interessi
> diretti della classe operaia. Rovesciare quello che è stato, per troppo tempo,
> il disegno capitalista, quello che vede come proprio fine *una classe operaia
> organizzata dal capitale*: questo è l'obiettivo da raggiungere ponendosi come
> compito la gestione operaia delle rivendicazioni soggettive dei nuovi strati
> di lavoro intellettuale salariato.
>
> Ma ciò non è possibile se non battendo ogni illusione reazionaria, ogni
> proposta tesa a restituire *dignità* professionale a quegli intellettuali
> "degradati". Mostrare in concreto la reazionarietà di ogni discorso che voglia
> offrire prospettive "alternative" al lavoro intellettuale, significa quindi
> riconoscere che solo *all'interno* del ruolo oggettivo imposto dal dominio
> dello sviluppo è la condizione per utilizzare la lotta dei ceti intellettuali
> assorbiti direttamente nella produzione, in un attacco complessivo al piano
> del capitale: il che significa, essenzialmente, estendere l'uso politico della
> lotta *sul* salario a strati sociali sempre più ampi[^iii118].
L'intellettuale impegnato nella costruzione di un radicale ripensamento della
società a partire dalle condizioni esistenti, ma al tempo stesso alla ricerca di
un orizzonte di senso *autonomo* per il proprio operare in quanto intellettuale,
non può dunque che porsi nella posizione che Tronti sintetizza nell'espressione
"dentro e contro": "*dentro* la società e *contro* di essa nello stesso
tempo"[^iii119].
Le vicende storiche occorse dopo i primi anni settanta nella società italiana,
cosí come in quelle di molti altri paesi occidentali industrializzati,
porteranno a evoluzioni del tutto distanti da quelle prefigurate, tra gli altri,
da Tronti, Fortini e Tafuri e -- per quanto riguarda il più specifico campo
dell'architettura -- da Aymonino e Rossi. Proprio quest'ultimo, forse più di
ogni altro, diverrà l'emblematico protagonista del brusco cambio di direzione
impresso al lavoro intellettuale nel corso di meno di un decennio: dalla ricerca
di un piano di lavoro condiviso come fondamento di un'alternativa alla realtà
capitalistico-borghese, alla conquista di una "scrittura" privata, individuale,
autobiografica. E non è probabilmente un caso che questo passaggio coincida con
la "scoperta" dell'America da parte di Rossi[^iii120].
A partire da quel momento l'attitudine a essere "dentro e contro" declinerà
vistosamente, fino a scomparire del tutto; una sparizione cui corrisponde
un'altrettanto lunga eclissi della figura dell'architetto come intellettuale. Le
ragioni di questa duplice sparizione (o forse sarebbe meglio dire "oscuramento")
solo apparentemente sono riconducibili *in toto* alle condizioni politiche e
sociali verificatesi in Italia e in buona parte del mondo dagli anni ottanta in
avanti. In realtà, proprio quelle condizioni costituiscono il compimento e la
conferma di quanto i migliori intellettuali dei decenni precedenti avevano
lucidamente preconizzato[^iii121]. Non deve quindi stupire che, con il crescente
imporsi di tali condizioni in tutte le società occidentalizzate, sottoposte agli
effetti sempre più penetranti di un capitalismo al tempo stesso planetariamente
esteso e minutamente pervasivo, siano tornate a emergere (specialmente in
Italia)[^iii122], a partire dal principio del nuovo millennio, riflessioni
filosofiche e politiche incentrate su temi su cui la cultura si era interrogata
nei decenni precedenti[^iii123]. E che a fronte del "tutto dentro" del sistema
globalizzato[^iii124], sia ritornata attuale la possibilità di porsi -- rispetto a
esso -- *dentro e contro*.
È alla luce di questa posizione che è forse possibile ripensare anche il ruolo
dell'architetto intellettuale, *oggi*.
[^iii1]: Su Brunelleschi vedi, tra gli altri, Piero Sanpaolesi, *Brunelleschi*,
Barbera, Firenze 1962; Frank D. Prager e Giustina Scaglia, *Brunelleschi.
Studies of His Technology and Inventions*, The MIT Press, Cambridge (Mass.)
1970; Eugenio Battisti, *Filippo Brunelleschi*, Electa, Milano 1976; Arnaldo
Bruschi, *Filippo Brunelleschi*, ivi 2006.
[^iii2]: Giulio Carlo Argan, *Brunelleschi*, Mondadori, Milano 1955, p. 44.
[^iii3]: Antonio Manetti, *Vita di Filippo Brunelleschi*, Edizioni Il Polifilo,
Milano 1976, pp. 44 e 88.
[^iii4]: Arendt, *Vita activa* cit., pp. 137 sgg.
[^iii5]: Manetti, *Vita di Filippo Brunelleschi* cit., pp. 96-97; Giorgio Vasari,
*Vita di Filippo Brunelleschi*, in *Le vite de' più eccellenti pittori, scultori
ed architetti*, Einaudi, Torino 1986, pp. 316-17; Cesare Guasti, *La Cupola di
Santa Maria del Fiore illustrata con i documenti dell'archivio dell'Opera
secolare*, Barbèra Bianchi, Firenze 1857, pp. 229-30.
[^iii6]: Manfredo Tafuri, *L'architettura dell'Umanesimo*, Laterza, Bari 1969, p.
19.
[^iii7]: Vasari, *Vita di Filippo Brunelleschi* cit., p. 324.
[^iii8]: Il *De re ædificatoria* di Leon Battista Alberti, scritto intorno alla
metà del XV secolo, verrà pubblicato per la prima volta nel 1485 in latino; vedi
*L'architettura*, a cura di Giovanni Orlandi, Edizioni Il Polifilo, Milano 1988.
[^iii9]: Alberto Giorgio Cassani, *La fatica del costruire. Tempo e materia nel
pensiero di Leon Battista Alberti*, Edizioni Unicopli, Milano 2000; Massimo
Bulgarelli, *Leon Battista Alberti 1404-1472. Architettura e storia*, Electa,
Milano 2008.
[^iii10]: Alberti, *L'architettura* cit., p. 6.
[^iii11]: Andrea Palladio, *I Quattro Libri dell'Architettura*, Domenico de'
Franceschi, Venezia 1570, vol. I, *Proemio ai lettori*, p. 6.
[^iii12]: *Ibid.*, vol. III, cap. V, p. 12.
[^iii13]: Vedi, tra gli altri, Rudolf Wittkower, *Palladio e il palladianesimo*,
Einaudi, Torino 1984.
[^iii14]: Sintomatico -- ma non certo unico -- il caso della Basilica di Vicenza:
"La pianta della Basilica riprodotta nei *Quattro Libri* è solo un'invenzione,
un singolare esempio di progetto ideale e irrealizzabile di un edificio già
costruito in altro modo: in essa Palladio elimina proprio quelle difficoltà da
cui era nato il proprio progetto e senza le quali il suo intervento non sarebbe
stato neppure richiesto": James Ackerman, *Palladio*, Einaudi, Torino 1972, p.
45.
[^iii15]: Su Piranesi, vedi John Wilton-Ely, *Giovanni Battista Piranesi
1720-1778*, Electa, Milano 2008.
[^iii16]: Pierluigi Panza, *Piranesi architetto*, Guerini Studio, Milano 1998, p.
35.
[^iii17]: Michel Foucault, *Microfisica del potere*, Einaudi, Torino 1977.
[^iii18]: La più nota è probabilmente la "Querelle des anciens et des modernes"
che, riprendendo la più nota disputa in campo letterario (vedi Marc Fumaroli,
*Le api e i ragni. La disputa degli Antichi e dei Moderni*, Adelphi, Milano
2005), oppone Claude Perrault e François Blondel: cfr. Hanno-Walter Kruft,
*Storia delle teorie architettoniche. Da Vitruvio al Settecento*, Laterza, Roma
1988, in particolare il cap. *La fondazione dell'Accademia di architettura e la
crisi del dogmatismo accademico*, pp. 159-76; Anthony Gerbino, *François
Blondel: Architecture, Erudition, and the Scientific Revolution*, Routledge,
Abingdon-on-Thames 2010.
[^iii19]: Tra i più celebri e influenti, l'*Essai sur l'architecture* (1753) di
Marc-Antoine Lau­gier e il *Saggio sopra l'architettura* (1757) di Francesco
Algarotti, basato sulle idee (sia pur criticate) di Carlo Lodoli, denominato il
"Socrate" dell'architettura per non aver lasciato tracce scritte della sua
teoria: vedi Andrea Memmo, *Elementi d'architettura lodoliana*, Pagliarini, Roma
1786.
[^iii20]: Étienne-Louis Boullée, *Architettura. Saggio sull'arte*, a cura di
Alberto Ferlenga, Einaudi, Torino 2005, p. 5.
[^iii21]: *Ibid.*, p. 3.
[^iii22]: Jean-Nicolas-Louis Durand, *Lezioni di architettura*, a cura di Ernesto
D'Alfonso, CLUP, Milano 1986.
[^iii23]: Tra questi vanno ricordati, tra gli altri, Charles Fourier, Robert Owen,
William Morris, Étienne Cabet, Jean-Baptiste Godin; sul tema vedi Françoise
Choay, *La città. Utopie e realtà*, Einaudi, Torino 1973.
[^iii24]: Tony Garnier, *Una città industriale*, a cura di Riccardo Mariani, Jaca
book, Milano 1990.
[^iii25]: Le Corbusier, *Urbanistica* (1925), Il Saggiatore, Milano 1967.
[^iii26]: Catherine de Smet, *Le Corbusier Architect of Books*, Lars Müller
Pub­lishers, Baden 2005.
[^iii27]: In particolare, vedi Le Corbusier, *Croisade ou le Crépuscole des
Académies*, Éditions Crés, Paris 1933.
[^iii28]: A tale azione si connettono strettamente da parte di Bruno Zevi la
fondazione nel 1944 dell'APAO (Associazione per l'Architettura Organica) e la
pubblicazione di *Verso un'architettura organica. Saggio sullo sviluppo del
pensiero architettonico negli ultimi cinquant'anni*, Einaudi, Torino 1945.
[^iii29]: Roberto Dulio, *Introduzione a Bruno Zevi*, Laterza, Roma-Bari 2008.
[^iii30]: Bruno Zevi, *Saper vedere l'architettura*, Einaudi, Torino 1948; Id.,
*Storia dell'architettura moderna*, ivi 1950; Id., *Poetica dell'architettura
neoplastica*, Tamburini, Milano 1953; Id., *Il linguaggio moderno
dell'architettura*, Einaudi, Torino 1973.
[^iii31]: Zevi, *Verso un'architettura organica* cit., p. 13.
[^iii32]: *Ibid.*, p. 150.
[^iii33]: *Ibid.*, p. 75.
[^iii34]: *Manuale dell'architetto*, a cura del Consiglio Nazionale delle Ricerche
(CNR) -- United States Information Service (USIS), Roma 1946.
[^iii35]: Manfredo Tafuri, *Teorie e storia dell'architettura*, Laterza, Bari 1968,
p. 161.
[^iii36]: Tafuri, *Teorie e storia dell'architettura* cit., p. 172.
[^iii37]: *Ibid.*, p. 176.
[^iii38]: *Ibid.*, p. 173.
[^iii39]: Bruno Zevi, *Introduzione: Attualità di Michelangiolo architetto*, in
*Michelangiolo architetto*, a cura di Paolo Portoghesi e Bruno Zevi, Einaudi,
Torino 1964, pp. 14-16. Vedi anche *Mostra critica delle opere
michelangiolesche*, catalogo della mostra, Roma -- Palazzo delle Esposizioni, De
Luca, Roma 1964.
[^iii40]: Tafuri, *Teorie e storia dell'architettura* cit., p. 126.
[^iii41]: Giorgio Ciucci, *Gli anni della formazione*, in "Casabella", n. 619-20,
1995, pp. 12-25.
[^iii42]: Giorgio Piccinato, Vieri Quilici e Manfredo Tafuri, *La città territorio.
Verso una nuova dimensione*, in "Casabella-Continuità", n. 270, 1962, pp. 6-16;
Enrico Fattinnanzi e Manfredo Tafuri, *Un'ipotesi per la città-territorio di
Roma*, in "Casabella-Continuità", n. 274, 1963, pp. 27-36.
[^iii43]: Luka Skansi, *Architettura come "oggetto trascurabile". Note a margine di
una discussione di Manfredo Tafuri su realismo e utopia*, in Alessandro De
Magistris e Aurora Scotti (a cura di), *Utopiae finis? Percorsi tra utopismi e
progetto*, Accademia University Press, Torino 2018, p. 219.
[^iii44]: Tafuri, *Teorie e storia dell'architettura* cit., p. 270.
[^iii45]: *Ibid.*, p. 266.
[^iii46]: *Ibid.*, pp. 266-67.
[^iii47]: *Ibid.*, p. 269.
[^iii48]: *Ibid.*, p. 270.
[^iii49]: *Ibid*.
[^iii50]: Su ciò vedi Marco Biraghi, *Progetto di crisi. Manfredo Tafuri e
l'architettura contemporanea*, Christian Marinotti Edizioni, Milano
2005. Vedi anche il fondamentale saggio di Manfredo Tafuri, *Il "progetto"
storico*, in "Casabella", n. 429, 1977, pp. 11-18 (poi come *Introduzione* a
Id., *La sfera e il labirinto* cit., pp. 3-30).
[^iii51]: Su Argan, vedi Claudio Gamba (a cura di), *Giulio Carlo Argan.
Intellettuale e storico dell'arte*, Electa, Milano 2012. La figura di Benevolo
attende invece ancora una adeguata storicizzazione.
[^iii52]: Jean-Louis Cohen, *La coupure entre architectes et intellectuels, ou les
enseignements de l'italophilie*, Mardaga, Bruxelles 2015.
[^iii53]: Cohen, *La coupure entre architectes et intellectuels* cit., p. 69.
[^iii54]: *Ibid.*, p. 100.
[^iii55]: *Ibid.*, p. 101.
[^iii56]: Per quanto riguarda i libri vedi Fiorella Vanini, *La libreria
dell'architetto. Progetti di collane editoriali 1945-1980*, Franco Angeli,
Milano 2012; per le riviste vedi Marco Mulazzani, *Le riviste di architettura.
Costruire con le parole*, in *Storia dell'architettura italiana. Il secondo
Novecento (1945-1996)*, a cura di Giorgio Ciucci e Giorgio Muratore, Electa,
Milano 1997, pp. 430-43.
[^iii57]: Sul MSA vedi Matilde Baffa, Corinna Morandi, Sara Protasoni e Augusto
Rossari, *Il Movimento di Studi per l'Architettura 1945-1961*, Laterza,
Roma-Bari 1995. Sull'ideologia "comunitaria" olivettiana esistono moltissimi
contributi, oltre ai libri dello stesso Olivetti; per una sua esposizione
sintetica ma approfondita vedi il capitolo *Aufklärung I. Adriano Olivetti e la
'communitas' dell'intelletto*, in Tafuri, *Storia dell'architettura italiana
1944-1985* cit., pp. 47-54.
[^iii58]: Renato Barilli, *La neoavanguardia italiana. Dalla nascita del "Verri"
alla fine di "Quindici"*, il Mulino, Bologna 1995; Andrea Cortellessa, *Volevamo
la Luna*, in *Quindici. Una rivista e il Sessantotto*, a cura di Nanni
Balestrini, Feltrinelli, Milano 2008, pp. 451-72.
[^iii59]: Cohen, *La coupure entre architectes et intellectuels* cit., p. 101. In
merito vedi anche Cina Conforto, Gabriele De Giorgi, Alessandra Muntoni e
Marcello Pazzaglini, *Il dibattito architettonico in Italia 1945-1975*, Bulzoni,
Roma 1977.
[^iii60]: Giuseppe Samonà, *L'urbanistica e l'avvenire delle città*, Laterza, Bari
1959. Dello stesso autore è essenziale pure *L'unità architettura-urbanistica.
Scritti e progetti 1929-1973*, a cura di Pasquale Lovero, Franco Angeli, Milano
1975. Su Samonà vedi Carlo Aymonino, Giorgio Ciucci, Francesco Dal Co e Manfredo
Tafuri, *Giuseppe Samonà 1923-1975. Cinquant'anni di architetture*, Officina,
Roma 1975.
[^iii61]: Ludovico Quaroni, *La Torre di Babele*, Marsilio, Padova 1967. Di Quaroni
vedi anche *Immagine di Roma*, Laterza, Bari 1969, e *Progettare un edificio.
Otto lezioni di architettura*, Mazzotta, Milano 1977. Su Quaroni vedi Manfredo
Tafuri, *Ludovico Quaroni e lo sviluppo dell'architettura moderna in Italia*,
Edizioni di Comunità, Milano 1964; Pippo Ciorra, *Ludovico Quaroni 1911-1987.
Opere e progetti*, Electa, Milano 1989.
[^iii62]: Ernesto Nathan Rogers, *Il problema del costruire nelle preesistenze
ambientali*, in "L'Architettura", n. 22, 1957 (ora in Id., *Esperienza
dell'architettura*, a cura di Luca Molinari, Skira, Milano 1997, pp. 286-91).
Alle tematiche delle preesistenze ambientali -- e più in generale al rapporto
architettura-città -- sono dedicati numerosi degli editoriali pubblicati da
Rogers su "Casabella", raccolti, oltreché in *Esperienza dell'architettura*, in
*Editoriali di architettura*, Einaudi, Torino 1968; ora a cura di Gabriella Lo
Ricco e Mario Viganò, Zandonai, Rovereto 2009.
[^iii63]: Vittorio Gregotti, *Il territorio dell'architettura*, Feltrinelli, Milano
1966.
[^iii64]: Carlo Aymonino, *Origini e sviluppo della città moderna*, Marsilio,
Padova 1965. Vedi inoltre Id., *Il significato della città*, Laterza, Bari 1975.
[^iii65]: Aldo Rossi, *L'architettura della città*, Marsilio, Padova
1966. Sul libro e le sue implicazioni vedi *Aldo Rossi, la storia di un libro.
L'architettura della città, dal 1966 ad oggi*, a cura di Fernanda De Maio,
Alberto Ferlenga e Patrizia Montini Zimolo, Il Poligrafo - IUAV, Padova-Venezia
2014.
[^iii66]: Vedi, ad esempio, *La città di Padova. Saggio di analisi urbana*, scritti
di Carlo Aymonino, Manlio Brusatin, Gianni Fabbri, Mauro Lena, Pasquale Lovero,
Sergio Lucianetti e Aldo Rossi, Officina, Roma 1970.
[^iii67]: Giovanni Marras e Marco Pogacnik (a cura di), *Giuseppe Samonà e la
Scuola di Architettura a Venezia*, Il Poligrafo, Padova 2006.
[^iii68]: Ludovico Quaroni, *La città fisica*, a cura di Antonino Terranova,
Laterza, Roma-Bari 1981.
[^iii69]: Tra loro va ricordato almeno Franco Purini, il cui contributo alla
definizione del profilo dell'architetto intellettuale italiano a partire dagli
anni sessanta -- attraverso la sua "opera di pensiero", che contempera
architettura, disegno e parola -- è fondamentale; tra gli altri suoi lavori,
vedi *Comporre l'architettura*, Laterza, Roma-Bari 2000; *La misura italiana
dell'architettura*, Laterza, Roma-Bari 2008.
[^iii70]: Su ciò vedi in particolar modo Tafuri, *Ludovico Quaroni e lo sviluppo
dell'architettura moderna in Italia* cit., pp. 13-14.
[^iii71]: Fra le tematiche più generali trattate vanno ricordate, tra le altre: i
Centri Direzionali Italiani (n. 264, 1962), Città e Regione (n. 270, 1962), i
Problemi di Roma (n. 279, 1963), il Piano Intercomunale Milanese (n. 282, 1963),
le Coste Italiane (nn. 283 e 284, 1964), il Fabbisogno del Verde in Italia (n.
286, 1964), i Problemi USA (n. 294-95, 1964-65).
[^iii72]: Vedi, tra l'altro, *Enzo Paci. Architettura e filosofia*, in "aut aut",
n. 333, 2007, numero dedicato al filosofo. Va ricordato che nel 1946, con Banfi,
Vittorini, Einaudi e altri, Rogers è membro fondatore della Casa della cultura
di Milano. Enzo Paci farà invece parte del comitato di redazione di
"Casabella-Continuità" a partire dal numero 215 del 1957.
[^iii73]: Ernesto N. Rogers, *Continuità*, in "Casabella-Continuità", n. 199,
1953-54, p. 2.
[^iii74]: In particolare Rogers si rifà all'uso che John Dewey (studiato in quel
periodo da Paci) ne fa in *Esperienza e educazione* (La Nuova Italia, Firenze
1949) e in *L'arte come esperienza* (ivi 1951). La prima raccolta degli
editoriali di Rogers si intitola *Esperienza dell'architettura*, Einaudi, Torino
1958.
[^iii75]: Ernesto N. Rogers, *Continuità o crisi?*, in "Casabella-Continuità", n.
215, 1957, p. 3.
[^iii76]: Enzo Paci, *Fenomenologia e architettura contemporanea*, in Id.,
*Relazioni e significati. Critica e dialettica*, Lampugnani Nigri, Milano 1966,
p. 175.
[^iii77]: Enzo Paci, *La crisi della cultura e la fenomenologia dell'architettura
contemporanea*, in "La Casa", n. 6, 1959, p. 356.
[^iii78]: Ernesto N. Rogers, *Il dramma dell'architetto* (1948), in Id.,
*Esperienza dell'architettura* cit., p. 221.
[^iii79]: *Ibid.*, p. 223.
[^iii80]: *Ibid.*, p. 225.
[^iii81]: Massimo Canzian, *Orizzonti del fare architettonico. Progetto Estetica
Teoria nel dibattito italiano del dopoguerra*, Guerini e Associati, Milano 1995,
nonché l'*Introduzione* di Massimo Cacciari, pp. 11-17.
[^iii82]: Oltre al citato *Il territorio dell'architettura*, vedi, tra i molti
altri, Vittorio Gregotti, *Dentro l'architettura*, Bollati Boringhieri, Torino
1991; Id., *Identità e crisi dell'architettura europea*, Einaudi, Torino 1999;
Id., *L'architettura del realismo critico*, Laterza, Bari 2004; Id.,
*L'architettura nell'epoca dell'incessante*, ivi 2006; Id., *Contro la fine
dell'architettura*, Einaudi, Torino 2008; Id., *Architettura e postmetropoli*,
ivi 2011; Id., *Il sublime al tempo del contemporaneo*, ivi 2013; Id., *I
racconti del progetto*, Skira, Milano 2018.
[^iii83]: Manfredo Tafuri, *Vittorio Gregotti. Progetti e architetture*, Electa,
Milano 1982; Guido Morpurgo (a cura di), *Il territorio dell'architettura.
Gregotti e Associati 1953-2017*, Skira, Milano 2017.
[^iii84]: Gramsci, *Quaderni del carcere* cit., vol. III, Quaderno 12 (XXIX), § 3,
p. 1551.
[^iii85]: Giovanni Durbiano, *I Nuovi Maestri. Architetti tra politica e cultura
nel dopoguerra*, Marsilio, Venezia 2000, pp. 55-98.
[^iii86]: Per quanto riguarda i corsi di Carlo Aymonino allo IUAV di Venezia, cui
collaborano, tra gli altri, anche Aldo Rossi, Costantino Dardi e Gianni Fabbri,
vedi *Aspetti e problemi della tipologia edilizia. Documenti del Corso di
caratteri distributivi degli edifici. Anno accademico 1963-1964*, Libreria
Cluva, Venezia 1964; *La formazione del concetto di tipologia edilizia. Atti del
Corso di caratteri distributivi degli edifici. Anno accademico 1964-1965*, ivi
1965; *Rapporti tra la tipologia edilizia e la morfologia urbana. Documenti del
Corso di caratteri distributivi degli edifi­ci. Anno accademico 1965-1966*, ivi
1966.
[^iii87]: Aldo Rossi, *Tipologia, manualistica e architettura*, in *Rapporti tra la
tipologia edilizia e la morfologia urbana* cit., p. 69.
[^iii88]: Aldo Rossi, *L'obiettivo della nostra ricerca*, in *L'analisi urbana e la
progettazione architettonica. Contributi al dibattito e al lavoro di gruppo
nell'anno accademico 1968-69. Gruppo di ricerca diretto da Aldo Rossi*, Clup,
Milano 1970, p. 13.
[^iii89]: Durbiano, *I Nuovi Maestri* cit., p. 62.
[^iii90]: Antonio Monestiroli, *L'architettura della realtà* (1979), Allemandi,
Torino 2004, p. 21.
[^iii91]: *Ibid.*, p. 22.
[^iii92]: Joan Ockman, *Venice and New York*, in "Casabella", n. 619-20, 1995, pp.
56-65; Ernesto Ramon Rispoli, *Ponti sull'Atlantico. L'Institute for
Architecture and Urban Studies e le relazioni Italia-America (1967-1985)*,
Quodlibet, Macerata 2012.
[^iii93]: Tafuri, *La sfera e il labirinto* cit., p. 323.
[^iii94]: D'altronde, la tendenza a unificare azione intellettuale e attività
politica sembra appartenere costitutivamente alla cultura italiana, che l'ha
ereditata da Benedetto Croce. Al proposito vedi Eugenio Garin, *Intellettuali
italiani del* *XX* *secolo*, Editori Riuniti, Roma 1996, in particolare il
capitolo *Benedetto Croce o della "separazione impossibile" tra politica e
cultura*, pp. 47-67.
[^iii95]: Peter Eisenman, *Inside Out. Scritti 1963-1988*, Quodlibet, Macerata
2014; Id., *Written into the Void. Selected Writings 1990-2004*, Yale University
Press, New Haven 2007.
[^iii96]: Rem Koolhaas, *Delirious New York* (1978), a cura di Marco Biraghi,
Electa, Milano 2001; Id., *Junkspace*, a cura di Gabriele Mastrigli, Quodlibet,
Macerata 2006; Id., *Singapore Songlines*, a cura di Manfredo di Robilant,
Quodlibet, Macerata 2010.
[^iii97]: Monestiroli, *L'architettura della realtà* cit., p. 29.
[^iii98]: Robert Venturi, *Complessità e contraddizioni nell'architettura*,
Edizioni Dedalo, Bari 1993; Robert Venturi, Denise Scott Brown e Steven Izenour,
*Imparare da Las Vegas. Il simbolismo dimenticato della forma architettonica*,
Quodlibet, Macerata 2010.
[^iii99]: Vedi, tra gli altri, Mirko Zardini (a cura di), *Paesaggi ibridi. Un
viaggio nella città contemporanea*, Skira, Milano 1996; Stefano Boeri, *I
detective dello spazio*, in "Il Sole -- 24 Ore", supplemento, 16 marzo 1997;
Id., *Atlanti eclettici*, in Multiplicity, *USE-Uncertain States of Europe --
Viaggio nell'Europa che cambia*, Skira, Milano 2003, pp. 425-45.
[^iii100]: Vedi http://oma.eu/office.
[^iii101]: Vedi, tra gli altri, AMO, *History of Europe and The European Union*,
Archis, rivista a unico numero, Amsterdam 2005; Rem Koolhaas, Ole Bouman e Mitra
Khoubrou (a cura di), *Al Manakh: Dubai Guide, Gulf Survey, Global Agenda*,
Archis, Amsterdam 2007; Todd Reisz (a cura di), *Al Manakh: Gulf Continued*, ivi
2010; *Roadmap 2050. A practical Guide to a Prosperous, Low-carbon Europe*, OMA,
Amsterdam 2010; vedi anche www.roadmap2050.eu/project/roadmap-2050.
[^iii102]: Vedi ad esempio MVRDV, *Farmax. Excursions on Density*, 010 Publishers,
Rotterdam 1998; Id., *KM3. Excursions on Capacity*, Actar, Barcelona 2005; BIG
-- Bjarke Ingels Group, *Yes Is More. An Archicomic on Architectural
Evo­lution*, Taschen, Köln 2009; Id., *Hot to Cold. An Odyssey of Architectural
Adaptation*, ivi 2015.
[^iii103]: Tafuri, *La sfera e il labirinto* cit., p. 349.
[^iii104]: Rimando a questo proposito a Marco Biraghi, *Eisenman o
dell'interpretazione*, in Pier Vittorio Aureli, Marco Biraghi e Franco Purini,
*Peter Eisenman. Tutte le opere*, Electa, Milano 2007, pp. 22-37.
[^iii105]: Per le conversazioni tra Eisenman e Derrida, e per i testi di
quest'ultimo su Eisenman, vedi Jacques Derrida, *Adesso l'architettura*, a cura
di Francesco Vitale, Libri Scheiwiller, Milano 2008, pp. 181-238; vedi anche *Un
matrimonio sfortunato. Derrida e l'architettura*, a cura di Peter Bojanić e
Damiano Cantone, in "aut aut", n. 368, 2015.
[^iii106]: K. Michael Hays (a cura di), *Oppositions Reader. Selected Readings from
a Journal for Ideas and Criticism in Architecture 1973-1984*, Princeton
Architec­tural Press, New York 1998.
[^iii107]: Rafael Moneo, *La solitudine degli edifici e altri scritti*, 2 voll., I.
*Questioni intorno all'architettura*; II. *Sugli architetti e il loro lavoro*, a
cura di Andrea Casiraghi e Daniele Vitale, Allemandi, Torino 1999-2004; Id.,
*Inquietudine teorica e strategia progettuale nell'opera di otto architetti
contemporanei*, Electa, Milano 2005.
[^iii108]: "Nelle sue disgregazioni e disgiunzioni, nella sua caratteristica
frammentazione e dissociazione, l'attuale situazione culturale suggerisce la
necessità di abbandonare le categorie di significato e le storie contestuali
stabilite. Varrebbe quindi la pena di rinunciare a qualunque nozione di
architettura postmoderna in favore di una architettura "postumanista", che
evidenzi non solo la dispersione del soggetto e della forza delle regole
sociali, ma anche l'effetto di questo decentramento sull'intera nozione di forma
architettonica unificata e coerente": Bernard Tschumi, *Disgiunzioni* (1987), in
Id., *Architettura e disgiunzione*, a cura di Ruben Baiocco e Giovanni Damiani,
Pendragon, Bologna 1996, p. 164.
[^iii109]: Su ciò vedi, ad esempio, Maurizio Lazzarato, *Immaterial Labor*, in
Paolo Virno e Michael Hardt (a cura di), *Radical Thought in Italy. A Potential
Politics*, University of Minnesota Press, Minneapolis 2006, pp. 132-46.
[^iii110]: Gianni Pettena (a cura di), *Radicals. Architettura e Design 1960-1975*,
La Biennale di Venezia -- Il Ventilabro, Firenze 1996; Andrea Branzi, *Modernità
debole e diffusa*, Skira, Milano 2006.
[^iii111]: Giorgio Grassi, *La costruzione logica dell'architettura*, Marsilio,
Venezia 1967. Per una rilettura "aggiornata" di Rossi e di Grassi, vedi baukuh,
*Due saggi sull'architettura*, Sagep editori, Genova 2012.
[^iii112]: Daniele Balicco, *Non parlo a tutti. Franco Fortini intellettuale
politico*, Manifestolibri, Roma 2006, p. 43.
[^iii113]: Franco Fortini, *Verifica dei poteri* (1960), in Id., *Verifica dei
poteri*, Garzanti, Milano 1974, pp. 54-55.
[^iii114]: Rimando a Benjamin, *L'autore come produttore* cit., p. 201.
[^iii115]: Franco Fortini, *Astuti come colombe* (1962), in Id., *Verifica dei
poteri* cit., pp. 66-87.
[^iii116]: Mario Tronti, *La fabbrica e la società*, in "Quaderni Rossi", n. 2,
1962, p. 21.
[^iii117]: Tafuri, *Lavoro intellettuale e sviluppo capitalistico* cit., pp.
241-81, a p. 280.
[^iii118]: *Ibid.*, p. 281.
[^iii119]: Mario Tronti, *Operai e capitale*, Einaudi, Torino 1966, p. 14.
[^iii120]: Oltre al forte incremento nella produzione di quadri e di disegni
rossiani in corrispondenza dei suoi viaggi negli Stati Uniti e sotto la spinta
del mercato americano, nella seconda metà degli anni settanta, va ricordato che
la prima edizione dell'*Autobiografia scientifica* è stata pubblicata proprio
negli Stati Uniti: Aldo Rossi, *Scientific Autobiography*, The MIT Press,
Cambridge (Mass.) 1981.
[^iii121]: Su tutti va ricordato ancora il fondamentale Debord, *La società dello
spettacolo* cit.
[^iii122]: Roberto Esposito, *Pensiero vivente. Origine e attualità della filosofia
italiana*, Einaudi, Torino 2010; Dario Gentili, *Italian Theory. Dall'operaismo
alla biopolitica*, il Mulino, Bologna 2012; Dario Gentili e Elettra Stimilli (a
cura di), *Differenze italiane*, DeriveApprodi, Roma 2015.
[^iii123]: Vedi ad esempio Paolo Virno, *Grammatica della moltitudine. Per una
analisi delle forme di vita contemporanee*, DeriveApprodi, Roma 2009; Mario
Tronti, *Noi operaisti*, DeriveApprodi, Roma
2009. Un'interessante incursione nel territorio disciplinare è rappresentato da
Marco Assennato, *Linee di fuga. Architettura, teoria, politica*, :duepunti
edizioni, Palermo 2011.
[^iii124]: Michael Hardt e Antonio Negri, *Impero. Il nuovo ordine della
globalizzazione*, Rizzoli, Milano 2002.
## Le strategie del distacco
> The education of a great intellectual often includes at the moment of its
> beginnings not only the seeds of that person's future development, but also
> the final result[^iv1].
È sulla scia di questi tentativi che un architetto come Pier Vittorio Aureli ha
ripreso le fila del discorso avviato ormai cinquant'anni fa da alcuni degli
autori citati più sopra -- "*dentro* la società e *contro* di essa nello stesso
tempo" -- con l'evidente intento di analizzarlo non tanto o soltanto da un punto
di vista storico, quanto piuttosto in un'ottica odierna, e di applicarlo
all'ambito dell'architettura e della città. Nel farlo, Aureli riporta
l'attenzione del dibattito architettonico sul languente fronte della teoria,
rendendo quest'ultima il proprio piano *operativo*. E qui bisogna subito fare
attenzione: non si tratta infatti né di una teoria fine a se stessa, chiusa nel
proprio universo autoreferenziale, né di una teoria dipendente dalla sua
attuazione, dal suo tradursi in "pratica". Tra il piano della teoria e quello
del progetto vi è un'incessante dialettica, in cui entrambe cooperano per il
raggiungimento di un unico fine. Che non è in ogni caso quello della
"realizzazione". Come si vedrà meglio in seguito, l'operatività del progetto si
dispone per Aureli su un terreno programmaticamente diverso da quello della
realtà, almeno in una prima fase del suo lavoro: una rinuncia a vederne i frutti
concreti, o meglio piuttosto una sua "sottrazione" all'assoggettamento alle
dinamiche del mercato che gli consente di sviluppare il progetto nella pienezza
della sue capacità dimostrative, senza obbligarlo a scendere a compromessi.
Fin dalla sua formazione, compiuta tra lo IUAV di Venezia e il Berlage Institute
di Rotterdam[^iv2], Aureli dimostra il proprio grado di consapevolezza nei
confronti dei limiti e delle difficoltà che si trova a dover affrontare un
giovane architetto al cospetto di un panorama contemporaneo di certo non
rassicurante da un punto di vista lavorativo. La sua scelta di lasciare l'Italia
per completare i propri studi all'estero, in questo senso, rappresenta
l'espressione di una chiarezza di idee, di un *progetto* che inizia fin da
allora a delinearsi. La stessa che gli farà raggiungere, nel giro di pochi anni,
prestigiose posizioni di insegnamento: tra le altre, alla Columbia University di
New York, alla Yale School of Architecture di New Haven e all'Architectural
Association School di Londra.
Una chiarezza confermata anche dall'ampiezza di vedute con cui s'accosta alle
tematiche architettoniche. I suoi interessi si appuntano dapprima sullo studio
dei principî insediativi urbani, poi sul concetto di "città arcipelago", quindi
sul tentativo di definizione di un'architettura *assoluta*[^iv3]. Fin da subito,
l'architettura è concepita non come una disciplina separata bensì come un
crocevia dove si incontrano questioni sociali, politiche, storiche ed estetiche.
Ma soprattutto, prima ancora che nell'affermazione di un'architettura specifica,
vale a dire nell'elaborazione di una *propria* architettura, l'impegno di Aureli
va in direzione della comprensione delle condizioni di *pensabilità*
dell'architettura in generale nel contesto della città esistente. E ciò
nondimeno, nessun approccio generico all'architettura, nessun suo inquadramento
all'interno di una "mitica" interezza e astoricità. Al contrario,
nell'accostarsi a una sua formulazione teorica, Aureli ne compie un ripensamento
analitico che si muove lungo i solchi della storia. Raccogliendo la lezione
impartita da Manfredo Tafuri nei suoi corsi universitari allo IUAV e nei suoi
libri, Aureli rilegge i momenti e le opere della storia dell'architettura (e non
solo), dei quali si avvale con un atteggiamento che non ha nulla di vuotamente
ostensivo, e neppure di semplicemente confermativo delle interpretazioni
correnti. Pur non essendo la storia il suo campo d'azione, Aureli fa propria la
concezione storica tafuriana (e benjaminiana) di un passato mai definitivamente
passato, mai "dato per giudicato" una volta per tutte, bensì piuttosto
assimilabile a un campo di forze le cui potenzialità sono riattivabili e in
grado di trasformare ("inquietare", diceva Tafuri)[^iv4] il presente.
Ma vi è un altro elemento che Aureli sembra desumere dagli insegnamenti
tafuriani: la necessità di una distanza critica. "La distanza è fondamentale per
la storia"[^iv5]: è essa che aiuta a non cadere vittime dell'immedesimazione e
delle altre deformazioni derivanti dall'assenza di "mediazioni". Nel caso di
Aureli non si tratta evidentemente di una distanza da mantenere o da applicare
in senso storico: è invece il tempo presente quello con il quale -- nella misura
del possibile -- evitare d'immedesimarsi, e rispetto al quale dunque cercare di
interporre un "filtro", una forma di "mediazione". Si legga nuovamente Tafuri:
> Lo storico che prende in esame un lavoro contemporaneo deve creare una
> distanza *artificiale*. (...) Il modo che abbiamo di distanziarci dalla nostra
> epoca, e di darci cosí una prospettiva, è quello di confrontare le differenze
> che essa presenta con il passato.
Rispetto all'apparentemente inevitabile immediatezza del tempo presente Aureli
prova a adottare delle forme di *distacco*[^iv6]. Come si vedrà, nulla che abbia a
che fare con un disinteresse, un disimpegno o un'estraneazione, e ancor meno con
una illusoria mancanza di inerenza alle condizioni presenti, con una velleitaria
"libertà" dai condizionamenti. La dimensione in cui si colloca il distacco di
Aureli -- ben lungi dall'immaginare alcuna possibile "neutralità" o "alterità"
rispetto alle condizioni presenti -- è quella stessa del "problematico" in cui
si colloca il "progetto" storico tafuriano[^iv7]. E non è forse un caso che sia
altrettanto in una prospettiva progettuale -- oltreché teorica -- che Aureli
cerchi di declinare il proprio distacco. Anzi, è proprio in nome di un distacco
che in lui trovano un punto di unificazione attività teorica e attività
progettuale, quest'ultima svolta nell'ambito dello studio Dogma ("L'architettura
è come un dogma, una deliberata decisione sull'indecidibile, una dottrina senza
prova")[^iv8], fondato nel 2002 insieme a Martino Tattara; uno studio che elegge
programmaticamente a propria sede Bruxelles, in quanto città "baricentrica" in
Europa, oltreché sua capitale[^iv9]. È proprio questo impegno progettuale a
rendere ancora più significativo lo sforzo di praticare un distacco; cosí come
pure, per converso, è soltanto a contatto con un'attività operativa che tale
distacco acquisisce pienamente il suo senso.
L'attenzione di Dogma si è appuntata -- in special modo nella fase iniziale
della sua attività -- su progetti a grande scala, culminati con *Stop City*
(2007)[^iv10], proposta per un modello urbano teorico, e con *A Simple Heart*
(2011)[^iv11], studio urbano sull'area metropolitana del nord-ovest dell'Europa.
L'aspetto letteralmente sorprendente del primo progetto -- e tanto più al
momento della sua pubblicazione -- consiste nel modo apparentemente lieve con
cui *Stop City* torna a ragionare su ciò che l'architettura deve avere *in
comune* per essere considerata parte costituente della città. Dopo decenni di
architettura che si è limitata semplicemente a imporre la propria individualità
alla città, o che -- in alternativa -- ha tentato disperatamente di ridarle
un'identità ormai perduta, *Stop City* ha il coraggio (o la sfrontatezza)
d'impostare la questione dell'architettura sul piano della città, anziché di
risolvere la questione della città sul piano dell'architettura. Lo fa assumendo
gli effetti sociali della città contemporanea (sradicamento, genericità) come
propri "attributi politici (...) ovvero come la forma stessa del "contropiano"
dentro e contro la città post-fordista"[^iv12].
*A Simple Heart* prende invece esplicitamente spunto dalle riflessioni sugli
effetti della società post-fordista condotte da Paolo Virno e Giorgio
Agamben[^iv13]. Nel corpo vivo di città come Amsterdam, Bruxelles, Düsseldorf,
Dogma innesta un'enorme cornice quadrata di 800 × 800 m e alta 20 piani che ha
lo scopo di "inquadrare" le condizioni urbane vigenti (ovvero la trasformazione
della città contemporanea in una "fabbrica sociale" basata sul lavoro vivo, e
dunque sui rapporti che si istituiscono al suo interno tra i lavoratori),
facendone al tempo stesso il dispositivo che rende esplicite tali condizioni.
Una radicalizzazione della situazione esistente, piuttosto che un tentativo di
modificarla, che non si mantiene però indifferente nei suoi confronti. Ed è
interessante che Dogma evochi (come peraltro già fatto a proposito di *Stop
City*) il concetto di *kathecon* (letteralmente, "ciò che trattiene") desunto
dal contesto teologico-politico e qui reinterpretato come una forza oscillante
tra due polarità opposte che non si oppone al compimento di un processo ma che
lo frena aderendo a esso, "proprio come il concavo aderisce (cosí definendolo)
al convesso"[^iv14].
In maniera tanto chiara da risultare programmatica, in questi progetti non c'è
né utopia né ironia: lungi dall'essere ipotesi di vita alternative a quella
corrente sulla base di differenti presupposti sociali o architettonici, o
dall'essere invece esasperazioni caricaturali delle forme di vita metropolitana
attuale, essi costituiscono riflessioni per parole e immagini sul rapporto tra
architettura e città, ovvero sulla possibilità che l'architettura torni ad avere
senso e ruolo nella costruzione della città, e non la città a rappresentare il
luogo di mera accumulazione dell'architettura. Nel fare ciò Aureli e Tattara
evitano accuratamente di caricare l'architettura da loro proposta di qualsiasi
"valore": nessuna ridondanza estetica, nessuna articolazione morfologica, al di
fuori dell'ossessiva ripetizione di forme elementari e perentorie; e
soprattutto, nessun riguardo per le circostanze effettive del progetto, nessuna
analisi strutturale o distributiva, quasi nessun dettaglio. Nella misura del
possibile, un'*astensione* dall'atto progettuale, o forse -- ancor meglio --
un'*astrazione* da esso (nel senso in cui si usa l'espressione "fare astrazione
da qualcosa", intendendo cosí di prescindervi); astensione o astrazione che vale
però al tempo stesso come precisa indicazione del problema: il quale -- con
sempre maggiore frequenza e insistenza negli ultimi decenni -- può essere
identificato nella tendenza a ridurre l'architettura a "oggetto" funzionale
esclusivamente alla creazione -- o al consolidamento -- di un consenso intorno a
operazioni di natura essenzialmente finanziaria; un oggetto la cui
inconfondibile "maschera" assume di sovente le fattezze di un'iconicità del
tutto autoreferenziale.
Da questo punto di vista, la rinuncia a una forma "identitaria" a favore di una
forma "generica" ("un'architettura senza qualità, (...) liberata dall'immagine,
dallo stile, dall'obbligo della stravaganza, dall'inutile invenzione di nuove
forme")[^iv15], assume per Dogma il valore di una presa di posizione che non ha
nulla a che fare con l'estetica: piuttosto, l'esortazione a recuperare
all'architettura una dimensione urbana, tornando a farne l'elemento di
definizione della *forma* della città.
Non a caso i due autori, a proposito di *Stop City*, parlano di "architettura
non-figurativa", esattamente come faceva Archizoom a proposito di *No-Stop City*
(1970-71)[^iv16]: non un'architettura priva di forma, o di "figura", dunque,
quanto piuttosto di "figuratività", ossia di un'immagine convenzionalmente
riconoscibile; in altri termini, si potrebbe dire, un'architettura
non-rappresentativa, non-oggettiva, proprio come lo è l'arte astratta, che è
priva di relazioni con le apparenze del mondo sensibile; ovvero, nel caso
dell'architettura -- in quanto arte non mimetica -- con le apparenze del mondo
architettonico.
In questo duplice principio di "astrazione" è contenuto, sia pure sotto forma
differente, il medesimo atteggiamento di distacco che -- come detto --
caratterizza la ricerca teorica di Aureli: anzi, si può dire che ne sia la
precisa controparte "operativa". In entrambi i casi la "presa-di-distanza" che
implicano equivale a una presa di coscienza dei presupposti che sono loro
sottesi. Detto altrimenti, per Aureli non vi può essere progetto -- teorico cosí
come architettonico -- che non soltanto non analizzi nel modo quanto più
obiettivo possibile i processi sui quali esso ineluttabilmente si radica, ma che
non rifletta al tempo stesso sulla propria condizione di necessario
distacco/presa-di-distanza da essi. Infatti, un progetto che aderisse
immediatamente (senza alcuna mediazione, ovvero senza alcuna *meditazione*) ai
processi, insomma un progetto che non si ponesse in una posizione critica
(letteralmente: di messa in crisi) nei confronti dei loro fondamenti, sarebbe un
progetto non soltanto radicato in essi ma interamente determinato,
*condizionato* da essi.
A partire da questo punto si sviluppa la riflessione teorica di Aureli:
affrontando anzitutto la questione dell'autonomia come prima forma di distacco.
Nel primo libro da lui pubblicato, *The Project of Autonomy* (2008), il tema è
sviluppato, non a caso, comprendendo in un unico abbraccio politica e
architettura "Within and Against Capitalism"[^iv17]. L'autonomia, di questa
simultanea e contraddittoria condizione, è l'incarnazione più esatta: al tempo
stesso immersa dentro i processi, e tuttavia separata da essi. In quanto dotata
di un suo proprio *nomos*, di una norma regolativa sua propria, l'autonomia
garantisce il mantenimento di un'indipendenza, anzi, in una certa misura è la
forma stessa dell'indipendenza, *dentro e contro*.
Oggetto di *The Project of Autonomy* sono le modalità secondo cui si sono andate
determinando posizioni o affermazioni di "autonomia", in ambito politico e
architettonico, intorno agli anni sessanta e settanta. La simultaneità di tali
fenomeni non riveste un ruolo secondario nell'economia dell'analisi aureliana ma
l'aspetto primario è rappresentato dalle ragioni che hanno portato a fare
dell'autonomia uno strumento -- o in certi casi addirittura un'"arma" -- di
lotta, essenziale all'interno di un ben preciso momento storico.
Per quanto riguarda l'ambito politico, la pratica dell'autonomia è strettamente
conseguente al tentativo di gruppi di intellettuali -- e, in misura
proporzionalmente assai minore, di lavoratori e studenti -- di conferire nuovo
rigore e vigore alla lotta di classe, in un momento politicamente delicato qual
è stato quello attraversato dall'Italia tra la fine degli anni cinquanta e i
primi sessanta, incertamente teso tra boom economico e apertura di un lungo
ciclo di crisi. I luoghi in cui tale dibattito si sviluppa sono in special modo
le riviste dell'operaismo "classico": in primo luogo "Quaderni Rossi", nata
all'inizio degli anni sessanta e segnata nella sua breve vita dalla precoce
scomparsa del suo fondatore e direttore, Raniero Panzieri[^iv18]; quindi "Classe
operaia", uscita a partire dal gennaio 1964, in seguito alla scissione da
"Quaderni Rossi" da parte di Mario Tronti, cui si affiancano Alberto Asor Rosa,
Sergio Bologna, Massimo Cacciari, Rita Di Leo e Antonio Negri; infine
"Contropiano", diretta (come già detto) da Asor Rosa e Cacciari tra il 1968 e il
1971.
In questo frangente storico-politico, l'autonomia si presenta innanzitutto come
tattica presa di distanza dalle organizzazioni ufficiali del movimento operaio:
il Partito comunista italiano e i sindacati, sopra tutti gli altri. Facendo
proprio "il punto di vista operaio"[^iv19], gli operaisti (cui si è già fatto
cenno nel capitolo precedente) intendevano prendere e dare coscienza della
condizione di sfruttamento della forza lavoro all'interno del sistema
capitalistico, non limitata però soltanto alla classe operaia ma estesa anche
alla borghesia e allo stesso lavoro intellettuale. Al fine di raggiungere tale
obiettivo, se la riappropriazione dei processi produttivi da parte dei
lavoratori -- in termini di auto-organizzazione della cooperazione del lavoro e
di controllo operaio dell'uso delle macchine[^iv20] -- inquadra ancora i rapporti
tra capitale e forza lavoro entro il recinto chiuso della fabbrica, la
"strategia del rifiuto"[^iv21] del lavoro -- e dunque l'*autonomia* rispetto a
esso -- estende la lotta alla dimensione sociale e *totale* che è propria del
capitalismo compiuto, e al tempo stesso vale come strumento di riconoscimento da
parte della forza lavoro della propria vera natura. È la separazione della
classe lavoratrice (non della sola classe operaia) dal lavoro, e quindi dal
capitale. Ovvero, come afferma Tronti, "è la separazione della forza politica
dalla categoria economica"[^iv22]. E non è un caso che, nel processo di estensione
delle dinamiche originariamente interne alla fabbrica all'intera società, si
passi dall'*autonomia operaia* (intesa tanto come esito di tale separazione
quanto come vero e proprio movimento politico sorto dalle ceneri dell'operaismo)
all'*autonomia del politico*[^iv23], elaborata dallo stesso Tronti "come
possibilità di concepire la storia della classe operaia (e dunque del Capitale)
non solo dal punto di vista dell'economia politica, ma anche da quello della
politica *tout court*"[^iv24].
A tale piano di applicazione del concetto e della pratica dell'autonomia
corrispondono secondo Aureli altri piani, non tutti direttamente collegati
all'ambito politico, e ciò nondimeno in un modo o nell'altro a esso
relazionabili. In tal senso in *The Project of Autonomy* egli riconsidera il
modo in cui il progetto dell'autonomia ha preso forma all'interno del dibattito
sull'architettura e sulla città negli anni sessanta e settanta attraverso il
lavoro teorico di Manfredo Tafuri, Aldo Rossi e Archizoom.
> Per quanto radicalmente differenti, le posizioni di queste tre figure centrali
> dell'architettura italiana degli ultimi cinquant'anni hanno condiviso alcuni
> punti essenziali spesso dimenticati nelle trattazioni storiche che hanno
> affrontato il loro lavoro. Tra i punti che intendo mettere in evidenza c'è
> soprattutto la critica alla *professionalizzazione* dell'architettura e al suo
> ruolo politicamente e culturalmente passivo nei confronti delle dinamiche
> urbane che allora segnavano l'impetuoso sviluppo economico italiano ed
> europeo. Inoltre, in modi assai diversi e arrivando a conclusioni opposte tra
> loro, le teorie di Rossi, Tafuri e Archizoom misero in discussione, in modi
> più o meno espliciti, l'orizzonte riformista delle politiche urbane del
> welfare-state, nonché i miti tecnocratici della "programmazione economica" e
> della città-territorio[^iv25].
In modo particolare, il contributo di Tafuri a un "progetto dell'autonomia" può
essere fatto risalire al periodo in cui "Contropiano" s'impegna in una vasta e
approfondita analisi critica dei riflessi dello sviluppo capitalistico su
diversi contesti e settori sociali, inserita all'interno di una prospettiva di
classe[^iv26]. In questo quadro s'inscrive il lungo saggio tafuriano *Per una
critica dell'ideologia architettonica* (1969). "Critica dell'ideologia", in
questo contesto, significa disvelamento dei meccanismi di assimilazione
dell'architettura e della città alle leggi della produzione capitalistica, ma
anche -- e soprattutto -- critica dell'"architetto moderno *progressista*,
ovvero colui che in buona fede credeva fosse possibile riformare la città
capitalista senza fare i conti fino in fondo con le condizioni in cui essa
stessa viene prodotta"[^iv27]. Alla constatazione che "la cultura architettonica
ha funzionato consapevolmente o inconsapevolmente come forma di sublimazione
delle sempre più pressanti contraddizioni dello sviluppo urbano"[^iv28], si
accompagna dunque per Tafuri la presa di coscienza della necessità di rendere la
ricerca storica "autonoma dai condizionamenti ideologici della professione,
soprattutto da quella politicamente "impegnata""[^iv29].
Non a caso, in *Per una critica dell'ideologia architettonica* (e poi nel
successivo *Progetto e utopia* che ne costituisce l'evoluzione in volume),
Tafuri riserva una particolare attenzione alla figura e all'opera di Ludwig
Hilberseimer, fino a quel momento marginalizzate dalla storiografia
architettonica. È in esse infatti che egli scorge il superamento delle
"illusioni" legate alla produzione di edifici come "oggetti" isolati e il
riconoscimento della città quale "unità reale del ciclo di produzione"[^iv30]: a
fronte della quale, per Hilberseimer, "unico compito adeguato per l'architetto è
quello dell'*organizzatore* di quel ciclo". Alla luce di ciò, "autonomia" giunge
a significare capacità di affrontare radicalmente le condizioni in cui il
capitalismo produce se stesso, senza pensare di poterle eludere.
Differente la concezione dell'autonomia per Aldo Rossi. Nel 1966, con
*L'architettura della città*, egli propone "una teoria della città dal punto di
vista dell'architettura"[^iv31], secondo l'interpretazione di Aureli. Non si
tratta di una semplice rivendicazione disciplinare, quanto piuttosto del
tentativo di rileggere la realtà della città attraverso un'"evidenza" storica
apparentemente venuta meno agli occhi dei suoi contemporanei: l'evidenza dei
"fatti urbani" come insieme di oggetti concreti, finiti, definiti, costituiti in
ultima analisi di "materia" architettonica. Detto con le parole di Rossi: "...
l'architettura non rappresenta che un aspetto di una realtà più complessa, di
una particolare struttura, ma nel contempo, essendo il dato ultimo verificabile
di questa realtà, essa costituisce il punto di vista più concreto con cui
affrontare il problema"[^iv32] della città. Da ciò discende un modo di intendere
l'autonomia dell'architettura che Ezio Bonfanti, primo esegeta di Rossi,
interpreterà correttamente non come "libertà dell'architettura" bensì come
libertà *per* l'architettura, ovvero come "liberazione della città
all'architettura"[^iv33].
Il progetto dell'autonomia rossiano, in questo senso, va considerato un progetto
*politico*, che prende posizione, e perciò niente affatto neutrale; un progetto
in cui decisione politica e forma urbana dovrebbero coincidere, in cui
l'architettura dovrebbe entrare "come *parte* contro il *tutto* organico della
città". Una "città fatta di *luoghi*, di fatti singolarmente individuati dentro
il piano continuo dell'urbanizzazione"[^iv34]. Il concetto di luogo assume un
ruolo determinante nella teoria rossiana della città proprio in virtú del suo
carattere "discretizzante": il luogo si distingue sempre per la propria
finitezza e parzialità, e in quanto portatore di *differenze*. Per Rossi il
luogo -- il *locus* -- è il prodotto del rapporto esistente "tra una certa
situazione locale e le costruzioni che stanno in quel luogo"[^iv35]. Tale rapporto
-- definito da Rossi "singolare eppure universale" -- ha a che vedere con la
memoria collettiva tanto quanto, per altri versi, ha a che vedere con il
monumento. Ed è in questa chiave che Aureli rilegge il progetto *Locomotiva 2*
di Rossi, Polesello e Luca Meda per il Centro direzionale di Torino (1962): un
grande edificio a corte (una forma chiusa, emblematicamente contrapposta alle
forme aperte cui si ispiravano le megastrutture e i progetti legati alla "grande
dimensione" e alla "città-territorio" elaborati in quel periodo)[^iv36] che si
impone all'interno della città per la sua natura di monumento, associato non a
caso alla Mole Antonelliana e al Lingotto di Giacomo Mattè-Trucco.
> Il colossale edificio sospeso su una grande piazza non solo concentrava
> l'intero programma in una forma chiusa che non avrebbe permesso la sua
> eventuale espansione, ma, attraverso le sue dimensioni e la sua forma cosí
> singolarmente individuata, rendeva esplicita la posizione e il significato del
> nuovo centro direzionale della città[^iv37].
Per quanto non immune da nostalgie "neoclassiciste" o da tentazioni
"totalitarie", il progetto *Locomotiva 2* è la dimostrazione del modo in cui,
secondo Rossi, l'architettura avrebbe potuto farsi al tempo stesso luogo e
monumento, tornando cosí ad assumere il valore di architettura *della* città,
capace di esprimere la propria positiva autonomia[^iv38].
Nel caso del gruppo fiorentino Archizoom, infine, la questione dell'autonomia
dell'architettura si mescola esplicitamente alla riflessione sull'autonomia
politica elaborata nel corso degli anni sessanta e settanta dal pensiero
operaista, che essi provano a tradurre in una proposta progettuale, sia pur
estrema. Il presupposto da cui muove Archizoom è che "la città moderna "nasce
nel Capitale" e si sviluppa all'interno della sua logica"[^iv39]. Pertanto i
progetti del gruppo mostrano un'"adesione totale ed enfatica alle condizioni
esistenti della città capitalista nella quale l'architettura non doveva
riformare, bensì radicalizzare le condizioni esistenti"[^iv40]. Si tratta in una
certa misura di un'attitudine *realista*, nel senso in cui lo è -- nota Aureli
-- la pop art che gli stessi membri di Archizoom riprendono esplicitamente,
soprattutto nei loro primi progetti: "Per Archizoom la pop art rappresentava
l'emergere di una cultura estetica distruttiva dentro e contro l'estetica
borghese". Ed è proprio un "realismo pop", ossessivamente ripetitivo, di stampo
warholiano (in nulla imparentato, dunque, con il *neo*-realismo prevalente in
Italia nel corso del ventennio precedente) quello che Archizoom utilizza per
caratterizzare il Piano abitativo continuo e i Residential Parkings della
*No-Stop City*:
> L'estensione infinita dei "parcheggi residenziali" rappresentava il compimento
> estremo dello sviluppo capitalista e, al tempo stesso, il momento in cui lo
> sviluppo -- con la sua sovrabbondanza di merci e di conoscenza connessa ai
> processi di produzione -- avrebbe messo in crisi proprio la dipendenza dal
> lavoro salariato e dal suo apparato sociale e politico. Per questo la *No-Stop
> City* era proposta da Archizoom come l'antitesi dell'edilizia sociale che,
> dietro la facciata benevola dell'assistenza sociale, manteneva un regime di
> scarsità calcolata, strumentale a preservare la necessità del lavoro. La
> *No-Stop City* avrebbe dovuto essere intesa non come un'utopia ma come un
> esperimento nel quale tendenze già in atto venivano portate alle estreme
> conseguenze per verificarne gli effetti politici. La *No-Stop City* era dunque
> un progetto *propositivo* solo nella misura in cui rendeva intelligibili le
> condizioni stesse della città capitalista[^iv41].
La riproduzione infinita delle residenze assimilate a "parcheggi", cosí come
quella degli altri spazi che compongono la *No-Stop City*, direttamente desunti
dai modelli per eccellenza della società capitalista -- la fabbrica e il
supermarket --, nel costituirne l'apparente affermazione, significa in realtà
per Archizoom liberare la città dall'architettura (ovvero l'esatto contrario di
quanto affermato da Bonfanti, citato in precedenza). Liberarsi dell'architettura
equivale a rifiutarne ogni valore simbolico-rappresentativo, riportandola
esclusivamente ai meccanismi della sua produzione; ciò che comporta far evolvere
la città capitalista fino alle sue conseguenze ultime. "Solo in questo modo --
afferma Archizoom -- possiamo interrompere la continuità del sistema produttivo
e l'insieme dei suoi collegamenti"[^iv42]. Al massimo di integrazione (vale a dire
di alienazione) sarebbe dunque corrisposto il massimo di possibilità di libertà.
Di non minore importanza, agli occhi di Aureli -- e in realtà strettamente
connesso alle questioni precedenti -- è il fatto che Archizoom, come per altri
versi Tafuri,
> ... aprirono per l'architettura lo spazio di una critica irriducibile, ovvero
> di un'autonomia della critica dall'ideologia della città che, (...) nel caso
> di Archizoom, divenne autonomia del progetto dalla sua realizzazione
> costruita[^iv43].
Ed è proprio nella "validità in sé del progetto come *teoria*"[^iv44] che per
Aureli pare racchiudersi il senso più profondo del progetto dell'autonomia:
l'autonomia stessa della teoria. Nelle pagine finali di *The Project of
Autonomy*, Aureli si pone -- e pone al lettore -- una domanda: "Perché tornare a
considerare *il progetto dell'autonomia*?"[^iv45]. La domanda apre ad alcune
considerazioni che (retrospettivamente) cercano di porre la lettura del libro in
una corretta prospettiva. Innanzitutto, spiega Aureli, il libro non va letto in
chiave post-moderna, come celebrazione della post-politica che ha trionfato a
partire dalla fine degli anni settanta. Nel prendere le distanze da questa
possibile interpretazione, egli dichiara la propria affinità con le figure
trattate nel libro e la propria adesione alle posizioni da loro sostenute. Tale
"presa di partito" sposta completamente il significato di *The Project of
Autonomy*, che altrimenti potrebbe essere letto come un saggio storico
distaccato, "oggettivo", teso semplicemente a ricostruire un periodo
circoscritto della recente vicenda italiana e, all'interno di esso, una
specifica "attitudine" politica declinata in vari ambiti e secondo modalità
differenti. E invece, a fianco di tale ricostruzione, che impegna in realtà la
gran parte della trattazione, nelle righe finali del libro Aureli riconosce la
*sconfitta* che il progetto dell'autonomia ha dovuto subire; una sconfitta
impartitagli
> ... dal capitalismo che negli ultimi anni ha costretto la sinistra ad
> abbandonare tutto il suo bagaglio storico e culturale, a cominciare dalle sue
> parole chiave come conflitto, classe e, appunto, capitalismo[^iv46].
Non è compito né intento di Aureli analizzare le cause e le conseguenze di
questa sconfitta. Ciò che si ripromette è invece qualcosa di ancora più
difficile: provare a individuare una via d'uscita dall'impasse di una cultura
(politica non meno che architettonica) che si trovi a fare i conti con la
scomparsa di qualsiasi ideale alternativo alla realtà del capitalismo, e
conseguentemente al trionfo di quest'ultimo. Per farlo, scrive, "diventa urgente
e necessario cercare nuovi modi di pensare e costruire una nuova soggettività
politica". Ed è alla luce di ciò che la lezione dell'operaismo (comprese le sue
rielaborazioni in ambito architettonico compiute nel corso degli anni sessanta e
settanta), da cui il filone principale del progetto dell'autonomia discende,
torna a essere utile:
> La lezione che oggi possiamo trarre dal lavoro di Tafuri, Rossi e Archizoom va
> al di là di facili *repêchage* e indica che nella *teoria* vi è qualcosa di
> irriducibile alla pratica dell'architettura come professione[^iv47].
L'autonomia della teoria, in questo senso, non vale soltanto come un'indicazione
metodologica ma assume un valore paradossalmente *operativo*. All'interno del
"contesto" del capitalismo quale unico orizzonte di realtà attualmente
possibile, la teoria assume la fondamentale funzione di disinnescare la
"coazione ad agire" e a svilupparsi in concreto, che è propria di questo,
fornendo una prospettiva diversa, quantomeno pensabile. Da questo punto di
vista, l'architettura intesa in senso teorico può rappresentare una "forma di
conoscenza", un "modo di comprendere le cose" in cui è in gioco la possibilità
di pensare, criticare e persino "cambiare lo spazio in cui viviamo". *Dentro* la
realtà del capitalismo e al tempo stesso *contro* di esso.
Il secondo libro pubblicato da Aureli, *The Possibility of an Absolute
Architecture*[^iv48], declina in una seconda accezione la tematica del distacco.
Lo fa avendo il coraggio di riaccostarsi ancora una volta ai luoghi *più* comuni
della disciplina architettonico-urbanistica; mantenendosi distante dall'usanza,
assai diffusa negli ultimi anni, di "creare" nuovi concetti per cercare di
spiegare una realtà contemporanea spesso vista come inesorabilmente "mutante"
rispetto al passato, e dunque del tutto inconciliabile con questo; ma al tempo
stesso senza cedere alla tentazione -- altrettanto diffusa e frequente -- di
rifugiarsi nella sterile negazione della realtà, o di farsi paladino di una
critica programmaticamente "contro"[^iv49].
Non soltanto la gran parte dei progetti e degli oggetti architettonici scelti da
Aureli per sostenere il proprio discorso sono tra i più noti e citati dalla
storia e dalla critica architettonica, ma anche i concetti e i termini a cui
egli fa ricorso sono tra i più "basilari" e consueti in questo settore: a
partire dal campo stesso d'indagine da lui preso in considerazione, il
territorio che abbraccia architettura e città.
È proprio su questo terreno che si lasciano misurare fin da subito il coraggio e
la "portata" del libro di Aureli: esso infatti prova a ristabilire un nesso
intrinseco tra architettura e città, non più però sulla scorta delle "ragioni"
morfologico-tipologiche che ormai cinquant'anni fa avevano guidato le ricerche,
tra gli altri, di Aldo Rossi e Carlo Aymonino. E neppure lo fa ricorrendo ad
alcuna delle tante "sociologie della città" (o della metropoli) correnti ai
nostri giorni. È piuttosto dalle categorie del "politico" e del "formale" --
categorie fondative e in una certa misura "preliminari" rispetto al campo
considerato -- che il suo discorso prende le mosse. Nel primo capitolo, *Toward
the Archipelago*, lasciando momentaneamente da parte gli "avanzamenti" e gli
"aggiornamenti" disciplinari, Aureli fa ritorno ai fondamenti. E sono le parole,
anzitutto, che egli interroga alla ricerca del loro senso perduto, o rimosso. A
partire dall'etimologia di *ab-solutus* (sciolto da), l'aggettivo che qualifica
la sua *idea* di architettura: "qualcosa che è risolutamente se stesso dopo che
è stato "separato" dal suo altro"[^iv50]. Da ciò discende che "la condizione
effettiva della forma architettonica è di separare ed essere separata".
Aureli palesemente non è interessato all'aspetto formale dell'architettura in
senso estetico-figurativo: ciò che vuole mettere in luce è la natura finita
della *form*, non la sua *shape*. Il problema della forma è dunque quello stesso
del *limite*. Come già cent'anni fa rilevava Georg Simmel:
> Il segreto della forma sta nel fatto che essa è confine; essa è la cosa
> stessa, e nello stesso tempo, il cessare della cosa, il territorio
> circoscritto in cui l'Essere e il Non-più-essere sono una cosa sola[^iv51].
Assumere come punto di partenza del discorso su architettura e città la
questione della forma *in quanto limite* significa additare come fondamentale la
questione delle *differenze*. I limiti infatti *sono* le differenze. "Nel suo
separare ed essere separata, l'architettura rivela *in uno* l'essenza della
città e la propria stessa essenza come forma politica: la città come
composizione di parti (separate)"[^iv52]. Il legame tra architettura e città,
allora, non è qualcosa che scaturisce dall'assunzione di uno specifico punto di
vista interno alla disciplina, quanto piuttosto qualcosa che appartiene già da
sempre -- *ontologicamente* -- alla relazione dialettica che connette tra loro
le componenti che vi entrano in gioco. Questo legame si dà nella forma della
"composizione delle differenze"[^iv53]. In ciò consiste, in definitiva, la città:
architetture conviventi nel loro radicale differire. E qui le differenze non
vanno intese tanto in senso tipologico o funzionale bensì in senso *formale*,
come *oggettivazione di un limite*.
Per Aureli l'idea di un'architettura *assoluta* si traduce "concretamente" in
una serie di isole chiare e distinte, relazionate tra loro nella forma
dell'*arcipelago*. La parola "arcipelago" non è certo inedita nell'ambito del
discorso architettonico e urbano degli ultimi anni. Prima di lui l'avevano
utilizzata tra gli altri -- a diverso titolo e con diverse accezioni --
architetti come Oswald Mathias Ungers, il giovane Koolhaas, studiosi come Colin
Rowe, ma pure filosofi come Massimo Cacciari[^iv54]. E tuttavia, nell'impiego che
egli ne fa non vi è traccia di alcuna sudditanza nei confronti di tali autori
(che pure cita), né alcuna dipendenza da "ricuperi" più o meno recenti o alla
moda di essi; anzi, proprio il fatto di impiegarla dimostra la sua totale
indifferenza nei confronti di questi.
D'altronde, per lui quella dell'arcipelago non è affatto una metafora,
un'espressione figurata da lasciar cadere non appena questa abbia finito di
svolgere il compito di portare là dove si voleva essere condotti. Semmai egli
intende l'arcipelago come un "archetipo", un paradigma spaziale che, fin dalla
Grecia antica, esprime una ben precisa (benché non aprioristicamente definita)
relazione tra corpi: una pluralità di enti differenti (sia pure tra di loro
congeneri), più o meno raggruppati o sparpagliati, ma in qualunque caso
*discontinui*: "Il concetto dell'arcipelago descrive una condizione in cui le
parti sono separate ancorché unite dal terreno comune della loro
giustapposizione"[^iv55]. È questa condizione topologica che Aureli pensa come
nesso essenziale tra architettura e città, e in ultima analisi come forma stessa
della città.
Ma in quale senso va inteso quest'ultimo termine? Ben lungi dall'essere
utilizzato in modo casuale o generico, anche il termine "città", nel libro di
Aureli, viene vagliato sotto il profilo etimologico nelle sue diverse versioni:
*polis*, *civitas* e *urbs*. E se la *polis* greca raccoglie entro i suoi limiti
dati i *polites* che la abitano come una comunità omogenea per *genos*, *logos*
ed *ethos*; se la *civitas* romana equivale alla somma dei suoi *cives*, che
hanno tra loro in comune il "diritto" di occupare lo spazio che li ospita, è
invece l'*urbs* a incarnare nel modo più compiuto la costruzione materiale della
città:
> Mentre la *polis* greca era la città strettamente circoscritta entro il suo
> perimetro murato, l'*urbs* romana non era pensata per essere limitata, e di
> fatto si è espansa nella forma di un'organizzazione territoriale, in cui le
> strade hanno giocato un ruolo cruciale[^iv56].
Sarà proprio l'*urbs*, infatti, a divenire nel corso della storia la "specie" di
città planetariamente dominante, e addirittura l'unico modello di aggregazione
umana apparentemente possibile. Ildefons Cerdà, l'ingegnere e urbanista iberico
del XIX secolo, ha introdotto per la prima volta il termine "urbanizzazione" per
esprimere la condizione di illimitatezza e la completa integrazione di movimento
e comunicazione determinata dal capitalismo. È questo "vasto e turbinante oceano
di persone, di cose, di interessi di ogni sorta, di migliaia di elementi
diversi"[^iv57], secondo le sue parole, che definisce con esattezza la realtà
delle città odierne, il loro *status* di metropoli *oltre* la metropoli, senza
più centro o periferia.
> L'essenza dell'urbanizzazione è dunque la distruzione di ogni limite, confine
> o forma che non sia l'infinita, compulsiva ripetizione della propria stessa
> riproduzione e il conseguente meccanismo di controllo totalizzante che
> garantisce questo processo di infinitezza[^iv58].
È in opposizione al mare dell'urbanizzazione, dilagante a macchia d'olio e di
fatto ormai sconfinata, che Aureli propone la sua idea di città: che, se non si
limita a confermare le condizioni attualmente esistenti, non coltiva però
neanche alcuna illusione di poter ricreare le condizioni di esistenza di una
*polis* organica. La città-arcipelago non è pensata in alternativa alla realtà
dell'urbanizzazione ("non c'è via di ritorno dall'urbanizzazione")[^iv59]: semmai
come integrativa di essa. In questo senso, nella concezione di Aureli, la
città-arcipelago risulta inevitabilmente immersa nel mondo dell'urbanizzazione,
e affiorante da esso nella forma di un sistema discreto di architetture finite,
limitate, distinte; isole, appunto, che non arrivano mai tuttavia a costituire
un intero.
Si tratta di un'idea di architettura che reagisce criticamente alla realtà
dell'urbanizzazione, un'idea per formulare la quale Aureli arriva a equiparare
le categorie -- tra di loro apparentemente estranee -- del "politico" e del
"formale"[^iv60] quali espressioni entrambe del *limite*.
> Il politico ha luogo nella decisione in merito a come articolare la relazione,
> lo spazio *infra*, lo spazio *in between*. Lo spazio *in between* è un aspetto
> costitutivo del concetto di forma, fondato sulla contrapposizione delle parti.
> Cosí come non c'è un modo per pensare il politico all'interno dell'uomo
> stesso, non c'è neppure un modo per pensare lo spazio *in between* in se
> stesso. Lo spazio *in between* può materializzarsi soltanto come uno spazio di
> confronto tra le parti. La sua esistenza può essere decisa soltanto dalle
> parti che formano i suoi margini[^iv61].
A un capitolo a carattere eminentemente teoretico e fondativo ne seguono altri
quattro dedicati ad altrettanti "casi" storici: l'architettura di Palladio e il
progetto di una città anti-ideale; il Campo Marzio di Piranesi *versus* la
pianta di Roma del Nolli; l'architettura di Boullée come "stato di eccezione";
l'idea di *City within the City* in Ungers e Koolhaas. In questi capitoli Aureli
mostra una solida conoscenza dell'architettura e della sua storia. Ma non è
strettamente da questo punto di vista che vanno letti. La ragione di tali
approfondimenti non è quella di presentare documenti "inediti" o di fornire
nuove interpretazioni di cose già note. Essi piuttosto sono funzionali al
discorso di Aureli, che in questo modo cerca nel passato gli "indizi probatori"
-- o piuttosto gli adeguati "sostegni" -- della propria teoria.
Non mancano, in questi capitoli, alcune forzature (basti pensare -- a titolo
esemplificativo -- all'applicazione alle architetture disegnate di Boullée della
categoria schmittiana-agambeniana dello "stato di eccezione")[^iv62]. Sarebbe
tuttavia pedante, oltreché in fondo inutile, rimproverare ad Aureli un uso
troppo disinvolto della storia, dal momento che è proprio un uso troppo rigido e
poco interessante della storia che si può e si *deve* spesso rimproverare agli
storici "di professione". Le "forzature" di Aureli vanno dunque lette come
positivamente strumentali alla sua costruzione teorica, non diversamente da
quanto si potrebbe fare con alcuni testi di Robert Venturi, Peter Eisenman o Rem
Koolhaas, dove la storia è dichiaratamente -- e in fondo non illegittimamente --
reinterpretata in chiave contemporanea.
La *finitio* classica palladiana, la sommatoria di edifici privi di "tessitura"
urbana del Campo Marzio piranesiano, la sequenza di edifici pubblici monumentali
di Boullée come "progetto per una metropoli", la città "fatta di isole" dei
progetti di Ungers, servono tutte ad Aureli per dimostrare l'esistenza storica
del rapporto tra architettura e città nel medesimo senso in cui egli stesso lo
afferma.
L'indicazione immediata che scaturisce da tutto ciò è la necessità di un
radicale ripensamento dell'architettura rispetto alla logica che informa gli
edifici "iconici" contemporanei: *landmarks* "solisti" che si inseriscono
perfettamente nella trama senza fine dell'urbanizzazione. Contro tale logica,
Aureli propone come modello di architettura per la città-arcipelago l'isolamento
e l'innalzamento dell'edificio sopra un basamento (*plinth*), come
dimostrativamente illustrato nel progetto koolhaasiano *The City of the Captive
Globe* (1972), o come insistentemente ribadito nella gran parte dei progetti e
degli edifici di Mies van der Rohe. È proprio da una rilettura in tal senso
delle opere miesiane -- dal Padiglione di Barcellona (1929) alla Nationalgalerie
di Berlino (1962-68), passando per il Seagram Building di New York (1954-58) --
che Aureli trae il miglior paradigma *realizzato* della propria teoria e che la
tesi del libro trova una sua persuasiva conferma: "I basamenti di Mies
reinventano lo spazio urbano come un arcipelago di artefatti urbani
definiti"[^iv63]. E ancora:
> Il basamento introduce un arresto nella fluidità dello spazio urbano, evocando
> cosí la possibilità di comprendere lo spazio urbano non come ubiquo, pervasivo
> e tirannico, bensì come qualcosa che può essere inquadrato, limitato, e in tal
> modo potenzialmente situato come cosa tra altre cose[^iv64].
La lezione di Mies viene cosí assunta per la sua capacità di definire
un'architettura che è al tempo stesso "un'attitudine particolare nei confronti
della città". Secondo Aureli, questa attitudine a inquadrare e a delimitare deve
essere sviluppata "sia come forma materiale di architettura sia come principio
politico di progettazione"[^iv65].
È una tale attitudine che, opponendosi alla generalizzata omogeneizzazione
contemporanea, ovvero alla "confusione" delle differenze (o piuttosto, alla loro
insistente e colpevole negazione), rende possibile quella *composizione delle
differenze* che si è citata più sopra. In questo senso,
> ... l'architettura assoluta come forma finita non è semplicemente
> l'affermazione tautologica dell'oggetto in quanto tale; è anche il paradigma
> per una città non più guidata da un *ethos* di espansione e inclusione bensì
> dall'idea positiva di limiti e confronto[^iv66].
È su questo piano che architettura e città tornano a trovare un punto di
incontro necessario:
> La parte è *assoluta*; essa sta in solitudine, ma assume una posizione
> rispetto al tutto dal quale è stata separata. L'architettura dell'arcipelago
> deve essere un'architettura assoluta, un'architettura definita dalla -- e che
> rende chiara la -- presenza dei *limiti* che definiscono la città[^iv67].
Ed è ugualmente su questo piano che "formale" e "politico" s'incontrano e
dimostrano di poter costituire una cosa sola.
> Invece di sognare una società perfettamente integrata che può essere ottenuta
> soltanto come supremo compimento dell'urbanizzazione e del suo *avatar*, il
> capitalismo, un'architettura assoluta deve riconoscere la separatezza politica
> che potenzialmente si può manifestare, nel mare dell'urbanizzazione,
> attraverso i confini che definiscono la possibilità della città.
È qui -- più e meglio che altrove -- che si lascia riconoscere il già ricordato
coraggio di Aureli: nell'affermare, oggi, la *separatezza* (ovvero, ancora una
volta, la differenza) come un valore *politico*, non *anti*-politico: l'unico --
l'ultimo -- modo, forse, per poter stare *insieme* davvero. L'identico coraggio
che lo porta a sostenere, nell'ormai completo e generalizzato asservimento delle
idee alla loro "verifica" pratica, l'*autonomia della teoria*. In questo senso,
se con *The Possibility of an Absolute Architecture* egli definisce con tutta
evidenza il campo operativo in cui si muove come architetto, è significativo
però che rinunci a presentare nel libro i propri progetti: una rinuncia che è
nel contempo la miglior "dimostrazione" *in azione* del suo stesso discorso sul
limite.
La terza riflessione che Aureli affida a un sia pur piccolo volume ruota intorno
ai medesimi concetti di distacco e rinuncia, declinati con accenti ancora una
volta diversi. Rispetto ai due precedenti, *Less Is Enough* è non soltanto un
libro molto più agile, ma anche assai meno focalizzato sull'architettura; questo
aspetto però -- ben lungi dal rappresentare un'indebita deviazione dal "percorso
principale", o addirittura una negazione di esso -- costituisce invece la
riprova dell'ampiezza del discorso *intellettuale* di Aureli[^iv68].
"Per molti anni *less is more* è stato il tormentone del minimalismo"[^iv69]:
l'*incipit* del libro prende le mosse dalla notissima frase citata da Ludwig
Mies van der Rohe nel corso di un'intervista del
1959. La ragione per cui Aureli ritorna su un *topos* tanto frequentato e tanto
citato (spesso a sproposito) dalla cultura architettonica è quella che "in anni
recenti, e specialmente a partire dalla recessione economica del 2008,
l'attitudine per il *less is more* è nuovamente tornata di moda". Non a caso,
dopo i fasti degli anni novanta e dell'inizio del XXI secolo, segnato dalla
proliferazione di edifici iconici, la riduzione delle risorse e dei budget si è
tradotta per alcuni architetti nella scelta di una maggiore austerità formale, e
per altri in un approccio più attento al sociale. Ciò che accomuna tali due
atteggiamenti -- pur tra di loro diversi -- è l'opportunità di "fare di più con
meno", ciò che rende il *less is more* un imperativo economico, più ancora che
estetico.
> All'interno della storia del capitalismo *less is more* definisce i vantaggi
> della riduzione dei costi di produzione. I capitalisti hanno sempre cercato di
> ottenere di più con meno. Il capitalismo non è soltanto un processo di
> accumulazione ma anche, e specialmente, l'incessante ottimizzazione del
> processo produttivo verso una situazione in cui *meno* investimento di
> capitale equivale a più accumulazione di capitale[^iv70].
In una situazione di crisi economica, ciò che il capitale domanda è più lavoro
per meno denaro, più creatività con meno sicurezza sociale.
La condizione di ristrettezza economica e la propensione estetica per il *less
is more* sembrano convergere nella tradizione dell'ascetismo. Questo termine
(dal greco *askein*, esercizio, auto-addestramento) indica comunemente, in
ambito religioso, il ritiro dal mondo, la pratica dell'astinenza dai piaceri
mondani, propria degli eremiti e dei monaci. In anni più recenti "l'ascetismo è
stato invece identificato come la fonte ideologica e morale dell'idea di
austerità"[^iv71]. In senso secolare, l'ascetismo equivale alla libertà dalle
distrazioni mondane al fine di dedicarsi interamente all'etica del lavoro e
della produzione. Questa seconda versione dell'ascetismo per Max Weber sta a
fondamento dell'etica del capitalismo[^iv72]. Come egli spiega, con il calvinismo
si registra l'uscita dell'ascetismo dai confini del monastero e la sua
trasformazione in una mentalità diffusa nelle città. L'ascetismo si avvia in tal
modo a divenire la disciplina di una razionalità etica destinata a costituire il
fondamento dello stile di vita borghese, e in quanto tale a rappresentare il
vero "spirito" del capitalismo.
Pur considerando questa lettura dell'ascetismo, Aureli ne abbraccia una
differente: "proprio perché la pratica dell'ascetismo persegue la trasformazione
del sé, sostengo che esso può essere sia un mezzo di oppressione che una forma
di resistenza al potere soggettivo del capitalismo"[^iv73]. Nell'ascetismo i
soggetti si focalizzano sulla loro vita come il cuore della loro pratica,
strutturandola in accordo con una forma autodeterminata fatta di specifiche
abitudini e regole. Di conseguenza anche l'architettura che è connessa con
questa pratica non è focalizzata sulla rappresentazione ma sulla vita stessa,
sul *bios*, come il più generico substrato dell'esistenza umana. Lo stesso
sviluppo dell'architettura moderna, attenta all'igiene, al comfort e al
controllo sociale, è stata guidata da una logica biopolitica. Ma è soprattutto
nella storia del monachesimo, dove l'architettura del monastero era
espressamente progettata per definire la vita in tutti i suoi dettagli più
immanenti, che l'ascetismo trova il suo più significativo compimento. Alle
origini il principale proposito dell'ascetismo monastico era di ottenere "una
forma di reciprocità tra soggetti liberi dal contratto sociale imposto dalle
forme di potere"[^iv74], ed è sulla scorta di questa possibilità che Aureli si
domanda se l'ascetismo possa condurci a un tipo di vita differente da quella
imposta oggi dalle società dominanti.
Nel prendere in considerazione questa possibilità, Aureli evidenzia come
l'ascetismo sia una pratica del sé, prima ancora di essere esplicitamente
rivolta al culto religioso; una pratica che in modo intrinseco mette in
questione le condizioni sociali e politiche date, alla ricerca di un modo
differente di vivere la propria vita. Del resto, anche la scelta della vita
monacale costituiva "un modo di rifiutare l'integrazione della fede cristiana
nelle istituzioni di potere"[^iv75]. La radicale critica del potere condotta dal
monachesimo delle origini si manifestava sotto forme di opposizione non
violenta: come il rifiuto della casa e di qualsiasi ruolo all'interno della
società, e più in generale come un pacifico distacco.
Nell'evoluzione del monachesimo si registra il passaggio dalla solitudine
eremitica alla vita cenobitica (cenobio = *koinos bios*, vita comune), in cui i
monaci vivono nello stesso luogo e condividono la stessa regola. Nel monastero
la vita in comune non contraddice la possibilità di stare da soli. "La rigorosa
organizzazione del monastero non intendeva rimpiazzare la vita con una regola,
ma piuttosto rendere la regola cosí coerente con la forma di vita scelta dai
monaci che la regola avrebbe potuto addirittura scomparire"[^iv76]. Da una tale
condizione deriva una forma di reciprocità fraterna in cui nessuno tende a
prevalere sugli altri; ed è proprio nell'organizzazione fisica del monastero che
si lascia rintracciare una possibile traduzione spaziale della già citata
*convivenza delle differenze*.
Da notare la convergenza di interessi sul tema dell'organizzazione
dell'architettura monastica tra Aureli e Rossi. Scrive infatti quest'ultimo in
un quaderno dell'inizio degli anni settanta, rimasto inedito:
> La forma tipologica del convento è importantissima perché ci offre un tipo di
> abitazione dove la questione tipologica costituisce la stessa struttura
> organizzativa e dove, forse per la prima volta, vediamo sorgere un edificio
> collettivo potendone seguire tutta la genesi. La tipologia conventuale è
> riportabile a due soluzioni fondamentali: la prima quella benedettina e la
> seconda, più tarda, quella certosina. (...) Le due concezioni entrambe di
> straordinario interesse permangono vive come riferimento al mondo moderno e
> come da un lato accolgono tradizioni antiche, dall'altro sono il nucleo
> formale per le ipotesi moderne più avanzate nel campo della forma della
> città[^iv77].
Ma altrettanto significativo è che, approfondendo il discorso sugli ordini
monastici, Aureli si soffermi piuttosto su quello francescano. Come sottolineato
da Agamben[^iv78], i primi francescani rigettavano l'idea della proprietà privata,
non soltanto nella forma del possesso individuale di beni ma anche in quanto
possesso di capitale potenziale, sotto forma di terra o di strumenti per
lavorarla o, ancora, di possesso del lavoro altrui. La forma di vita a cui
aderivano i francescani, modellata sulla vita evangelica, prevedeva semplicità,
castità e povertà; un'*altissima paupertas* che si estendeva anche a ciò che
comunemente è considerato appartenente "di diritto" al soggetto individuale: la
propria persona (affidata totalmente a Dio), il proprio tempo (gestito dai
superiori e dai confratelli), il proprio cibo (soltanto consumato e non
accumulato). In luogo della proprietà privata, dunque, i francescani delle
origini si limitavano a usare, vale a dire ad appropriarsi temporaneamente di
ciò che serviva loro. Ed è proprio nell'uso come condivisione di qualcosa che si
dà la forma suprema del vivere in comune.
Per Aureli tali pratiche possono tornare ad assumere un senso nel mondo
contemporaneo, al di fuori di una prospettiva religiosa. Già negli anni trenta
Walter Benjamin, a seguito di quanto descrive come un "impoverimento
dell'esperienza", effetto tra i più devastanti della prima guerra mondiale,
parla di una "nuova barbarie", e si domanda: "A cosa mai è indotto il barbaro
dalla povertà di esperienza? È indotto a ricominciare da capo; a iniziare dal
nuovo; a farcela con il poco"[^iv79]. Benjamin dunque identifica gli aspetti più
tragici dell'esperienza moderna -- lo sradicamento culturale e territoriale e la
precarietà della vita in generale -- e li trasforma in una forza emancipante che
egli definisce "carattere distruttivo": "Il carattere distruttivo conosce solo
una parola d'ordine: creare spazio; una sola attività: far pulizia. Il suo
bisogno di aria fresca e di uno spazio libero è più forte di ogni odio"[^iv80].
Spinto da circostanze storiche ed esistenziali, ma anche dall'adesione a un
modello di vita che Charles Baudelaire (suo beneamato e ammirato "eroe") gli
aveva ispirato, Benjamin vive in prima persona la condizione di sradicamento e
di precarietà. Come un monaco mendicante, Benjamin riduce al minimo i suoi beni
personali per usare la città stessa come una vasta abitazione.
A ideale *pendant* di questa condizione di vita, Aureli pone la Co-op Zimmer
elaborata da Hannes Meyer in occasione della Mostra delle cooperative a Gent
(1924): un progetto concepito nella prospettiva di una società senza classi, in
cui ogni membro dovrebbe avere a disposizione la medesima dotazione economica
minima. Anche l'arredamento è ridotto allo strettamente essenziale in questo
perfetto esemplare di *Existenzminimum*: poche mensole, due sedie pieghevoli, un
letto singolo. Soltanto la presenza di un grammofono dimostra che non si tratta
di "uno spazio dettato esclusivamente dalla "necessità", ma anche predisposto
per un tempo "improduttivo""[^iv81]. Questa stanza è realizzata da Meyer non come
forma di possesso bensì come spazio minimo individuale che prevede di
condividere altri spazi collettivi. "Qui la vita privata (*privacy*) non è la
proprietà (*property*), bensì piuttosto la possibilità di godere di uno stato di
solitudine e di concentrazione"[^iv82]. Diversamente da Mies van der Rohe, dunque,
per Meyer "less is not more, less is just enough"[^iv83]. Per lui la povertà non
costituisce semplicemente una privazione, ma può arrivare a rappresentare
addirittura un valore, una condizione paradossalmente lussuosa, che suggerisce
"un senso di calma e di edonistico godimento".
Ma anche nella situazione sociale attuale, in cui da un lato per far ripartire
l'economia viene "suggerito" di consumare di più ma dall'altro vengono diminuiti
i salari e tagliate le forme di protezione sociali, l'ascetismo può "ridefinire
ciò che è realmente necessario e cosa non lo è, al di là del regime di scarsità
imposto dal mercato"[^iv84]. È in questo contesto che l'ascetismo può
rappresentare la possibilità di riconquistare una miglior condizione di vita,
vivendo con meno, senza trasformare tale "meno" in un'ideologia: "less is *not*
more, less is just less". Soltanto oltrepassando la sua aura ideologica, il meno
può divenire il punto di partenza per una forma di vita alternativa che superi
al tempo stesso i falsi bisogni imposti dal mercato e le politiche di austerità
imposte dal debito. In questa prospettiva "*less is enough* è un tentativo di
definire un modo di vivere che vada oltre la promessa di crescita e la
minacciosa retorica della scarsità"; un modo di vivere ascetico che pone al
centro se stessi, ma che offre anche la possibilità di una condivisione di spazi
con altri.
Ed è forse proprio questa la condizione corrispondente a quello che Marx
definisce l'"essere sociale" dell'individuo[^iv85]\: una condizione che questi
vede insidiata dalla proprietà privata e che -- all'opposto -- può essere
pienamente riattivata da una forma di reciprocità basata non sul possesso ma
sulla condivisione: dove il meno che si ha in termini di possesso, diviene il
più che si ha da condividere.
> Dire *enough* (anziché *more*) significa ridefinire ciò di cui abbiamo
> realmente bisogno al fine di vivere (...) una vita distaccata dall'ethos
> sociale della proprietà, dall'ansia della produzione e del possesso, e dove
> *less is just enough*[^iv86].
Autonomia, assolutezza, ascetismo: questi tre concetti, e i relativi riflessi
che essi hanno nella vita concreta, nei rapporti sociali, nell'organizzazione
spaziale, hanno tutti in comune -- come già rilevato -- una forma di *distacco*.
Una simile condizione si rivela indispensabile per chi, come Aureli, intenda
accostarsi alle questioni contemporanee (non soltanto quelle relative al
ristretto ambito architettonico, bensì tutte quelle a cui quest'ambito sia in
qualche modo rapportabile) senza farsene "assorbire"; non limitandosi
semplicemente a ripetere e a far proprie opinioni diffuse e consolidate a loro
riguardo, e cercando piuttosto di affrontarle *ripensandone le condizioni
dall'interno*. È precisamente questa attitudine che caratterizza l'architetto
intellettuale, e l'intellettuale in generale: la capacità di penetrare nelle
cose mantenendosene però distaccato abbastanza da poterle *mettere in
prospettiva*, come avvertiva Tafuri, ovverosia da poterle osservare da un punto
di vista al tempo medesimo interno ed esterno. L'uso consapevole della tecnica
della prospettiva richiede tanto una visione "da fuori" dello spazio da
rappresentare, quanto un minuzioso controllo di ogni parte di esso, vale a dire
della sua perfetta misurabilità; dove vedere "da fuori" non equivale in alcun
modo a una possibilità di "uscita" dallo spazio; e dove renderlo misurabile non
significa affatto aderire immediatamente a esso. Nell'un caso come nell'altro,
interno ed esterno vanno considerati come punti di vista del tutto relativi:
relativi alle possibilità di movimento di cui chi utilizza la prospettiva
dispone.
A questo posizionamento teorico da parte di Aureli corrisponde, sul piano
dell'attività progettuale, un progressivo cambio di scala nei progetti di
Dogma[^iv87]. Dalla genericità del *framework* che abbracciava la foresta in *Stop
City*, o dallo "spazio (...) completamente sussunto dalla produzione"[^iv88] in *A
Simple Heart*, si passa ora a un'analisi focalizzata sulla casa in quanto
"apparato per la riproduzione della vita"[^iv89], ovvero come teatro di una vasta
serie di azioni e funzioni. In progetti come *Ladders* (2011), *Frame(s)*
(2011), *Every Day is Like Sunday* (2015), ma soprattutto *Communal Villa*
(2015) e *Like a Rolling Stone* (2016), Dogma concentra la propria attenzione
sull'abitazione come ambito in cui sempre di più vita e produzione coincidono.
Affiancati da una parallela ricerca storica condotta dallo studio[^iv90], ma anche
dagli esiti dell'attività didattica laboratoriale svolta da Aureli con i suoi
studenti[^iv91], questi progetti si sforzano di ripensare radicalmente -- vale a
dire fino ai fondamenti -- le condizioni di possibilità di un'abitazione che sia
luogo di convivenza di spazi domestici e spazi lavorativi; convivenza che la
contemporaneità ha in realtà ereditato ma che ha però fortemente esacerbato.
*Like a Rolling Stone*, in tal senso, prende le mosse dallo studio delle
*boarding houses* (case-pensione) realizzate in Inghilterra e in America tra la
seconda metà del XIX secolo e la prima parte del XX, per approdare a nuovi
progetti di *boarding houses* per Londra, il cui nucleo tematico ruota intorno
al rapporto tra stanze destinate a singoli individui e servizi condivisi[^iv92].
Il medesimo tema era stato già affrontato in *Communal Villa*, proposta per uno
spazio di vita e di lavoro rivolto ad artisti da collocarsi a Berlino,
sviluppato in collaborazione con Realism Working Group[^iv93]. Nel definire con
precisione le circostanze del progetto (posizionamento dell'edificio lungo assi
infrastrutturali, urbani o suburbani; individuazione per esso di sistemi
costruttivi prefabbricati, in acciaio o in cemento armato), gli autori non
intendono sancirne la "veridicità": piuttosto s'impegnano a fissarne le
condizioni di fattibilità mediante l'identificazione di soluzioni che ne
consentano il massimo abbattimento dei costi. Ma è ancora una volta
nell'organizzazione spaziale che il progetto prova a compiere un significativo
"spostamento" delle condizioni imposte dal mercato, misurandosi con la
precarietà in cui di sovente si trovano, nell'epoca contemporanea, categorie
"deboli" come quelle degli artisti. Attraverso una riduzione al minimo degli
spazi individuali e una dotazione di ampi spazi comuni (studi, sale riunioni,
cucine, spazi di gioco per i bambini e altri servizi), la *Communal Villa* cerca
di superare la consueta strutturazione abitativa basata sul nucleo familiare,
integrando in una comunità individui uniti tra loro da interessi, uso di
strumentazioni e modi di vita comuni. Lungi dal confermare la tradizionale
articolazione della casa (fatta assurgere in questa circostanza addirittura a
"villa", con tutte le risonanze simboliche che questo termine porta con sé), il
progetto di Dogma e Realism Working Group è pensato per una forma di vita
alternativa a quella consueta, più flessibile e fors'anche più sostenibile di
quanto lo sia quest'ultima.
Come nel caso del monastero, da cui palesemente discende, questa forma di vita
si fonda sul presupposto che l'unico modo per vivere insieme sia avere nel
contempo la possibilità di vivere da soli. Solitudine e comunità, da questo
punto di vista, costituiscono due polarità non banalmente opposte bensì
complementari tra loro, proprio come lo sono architettura e città. Ed è proprio
nel riportare il dominio dell'economia (nel senso originario dell'*oikonomia*,
l'amministrazione della casa) al dominio politico (inteso nel modo in cui lo
intendeva Carl Schmitt, come dimensione di un antagonismo)[^iv94] che Dogma
dimostra di saper ripensare il progetto nella sua prospettiva più propria. Il
medesimo obiettivo che tenacemente e con lucidità persegue lo stesso Aureli in
qualità di architetto intellettuale: far emergere -- attraverso le sue
riletture, cosí come attraverso la sua pratica -- la *dimensione politica
dell'architettura*.
[^iv1]: Pier Vittorio Aureli, *The Difficult Whole. Typology and the Singularity
of the Urban Event in Aldo Rossi's Early Theoretical Work. 1953-1964*, in "Log",
n. 9 (inverno-primavera 2007), p. 42.
[^iv2]: Aureli si laurea nel 1999 allo IUAV; nel 2001 ottiene il master in
Architettura al Berlage Institute; nel 2003 consegue il dottorato di ricerca in
Pianificazione urbana allo IUAV e nel 2005 il PhD in Architettura al Berlage
Institute di Delft (Rotterdam).
[^iv3]: Pier Vittorio Aureli, *Schemi di città. La costruzione del principio
insediativo*, tesi di laurea, relatore Bernardo Secchi, IUAV, a.a. 1997-98; Id.,
*La città arcipelago e il suo progetto*, tesi di dottorato, relatori Elia
Zenghelis e Bernardo Secchi, IUAV, a.a. 2001-2002; Id., *The Possibility of
Absolute Architecture*, PhD Thesis, relatore Elia Zenghelis, Berlage Institute,
Technische Universiteit, Delft-Rotterdam, a.a. 2004-2005. Vedi Gabriele
Mastrigli, *Commanders of the Field: Notes on the Architecture of Dogma*, in
*Dogma: 11 Projects*, Architectural Association Publications, London 2013, pp.
109-13.
[^iv4]: Manfredo Tafuri, *Ricerca del Rinascimento*, Einaudi, Torino 1992, p. XXI.
[^iv5]: Manfredo Tafuri, *Non c'è critica, solo storia*, intervista con Richard
Ingersoll, in "Casabella", n. 619-20, 1995, p. 96 (intervista pubblicata per la
prima volta nel 1986 su "Design Book Review").
[^iv6]: Di "distacco", riferito ai contenuti del lavoro intellettuale svolto
all'interno dell'organizzazione capitalistica, parla anche Tafuri nel passo
riportato al termine del capitolo precedente; una condizione in apparenza
"negativa", che tuttavia a suo avviso -- mediante uno strategico rovesciamento
-- deve essere riconosciuta come condizione *positiva* "da cui ripartire, per
elaborare un programma di attacco al piano complessivo": Tafuri, *Lavoro
intellettuale e sviluppo capitalistico* cit., p. 280.
[^iv7]: Vedi al proposito, oltre ovviamente a Tafuri, *Il "progetto" storico*
cit., il saggio-recensione di Cacciari (*Eupalinos o l'architettura*, in "Nuova
Corrente", n. 76-77, 1978, p. 422) a Manfredo Tafuri e Francesco Dal Co,
*L'architettura contemporanea*, Electa, Milano 1976.
[^iv8]: Dogma, *Dogma*, in *Portfolio*, Heverlee 2011, p. 5.
[^iv9]: Su ciò vedi la successiva ricerca di Pier Vittorio Aureli e Martino
Tattara, *Brussels: A Manifesto. Towards the Capital of Europe*, a cura di
Joachim Deklerck, Martino Tattara e Veronique Patteeuw, NAi Publishers,
Rotterdam 2007.
[^iv10]: Dogma, *Stop City* (2007), in *Dogma: 11 Projects* cit., pp. 10-19.
[^iv11]: Dogma, *A Simple Heart* (2011), in *Dogma: 11 Projects* cit., pp. 20-31.
[^iv12]: Dogma, *Stop City: per una architettura non-figurativa della città (dopo
la città post-fordista)*, in GIZMO, *MMX. Architettura zona critica*, Zandonai,
Rovereto 2011, p. 159.
[^iv13]: Paolo Virno, *Virtuosity and Revolution: The Political Theory of Exodus*,
in Virno e Hardt (a cura di), *Radical Thought in Italy* cit., pp. 189-212; Id.,
*Mondanità. L'idea di "mondo" tra esperienza sensibile e sfera pubblica*,
Manifestolibri, Roma 1994; Giorgio Agamben, *Signatura rerum. Sul metodo*,
Bollati Boringhieri, Torino 2008.
[^iv14]: Dogma, *A Simple Heart*, in *Dogma: 11 Projects* cit., p. 22. Sul
concetto di *kathecon* vedi Massimo Cacciari, *Il potere che frena*, Adelphi,
Milano 2013, ma anche Giorgio Agamben, *Il mistero del male. Benedetto XVI e la
fine dei tempi*, Laterza, Roma-Bari 2013.
[^iv15]: Dogma, *Stop City*, in *Dogma: 11 Projects* cit., p. 10.
[^iv16]: "Ipotesi di linguaggio architettonico non-figurativo": Archizoom
Associati, *No-Stop City* (1970), in Roberto Gargiani, *Archizoom Associati,
1966-1974. Dall'onda pop alla superficie neutra*, Electa, Milano 2007, pp.
169-73.
[^iv17]: Pier Vittorio Aureli, *The Project of Autonomy. Politics and Architecture
Within and Against Capitalism*, Princeton Architectural Press, New York 2008;
trad. it. *Il progetto dell'autonomia. Politica e architettura dentro e contro
il capitalismo*, Quodlibet, Macerata 2016.
[^iv18]: Al proposito vedi *Raniero Panzieri e i "Quaderni Rossi"*, in "aut aut",
n. speciale (149-50), 1975, con contributi, tra gli altri, di Antonio Negri e
Massimo Cacciari.
[^iv19]: Questa espressione ricorre di sovente nelle pagine di "Quaderni Rossi",
"Classe Operaia" e "Contropiano": vedi Steve Wright, *L'assalto al cielo. Per
una storia dell'operaismo*, Edizioni Alegre, Roma 2008.
[^iv20]: Raniero Panzieri, *Sull'uso capitalistico delle macchine nel
neocapitalismo*, in "Quaderni Rossi", n. 1, 1961, pp. 53-72.
[^iv21]: Mario Tronti, *Marx, forza-lavoro, classe operaia* (1965), in Id.,
*Operai e capitale* cit., pp. 259-63.
[^iv22]: *Ibid.*, p. 260.
[^iv23]: Mario Tronti, *Sull'autonomia del politico*, Feltrinelli, Milano 1977.
[^iv24]: Aureli, *Il progetto dell'autonomia* cit., p. 65.
[^iv25]: *Ibid.*, p. 25.
[^iv26]: Tra gli altri, vedi Massimo Cacciari, *Sviluppo capitalistico e ciclo
delle lotte. La Montedison di Porto Marghera 1. La "fase" 1950-1966*, in
"Contropiano", n. 3, 1968, pp. 579-627; Id., *Sviluppo capitalistico e ciclo
delle lotte. La Montedison di Porto Marghera. 2. La "fase" 1966 -- estate 1969*,
ivi, n. 2, 1969, pp. 397-447; Umberto Coldagelli, *Forza-lavoro e sviluppo
capitalistico*, ivi, n. 1, 1969, pp. 81-127; Enzo Schiavuta, *Ricerca
scientifica e sviluppo capitalistico*, ivi, n. 2, 1970, pp. 285-309; Mario
Tronti, *Classe operaia e sviluppo*, ivi, n. 3, 1970, p. 471. A questa analisi
Tafuri dà il suo contributo con *Lavoro intellettuale e sviluppo capitalistico*
cit. (1970).
[^iv27]: Aureli, *Il progetto dell'autonomia* cit., p. 79.
[^iv28]: *Ibid.*, p. 80.
[^iv29]: *Ibid.*, p. 87.
[^iv30]: Tafuri, *Per una critica dell'ideologia architettonica* cit., p. 60.
[^iv31]: Aureli, *Il progetto dell'autonomia* cit., p. 95.
[^iv32]: Rossi, *L'architettura della città* cit., p. 23.
[^iv33]: Ezio Bonfanti, *Autonomia dell'architettura*, in "Controspazio", n. 1,
1969, p. 29.
[^iv34]: Aureli, *Il progetto dell'autonomia* cit., p. 102.
[^iv35]: Rossi, *L'architettura della città* cit., p. 117.
[^iv36]: Reyner Banham, *Le tentazioni dell'architettura. Megastrutture*,
Roma-Bari, Laterza 1980; ILSES (Istituto lombardo per gli studi economici e
sociali), *Relazioni del Seminario "La nuova dimensione della città -- La
città-regione"*, Atti del convegno, Stresa, 19-21 gennaio, Milano 1962; *La
città territorio. Un esperimento didattico sul centro direzionale di Centocelle
in Roma*, Leonardo da Vinci Editrice, Bari 1964.
[^iv37]: Aureli, *Il progetto dell'autonomia* cit., p. 110. Vedi anche Id., *Aldo
Rossi: Locomotiva 2, Competition Entry for a Directional Centre, Turin, Italy*,
in Brett Steele e Francisco Gonzalez de Canales (a cura di), *First Works:
Emerging Architectural Experimentation of the 1960s and 1970s*, Architectural
Association Publications, London 2009, pp. 88-89.
[^iv38]: Al progetto di Rossi, Polesello e Meda si rifà esplicitamente il progetto
di Dogma, *Locomotiva 3*, una proposta per l'area denominata Spina 4 a Torino,
elaborata nel 2010; vedi *Dogma: 11 Projects* cit., pp. 74-81.
[^iv39]: Archizoom Associati, *Città catena di montaggio del sociale. Ideologia e
teoria della metropoli*, in "Casabella", n. 350-51, 1970, p. 44.
[^iv40]: Aureli, *Il progetto dell'autonomia* cit., p. 118.
[^iv41]: *Ibid.*, pp. 115-16.
[^iv42]: Archizoom Associati, *Città catena di montaggio del sociale* cit., p. 8.
[^iv43]: Aureli, *Il progetto dell'autonomia* cit., p. 131.
[^iv44]: *Ibid.*, p. 127.
[^iv45]: *Ibid.*, pp. 139-40.
[^iv46]: *Ibid.*, p. 140.
[^iv47]: *Ibid.*, p. 141.
[^iv48]: Pier Vittorio Aureli, *The Possibility of an Absolute Architecture*, The
MIT Press, Cambridge (Mass.) 2011.
[^iv49]: Vedi, ad esempio, Franco La Cecla, *Contro l'architettura*, Bollati
Boringhieri, Torino 2008; Id., *Contro l'urbanistica*, Einaudi, Torino 2015.
[^iv50]: Aureli, *The Possibility of an Absolute Architecture* cit., p. IX.
[^iv51]: Georg Simmel, *Metafisica della morte* (1910), in Id., *Metafisica della
morte e altri scritti*, a cura di Lucio Perucchi, SE, Milano 2012, pp. 9-10.
[^iv52]: Aureli, *The Possibility of an Absolute Architecture* cit., pp. IX-X.
[^iv53]: *Ibid.*, p. 32.
[^iv54]: Massimo Cacciari, *L'arcipelago*, Adelphi, Milano 1997.
[^iv55]: Aureli, *The Possibility of an Absolute Architecture* cit., p. XI.
[^iv56]: *Ibid.*, p. 4.
[^iv57]: Ildefons Cerdà, *Teoría general de la urbanización* (1867), citato
*ibid.*, p. 9.
[^iv58]: Aureli, *The Possibility of an Absolute Architecture* cit., p. 16.
[^iv59]: *Ibid.*, p. 32.
[^iv60]: Su ciò vedi anche Pier Vittorio Aureli, *City as Political Form: Four
Archetypes of Urban Transformation*, in "Architectural Design", vol. 81, n. 1,
2011, pp. 32-37.
[^iv61]: Aureli, *The Possibility of an Absolute Architecture* cit., p. 27.
[^iv62]: Carl Schmitt, *Teologia politica: quattro capitoli sulla dottrina della
sovranità* (1922), in Id., *Le categorie del "politico". Saggi di teoria
politica*, a cura di Gianfranco Miglio e Pierangelo Schiera, il Mulino, Bologna
1972, pp. 27-86; Giorgio Agamben, *Lo stato di eccezione*, Bollati Boringhieri,
Torino 2003.
[^iv63]: Aureli, *The Possibility of an Absolute Architecture* cit., p. 37.
[^iv64]: *Ibid.*, pp. 40-41.
[^iv65]: *Ibid.*, p. 41.
[^iv66]: *Ibid.*, p. 42.
[^iv67]: *Ibid.*, p. 45.
[^iv68]: Pier Vittorio Aureli, *Less Is Enough*, Strelka Press, Moscow 2013.
[^iv69]: *Ibid.*, p. 7.
[^iv70]: Aureli, *Less Is Enough* cit., p. 8.
[^iv71]: *Ibid.*, p. 9.
[^iv72]: Max Weber, *L'etica protestante e lo spirito del capitalismo* (1905),
Rizzoli, Milano 1991.
[^iv73]: Aureli, *Less Is Enough* cit., pp. 11-12.
[^iv74]: *Ibid.*, p. 13.
[^iv75]: *Ibid.*, p. 16.
[^iv76]: Aureli, *Less Is Enough* cit., p. 24.
[^iv77]: Aldo Rossi, *Quaderno inedito (Varie 1 -- Milano -- Arch. Veneta
- Abitazione -- Pref. II ed. L'arch. della città -- Politecnico)*, 1969-70,
citato in Gianni Braghieri, *Presentazione*, in "Soundings", n. 1, 2017,
numero monografico dedicato a Aldo Rossi, a cura di Lamberto Amistadi e
Ildebrando Clemente, p. 68.
[^iv78]: Giorgio Agamben, *Altissima povertà. Regole monastiche e forme di vita*,
Neri Pozza, Vicenza 2011.
[^iv79]: Benjamin, *Esperienza e povertà* cit., p. 53.
[^iv80]: Walter Benjamin, *Il carattere distruttivo* (1931), in Id., *Esperienza e
povertà* (2018), a cura di Massimo Palma, cit., p. 41.
[^iv81]: Aureli, *Less Is Enough* cit., p.
40. Vedi anche Id., *A Room Without Ownership*, in *Hannes Meyer: Co-op
Interieur*, Spector Book, Leipzig 2015, pp. 33-39.
[^iv82]: Aureli, *Less Is Enough* cit., pp. 40-41.
[^iv83]: *Ibid.*, p. 41.
[^iv84]: *Ibid.*, p. 58.
[^iv85]: Karl Marx, *Manoscritti economici-filosofici del 1844*, a cura di
Norberto Bobbio, Einaudi, Torino 2018, p. 113.
[^iv86]: Aureli, *Less Is Enough* cit., p. 59.
[^iv87]: Su questo passaggio di scala vedi Pier Vittorio Aureli e Martino Tattara,
*A Limit to the Urban: Notes on Large-Scale Design*, in *Dogma: 11 Projects*
cit., pp. 42-45, e Id., *Barbarism Begins at Home: Notes on Housing*, *ibid.*,
pp. 86-90.
[^iv88]: Dogma, *A Simple Heart*, in *Dogma: 11 Projects* cit., p. 22.
[^iv89]: Aureli e Tattara, *Barbarism Begins at Home* cit., p. 86.
[^iv90]: Svolta a partire dal 2013, la ricerca *Living/Working* ha avuto come
esito la pubblicazione di Dogma, *The Room of One's Own*, Black Square Press,
Milano 2017.
[^iv91]: Pier Vittorio Aureli e Maria S. Giudici, *The Grand Domestic Revolution.
Revisiting the Architecture of Housing*, Diploma 14, Architectural Association
School, London, a.a. 2013-14; Pier Vittorio Aureli e altri, *How to Live
To­gether. Homes for Houston*, Advanced Design Studio -- Yale School of
Architecture, New Haven (primavera) 2014.
[^iv92]: Dogma + Black Square, *Like a Rolling Stone. Revisiting the Architecture
of the Boarding Houses*, Black Square Press, Milano 2016.
[^iv93]: Dogma + Realism Working Group, *Communal Villa. Production and
Reproduction in Artists' Housing*, Spector Books, Leipzig 2016. Realism Working
Group è un collettivo di artisti che opera nella capitale tedesca.
[^iv94]: Carl Schmitt, *Il concetto di "politico"* (1932), in Id., *Le categorie
del "politico"* cit., pp. 101-65.
## Architettura dentro e contro
"L'arte di costruire è la volontà dell'epoca \[*Zeitwille*\] tradotta in
spazio"[^v1]. La nota affermazione di Ludwig Mies van der Rohe, da lui enunciata
e ribadita in più circostanze[^v2], potrebbe a prima vista apparire la più
compiuta espressione del totale asservimento dell'architettura alle forze
operanti nel tempo in cui questa nasce e si colloca. E in effetti, proprio il
"servire" costituisce per Mies van der Rohe il compito essenziale
dell'architettura: "L'opera degli architetti deve servire la vita \[*dem Leben
dienen*\]. Soltanto la vita deve essere la loro guida"[^v3]. Parrebbe cosí
giustificarsi concettualmente, per voce di uno dei più lucidi e profondi
architetti del secolo scorso, l'attitudine dell'architettura a "mettersi al
servizio" della società e dei "soggetti" agenti al suo interno; ciò che
finirebbe con il ridurre l'architettura -- almeno in una certa misura -- a un
semplice "riflesso" di questi, delle loro dinamiche e "volontà", appunto.
Ma come va inteso esattamente il "servire la vita" di Mies van der Rohe? In un
saggio di straordinaria intensità Massimo Cacciari ha interpretato in maniera
forse definitiva la connessione tra *dem Leben dienen* e *Zeitwille* nel
pensiero dell'architetto tedesco:
> ... si cadrebbe grossolanamente in errore ritenendo che tale servizio si
> riferisca soltanto alla "vita" in quanto somma di esigenze, domande,
> imperativi. Se cosí fosse, non saremmo agli antipodi, ma nel bel mezzo
> dell'idea funzionalistica del progetto (...) Ben altro timbro ha *das Leben*
> per Mies. Vita e Ergon, Vita *e* trascendenza dell'idea dell'opera formano un
> insieme indissolubile. Si serve la vita soltanto servendo l'opera -- si è al
> servizio del proprio tempo (...) soltanto se si è capaci di "immaginare"
> l'opera[^v4].
Il servizio alla vita, dunque, non è affatto un semplice assoggettarsi ai
"doveri" quotidiani, mondani, cui l'architettura è comunque destinata, e neppure
ai compiti più eccezionali, "di facciata", dei quali a volte essa è investita,
tanto quanto l'essere in accordo con la volontà dell'epoca non si lascia in
alcun modo ridurre a un semplice rispecchiamento di ciò che l'epoca "si aspetta"
dall'opera.
> Vita è sempre intesa come en-érgheia, vita nel e dell'ergon: molto più che un
> mero dato di fatto, la vita, di cui Mies parla, è quella vita in cui l'ergon
> si manifesta, in cui può aver luogo la verità dell'ergon. Vita compiuta,
> perciò,
ma compiuta nel suo essere in-atto, en-érgheia. E ancora:
> Vita, per Mies, è sempre spirituale decisione nei confronti dell'opera --
> distacco (...) da ogni vita "immediata", da ogni vita
> naturalisticamente-immediatamente intesa[^v5].
Ancorché sancire un legame deterministico, l'affermazione miesiana che mette in
correlazione volontà dell'epoca e architettura sottende la precisa condizione
che le lega l'una all'altra: tradurre la volontà dell'epoca in spazio, vale a
dire "immaginare" l'opera, non è mai un'operazione meccanica, meramente servile;
piuttosto implica una *potenza*, una *en-*érgheia, appunto, che è quella
derivante dall'opera stessa, che l'epoca non può semplicemente prevedere o
prescrivere. Anzi, nel caso di un'opera come quella di Mies che ritiene decisiva
l'"essenza dell'arte di costruire"[^v6], questa non può derivare da una semplice
"invenzione" soggettiva, e a rigore neppure da una intenzionalità progettante,
bensì deve "limitarsi" a presentare-manifestare la verità che la precede e la
trascende.
Concepire il rapporto tra opera e epoca in termini non deterministici implica
dunque da parte dell'architetto una comprensione effettiva della struttura
dell'epoca in cui è immerso, comprensione da cui scaturisce quella "potenza
immaginativa" che nulla ha a che vedere con la fantasia o con la creatività, e
che piuttosto richiede un "ascolto" dell'opera.
Quale sia la struttura della *sua* epoca -- e in quale misura essa si differenzi
sostanzialmente da quella delle epoche precedenti -- appare molto chiaro agli
occhi di Mies:
> Da tempo la macchina è diventata padrona della produzione. Questa era
> approssimativamente la situazione prebellica. Sebbene il ritmo di questo
> sviluppo sia stato ridotto dallo scoppio della guerra, la sua direzione è
> rimasta immutata. Anzi, la situazione si è persino acutizzata. Se prima per
> mille motivi l'economia era praticata in modo libero, attualmente altrettanti
> motivi costringono alle più serrate riflessioni. Quanto già prima della guerra
> la vita fosse legata all'economia, ci è apparso del tutto evidente soltanto
> nel periodo post-bellico. Ora esiste "soltanto" l'economia. Essa domina ogni
> cosa, la politica e la vita[^v7].
Esattamente negli stessi termini, oggi si potrebbe affermare che "esiste
"soltanto" l'economia". Ciò che non impedisce, a chi sia dotato di capacità di
comprensione e di ascolto, di servire la vita liberando la potenza immaginativa
dell'opera, proprio come fa Mies van der Rohe.
In un'epoca come quella attuale, in cui sempre di più predomina l'economia e
declina la politica (non tanto in termini di governo, quanto di capacità di
affermazione di idee o di presa di posizione su questioni di interesse
generale), diventa indubbiamente difficile distaccarsi dalla vita in senso
"immediato" e servire invece la vita in un senso superiore, come quello appena
indicato. Ma ancora più difficile, in una condizione del genere, risulta
resistere -- o addirittura opporsi apertamente -- alla "volontà dell'epoca". E
ciò tanto più poi quando si cerchi di far coincidere le forme di "resistenza" o
di "opposizione" con quelle architettoniche.
Per cercare almeno di nominare le condizioni che rendono possibile assumere tali
posizioni può essere utile tornare a osservare in quest'ottica alcuni momenti o
episodi, in certi casi anche largamente noti, di un più o meno recente passato.
Quando Benjamin menziona il mutismo di coloro che ritornavano dai campi di
battaglia della prima guerra mondiale come sintomo dell'inaridirsi della loro
capacità di comunicare le esperienze vissute, quando sottolinea la "miseria del
tutto nuova" che "ha colpito gli uomini (...) con questo immenso sviluppo della
tecnica"[^v8], appare del tutto chiaro come per lui una simile "povertà di
esperienza" vada intesa non nel senso che manchi loro qualcosa, "come se gli
uomini anelassero a una nuova esperienza"[^v9], bensì piuttosto nel senso che
"essi desiderano essere esonerati dalle esperienze". La "povertà di esperienza"
è la reazione a un eccesso: quelle persone "hanno "divorato" tutto, la *Kultur*
e l'"uomo", e ne sono divenuti più che sazi e stanchi"[^v10]. La conseguenza di
ciò è lo svilupparsi di quel "nuovo positivo concetto di barbarie"[^v11] già
citato in precedenza, da cui chi ne risulta soggetto "è indotto a ricominciare
da capo; a iniziare dal nuovo; a farcela con il poco; a costruire a partire dal
poco". Si potrebbe considerarla una rinuncia; ma si tratta anche di
un'opportunità. "Ricominciare da capo", cosí come "far pulizia, (...) creare
spazio"[^v12], sono azioni che hanno tra loro in comune la liberazione da
qualcosa, si tratti di oggetti oppure di forme e schemi mentali ormai
invecchiati. Distaccarsene, abbandonarli, dimenticarli comporta sempre una nuova
apertura.
Non sarà forse casuale che, nello stesso contesto del primo dopoguerra tedesco,
all'interno dell'appena nato Staatlisches Bauhaus di Weimar, il primo
insegnamento cui vengono sottoposti gli studenti (il corso preparatorio, il
cosiddetto *Vorkurs*), affidato da Gropius all'artista svizzero Johannes Itten,
consista in una radicale rifondazione della loro grammatica percettiva e
cognitiva mediante una serie di esercizi che hanno lo scopo fondamentale di
cancellare quanto da essi precedentemente imparato o conosciuto, per predisporli
a nuove esperienze di apprendimento. La didattica di Itten deve molto agli
insegnamenti impartitigli dal pedagogo Ernst Schneider presso la Scuola di
formazione per insegnanti di Berna-Hofwil. Il metodo di Schneider prevedeva tra
l'altro l'impiego delle teorie psicoanalitiche junghiane e di pratiche
pedagogiche progressiste che tendevano a non correggere il lavoro creativo degli
studenti per non reprimerne le inclinazioni. A questi principî Itten affianca
quelli appresi dalla frequentazione della scuola del pittore tedesco Adolf
Hölzel a Stoccarda, negli anni precedenti la guerra, basati su accostamenti
cromatici contrastanti e sulla loro applicazione a forme elementari, ma anche su
attività fisiche di rilassamento da svolgere in stretta connessione con il
lavoro creativo. Prendendo spunto da tutto ciò e combinando esercizi corporei e
gestuali, respirazione ritmica, reinterpretazioni delle opere degli antichi
maestri, indottrinamento filosofico-religioso ispirato alla religione
neo-zoroastriana Mazdaznan, dieta vegetariana, rivoluzione nel vestiario e altro
ancora[^v13], il corso preliminare di Itten mirava a conferire una nuova "unità"
allo studente, risvegliandolo al tempo stesso dal "sonno del mondo".
> Fondamentale per il corso propedeutico al Bauhaus appariva l'obiettivo di
> liberare le energie creative e l'autonomia degli studenti, esaltandone
> capacità e soggettive predilezioni. "Si trattava -- per Itten -- di costruire
> l'uomo nella sua interezza come un essere creativo" capace di affrontare con
> successo la complessità di un "progetto figurativo" che pretendeva la sinergia
> di forze e capacità diverse, fisiche, morali, spirituali, intellettuali[^v14].
D'altronde, pur con accenti e "stili" diversi da quelli di Itten ("Itten vuol
fare del Bauhaus un monastero, con tanto di santi e di monaci", scrive Oskar
Schlemmer in una lettera del 1921)[^v15], anche Walter Gropius, con il corso di
studi del Bauhaus, intende restituire integralità all'architetto, attraverso
l'apprendimento di teorie, tecniche e materiali che soltanto in un momento
finale avrebbero dovuto sintetizzarsi nella pratica progettuale vera e propria.
Un architetto -- quello uscito dal Bauhaus -- il cui "obiettivo programmatico"
potrebbe essere fatto coincidere esattamente con il benjaminiano "ricominciare
da capo", "iniziare dal nuovo", "farcela con il poco". L'emancipazione dalle
incrostazioni di una cultura sino a quel momento tramandata e passivamente
accettata conduce cosí a una trasformazione radicale, e dischiude la possibilità
di costruire *davvero* per la propria epoca.
Tra i "costruttori" barbarici citati da Benjamin -- insieme a René Descartes,
Albert Einstein, Paul Klee, Paul Scheerbart, Adolf Loos e Le Corbusier -- vi è
anche il Bauhaus[^v16]. Loro comune segno distintivo è "una totale mancanza
d'illusioni nei confronti dell'epoca e ciò nonostante un pronunciarsi senza
riserve per essa"[^v17]. La stessa fusione di coinvolgimento e distacco che si
lascia rilevare anche in Mies van der Rohe.
Ma in quale misura -- è lecito chiedersi -- ci si potrebbe giovare oggi di
questo insegnamento? Nell'"età dell'inconsistenza"[^v18] in cui ci troviamo, non
meno che nel primo dopoguerra tedesco, gli uomini sono vittime di un eccesso, di
qualche cosa di "troppo"; non meno di allora, sentono -- *sentiamo* -- di avere
"divorato" tutto, e di esserne "più che sazi e stanchi". E ancora una volta in
maniera analoga a quella circostanza, ciò appare causato da un "immenso sviluppo
della tecnica".
Nella nostra epoca, la sensazione di sazietà e di stanchezza costituisce una
reazione a un "eccesso dell'Eguale", come lo denomina Byung-Chul Han[^v19],
derivante da una "sovrapproduzione", da un "eccesso di prestazione o di
comunicazione"[^v20]. Gli eccessi dell'Eguale generano una condizione saturativa.
Troppe immagini, troppi eventi, troppe possibilità. La stanchezza che ne deriva
è il prodotto di un esaurimento, un'estenuazione psichica a fronte della quale
non vi sono facili rimedi.
Ma vi è anche un altro genere di stanchezza: quella che suggerisce di rallentare
il passo, di non far seguire un'azione alle azioni già compiute in precedenza;
una stanchezza che induce al riposo, al non-fare, all'ascolto, alla
contemplazione. È lo stesso tipo di stato che provoca la "povertà di esperienza"
di cui parla Benjamin:
> ... agli occhi della gente, stancatasi delle complicazioni senza fine della
> vita quotidiana e per la quale il fine della vita affiora solo come un
> lontanissimo punto di fuga in un'infinita prospettiva di mezzi, appare
> liberante un'esistenza che in ogni frangente basta a se stessa nel modo più
> semplice e contemporaneamente più confortevole[^v21].
Per ottenerlo bisogna rinunciare a qualcosa, prendere tempo, "creare spazio",
retrocedere, rilassarsi, oziare.
D'altra parte, nota ancora Han, "la pura frenesia non crea nulla di nuovo, ma
riproduce e accelera ciò che è già disponibile"[^v22]. È interessante che il
filosofo sudcoreano introduca questa considerazione in relazione a quanto
affermato da Benjamin a proposito della "noia profonda" come presupposto di
un'attenzione profonda, contemplativa, in un saggio di poco successivo a quello
appena citato e ad esso strettamente connesso[^v23]. Lo stato di distensione
spirituale di cui per Benjamin la noia costituisce il culmine ("La noia è
l'uccello incantato che cova l'uovo dell'esperienza"), per Han è l'esatto
rovescio della forma attuale della concentrazione: l'"iper-attenzione", vale a
dire un'attenzione dispersa tra troppi obiettivi simultaneamente: "un rapido
cambiamento di focus tra compiti, sorgenti d'informazioni e processi
diversi"[^v24] che si traduce nel vano iperattivismo contemporaneo.
"Farcela con il poco", "costruire a partire dal poco", cessano a questo punto di
risuonare come formule vuote e si presentano invece come *soluzioni concrete*
per coloro i quali -- al pari dei "costruttori" additati da Benjamin ("uomini
che del radicalmente nuovo hanno fatto la loro causa e lo hanno fondato su
comprensione e rinuncia")[^v25] -- siano pronti a sottrarre il proprio agire agli
eccessi di lavoro e produzione, all'iperattivismo frenetico contrabbandato per
"dovere" sociale (e spesso giustificato ai propri stessi occhi in nome del
denaro) per assumere in alternativa un comportamento ispirato a una
contemplazione attiva, a una "distensione" che sia al tempo stesso operante.
Potrebbe sembrare un'evenienza impossibile, oppure completamente distante da
ogni applicazione architettonica. In realtà, esiste un tentativo compiuto in tal
senso in un passato relativamente recente: quello dell'Internationale
Situationniste, organizzazione (e rivista) attiva tra la fine degli anni
cinquanta e i sessanta. Per Guy Debord, Asger Jorn, Constant Nieuwenhuys, Gilles
Ivain e per gli altri componenti del gruppo, "l'architettura è il mezzo più
semplice per *articolare* il tempo e lo spazio, per *modellare* la realtà, per
far sognare", come si legge nel primo fascicolo della rivista. Ma con una ben
precisa avvertenza:
> Non si tratta solamente di articolazione e di modulazione plastica,
> espressione di una bellezza passeggera. Ma di una modulazione influenzale che
> si inscrive nella curva eterna dei desideri umani e dei progressi nella
> realizzazione di questi desideri[^v26].
Tradotto in un linguaggio meno altisonante, i situazionisti rifiutano fin da
subito di intervenire in modo trasformativo nei confronti della realtà,
negandosi lo strumento del progetto come mezzo attuativo concreto, ma pure come
semplice ipotesi alternativa, come fuga dal reale (e infatti la fuoriuscita di
Constant dall'Internationale Situationniste, nel 1960, sarà causata proprio dai
dissapori legati a *New Babylon*, il suo progetto di città utopica, e in
particolar modo alla contrapposizione tra la maniera in cui egli lo sviluppa,
maggiormente legata alle componenti strutturali e alle forme architettoniche, e
quella richiesta dagli altri situazionisti, più strettamente connessa ai
contenuti)[^v27]. A partire da questo presupposto le pratiche situazioniste si
svilupperanno, anziché in direzione della costruzione architettonica nel senso
tradizionale del termine, in quella della *costruzione di situazioni*; dove per
"situazione" -- secondo la definizione che essi stessi ne danno -- va inteso un
"momento della vita, concretamente e deliberatamente costruito mediante
l'organizzazione collettiva di un ambiente unitario e di un gioco di
avvenimenti"[^v28]. La rinuncia a compiere interventi materiali e durevoli non
equivale automaticamente a una riduzione al mutismo o all'inazione; piuttosto
comporta uno spostamento del punto di vista sulla realtà, un "lavoro" su di essa
che ne produce di fatto una *risemantizzazione*. Per i situazionisti ciò si
traduce in "azioni" denominate *derive*: attraversamenti casuali dello spazio
urbano finalizzati unicamente a rileggerlo in modo imprevisto, mettendone in
luce aspetti alternativi, dimenticati o nascosti. Alla città borghese (o a parti
-- o anche a semplici frammenti o dettagli -- di essa) vengono cosí attribuiti
nuovi significati e nuovi "usi" ai margini dell'utile.
Un tale genere di atteggiamento nei confronti della città e della realtà
potrebbe apparire del tutto inefficace. Non producendo frutti immediati e
tangibili risulta a prima vista completamente superfluo. Tuttavia, è proprio in
una rimessa in discussione dei valori socialmente condivisi in quel determinato
momento storico che affonda le proprie radici l'analisi -- e la critica --
situazionista. Si equivocherebbe il senso di tale operare scambiandolo (come
spesso è stato fatto in periodi più recenti) per una produzione di performance
artistiche. In realtà tutte le elaborazioni situazioniste -- dai rilievi
psico-geografici delle città alle derive, passando per i materiali pubblicati
sulla rivista -- hanno un intento profondamente e inequivocabilmente *politico*,
anche dietro le mentite spoglie della leggerezza e dell'ironia. Ed è proprio a
partire da una riconsiderazione politica delle categorie dell'utile e
dell'inutile, cosí come del lavoro produttivo e del gioco, che i situazionisti
impostano le loro esperienze. Le quali sono sí caratterizzate da una
programmatica impermanenza e aleatorietà; ma al tempo stesso vengono
assoggettate dai componenti del gruppo a un certo "rigore" metodologico che le
rende comunicabili e scambiabili, e dunque anche condivisibili. Fondamentale per
i situazionisti, da questo punto di vista, è che le derive da essi compiute non
rimangano delle esperienze isolate, soggettive, ma vengano invece sempre
socializzate. Soltanto cosí l'opera di risignificazione di alcuni luoghi della
città può giungere a compimento; e in questo modo avviare un processo di
"riqualificazione" (anche solo virtuale) dei medesimi luoghi. Il fatto che
questo processo si attui in una prospettiva ludica -- ovvero nella dimensione in
cui l'*homo ludens* si sostituisce all'*homo faber*[^v29] -- non lo rende per
questo meno pensabile: semmai meno facilmente realizzabile, vale a dire
realizzabile soltanto a costo di forzare i consueti termini della realtà,
infrangendo cioè il patto che questa tacitamente istituisce con un modo "serio"
di intendere la società e il mondo.
È verso la fine del Settecento, rileva Johan Huizinga, nel momento in cui si
sviluppano simultaneamente classe borghese, rivoluzione industriale e
Illuminismo, che "lavoro e produzione assurgono a ideale, anzi quasi a
idolo"[^v30]. Si tratta dell'infanzia dell'epoca odierna. È in quel momento
infatti che, secondo lo storico olandese, sorge
> ... \[l'\]equivoco secondo il quale le forze economiche e l'interesse
> economico determinerebbero e dominerebbero il corso del mondo. La
> sopravvalutazione del fattore economico nella società e nello spirito umano
> era in certo senso il frutto naturale del razionalismo e dell'utilitarismo.
Il ritorno -- o l'approdo -- a una società ludica, per i situazionisti,
corrisponde appunto alla messa in crisi del razionalismo e dell'utilitarismo,
cioè a dire del capitalismo. Il rifiuto di quest'ultimo è il rifiuto
innanzitutto di una logica produttiva in senso economico, non della produzione
*tout court*. È in questa logica che essi pongono il "gioco" al centro del
proprio interesse. Pur se improduttivo in senso economico, il gioco in compenso
produce divertimento. Ed è precisamente quest'ultimo che si prefiggono di
"produrre" i situazionisti. Un divertimento che non costituisce una semplice
evasione dalle consuete regole sociali, una pausa dalla "serietà" altrimenti
dominante, bensì il fondamento stesso di una società basata sul gioco anziché
sul lavoro, sull'avventura anziché sulla noia; una società nomade anziché
stanziale, proprio come la *New Babylon* di Constant immaginava di esserlo[^v31].
Ma non è soltanto nel progetto di Constant che il gioco assume un ruolo centrale
nella costruzione di situazioni urbane alternative a quelle esistenti. Il
concetto di "urbanismo unitario" formulato dall'Internationale Situationniste,
ovvero la "costruzione integrale di un ambiente in legame dinamico con
esperienze di comportamento"[^v32], è al tempo stesso una critica alla città del
capitale e la prefigurazione di uno spazio sociale inteso nella prospettiva del
ludico:
> L'urbanismo unitario non è una dottrina urbanistica ma una critica
> dell'urbanistica. (...) Nessuna disciplina separata può essere accettata in
> sé, noi andiamo verso una creazione globale dell'esistenza. L'urbanismo
> unitario è distinto dai problemi dell'habitat e tuttavia è destinato ad
> inglobarli; a maggior ragione è distinto dagli attuali scambi commerciali. In
> questo momento prende in considerazione un campo di esperienza per lo *spazio
> sociale* delle città future. Non è una reazione contro il funzionalismo, ma il
> suo superamento: si tratta di realizzare, al di là dell'utilità immediata, un
> ambiente funzionale appassionante. (...) Cosí come l'habitat, l'urbanismo
> unitario è distinto dai problemi estetici. Va contro lo spettacolo passivo,
> principio della nostra cultura in cui l'organizzazione dello spettacolo si
> estende tanto più scandalosamente quanto più aumentano i mezzi dell'intervento
> umano. Mentre oggi le stesse città vengono offerte come un penoso spettacolo,
> un supplemento ai musei, per i turisti trasportati su corriere di vetro,
> l'urbanismo unitario prende in considerazione l'ambiente urbano come terreno
> di un gioco di partecipazione. L'urbanismo unitario non è idealmente separato
> dall'attuale terreno della città. Si è formato dall'esperienza di questo
> terreno e a partire dalle costruzioni esistenti. Noi dobbiamo sia sfruttare
> gli attuali scenari con l'affermazione di uno spazio urbano ludico quale lo fa
> riconoscere la deriva, sia costruirne di totalmente inediti. (...) L'urbanismo
> unitario si contrappone alla fissazione delle città nel tempo. (...)
> L'urbanismo unitario è contro la fissazione delle persone in dati punti di una
> città. È lo zoccolo di una civiltà del tempo libero e del gioco[^v33].
Le "tecniche" situazioniste, pur in apparenza estremamente elementari, e
certamente assai modeste se confrontate con quelle impiegate dalle forze loro
antagoniste, si fondano tuttavia su una lucida comprensione delle dinamiche in
campo; una comprensione che consente loro di "anticipare" le mosse
dell'avversario, o in certi casi addirittura di appropriarsi dei meccanismi
regolativi di tali dinamiche. L'esempio più emblematico è proprio quello
relativo alla spettacolarizzazione della città e della società capitaliste,
presagita con largo anticipo e criticata nella sua natura "passiva" dai
situazionisti, prima di essere approfonditamente analizzata, anni più tardi, da
Guy Debord, in *La Société du Spectacle* (1967). Lungi dall'essere semplicemente
rifiutata, la nozione di spettacolo è invece assunta e direttamente (e
coscientemente) impiegata anche in alcune delle pratiche situazioniste. Si pensi
ad esempio all'uso delle immagini -- sorprendenti e a volte provocatorie --
nelle pagine della rivista, a corredo di ponderosi saggi con i quali esse non
intrattengono palesemente alcun rapporto; o alle copertine della rivista stessa,
tutte diversamente colorate e metallizzate in modo tale da renderle specchianti,
una lavorazione complessa e costosa all'epoca, il cui unico scopo è
evidentemente quello di rendere i fascicoli -- appunto -- più spettacolari, e
dunque attraenti. D'altronde, al di là della singolarità di questi esempi,
quanto si offre come lezione più generale e durevole dal caso
dell'Internationale Situationniste è che per combattere efficacemente qualcosa
bisogna penetrarvi in profondità e, da tale posizione interna, capirne le
regole, giungendo al limite persino a impiegarle. L'essere *dentro* -- anche
nella sovversiva logica situazionista -- non è dunque soltanto una condizione
fattuale imposta da ostili circostanze "esterne", bensì l'irrinunciabile
presupposto per poter essere *contro*.
A fronte di ciò si potrebbe obiettare che le "azioni" situazioniste -- ovvero le
situazioni --, essendo per loro natura impersistenti e del tutto prive di
sostanzialità, non lasciano alcuna traccia dietro di sé, o perlomeno non tracce
abbastanza tangibili da poter essere oggettivate, e di conseguenza disgiunte,
fatte altro da chi le ha vissute. La rinuncia alla produttività delle proprie
azioni parrebbe dunque lo "scotto" che l'Internationale Situationniste è
costretta a pagare per mantenere dal proprio punto di vista una posizione
"politicamente corretta". In realtà la prospettiva dei situazionisti è
radicalmente opposta: affidare per intero il proprio operare a un "lavoro
improduttivo" significa implicitamente sottrarlo alla possibilità di
trasformarsi in merce. Rifiutando di farsi "opera" (la cui produttività
"aggiunge nuovi oggetti al mondo umano artificiale")[^v34], la situazione -- come
la forza lavoro -- "non "produce" altro che vita". Una vita che non a caso i
situazionisti definiscono correttamente in termini di "esperienza".
L'"improduttività" situazionista non è comunque l'unico modo per liberarsi dal
carico di valori sociali da lungo tempo assunti come "naturali". Non sono pochi
i casi in cui gli architetti hanno cercato almeno di infrangere il "cerchio
magico" che racchiude in un unico abbraccio progetto e realtà; rinunciando
deliberatamente a quest'ultima ed esonerando in questo modo il progetto dal
compito di dover fare i conti con essa. Ciò non spezza, sia chiaro, l'equazione
architettura = merce, dal momento che ogni progetto incarna, almeno
potenzialmente, entrambe. Di progetti non realizzati, ovviamente, ne esiste un
numero sterminato, senza che questo comporti una altrettanto alta ricorrenza di
casi in cui i progetti intendano opporsi intenzionalmente alla realtà. Anzi, si
potrebbe facilmente affermare che la maggior parte dei progetti che rimangono
tali anelerebbe sopra ogni altra cosa a essere realizzata. Quanto invece qui
interessa sono quegli assai più rari casi -- in tutti i sensi "eccezioni" -- in
cui il progetto mette in difficoltà, e addirittura impedisce, ostacola
letteralmente, la possibilità della propria realizzazione, arrivando a
*progettare* le condizioni della propria irrealizzabilità.
Sarebbe fin troppo facile citare al proposito i molti progetti utopici prodotti
dalla cultura architettonica tra la seconda metà del Settecento e gli ultimi
decenni del Novecento: ai quali progetti tuttavia difetta, nella gran parte di
casi, la consapevolezza (o forse sarebbe meglio dire, la disillusione) di essere
inevitabilmente "dentro" per poter essere davvero contro. La vera debolezza
delle utopie, in questo senso, non è tanto quella di non poter essere
realizzate, quanto piuttosto d'illudersi di non essere condizionate dalla
realtà, di porsi come una vera alternativa rispetto a quest'ultima. Ciò che è
utopico in tali progetti è proprio questa chimerica speranza. Cosí come ciò che
in essi finisce per essere davvero ineffettuale, più che il tentativo di
osservare il mondo con uno sguardo diverso, è la persuasione che tale sguardo
non appartenga comunque a "questo mondo", che possa esistere in esso, nonostante
esso.
Al di fuori delle utopie architettoniche e delle ideologie che inevitabilmente
vi sono connesse[^v35], è in una dimensione meno carica di "messianiche attese"
che l'allontanamento del progetto dalla realtà (ovvero dal rispetto delle
condizioni per una sua realizzazione almeno possibile) produce esiti più
interessanti. Con intenti che si presentano comunque critici o polemici -- anche
se espressi a volte in maniera silenziosa o sottile -- nei confronti del
contesto economico, sociale, politico, insomma del complessivo panorama
valoriale in cui si inseriscono (o che piuttosto rifiutano).
Tra i tanti che si potrebbero citare, un caso estremamente affascinante da
questo punto di vista è quello di John Hejduk. Dopo gli studi compiuti in
diverse università americane, come la Cooper Union di New York e la Harvard
University, viene chiamato a insegnare alla School of Architecture di Austin
(Texas), dove -- insieme ad altri colleghi tra i quali Colin Rowe, Robert
Slutzky, Werner Seligmann e Bernhard Hoesli -- dà vita al gruppo dei Texas
Rangers[^v36]. Anche grazie all'influenza del lavoro astratto-geometrico --
grafico e pittorico -- di Josef Albers (allievo e poi maestro del Bauhaus --
nonché insegnante del *Vorkurs*, già tenuto da Itten -- prima dell'emigrazione
negli Stati Uniti, quindi direttore del Black Mountain College in North Carolina
e del dipartimento di Design alla Yale University) il gruppo sviluppa un
approccio al progetto architettonico tendente a marginalizzare i problemi
concreti come il programma, la funzione o gli aspetti costruttivi,
focalizzandosi invece su principî visuali e su un'architettura intesa come
disciplina autonoma. È in questo contesto che Hejduk esplora le possibilità
insite nella *nine-square grid*, la griglia di nove quadrati come matrice per
infinite variazioni compositive. Su questi esercizi si basano le sette "Texas
Houses", elaborate tra il 1954 il 1963[^v37]. Dopo diverse esperienze lavorative
presso studi di qualificati professionisti quali I. M. Pei and Partners, nel
1965 Hejduk apre un proprio studio di architettura a New York. Nei progetti che
produce a cavallo di questi anni -- serie Diamond (1963-67), serie 1/4, 1/2, 3/4
(1968-74), Wall Houses (1971-73)[^v38] --, il tema insistentemente affrontato è
quello della casa: tema che tuttavia, contrariamente a quanto non accada di
norma, esclude dal proprio orizzonte qualsiasi ipotesi di fattibilità. Facendo
ricorso a diverse "strategie" compositive (rotazioni, concentrazioni,
dimezzamenti, prolungamenti), Hejduk pone sul cammino del progetto differenti
generi d'impedimenti, tali da mantenere quanto più lontano possibile da esso lo
"spettro" della costruibilità. Si tratta con tutta evidenza di un'architettura
preoccupata di rispondere a requisiti puramente teorici. Ma una "teoria" che ha
ben poco di positivo da dimostrare. Al di là di elementari figure geometriche e
di forme puriste di esplicita discendenza lecorbusieriana, questi progetti di
case o di altri tipi di spazi non contengono altro che l'esatto contrario di
quanto comunemente si potrebbe ritenere comodo, agevole, funzionale. In questo
senso va inteso, ad esempio, il lunghissimo corridoio che collega-e-divide le
stanze poste alle due estremità della 3/4 House; o che si "tende" all'infinito
nella Gunn House; o ancora, che fa da "spina" centrale nella Extension House:
vere e proprie "barriere" architettoniche che s'interpongono beffardamente
all'usabilità della casa; la quale, in tal modo, più che un rifugio, appare un
luogo di pena. Ed effetti analoghi si lasciano riscontrare nei progetti della
serie Diamond (Diamond House A, Diamond House B, Diamond Museum C), dove lo
spazio quadrato è recintato e scandito internamente da pareti ortogonali o da
forme curvilinee "libere" soltanto di rendere possibile la circolazione dentro
quella che si rivela essere a tutti gli effetti una prigione.
Ha certamente ragione Manfredo Tafuri nel ritenere John Hejduk "il più empirico
e il meno intellettualistico"[^v39] dei componenti del gruppo dei New York Five,
al quale aderisce in occasione dell'incontro organizzato da Kenneth Frampton
nell'ambito della Conference of Architects for the Study of Environment,
svoltosi al MoMA nel 1969[^v40]. E tuttavia, tale empirismo dei suoi progetti
teorici non si lascerebbe definire meglio che come un tentativo di minare alle
basi idee e consuetudini che vogliono l'architettura (e in particolar modo
quella della casa) come qualcosa di lontano dalle insidie delle vuote
speculazioni, tutta assorbita dallo svolgimento di compiti utili, e la cui
perfetta integrazione alle regole del mercato è garantita dal sistema stesso che
la detiene e controlla. In forma essenziale, quasi elementare, i progetti
impossibili di Hejduk sembrano costituire un'opposizione a tale sistema;
un'opposizione niente affatto aggressiva, bensì condotta con le "armi" di una
serissima ironia e di un poetico candore. Né d'altronde risulta inverosimile,
nell'ottica della seconda metà degli anni sessanta, ribellarsi alle logiche del
professionismo spersonalizzato dei grandi studi americani, dominati -- più che
dagli *architects* -- dai *builders*, occupati perlopiù in stanche repliche
degli stilemi dell'*International Style*. E farlo doveva essere tanto più
significativo dalla particolare prospettiva newyorkese.
Allorché Hejduk nel 1965 apre uno studio di architettura e inizia a produrre i
propri progetti lo fa non già per integrarsi a tale sistema, bensì piuttosto per
sottrarsi a esso. E anche in seguito -- con rare eccezioni rappresentate dai
pochi progetti realizzati, tutti accomunati da un gusto per la giocosità e da
un'irriverente irrisione nei confronti del "buon senso" (dai surreali interventi
effettuati all'interno della Cooper Union School, a New York, alla "macchina
celibe" dello Studio for a Musician, fino agli stranianti edifici costruiti a
Berlino nell'ambito dell'Internationale Bauausstellung 1987)[^v41] -- egli
persisterà nella sua volontaria "astensione" dalla realtà e in una ricerca del
senso dell'architettura al di là della sua costruzione, spostando
preferenzialmente la propria attenzione sul terreno del disegno e della poesia.
Rompendo i limiti dell'oggettività e fissità tradizionali, gli edifici diventano
cosí personaggi, oggetti-soggetti protagonisti di un "viaggio" che da Venezia li
porta via via a Praga, Berlino, Riga, Vladivostok[^v42]. Negli espressivi e
infantili disegni che compongono i libri-avventure di Hejduk rivivono lo spirito
surrealista e situazionista, ma soprattutto si agita uno spirito che nel rifiuto
della dimensione costruttiva-costrittiva dell'architettura non identifica la sua
negazione, quanto piuttosto vede la sua libertà dal reale come un valore.
Sulla medesima lunghezza d'onda dell'"esposizione lucida e perversa
dell'inutilità del gioco intrapreso"[^v43] dai progetti di Hejduk si pongono le
speculazioni sull'architettura elaborate da Peter Eisenman. Il loro carattere è
molto più intellettuale; la loro volontà dimostrativa molto più stringente, e
tuttavia non dissimili sono il contesto in cui questi si muove e gli obiettivi
che lo animano. In particolar modo nel noto ciclo delle Houses I-X, progettate e
in parte realizzate tra il 1967 e il 1976, il tema centrale è quello delle
variazioni compiute su operazioni compositive ed elementi semplici e lineari, ma
via via resi sempre più complessi nelle loro relazioni: una sorta di *ars
combinatoria*, o di "grammatica trasformazionale" *à la* Chomsky, alla quale
peraltro Eisenman si rifà esplicitamente. Come già nel caso dei progetti di
Hejduk, anche qui l'architettura vive una vita propria staccata dalla realtà:
essa *parla di se stessa*, del proprio sistema di segni privati di senso,
autoreferenziali, tautologici. Ma appunto, nell'affermare il linguaggio come
perfettamente fine a se stesso, si sancisce la separazione della forma
architettonica dalla dimensione esperienziale. Scrive Eisenman a proposito della
House III (1969-71), realizzata a Lakeville (Connecticut):
> Quando entra nella "propria casa", il proprietario è un intruso che tenta di
> prenderne possesso e, di conseguenza, distrugge, seppur in senso positivo,
> l'unità e la completezza iniziale della struttura architettonica[^v44].
E Tafuri:
> La spietata operazione di Eisenman consiste nel riconoscere che non si dà
> lingua architettonica se non al di fuori della prassi, che il laboratorio
> sintattico evocato da oggetti perfettamente circoscritti nel colloquio dei
> segni fra loro *non ammette intrusi*[^v45].
"Al di fuori della prassi": ancora una volta si ripresenta la non accettazione
dell'architettura come semplice "cosa pratica", come mera *machine à
fonctionner*. Ma ciò a cui s'oppone Eisenman, a ben guardare, è qualcosa di più
che il funzionamento o l'uso dell'architettura: piuttosto è il destino di
superfluità, di "inoperatività" che ai suoi occhi l'architettura finisce per
assumere nell'epoca del capitalismo maturo. Ridotta a oggetto solo-funzionale,
essa rischia di diventare paradossalmente un oggetto inutile. Di tale inutilità
-- o per meglio dire, di tale *intransitività* -- le stesse case di Eisenman, da
lui stesso battezzate *Cardboard Architecture* (architettura di cartone)[^v46],
sono la pur esile prova. Nella House VI, ad esempio, realizzata con il nome di
House Frank a Cornwall (Connecticut, 1972-75), l'incrocio di piani verticali
perpendicolari tra loro produce una costruzione gremita di contraddizioni
spaziali: passaggi interdetti, collegamenti imprevisti, scale che finiscono nel
nulla. Le aporie dello spazio, concepite come parti inerenti al sistema, ridanno
alla casa un imprevisto interesse "autonomo": la casa diviene interessante *in
sé*, non in quanto capace di essere comoda o funzionale, o per il suo valore di
mercato.
Applicata al corpo concreto dell'architettura, tuttavia, la teoria eisenmaniana
dello "svuotamento di senso dei segni" si espone a possibili "cadute"; o
quantomeno, in certi casi risulta essere un piano pericolosamente inclinato,
come lo sono le pareti della House X (1975), l'ultima della serie: una casa
concepita come un'assonometria tridimensionale, in cui la realtà è virtualmente
"piegata" alla sua rappresentazione e nella quale di conseguenza vivere sarebbe
letteralmente impossibile (e infatti non verrà realizzata). O come lo sono --
ancora di più -- alcune sue opere degli anni ottanta e novanta (Uffici della
Koizumi Sangyo Corporation, Tokyo, 1988-90; Aronoff Center for Design and Art,
Cincinnati, 1988-96; Sede centrale della Nunotani Corporation, Tokyo, 1990-92,
tutte realizzate), in cui singoli elementi e interi volumi si presentano storti
al punto da mettere quasi a repentaglio il loro stesso utilizzo. È proprio qui
che l'incursione della teoria all'interno dei territori della realtà mostra la
sua debolezza. Fuori dalla zona di costitutiva ambiguità tra astrazione e realtà
in cui vivevano i suoi primi progetti di case concettuali, le quali --
nonostante gli sporadici affondi nella materia -- rimangono comunque "fantasmi
virtuali", corpi disincarnati fino ai limiti del possibile, le architetture
successive di Eisenman riescono al più a mettere in scena una parodia del
conflitto; la loro "decostruzione" del mondo è soltanto una maschera destinata a
fornire a quel mondo l'ennesima copertura (*intellettuale*) con cui perpetuarsi,
non certo la spia dell'aprirsi al suo interno di "crepe". Dietro la rottura
dell'ordine non vi è la minaccia di alcun dissidio con il mondo bensì -- neanche
troppo paradossalmente -- l'annuncio della nascita di una "nuova alleanza" con
esso, come dimostra tra l'altro il consenso ricevuto dagli edifici sopra citati
e da altri loro consimili da parte di diverse *corporations*. E lo stesso si può
dire dell'"architettura non classica", "rappresentazione di se stessa, dei
propri valori e della sua esperienza interna"[^v47], che Eisenman teorizza e
contestualmente realizza in quegli stessi anni; un'architettura auto-generata a
partire da presupposti totalmente arbitrari, e che tuttavia -- unici --
garantirebbero a suo avviso una completa autonomia dalle tre *fictions*
(rappresentazione, ragione, storia) sotto il cui giogo essa sarebbe rimasta dal
Rinascimento fin quasi alla fine del XX secolo. Ma dare vita a "un'*architettura
come discorso indipendente*, libero da valori esterni"[^v48], esattamente come
elevare l'arbitrarietà a nuovo fondamento, si dimostreranno possibilità tanto
seducenti quanto in fin dei conti illusorie.
Al di là comunque di tutte le possibili fughe nel "mondo dei sogni" della teoria
e del progetto (e persino di quegli oggetti che -- pur materiali e
tridimensionali -- si lasciano agevolmente inquadrare in una cornice di
irrealtà, com'è il caso di quelli di Eisenman), a un'architettura che pretenda
di posizionarsi in maniera effettivamente diversa rispetto alle logiche e
all'universo valoriale dominanti si richiederà di confrontarsi con questi in
modo più stringente, più sostanziale. Per spingersi oltre le facili apparenze di
libertà o di insubordinazione, insomma, o meglio ancora, per evitare di
accontentarsi di una semplice "*dis*simulazione" della libertà dai valori, è
necessario trovare qualcosa -- e qualcuno -- che sia in grado di confrontarsi
sul serio con la realtà. Con la ben precisa coscienza che, nel compiere questo
passaggio, architettura e architetto si trovano a dover affrontare
"appesantimenti" di vario genere assai più gravosi, quali ad esempio il rispetto
delle leggi fisiche, dei regolamenti edilizi e di tutti gli altri vincoli --
espliciti o sottintesi -- che appartengono al mondo reale.
Non sono numerosi -- stanti queste premesse -- i casi in cui un edificio e il
suo architetto possano dirsi davvero capaci di rompere norme e convenzioni,
*non* sul versante formale quanto piuttosto su quello delle regole comunemente
diffuse e accettate, mostrando cosí di saperle modificare dall'interno. Tra
queste rare eccezioni, vi è senza alcun dubbio John N. Habraken, architetto
olandese che ha dedicato la sua intera carriera a una riconsiderazione integrale
del ruolo rivestito da sé o da altri all'interno del processo di produzione
edilizia, e conseguentemente a una modificazione dello stesso processo. Nel 1961
pubblica un libro, *De dragers en de mensen, het einde van de massawoningbouw*
(tradotto in inglese nel 1972 con il titolo *Supports: An Alternative to Mass
Housing*)[^v49], che susciterà l'interesse dell'ambiente accademico e
professionale olandese. In stretta connessione con ciò, nel 1964 viene fondato
lo Stichting Architecten Research (SAR), un'organizzazione per la ricerca nel
settore della residenza, finanziata da un gruppo di architetti olandesi e
diretta dallo stesso Habraken. Pur senza impegnarsi nella diretta redazione di
progetti, il SAR ha fornito la propria consulenza ad altri architetti,
amministrazioni pubbliche ed enti olandesi per coadiuvarne la sperimentazione
progettuale nel campo dell'edilizia residenziale. L'idea elaborata da Habraken
si basa sulla distinzione, all'interno dei nuclei abitativi, tra elementi
stabili, sia per la loro funzione che per il loro contenuto tecnico, denominati
"supporti" (*supports*), ed elementi variabili, il cui utilizzo è più soggettivo
e mutevole nel tempo, denominati "unità staccabili" (*infills*). Rispetto alle
"tradizioni" precedenti (compresa quella moderna) si istituisce cosí una prima
differenza: se infatti i supporti devono essere messi in opera in cantiere, le
unità staccabili sono prodotte dall'industria. Ma la distinzione riguarda anche
i soggetti coinvolti nel processo di definizione di ciascun nucleo residenziale:
se per i *supports* è ancora indispensabile la presenza delle figure che di
norma presiedono al processo costruttivo (architetto, ingegnere), i "detentori
del potere" sulle *infills* sono invece gli utenti. Ed è a partire da qui che
Habraken svilupperà, negli anni seguenti, un discorso relativo alla relazione
esistente tra chi esercita il potere all'interno del processo progettuale e la
forma che questo assume. Cosí, come in tutti gli altri casi,
> ... anche nell'edilizia di massa la morfologia esprime i valori di chi assume
> le decisioni: in questo caso l'élite intellettuale, professionale, che
> stabilisce i giudizi di valore e ne risponde soltanto nei confronti del suo
> stesso gruppo sociale. Il dibattito sulla qualità -- su ciò che è valido o
> meno, su ciò che si deve o non si deve fare -- si svolge soltanto tra i
> professionisti. Le regole vengono fissate dagli stessi che le mettono in
> pratica. L'architetto che sostiene una nuova forma non si preoccupa di
> mettersi in contatto con i futuri utenti ma solo con le autorità. Le autorità
> ascoltano solo i professionisti e gli esperti. I risultati vengono poi
> confrontati sul piano internazionale attraverso riviste, congressi, mostre,
> visite: il dialogo tra professionisti continua[^v50],
tralasciando del tutto coloro che -- in quanto direttamente implicati --
avrebbero al contrario il diritto di prendervi parte.
Pur essendo uno dei massimi sostenitori di un reale coinvolgimento, ovvero di
una "partecipazione", di tali soggetti, Habraken è anche molto chiaro e
realistico in merito: "Una partecipazione reale (...) può essere basata soltanto
su un rapporto di potere. (...) Chiedere partecipazione significa che non si ha
potere nell'ambito della controparte". Il processo di partecipazione, pertanto,
> ... può funzionare soltanto se il rapporto si sviluppa tra due poteri che in
> qualche modo si equilibrano -- tra due poteri che operano in una diversa
> direzione e devono trovare un equilibrio. È necessario che nel processo
> entrambi i poteri siano identificabili e riconosciuti. (...) Finché questo
> equilibrio non esiste, i cosiddetti processi partecipatori sono soltanto
> un'espressione del problema, non la sua soluzione[^v51].
È muovendo da questi presupposti che si può assumere nel suo significato
effettivo il "caso" del Villaggio Matteotti di Terni (1969-75), il cui
"artefice" è Giancarlo De Carlo: un intervento giustamente celebre, non solo per
i suoi esiti, che ne fanno un "frammento" di architettura di grande qualità del
secondo dopoguerra, nonché un complesso fortemente identitario e unitario
(nonostante la mancata realizzazione della parte destinata ai servizi pubblici),
ma soprattutto per la ragione che -- tra i primi e i pochi casi in Italia -- il
Villaggio ha visto appunto la partecipazione degli utenti al processo di
progettazione.
In realtà, quella della partecipazione, pur rivestendo un ruolo importante, è
soltanto una delle condizioni poste da De Carlo al committente -- le Acciaierie
di Terni -- per accettare l'incarico che gli era stato offerto. E qui è
interessante notare come la posizione di De Carlo nei confronti della sua
"controparte" sia abissalmente distante da quella assunta dalla maggior parte
dei colleghi suoi contemporanei, e ancora di più dalla pressoché totalità degli
architetti del giorno d'oggi. Per comprendere quale sia con esattezza la
posizione di De Carlo basta leggere il testo scritto da lui stesso che
ripercorre con precisione la vicenda di Terni[^v52]. Durante il fascismo,
all'estrema periferia sud-orientale di Terni, era stato realizzato un quartiere
operaio per i dipendenti delle Acciaierie. La situazione di degrado del
quartiere, l'assenza di servizi e la programmatica carenza di collegamenti con
la città suggeriscono alla direzione delle Acciaierie di intervenire in qualche
modo:
> La direzione propendeva per vendere le case ai loro abitanti e togliersi una
> volta per tutte il peso di dovere intervenire con forti spese di manutenzione
> o, peggio, di risanamento. I consigli di fabbrica invece sostenevano l'ipotesi
> di radere al suolo tutto e ricostruire sulla stessa area il volume di
> residenza che era consentito dal piano regolatore. Dopo lunghe discussioni,
> visto che non si trovava uno sbocco tra le due inconciliabili alternative, la
> direzione decideva di girare il problema a un architetto, e cioè a qualcuno
> che fosse in grado di risolverlo in termini puramente tecnici, e perciò
> inequivocabili[^v53].
In quest'ultimo passaggio va sottolineata l'ingenua -- o piuttosto la ben
calcolata -- identificazione della figura dell'architetto con quella del
"tecnico": dove con questo termine la direzione delle Acciaierie intendeva
evidentemente alludere a qualcuno in grado di svolgere una funzione -- e di
fornire una prestazione -- oggettiva, misurabile, "scientifica"; perfetta
incarnazione, secondo le attese della committenza, del "rifornitore" del
sistema. E invece, l'architetto prescelto disattenderà tale aspettativa:
> Ma l'architetto -- che poi ero io -- si rendeva subito conto che se avesse
> tagliato il nodo, invece di tentare di scioglierlo, si sarebbe trovato a
> svolgere un ruolo equivoco al servizio di un potere che non gli piaceva.
De Carlo mette a punto cinque diverse ipotesi di intervento: dal risanamento
integrale del vecchio villaggio, senza variare la sua configurazione originale
ma dotandolo dei servizi collettivi necessari e ristrutturando integralmente gli
edifici residenziali, alla sostituzione del tessuto edilizio originale con un
sistema di edifici a torri uguali a quello già utilizzato in un altro intervento
dalle Acciaierie di Terni; dall'utilizzo di un sistema di edifici in linea
analogo a quelli utilizzati dagli istituti di case popolari in giro per l'Italia
in quegli anni, all'adozione di due possibili sistemi di edifici costituiti da
tre piastre sovrapposte all'interno delle quali sono previste sequenze di
edifici lineari includenti la residenza, i servizi di diretta pertinenza
dell'abitazione e i canali del movimento pedonale. "Ciascuna delle cinque
alternative era corredata dalla descrizione dei vantaggi e degli svantaggi che
comportava, in relazione ai diversi punti di vista che era possibile
considerare". Ma soprattutto:
> Le cinque alternative venivano consegnate e accompagnate da una nota nella
> quale si diceva che l'architetto sarebbe stato interessato a elaborare il
> progetto, e quindi ad assumere l'incarico, soltanto se la scelta fosse caduta
> sulla quarta o la quinta soluzione: le prime tre le Acciaierie avrebbero
> potuto attuarle in proprio o rivolgendosi ad altri che si sentissero di
> condividerle[^v54].
Lungi dal mettersi completamente "al servizio" del suo committente, del tutto
prono di fronte alle richieste di questi, come suo puro "rifornitore", De Carlo
pone le condizioni in base alle quali è disponibile a farsi carico del progetto.
E non si tratta affatto di richieste di ordine economico. Piuttosto, quelle alle
quali egli mira sono le condizioni che ritiene migliori *per il progetto*, e di
conseguenza migliori per chi dovrà usufruirne. Il concetto -- e la pratica --
della "partecipazione" discendono precisamente da questi presupposti.
Nell'ottica di quest'ultima, "il compito del progettista non è più di sfornare
soluzioni finite e inalterabili, ma di estrarre le soluzioni da un confronto
continuo con chi utilizzerà la sua opera"[^v55]. Un *processo*, non più
semplicemente un progetto[^v56].
Ma la questione della partecipazione apre anche ulteriori prospettive che De
Carlo sviluppa solo parzialmente. Ad esempio quella relativa alla "gestione del
potere" intimamente connesso all'architettura.
Scrive De Carlo:
> Si ha la partecipazione quando tutti intervengono in egual misura nella
> gestione del potere, oppure -- forse cosí è più chiaro -- quando non esiste
> più il potere perché tutti sono direttamente ed egualmente coinvolti nel
> processo delle decisioni[^v57].
L'idea di De Carlo, sulla scia delle tendenze del comunismo anarchico verso cui
era orientato[^v58], è quella di una sorta di "dissoluzione del potere"
attraverso la sua condivisione. In realtà, ciò che qui egli sembra soprattutto
voler mettere in discussione fino alle sue radici è il ruolo dell'architetto:
"La prospettiva che mi sembra molto interessante è quella di sottrarre
l'architettura agli architetti per restituirla alla gente che la usa"[^v59]. È
l'architetto che può e che *deve* compiere -- ai suoi occhi -- un atto di
rinuncia nei confronti della propria stessa natura di *autore* (della propria
*auctoritas*, dunque), per far divenire il progetto davvero utilizzabile dai
suoi fruitori.
Ma se l'architetto può arrivare a compiere questa rinuncia, rendendo
l'architettura, attraverso la partecipazione, "sempre meno la rappresentazione
di chi la progetta e sempre più la rappresentazione di chi la usa"[^v60], ciò può
avvenire soltanto a patto che l'architetto stesso abbia compiuto un'altra
"liberazione", esattamente simmetrica alla prima, nei confronti della
committenza. È infatti evidente come a quest'ultima non possa essere
forzatamente richiesto di essere sensibile alle esigenze dell'utenza, né imposto
un ascolto attento di essa. Quando ciò si verifica, va ritenuta più una
fortunata eccezione che non un'indefettibile regola. Se l'esperienza descritta
da De Carlo testimonia di una sia pur cauta apertura da parte del committente
alle richieste dell'architetto, attesta altresí in maniera inequivocabile
l'*autonomia* dell'architetto nei confronti della sua "controparte". Nel saper
rifiutare (o quantomeno riformulare) il proprio ruolo di "tecnico", De Carlo
reimposta il rapporto con la committenza in termini *politici*. E come in tutte
le questioni di carattere politico, l'efficacia o meno di una data azione si
misura sulla base della capacità di persuadere (o di lasciarsi persuadere) dei
suoi "attori", ovvero sulla base dei rapporti di forza esistenti tra loro. Non
deve stupire, in tal senso, che De Carlo non sia riuscito a vincere per intero
la propria battaglia, e anzi sia stato costretto a incassare diverse sconfitte.
Soltanto la sua presa di distanza dalle pretese della committenza, comunque,
ovverosia la sua manifesta indipendenza da esse, ha reso possibile il Villaggio
Matteotti nelle forme e nei modi attuali: un intreccio strettissimo di spazi
residenziali, spazi comuni e spazi aperti; quasi un labirinto tridimensionale, o
una *casbah* moderna, in cui cemento armato e natura, anziché essere posti in
alternativa o in antitesi, convivono in una relazione dialettica, in condizione
di confrontarsi e di fondersi. Ma soprattutto, un insediamento *umano* prima
ancora che urbano, una *comunità organica* dove gli abitanti ritrovano una
centralità che altrove, nell'epoca contemporanea, appare ormai inesorabilmente
perduta.
Pur non essendo frequenti, le "lotte" dell'architetto per ottenere condizioni
migliori non sono tanto rare da potersi dire inesistenti. Anche se spesso non
giungono alla notorietà del caso appena citato, consumandosi senza troppi
clamori, nell'"anonimato" del rapporto tra committente e architetto, queste
"lotte" hanno come obiettivo di ridefinire, almeno provvisoriamente e
localmente, le modalità con cui viene prodotta l'architettura, dal progetto
preliminare all'edificio finito. Si potrebbe ritenere che oggetto di simili
"rivendicazioni" sia immancabilmente la richiesta di miglioramenti del
trattamento economico da parte dell'architetto. In realtà, pur non escludendo
certo questa possibilità, in moltissimi casi l'architetto si batte pure per un
innalzamento della qualità del progetto, oppure -- ciò che non è poi tanto
diverso -- per un allungamento dei tempi della sua esecuzione, con un
conseguente beneficio nelle condizioni di lavoro e un aumento dell'accuratezza
nella sua attuazione.
Qualunque sia l'oggetto e il tenore di tali trattative (o -- in certi casi --
bracci di ferro), l'elemento costante è che da esse rimangono esclusi gli utenti
dell'edificio in questione, futuri proprietari o locatari che siano. Anche
quando -- assai raramente -- è prevista una loro compartecipazione alla
definizione del progetto (come nel caso appena citato, ad esempio), i
destinatari dell'architettura hanno scarsa o nessuna voce in capitolo,
soprattutto in merito agli aspetti economici relativi al "bene" a cui intendono
accedere. È proprio quello dell'accessibilità al "bene"-architettura (nella gran
parte dei casi, la residenza) il problema con cui in ogni parte del mondo è
costretta a confrontarsi un'enorme quantità di persone. Non c'è bisogno di
rileggere i "classici" testi di Friedrich Engels[^v61] per sapere quali siano i
problemi che le classi economicamente più disagiate -- ancora oggi -- devono
fronteggiare per potersi "permettere" la "propria" abitazione: un'abitazione il
cui costo -- si tratti di affitto o di proprietà -- è spesso fonte di
indebitamento. Senza dimenticare che il crollo finanziario del 2008, cui è
seguito un lungo periodo di crisi economica, è stato causato dall'esplosione
della "bolla" dei mutui *subprime*, concessi a persone dall'insufficiente
capacità di assolvere a essi.
È per questa ragione che un ulteriore modo di essere fattivamente "dentro e
contro" le regole imposte dal mercato -- ma anche "dentro e contro" le
condizioni che, in molti paesi del mondo, portano alla "falsa alternativa" della
realizzazione di insediamenti spontanei, "informali" -- è rappresentato dalla
strategia attivata da Alejandro Aravena attraverso il programma Elemental.
Avviato nel 2001 in Cile, suo paese natale, insieme all'ingegner Andrés
Iacobelli e all'architetto Pablo Allard, anch'essi cileni, incontrati alla
Harvard University, tale programma utilizza il sussidio statale a fondo perduto
di 7500 dollari americani, concesso alle fasce più povere della popolazione dal
programma Vivienda Social Dinámica sin Deuda (Edilizia sociale dinamica senza
debito) del ministero per la Casa e l'Urbanistica cileno, per realizzare una
casa migliore -- in termini dimensionali e qualitativi -- di quanto non sia
quella normalmente assegnata dallo Stato con i medesimi fondi. La somma
stanziata doveva essere in grado di coprire i costi del terreno, nonché quelli
della progettazione e della costruzione di ogni singola unità abitativa.
L'approfondita ricerca compiuta da Aravena e da un team di altri architetti ed
esperti in diverse materie porta all'individuazione dei requisiti indispensabili
per rendere l'abitazione sociale un investimento e non una semplice spesa per la
collettività:
> Tutti noi, quando compriamo una casa, ci aspettiamo che incrementi il suo
> valore. Questa è la ragione per cui una casa, quasi per definizione, è un
> investimento. Sfortunatamente, non è quel che succede con l'edilizia sociale.
> L'edilizia sociale è più simile all'acquisto di un'automobile che a quello di
> una casa: ogni giorno che passa, il suo valore diminuisce[^v62].
Perché ciò possa avvenire, la stessa abitazione deve diventare uno strumento per
il superamento della povertà, e non un semplice riparo dall'ambiente
circostante. Per Elemental i requisiti fondamentali sono il posizionamento non
troppo lontano dal centro delle aree sulle quali far sorgere i nuovi
insediamenti, per evitare che si creino disagi nel raggiungimento del posto di
lavoro e della scuola da parte degli abitanti; la possibilità che le unità
abitative si espandano rispetto ai 36 m^v2^ iniziali, fino a un massimo di 72
m^v2^ totali; la possibilità che questa seconda metà della casa venga realizzata
dagli stessi abitanti con tecniche di autocostruzione a costi molto bassi; la
partecipazione dei medesimi utenti alle scelte progettuali, e in generale il
loro consenso alle operazioni compiute. Al proposito scrivono gli autori del
programma:
> Come nel judo, intendevamo prendere la forza del nostro avversario -- in
> questo caso la scarsità di mezzi -- e usarla a nostro vantaggio, ridirigendola
> verso gli obiettivi del nostro progetto. Nello specifico ci siamo concentrati
> sulle costituzionali capacità organizzative delle famiglie[^v63].
Il primo, storico intervento realizzato da Elemental, terminato nel 2004, si
colloca a Iquique, città situata nel nord del Cile, in una zona desertica del
paese. Assegnato dal programma ministeriale Chile Barrio, il sito, denominato
"Quinta Monroy", è collocato in una parte centrale della città, e nei trent'anni
precedenti l'intervento era stato occupato da un centinaio di famiglie che vi
avevano costruito delle residenze informali. Il problema tuttavia non si
presenta di facile risoluzione:
> Se per rispondere alla richiesta avessimo assunto 1 casa = 1 famiglia = 1
> lotto, saremmo stati in grado di ospitare solo 30 famiglie sul sito. (...) Se
> per cercare di usare il terreno in modo più efficiente, avessimo impiegato
> delle case a schiera, anche riducendo la larghezza del lotto fino a farlo
> coincidere con la larghezza della casa, e ancora di più, con la larghezza di
> una stanza, saremmo stati in grado di ospitare solo 60 famiglie[^v64].
La soluzione trovata -- basata sull'idea di corpi edilizi disposti su tre
livelli alternati a spazi vuoti utilizzabili per le possibili espansioni,
consente di alloggiare tutte le 93 famiglie e al tempo stesso di effettuare gli
ampliamenti delle unità abitative.
Da un punto di vista architettonico, le case Elemental (replicate in seguito in
diverse altre località in America Latina, anche al di fuori del Cile, per un
totale di qualche migliaio di unità abitative realizzate), in perfetto accordo
con il loro nome, presentano caratteristiche elementari, essenziali:
parallelepipedi in pannelli di cemento prefabbricati all'interno dei quali i
progettisti si limitano a disporre le componenti più complesse, che una famiglia
raramente è in grado di costruire da sola: solai, muri divisori, scale,
impianti, bagni e cucine. Il resto viene lasciato all'iniziativa degli abitanti,
monitorata però per evitare possibili abusi o situazioni di insicurezza. Dal
2006, inoltre, con la creazione di un "Do Tank", la Elemental SA, la
prosecuzione del programma è stata resa possibile grazie al supporto della
Pontificia Universidad Catolica de Chile di Santiago (presso la quale lo stesso
Aravena insegna), e della Empresas Copec, una società petrolifera cilena che
estende i propri interessi anche ai settori dell'energia, della pesca, della
silvicoltura e del *real estate*.
Senza bisogno di dettagliare ulteriormente un caso di per sé già molto noto,
vale la pena soffermarsi piuttosto su che cosa rende esemplare Elemental dal
punto di vista della capacità di confrontarsi con un problema reale senza
rimanere impigliati nei suoi meccanismi. Innanzitutto il programma Elemental non
è concepito con l'obiettivo di conseguire riconoscimenti per coloro che se ne
sono occupati, o risultati in qualche modo comparabili con quelli che fanno
bella mostra di sé nelle monografie o nei siti dedicati ad altri architetti.
L'obiettivo di Elemental è rendere economicamente sostenibile l'acquisizione di
una casa per una tipologia di abitanti che nelle condizioni normali sono invece
obbligati a sottostare, alternativamente, al "capestro" della contrazione di un
mutuo per diventare proprietari di casa, o anche semplici affittuari (entrambe
condizioni spesso inarrivabili per costoro), oppure al "capestro" di accettare
la "logica" degli insediamenti "informali" (leggi *villas miseria*, *poblaciónes
callampas* o *favelas*, a seconda delle lingue e dei luoghi), con tutti i
problemi che questo comporta. Non meno rilevante è il benessere sociale degli
abitanti, che implica l'inserimento delle case in contesti accettabili in
termini di collocazione urbana e di sicurezza, e la creazione di spazi
collettivi. Ma altrettanto prioritaria, per Elemental, è la qualità del
progetto, strenuamente difesa non come un valore in sé (e per sé), bensì come
condizione indispensabile all'ottenimento degli altri obiettivi.
Per raggiungere tutto ciò Aravena e i suoi soci e collaboratori si servono di
tutte le forze a disposizione, deboli o potenti che siano: da quelle degli
abitanti, interpellati sulle scelte progettuali e resi partecipi attraverso
iniziative comunitarie, fino a quelle di un soggetto potenzialmente "ostile"
quale potrebbe essere considerato una compagnia petrolifera. Senza falsi
moralismi o pregiudizi ideologici, con una combinazione di "realismo",
"pragmatismo" e "ambizione"[^v65], Elemental analizza, comprende e utilizza con
la massima precisione le complesse dinamiche politiche, sociali, economiche
connesse alle operazioni che compie, fino a giungere al punto di *trasformarle*
in quegli aspetti essenziali che consentono di volgerle a proprio favore.
Naturalmente gli esiti progettuali potrebbero apparire non appetibili -- e
conseguentemente non proponibili -- per uno standard occidentale, anche nel
campo dell'edilizia sociale; ma vanno tenuti presenti il contesto e le
condizioni emergenziali in cui Elemental si trova a operare. E sono proprio
questi fattori che rovesciano polarmente la prospettiva del discorso fatto in
precedenza: è accettando il confronto con situazioni difficili, ovvero
rinunciando a dedicarsi a progetti più agevoli ma potenzialmente anche più
"sensazionali", che Elemental ottiene *sensazionali risultati*. Facendocela "con
il poco". Dentro la realtà e contro ogni attesa. A riprova di ciò si veda la
copiosa messe di premi e riconoscimenti raccolti in tutte le parti del mondo,
dai primi anni Duemila in avanti, dai progetti Elemental[^v66], nonché il
Pritzker Prize assegnato nel 2016 ad Alejandro Aravena per lo stesso
progetto[^v67]. Ed è significativo -- e quasi paradossale -- che sia proprio la
giuria del Pritzker Prize a riconoscere ad Aravena la capacità di "trasforma(re)
il professionista in una figura universale", e a salutare con lui "la rinascita
di un architetto più impegnato socialmente", capace di "lottare (...) per
affrontare le crisi abitative globali (...) e trovare soluzioni veramente
collettive per l'ambiente costruito"[^v68].
[^v1]: Ludwig Mies van der Rohe, *Edificio per uffici* (1923), in Id., *Gli
scritti e le parole*, a cura di Vittorio Pizzigoni, Einaudi, Torino 2010, p. 5.
[^v2]: Vedi, tra gli altri, Ludwig Mies van der Rohe, *Architettura e volontà
dell'epoca* (1924), *ibid.*, p. 25.
[^v3]: Ludwig Mies van der Rohe, *Minuta di un articolo* (1923), *ibid.*, p. 7.
Nello stesso testo, poche righe più oltre, è ribadita la natura della *Baukunst*
come "volontà dell'epoca tradotta in spazio".
[^v4]: Massimo Cacciari, *Res aedificatoria. Il "classico" di Mies van der Rohe*,
in "Casabella", n. 629, dicembre 1995, p. 4.
[^v5]: *Ibid.*
[^v6]: Ludwig Mies van der Rohe, *Quello che intendiamo per formazione
elementare* (1924), in Id., *Gli scritti e le parole* cit., p. 19.
[^v7]: Ludwig Mies van der Rohe, *Il costruire è legato alla vita* (1926), in
Id., *Gli scritti e le parole* cit., p. 35.
[^v8]: Benjamin, *Esperienza e povertà* cit., p. 52.
[^v9]: *Ibid.*, p. 56.
[^v10]: *Ibid.*, p. 57.
[^v11]: *Ibid.*, p. 53.
[^v12]: Si riprendono qui le parole -- anch'esse già citate -- dell'altro breve
saggio, "gemello" del precedente, di Benjamin, *Il carattere distruttivo* cit.,
p. 41.
[^v13]: Johannes Itten, *Design and Form. The Basic Course at the Bauhaus and
later*, Thames and Hudson, London
1965. Sulle pratiche di insegnamento di Itten vedi, tra gli altri, Éva Forgács,
*The Bauhaus Idea and Bauhaus Politics*, Central European University Press,
London -- New York 1995.
[^v14]: Marco De Michelis e Agnes Kohlmeyer, *Bauhaus-Bauhaus 1919-1933*, in Id.
(a cura di), *Bauhaus 1919-1933. Da Klee a Kandinsky, da Gropius a Mies van der
Rohe*, Mazzotta, Milano 1996, p. 18.
[^v15]: Oskar Schlemmer a Otto Meyer-Amden, 14 luglio 1921, citato in Peter Hahn,
*Idee e utopie degli anni della fondazione*, in De Michelis e Kohlmeyer (a cura
di), *Bauhaus 1919-1933* cit., p. 48.
[^v16]: Benjamin, *Esperienza e povertà* cit., p. 56.
[^v17]: *Ibid.*, p. 53.
[^v18]: Roberto Calasso, *L'innominabile attuale*, Adelphi, Milano 2017, p. 14.
[^v19]: Byung-Chul Han, *La società della stanchezza*, Nottetempo, Roma 2012, p.
15.
[^v20]: *Ibid.*, p. 16.
[^v21]: Benjamin, *Esperienza e povertà* cit., p. 57.
[^v22]: Han, *La società della stanchezza* cit., p. 32.
[^v23]: Walter Benjamin, *Il narratore. Considerazioni sull'opera di Nicolaj
Leskov* (1936), in Id., *Angelus Novus. Saggi e frammenti*, Einaudi, Torino
1962, in particolare p. 243.
[^v24]: Han, *La società della stanchezza* cit., p. 31.
[^v25]: Benjamin, *Esperienza e povertà* cit., p. 58.
[^v26]: Gilles Ivain, *Formulario per un nuovo urbanismo* (1953), in
*Internazionale Situazionista 1958-1969*, Nautilus, Torino 1994, fasc. I, p. 16.
[^v27]: *Informazioni situazioniste*, *ibid.*, fasc. V, p. 10. Vedi inoltre Simon
Ford, *The Situationist International. A User's Guide*, Black Dog Publishing,
London 2005; Simon Sadler, *The Situationist City*, The MIT Press, Cambridge
(Mass.) 1998.
[^v28]: *Definizioni*, in *Internazionale Situazionista 1958-1969* cit., fasc. I,
p. 13.
[^v29]: Johan Huizinga, *Homo ludens* (1939), Einaudi, Torino 2002.
[^v30]: *Ibid.*, p. 225.
[^v31]: Francesco Careri, *Constant. New Babylon, una città nomade*, Testo &
Immagine, Torino 2001. Vedi anche Constant, *Un'altra città per un'altra vita*,
in *Internazionale Situazionista 1958-1969* cit., fasc. III, pp. 37-40.
[^v32]: *Definizioni*, in *Internazionale Situazionista 1958-1969* cit., fasc. I,
p. 13.
[^v33]: *L'urbanismo unitario alla fine degli anni '50*, in *Internazionale
Situazionista 1958-1969* cit., fasc. III, pp. 12-14.
[^v34]: Arendt, *Vita activa* cit., p. 63.
[^v35]: Su ciò vedi Karl Mannheim, *Ideologia e utopia* (1929), il Mulino,
Bologna 1999.
[^v36]: Alexander Caragonne, *The Texas Rangers. Notes from the Architectural
Underground*, The MIT Press, Cambridge (Mass.) 1995.
[^v37]: Kenneth Frampton, *John Hejduk: 7 Houses*, The Institute for Architecture
and Urban Studies, New York
1980. Scrive Hejduk a proposito di questi progetti: "Speravo di stabilire un
punto di vista, con la convinzione che attraverso una disciplina autoimposta,
uno studio intenso e circoscritto e un'estetica, sarebbe stata possibile una
liberazione della mente e della mano che conducesse a visioni e trasformazioni
della forma spaziale. (...) Se l'evoluzione della forma prosegue o si ferma
dipende dall'uso dell'intelletto non come uno strumento accademico, ma come un
elemento di vita passionale": John Hejduk, *Statement 1964*, *ibid.*, p. 116.
[^v38]: John Hejduk, *Mask of Medusa. Works 1947-1983*, a cura di Kim Shkapich,
Rizzoli, New York 1985, pp. 241-309.
[^v39]: Manfredo Tafuri, *"Les bijoux indiscrets"*, in *Five architects N.Y.*, a
cura di Camillo Gubitosi e Alberto Izzo, Officina, Roma 1977, p. 17.
[^v40]: Su ciò, vedi *Five architects: Eisenman, Graves, Gwathmey, Hejduk,
Meier*, Museum of Modern Art, Wittenborn (New York) 1972.
[^v41]: Hejduk, *Mask of Medusa* cit., pp. 310-25; K. Michael Hays, *Sanctuaries.
The last works of John Hejduk*, Canadian Centre for architecture, Montreal and
the Menil collection, Houston 2002.
[^v42]: Vedi, tra gli altri, John Hejduk, *Vladivostok*, Rizzoli International,
New York 1989; Id., *Soundings*, Rizzoli International, New York 1993.
[^v43]: Tafuri, *"Les bijoux indiscrets"* cit., p. 18.
[^v44]: Peter Eisenman, *House III*, in Aureli, Biraghi e Purini, *Peter
Eisenman. Tutte le opere* cit., p. 68.
[^v45]: Tafuri, *"Les bijoux indiscrets"* cit., p. 16.
[^v46]: Peter Eisenman, *Architettura di cartone. House I and House II* (1972),
in Id., *Inside out. Scritti 1963-1988* cit., pp. 57-74.
[^v47]: Peter Eisenman, *La fine del Classico. La fine dell'Inizio, la fine della
Fine* (1984), in Id., *Inside out. Scritti 1963-1988* cit., p. 264.
[^v48]: *Ibid.*, p. 263.
[^v49]: John N. Habraken, *Strutture per una residenza alternativa*, Il
Saggiatore, Milano 1974.
[^v50]: John N. Habraken, *L'ambiente costruito e i limiti della pratica
professionale*, in "Spazio e Società", n. 1, 1978, p. 80.
[^v51]: *Ibid.*, p. 81. Sulla percezione e sul ruolo reale dell'architetto
odierno vedi anche il più recente John N. Habraken, *Palladio's Children*, a
cura di Jonathan Teicher, Taylor & Francis, Oxon 2005.
[^v52]: Vedi Giancarlo De Carlo, *Il Villaggio Matteotti a Terni*, in Id.,
*L'architettura della partecipazione*, a cura di Sara Marini, Quodlibet,
Macerata 2013, pp. 97-112.
[^v53]: *Ibid.*, p. 103.
[^v54]: De Carlo, *Il Villaggio Matteotti a Terni* cit., p. 104.
[^v55]: Giancarlo De Carlo, *L'architettura della partecipazione* (1973), in Id.,
*L'architettura della partecipazione* cit., p. 70.
[^v56]: *Ibid.*, p. 71.
[^v57]: *Ibid.*, p. 61.
[^v58]: Francesco Samassa, *"Un edificio non è un edificio non è un edificio".
L'anarchitettura di Giancarlo De Carlo*, in Id. (a cura di), *Giancarlo De
Carlo. Percorsi*, Il Poligrafo, Padova, pp. 125-61.
[^v59]: *Ibid.*, p. 60.
[^v60]: *Ibid.*, p. 78.
[^v61]: Friedrich Engels, *La situazione della classe operaia in Inghilterra*
(1845), in Karl Marx e Friedrich Engels, *Opere complete*, Editori Riuniti, Roma
1972, vol. IV, pp. 235-514; Friedrich Engels, *La questione delle abitazioni*
(1872), Editori Riuniti, Roma 1971.
[^v62]: Alejandro Aravena e Andrés Iacobelli, *Elemental. Manual de vivienda
incremental y diseño participativo / Incremental Housing and Participatory
Design Manual*, Hatje Cantz Verlag, Ostfildern 2012, p. 18; più in generale vedi
anche Id., *Elemental Chile. A Handbook on Progressive Housing*,
Actarbirkhauser, Barcelona 2010.
[^v63]: Aravena e Iacobelli, *Elemental. Manual* cit., p. 107.
[^v64]: Aravena e Iacobelli, *Elemental. Manual* cit., pp. 92-94.
[^v65]: *Ibid.*, p. 503.
[^v66]: Tra essi, il Premio Bicentenario del governo del Cile nel 2004; il Gran
Premio Biennale alla XV Biennale di Architettura di Santiago del Cile nel 2006;
il Leone d'argento alla Biennale internazionale di Architettura di Venezia nel
2008; il Brit Insurance Design Award a Londra nel 2010; il primo premio INDEX a
Copenhagen nel 2010; la medaglia d'argento al premio HOLCIM a Basilea nel 2011;
il primo premio ZUMTOBEL a Vienna nel 2014.
[^v67]: Nello stesso 2016 ad Aravena viene affidata la direzione della Biennale
internazionale di Architettura di Venezia. La mostra da lui curata, "Reporting
From the Front", intendeva scrutare l'orizzonte dell'architettura attuale "alla
ricerca di nuovi campi di azione, offrendo esempi in cui più dimensioni vengono
sintetizzate, integrando il pragmatico con l'esistenziale, la pertinenza con
l'audacia, la creatività con il buonsenso": dall'*Intervento* di Alejandro
Aravena, in *Reporting From the Front*, 2 voll., catalogo della XV Mostra
internazionale di Architettura -- Biennale di Venezia, Studio Elemental,
Santiago del Cile, Marsilio Editori, Venezia 2016.
[^v68]: Motivazioni del premio in *Alejandro Aravena of Chile receives the 2016
Pritzker Architecture Prize*, in <https://www.pritzkerprize.com/laureates/2016>.
La giuria era composta da Lord Peter Palumbo, Stephen Breyer, Yung Ho Chang,
Kristin Feireiss, Glenn Murcutt, Richard Rogers, Benedetta Tagliabue, Ratan N.
Tata e Martha Thorne.
## Libertà e architettura
> ... leggere l'ideologia architettonica come elemento -- secondario, forse, ma
> pur sempre tale -- di un ciclo di produzione ha come conseguenza il
> ribaltamento della piramide di valori comunemente accettata. Diventerà del
> tutto ridicolo, infatti, una volta adottato tale metro di giudizio, chiedersi
> quanto una scelta linguistica o un'organizzazione strutturale esprima o tenti
> di anticipare modi "più" liberi di esistenza[^vi1].
Yvonne Farrell e Shelley McNamara, curatrici della XVI Mostra Internazionale di
Architettura alla Biennale di Venezia 2018, hanno scelto come titolo della
manifestazione la parola *FREESPACE*. Lungo le Corderie dell'Arsenale, nel
padiglione centrale e nei numerosi padiglioni nazionali sparsi per i Giardini,
gli architetti invitati hanno variamente interpretato lo "spazio libero" in
questione: chi -- come Caruso St John, in collaborazione con l'artista Marcus
Taylor -- lasciando interamente vuoto il Padiglione Britannico, e montando al di
sopra di esso una terrazza di legno sostenuta da un ponteggio metallico,
accedendo alla quale si poteva osservare la laguna dall'alto, accomodarsi sulle
sedie che vi erano disposte, prendere il sole o sorseggiare il tè puntualmente
servito alle 16; chi invece -- come l'architetto portoghese Álvaro Siza --
disponendo all'interno dell'Arsenale una panchina di marmo di forma
semicircolare, fronteggiata da un muro bianco altrettanto curvo, per offrire uno
spazio di raccoglimento e riposo agli stanchi visitatori; o chi ancora -- come
lo svizzero Valerio Olgiati -- collocando al termine della lunghissima navata
delle medesime Corderie una piccola selva di colonne, candide e prive di
ornamenti o di ordine. Non è chiaro, in quest'ultimo caso, a quale libertà si
volesse fare allusione. Lo si potrebbe ritenere uno spazio evocativo, simbolico,
anche se di che cosa precisamente non è dato saperlo; o forse -- meglio ancora
-- a ciascuno è lasciata la libertà di attribuirvi il significato che gli pare.
Ma è soprattutto all'interno del progetto curatoriale di Farrell e McNamara
(architette irlandesi che a partire dal 1978 hanno dato vita allo studio Grafton
Architects), che lo "spazio libero" occupa un posto centrale; un posto che le
due curatrici hanno significativamente pensato di segnare scrivendo un vero e
proprio "manifesto". In esso si legge tra l'altro:
> FREESPACE rappresenta la generosità di spirito e il senso di umanità che
> l'architettura pone al centro della propria agenda, concentrando l'attenzione
> sulla qualità stessa dello spazio.
>
> FREESPACE si concentra sulla capacità dell'architettura di offrire in dono
> nuovi spazi liberi a coloro che la utilizzano, nonché sulla sua capacità di
> soddisfare i desideri inespressi.
>
> FREESPACE celebra la capacità dell'architettura di trovare in ogni progetto
> una nuova e inattesa generosità, anche nelle condizioni più private,
> difensive, esclusive o commercialmente limitate.
>
> FREESPACE invita a riesaminare il nostro modo di pensare, stimolando nuovi
> modi di vedere il mondo, di inventare soluzioni in cui l'architettura provvede
> al benessere e alla dignità di ogni abitante di questo fragile pianeta.
>
> ...[^vi2].
Da questo "manifesto" promana un'idea ottimistica e umanistica
dell'architettura, un'idea che pecca indubbiamente di vaghezza e astrattezza ma
che altrettanto sicuramente prende le distanze dal modo in cui l'architettura è
generalmente intesa nell'epoca attuale: un'architettura non soltanto finalizzata
nella gran parte dei casi a scopi commerciali ma anche del tutto immersa in una
prospettiva esclusivamente economica. Il "manifesto" di Farrell e McNamara, da
questo punto di vista, risuona più come un appello che come una dichiarazione di
poetica o la presa d'atto d'una condizione corrente. E per quanto possa
risultare ingenuo e sotto molti aspetti inattuale, tale appello si presenta come
la "novità" più interessante della Biennale 2018.
Pur con tutti i suoi limiti, l'appello lanciato dalle Grafton Architects ha il
merito -- se non di offrire soluzioni per esso -- almeno di indicare il
problema: quella libertà (dello spazio: ma il discorso si lascia applicare anche
a un contesto più generale) che a una prima apparenza si direbbe a disposizione
di tutti nelle società occidentali, in realtà è proprio ciò che maggiormente si
rivela sfuggente; non forse assente del tutto, ma quantomeno *ambiguamente*
presente.
Sarebbe però semplicistico illudersi di poterla afferrare esclusivamente
evocandola. Anzi, è proprio nelle sue troppo ripetute ostensioni che la libertà
dimostra attualmente di appartenere assai più al mondo delle apparenze che non a
quello della sostanza. Senza peccare di eccessivo allarmismo, si può
paradossalmente affermare che oggi l'esercizio della "libertà" passa attraverso
una miriade di condizionamenti. E lo stesso vale anche per l'architettura.
D'altronde, sono proprio i condizionamenti (visibili e invisibili) a rendere
avvertito e reattivo chi cerca di svolgere il proprio lavoro *dentro* e *contro*
le circostanze assegnate. Ed è soltanto nella piena coscienza dei *limiti* del
proprio operare che diviene possibile ritrovare forme effettive di libertà.
È a partire da qui che dev'essere reimpostato qualsiasi discorso sull'architetto
intellettuale. Ben lungi dall'identificarsi con una vaga propensione culturale,
o con un'inclinazione per sterili speculazioni filosofiche o elucubrazioni
mentali, il suo segno distintivo sta nella capacità di appropriarsi di quei
margini di libertà che ogni società non per forza "offre" spontaneamente ma che
tuttavia, almeno a volte, consente.
In un mondo dominato da una relativistica pluralità di valori (abissalmente
distante da ciò che Max Weber definiva un "Polytheismus der Werte")[^vi3], quello
della libertà è uno dei pochi -- l'unico, forse -- sul possesso del quale siamo
assolutamente sicuri di non volere o potere recedere. In altre parole, tra molti
valori su cui si è disposti a trattare -- e tra altrettanti ormai "fuori uso",
avendo perduto la loro importanza --, il valore della libertà resiste pressoché
ovunque nel mondo come una pietra di fondamento non alienabile. E ciò, tanto per
chi già ne usufruisce quanto per chi la deve ancora conquistare. Ma la libertà
ha un'altra caratteristica peculiare: è uno dei pochi valori di cui si può
ritenere di disporre anche quando in realtà non se ne gode. È esattamente questa
la condizione in cui si trova al giorno d'oggi una buona parte delle società
occidentali: una condizione che, proprio per la varietà delle scelte che in
apparenza vi si possono compiere, e per la molteplicità e relatività dei valori
che vi sono presenti, conferisce a chi vi è introdotto una perfetta "sensazione
di libertà".
Michel Foucault negli anni sessanta parlava di "società disciplinari"[^vi4], cioè
di quelle società in cui ogni individuo è incasellato dentro a un preciso spazio
fisico. Le ricerche di Foucault si riferivano a quella che egli stesso chiama
l'"epoca classica"[^vi5], vale a dire l'epoca moderna, storicamente intesa, e
avevano come fondamento un'idea molto esatta, e cioè che il potere si
spazializza: il potere non è mai assoluto, non è mai astratto, è sempre
esercitato qui e ora, all'interno di spazi fisici precisi. Gli spazi sono quelli
che Foucault analizza nei suoi libri, vale a dire il manicomio, l'ospedale, la
prigione, ma anche la caserma, la scuola, la fabbrica. Questi spazi, pur diversi
tra loro, hanno però tutti un elemento in comune: in tutti è inscritto un
"esercizio del controllo" che nel *Panopticon* (1787) di Jeremy Bentham era
espresso fisicamente, quasi geometricamente[^vi6], ma che negli altri spazi
ugualmente sussiste. Si tratta in tutti i casi di spazi del controllo,
organizzati precisamente a questo fine.
E tuttavia, nell'epoca moderna, mentre lo spazio viene organizzato in termini di
controllo, concresce anche l'idea di libertà[^vi7]. I due fenomeni sono tutt'uno,
come le due facce di una stessa medaglia. Non per nulla lo stesso Bentham è uno
dei padri del liberalismo, ovvero di quella dottrina che al proprio centro pone
i diritti individuali, all'interno dei quali campeggia la libertà. Certo, quella
delle società disciplinari è una libertà in larga parte "vigilata"; e ciò
nondimeno, nell'accezione moderna del termine, vale a dire illuminista, in
quanto valore individuale assunto a fondamento sociale, la libertà nasce lí: nel
momento in cui ciascun individuo è inquadrato dentro lo spazio fisico delle
diverse "macchine" del controllo[^vi8].
Oggi, invece, la società disciplinare sembra essere stata soppiantata da una
società "trasparente". La "società della trasparenza", come la chiama Han[^vi9], è
la società digitale neoliberalista, dove la libertà si è trasformata in
un'occasione di sfruttamento:
> Il neoliberalismo è un sistema molto efficace nello sfruttare la libertà,
> intelligente perfino: viene sfruttato tutto ciò che rientra nelle pratiche e
> nelle forme espressive della libertà, come l'emozione, il gioco e la
> comunicazione. Sfruttare qualcuno contro la sua volontà non è efficace: nel
> caso dello sfruttamento da parte di altri il rendimento è assai basso.
> Soltanto lo sfruttamento della libertà raggiunge il massimo rendimento[^vi10].
più ancora che il lavoro, lo scontro tra classi o l'organizzazione spaziale
delle città, la vera frontiera critica odierna è divenuta la libertà
dell'individuo, sottoposto alla costante "attenzione" della rete e di tutti gli
altri invisibili sistemi di sorveglianza che ne rilevano gli spostamenti, ne
registrano gli acquisti, ne monitorano i desideri[^vi11]; il tutto, con
l'esplicito consenso -- o quantomeno, con la muta "complicità" -- dell'individuo
stesso. E ancora di più, senza la minima parvenza di alcuna privazione della
libertà individuale, e anzi con quel senso di onnipotenza e di indipendenza che
la società digitale riesce a trasmettere, come ogni utente di Google, di
Wikipedia o di un qualsiasi social network ben sa: le cui possibilità, in
termini di relazioni e di informazioni, inducono spesso a credere di possedere
un'infinità di conoscenze, un'istantanea rapidità d'azione e un'incondizionata
fluidità di movimenti. Una somma di elementi che si traducono appunto in una
totale *illusione di libertà*.
Tanto più credibile e ingannevole è questa illusione, quanto meno risulta
coercitiva, ovvero quanto meno è -- almeno in apparenza -- coartata e
vincolante. E proprio qui sta l'astuzia suprema di una società "trasparente":
all'interno di essa l'individuo non viene ordinatamente disposto e inquadrato
come nelle società disciplinari, bensì -- proprio al contrario -- egli stesso vi
aderisce spontaneamente e quasi con entusiasmo. Ciascuno collabora alla sua
costruzione, al suo rafforzamento, al suo perpetuamento. La sensazione che ne
deriva è di essere "soggetti" perfettamente svincolati, perfettamente liberi; ma
è proprio in quanto tale, ovvero in quanto *subiectum* (letteralmente,
sottomesso, assoggettato)[^vi12] che l'individuo dimostra di essere assai meno
padrone del proprio destino di quanto comunemente non ritenga. In tal modo si
disvela tutta l'intrinseca *potenza* di una società della trasparenza: in essa,
infatti, non soltanto la libertà diviene il nuovo, fertile terreno di uno
sfruttamento, ma -- come sostiene Han -- tale sfruttamento è opera del
"soggetto" stesso, il quale cosí realizza un *autosfruttamento* vero e proprio,
divenendo schiavo di se stesso:
> L'io come progetto, che crede di essersi liberato da obblighi esterni e
> costrizioni imposte da altri, si sottomette ora a obblighi interiori e a
> costrizioni autoimposte, forzandosi alla prestazione e
> all'ottimizzazione[^vi13].
E ancora:
> I detenuti del panottico benthamiano venivano isolati l'uno dall'altro allo
> scopo di imporre una disciplina e non potevano parlare tra loro. Gli abitanti
> del panottico digitale, al contrario, comunicano intensamente l'uno con
> l'altro e si denudano volontariamente. *Con*tribuiscono cosí, in modo attivo,
> alla costruzione del panottico digitale. La società del controllo digitale fa
> un uso massiccio della libertà: essa è possibile soltanto grazie
> all'autoesposizione, all'autodenudamento volontari[^vi14].
E in effetti, nei contesti digitali, *noi, utenti*, consegniamo quotidianamente,
senza alcuna coercizione, i nostri dati, le nostre vite, la nostra intimità, i
nostri affetti, tutto quello che siamo (pensieri, gusti, esperienze, ricordi) ai
grandi motori di ricerca, ai grandi social network. Liberi di essere-in-rete
(ovvero, letteralmente, *irretiti*), e dunque in condizione di spontanea
schiavitú. Si tratta di quello che Byung-Chul Han definisce un "capitalismo del
like", che "si distingue nella sostanza dal capitalismo del XIX secolo, che
operava mediante obblighi e divieti disciplinari"[^vi15]. *Mi piace*, *ci piace*:
è questa la frontiera di una libertà percepita come "naturale" da un lato, e
sfruttata dall'altro, e per questo doppiamente insidiosa.
Come si rapporta a tutto ciò l'architettura? Quali trasformazioni subisce -- o
piuttosto, mette in atto -- nell'epoca della libertà autoimposta? In una
prospettiva moderna, l'architettura che si fregiava orgogliosamente di questo
aggettivo faceva della libertà il proprio vessillo: libertà assunta come un
affrancamento dell'uomo dai vincoli a cui aveva dovuto sottostare fino ad
allora, e che si traduceva tutta in termini spaziali. *Plan libre*, *façade
libre*, risuonano cosí -- non a caso -- due dei "comandamenti" lecorbusieriani
per "un'architettura assolutamente nuova, dalla casa d'abitazione fino al
palazzo"[^vi16]. Ma se per l'ideologia dell'architettura moderna la libertà è una
conquista, per la postmodernità libertà e architettura sembrano ormai
coincidenti. A dire il vero, più che di libertà, si dovrebbe parlare di
"liberazione"[^vi17]. A questa si possono riferire alcune delle pratiche o
tendenze postmoderniste, quali "un certo carattere ludico della forma, la
produzione aleatoria di nuove forme o l'allegra cannibalizzazione di quelle
vecchie"[^vi18]. Sono tutte modalità relative a -- e sotto diversi aspetti
"reattive" nei confronti di -- quanto le ha precedute, espressamente
finalizzate, non per nulla, a una sovversione totale dei "vari rituali" e dei
"valori formali" modernisti.
Al giorno d'oggi l'opera di liberazione postmodernista dagli "spettri"
modernisti può dirsi pienamente compiuta nella misura in cui, abbandonata
l'esclusiva tattica del rovesciamento, l'architettura odierna utilizza
*qualunque mezzo* a sua disposizione per ottenere "ciò che vuole", ivi
*comprese* le forme e i linguaggi moderni. Ripuliti dei loro retaggi ideologici,
spogliati ormai di qualsiasi "messaggio", tali forme e linguaggi possono cosí
tornare a essere usati (insieme, potenzialmente, a tutti gli altri). Ciò
nondimeno, non si tratta affatto di un uso neutrale, meramente "tecnico". Il
ritorno a forme e linguaggi moderni -- se possibile, sottoposti a depurazioni
ulteriori -- ha il ben preciso obiettivo di fare dell'architettura attuale un
emblema della libertà in una misura in cui forse neppure alle origini,
nell'epoca moderna, era immaginabile farlo. Campioni assoluti di questa
aspirazione a incarnare la "filosofia" (ma al tempo stesso anche l'economia, il
*lifestyle*) della società della "trasparenza" contemporanea sono proprio gli
edifici che rappresentano le grandi aziende produttrici, promotrici e
diffonditrici dei prodotti digitali. Loro modello è con piena evidenza la
leggerezza, la flessibilità, l'ingegnosità propria dei dispositivi elettronici
contemporanei. Cosí gli Apple Store sparsi per il mondo, ad esempio (si pensi
soltanto a quello sulla Fifth Avenue a Manhattan, di Bohlin Cywinski Jackson,
2006, e a quello più recente in piazza Liberty a Milano, di Norman Foster +
Partners, 2018) si fanno portatori di un'estetica che è la precisa traduzione
dell'immaterialità e della virtualità dell'universo informatico e del web:
pareti vetrate, interamente trasparenti; superfici lisce e candide; una luce
uniforme, diffusa. Immagini di uno spazio tridimensionale, per quanto possibile
privo di "corpo", che infonde in chi lo attraversa e vi sosta la sensazione di
una completa assenza di gravità: spazio al di sopra di ogni pensiero, di ogni
"affanno", dove l'essere-liberi coincide semplicemente con l'essere. Uno spazio
dunque dove tutto è possibile, in cui nulla pesa, neppure l'acquisto di uno
smartphone o di un laptop.
Nella storia -- si usa dire -- i fatti si presentano sempre due volte: "la prima
volta come tragedia, la seconda volta come farsa"[^vi19]. Verso la metà degli anni
sessanta, a fronte del progressivo esaurirsi della "funzione storica"
dell'architettura moderna, gli architetti si sono trovati a un bivio:
abbandonarla a favore di un suo superamento, oppure conservarla radicalizzandone
(ovvero depurandone e stilizzandone al massimo) gli aspetti formali. Da questa
seconda possibilità nasce il "minimalismo", l'*ultimo* degli stili, non in senso
cronologico ma logico; lo stile che -- shakerando estetica giapponese e Mies van
der Rohe, più un'abbondante aggiunta di ghiaccio -- ottiene il brillante
risultato di far passare per sobri ambienti nella gran parte dei casi
lussuosi[^vi20]. Quarant'anni più tardi, il minimalismo ritorna come "risposta"
alla crisi economica mondiale, ma anche come stile di un capitalismo che
preferisce pur sempre ottenere "migliori risultati con meno mezzi"[^vi21]. Non è
dunque un caso che, nei luoghi di massima "intensificazione" della società
"trasparente", tali caratteri si presentino al massimo livello di
concentrazione. Né deve stupire che questi stessi caratteri, gradatamente,
fuoriescano dall'invisibile "recinto" dei *flagship stores*, arrivando a
conformare anche altri spazi commerciali. Il Westfield World Trade Center Mall
(noto anche come Oculus), progettato da Santiago Calatrava e inaugurato a
Manhattan nel 2016, ne costituisce un esempio emblematico. Costruito accanto al
luogo in cui sorgevano le Twin Towers, con le sue candide ali distese pronte per
spiccare il volo, l'edificio dall'esterno sembrerebbe voler rinverdire la
tradizione dei *landmarks*. Ma la sua vera natura si rivela non appena varcato
l'ingresso, accedendo alla grande piazza ellissoidale che ospita lo shopping
center. Qui, sotto la muscolare copertura, caratteristica anche di altri edifici
dell'architetto e ingegnere spagnolo, lo spazio sembra perdere i propri
contorni, smaterializzarsi, svanire. Nell'epoca delle "piazze virtuali", la
piazza reale dell'Oculus pare faccia un passo indietro rispetto alla realtà, per
"virtualizzarsi" a sua volta. Condizione apparentemente imprescindibile, questa,
per infondere quel "senso di libertà" che avvince i consumatori con il potere
del *like*.
In altre occasioni l'architettura della società della trasparenza assume toni
esplicitamente ludici. È il caso del Googleplex a Mountain View (Silicon Valley
-- California), quartier generale di Google, terminato nel 2004 ma negli anni
seguenti continuamente rinnovato, soprattutto per quanto riguarda gli spazi
interni. Dall'esterno gli edifici del Googleplex presentano un aspetto
riconducibile -- con poche e in fondo marginali correzioni -- a
quell'"efficientismo internazionale" che è lo stile dominante delle sedi delle
grandi compagnie in tutto il mondo. Ma è dentro gli edifici che accadono le cose
più interessanti. Il brillante e spiritoso "stile della casa", impresso come un
saluto di benvenuto nel logo multicolore dell'azienda, e riassumibile nella
parola d'ordine "smart", produce ambienti che sono interamente penetrati dalla
"filosofia" Google: gli uffici (o quelli che dovrebbero essere tali) e gli altri
spazi di lavoro sono concepiti con l'esplicito intento di comunicare l'idea che
"qui non si lavora": ci si diverte. *Smart working*. E in effetti, all'interno
di questi spazi si può giocare davvero. Il carattere ludico si incorpora in essi
come una componente essenziale. *Google Play*. E non certo come induzione
all'ozio, bensì per ottenere una maggiore produttività, una maggiore efficienza,
una maggiore creatività[^vi22]. Lavoro e divertimento finiscono per diventare una
cosa sola, un'unica e indissolubile condizione. L'*homo ludens* situazionista
viene cosí recuperato al sistema, "messo al lavoro" senza quasi che se ne
accorga.
Non è un caso che nel vocabolario dell'architettura attuale siano
prepotentemente entrati -- ormai anche a grande distanza dalla Silicon Valley, e
con specifico riferimento agli spazi del lavoro e del commercio -- termini come
"intelligente", "flessibile", "ibrido"; e che gli ultimi miti dell'agenda
contemporanea siano "stare insieme", "condividere", "interagire". In modo
lampante, Google *docet*. Gli spazi fisici in cui si svolgono queste azioni al
giorno d'oggi vengono diffusamente pensati ed offerti come luoghi capaci di
infondere in chi li utilizza felicità e benessere, prima e più ancora che idee
di sobrietà ed efficienza. Per suscitare queste sensazioni gli spazi lavorativi
sempre più di frequente si travestono da luoghi d'abitazione (fenomeno
esattamente speculare a quello dell'*home working*). Familiarità, informalità,
*libertà* della casa diventano i nuovi *idola* del "lavoro intelligente". Forse
non abbastanza però da non far sorgere il dubbio che sia proprio *questo* il
luogo di attuazione della minacciosa promessa di Auschwitz: "Arbeit Macht Frei".
Intanto, a poche miglia dal Googleplex, a Cupertino, sorge l'Apple Park,
realizzato da Norman Foster + Partners e aperto nel 2017. Si tratta di un
edificio a forma di anello interamente vetrato, di oltre 450 m di diametro e di
1,6 km di circonferenza, cui si va ad affiancare lo Steve Jobs Theater, di
dimensioni molto più ridotte ma anch'esso circolare e completamente vetrato
nella parte emergente. Nell'epoca del panottico digitale -- senza forma,
immateriale, ubiquo -- ritorna imprevedibilmente in scena il panottico
benthamiano: lo spazio di un controllo fisico, che nel caso dell'Apple Park però
è da intendersi in senso soltanto metaforico. Anzi, a ben guardare, in un senso
esattamente rovesciato rispetto a quello originario: la forma del controllo
disciplinare come "dimostrazione" della libertà digitale.
A immagini come queste, di una sin troppo *ambigua* libertà, il panorama
architettonico contemporaneo -- sovraffollato di molteplici offerte e
all'apparenza assai variegato -- sembra poter agevolmente fornire la *chance* di
contrapporne altre più autentiche, e al tempo stesso più "esterne al sistema".
Gli esempi potrebbero essere tanti, quanto soggettive le scelte. Meglio
rivolgersi allora a chi ha affrontato il tema in maniera cosciente. In una serie
di conferenze organizzate da Owen Hopkins alla Royal Academy of Arts di Londra
nel 2015 su *Architecture and Freedom* ("L'architettura è in balia degli
interessi privati e dei bisogni del capitale come mai prima d'ora")[^vi23],
Reinier de Graaf (OMA), J.MAYER.H, Farshid Moussavi (FMA, già FOA) e Patrik
Schumacher (Zaha Hadid Architects) hanno presentato i loro punti di vista sul
tema. Quattro architetti diversi, per provenienze ed esperienze, che hanno però
tutti in comune un'attività all'interno di grandi studi internazionali operanti
su scala globale, ma anche un'attenzione per la speculazione teorica, secondo un
intreccio di piani che appartiene di diritto all'eredità degli architetti
intellettuali. Pur non essendoci la possibilità di analizzare nei dettagli le
argomentazioni dibattute da ciascun relatore, è interessante notare come gli
architetti in questione -- con la sola eccezione di Reinier de Graaf, impegnato
a dimostrare come il mondo in cui si trova a operare OMA dopo il 1991, in
seguito alla dissoluzione dell'Unione Sovietica, non sia affatto unito
nell'abbraccio delle democrazie liberali occidentali, come sentenziato da
Fukuyama[^vi24]; e come ciò, dal punto di vista di uno studio di architettura, non
rappresenti un dramma --, più che compiere una critica della condizione attuale,
prendano casomai lo spunto da questa per inserire la propria architettura nei
processi in atto, cercando di leggerli nella maniera il più possibile coerente
con essa. Cosí per Schumacher soltanto il parametricismo può farsi interprete
delle dinamiche urbane di un libero mercato "sfrenato" in una società
post-fordista, riuscendo ad accordare -- in maniera analoga al complesso e
variegato ordine degli ambienti naturali -- le molteplici forze che vi
con-fluiscono[^vi25].
Per Jürgen Hermann Mayer la libertà sembra più che altro consistere in un carico
di potenzialità -- tecnologiche e comunicative -- per le attività umane che la
sua architettura cerca di tradurre facendosi generatrice e luogo d'incontro di
interazioni sociali, come nella copertura -- terrazza -- spazio urbano *Metropol
Parasol* in Plaza de la Encarnación a Siviglia (2004-11)[^vi26]. Farshid Moussavi
infine, pur con abbondanza di citazioni e definizioni filosofiche del concetto
di libertà, riconduce la questione a una sorta di *aut aut* tra "stile" come
affermazione di identità (dell'architetto) e stile come performance
dell'edificio e dei suoi singoli elementi, analizzati minuziosamente e
progettati sforzandosi di avvicinarli al massimo grado a un loro uso
"partecipato" [^vi27].
In conclusione, chi nelle parole degli architetti citati cercasse una bussola
per orientarsi nella ricerca di una "rappresentanza" in un mondo in profondo
mutamento rischierebbe di rimanere deluso. Per molti di loro, a quanto sembra,
quello della libertà non costituisce affatto un problema, al contrario di quanto
è accaduto in altri momenti ad altri architetti[^vi28].
Tra gli ultimi tentativi in ordine di tempo di affrontare il tema del rapporto
tra libertà e architettura va citata la mostra dedicata dalla Fondation Cartier
pour l'art contemporain di Parigi, tra marzo e giugno 2018, all'opera del
giovane architetto giapponese Junya Ishigami. Ospitata nei diafani spazi pensati
da Jean Nouvel (a loro volta un'ipotesi di libertà costruita)[^vi29], la mostra
*Freeing Architecture* presentava 17 progetti elaborati da Ishigami tra il 2004
e il 2018. Che cosa egli intenda con "liberazione dell'architettura" si lascia
intuire osservando i grandi modelli e gli altri materiali in esposizione:
espressione di un'architettura a volte essenziale, strutturalmente ardita ma
figurativamente esile, al limite dell'anoressia, altre volte ottenuta scavando,
per sottrazione di materia, altre ancora mediante il processo esattamente
opposto, di accumulazione di quelle che potrebbero apparire masse glaciali che
danno luogo a corpi globosi e cavernosi. Un'architettura al tempo stesso
"minimale" e desiderosa di sorprendere, ma anche perennemente tesa nella ricerca
di un'integrazione con la natura. Ciò di cui sembra volersi liberare
l'architettura di Ishigami sono dunque i legami con quei retaggi disciplinari
che provino a irreggimentare l'edificio da un punto di vista tipologico,
funzionale, spaziale, strutturale. La riscrittura da lui proposta in tal senso
vale come tentativo di sottrazione dell'architettura dai *nomoi* che di consueto
la regolano, per (ri)condurla a una sorta di "età dell'innocenza", dove essa
possa continuare a sussistere in una dimensione "sospesa". E ancora di più,
questo "disegno" risulta palese esaminando il catalogo, un libro di grande
formato, illustrato con immagini a metà strada tra l'infantile e il pittorico,
inframezzate da brevi testi dal tono quasi poetico[^vi30].
L'ingenuità di tali intendimenti è però almeno in parte contraddetta
dall'efficacia dei risultati ottenuti dalle opere realizzate da Junya Ishigami.
È il caso del KAIT Workshop, un edificio concepito come spazio per gli studenti
del Kanagawa Institute of Technology, in Giappone (2004-2008). In questo spazio
essi possono progettare, scrivere ma anche chiacchierare e oziare. Le immagini
cui Ishigami fa ricorso per spiegarlo sono quelle delle costellazioni e degli
alberi di una foresta:
> Per migliaia di anni noi umani abbiamo osservato il cielo notturno, evocando
> immagini e storie dalla disposizione casuale delle stelle.
>
> La natura ha leggi severe. Sebbene queste possano essere al di là della nostra
> comprensione, le aggiriamo abitualmente, decifrandole soggettivamente, a
> nostro piacimento.
>
> Può l'architettura essere liberata nello stesso modo?
>
> Data la libertà, nonostante sia rigorosa nella sua destinazione d'uso, e
> progettando di conseguenza, trascendere tutto ciò e vedere lo spazio in modo
> soggettivo, consentendone usi diversi. Una libertà aperta a molteplici
> interpretazioni.
>
> Un laboratorio per studenti.
>
> Questo edificio non ha pareti. Tutte le strutture sono rette esclusivamente da
> pilastri. Tutti i pilastri hanno proporzioni diverse, sono orientati in modi
> diversi, posizionati a intervalli diversi.
>
> Ogni pilastro è progettato individualmente, meticolosamente. Allo stesso
> tempo, un piano meticoloso è reso trasparente.
>
> Pianificare mentre l'intento del piano non è più visibile, diventa l'intento
> di questo piano.
>
> Una disposizione casuale. Un pianterreno di alberi in una foresta. La
> disposizione delle stelle assomiglia a quella degli alberi in una foresta. Il
> fatto che percepiamo una casualità condivisa in queste due cose che sembrano
> non correlate può essere dovuto alla casualità che appartiene all'essenza
> della natura[^vi31].
Nonostante gli accenti con cui è presentato, il KAIT sotto molti aspetti
potrebbe essere assimilato ai *flagship stores* visti più sopra: identico il
candore della pavimentazione e delle 305 colonne di dimensioni variabili,
disposte irregolarmente a sostegno della copertura piana -- anch'essa bianca --
solcata da lucernari; identiche le pareti perimetrali interamente vetrate;
identica l'assenza di peso che promana dall'insieme. E identiche -- si può pure
presumere -- le dotazioni tecnologiche a disposizione degli studenti che rendono
lo spazio perfettamente connesso con il mondo. E tuttavia, predisponendo un
layout massimamente flessibile, in grado di includere le esigenze mutevoli degli
studenti, suggerendo usi senza imporli, Ishigami sembrerebbe alludere a un altro
genere di libertà: più che una "messa a disposizione" di possibilità senza
limiti, una capacità di *accogliere* possibilità illimitate. Un'*apertura* dello
spazio a interazioni spontanee che potrebbe essere intesa come una condizione di
*non* sfruttamento di esso. Scrive ancora Ishigami:
> La nostra vita quotidiana si svolge tra la manifestazione di risultati
> attentamente calcolati, e la libera interpretazione.
>
> Pensare alla progettazione di un'architettura che, anziché postulare ordine e
> disordine come valori opposti, li tratta allo stesso modo.
>
> Scoprire spazi liberamente, assegnando loro ogni volta una funzione.
>
> Ogni volta che un pezzo di architettura è completato, si rivela attraente in
> tutti i modi possibili, al di là delle stesse intenzioni dell'architetto[^vi32].
Che l'architettura di Ishigami sia profondamente immersa nel mondo
contemporaneo, che precisamente a esso si rivolga ("Un'architettura per l'era
del libero accesso all'informazione. Un'architettura per l'era della libera
connessione. Un'architettura per l'era della libertà dei valori")[^vi33], risulta
evidente. E però è altrettanto evidente come essa non si "accontenti" di ciò che
la realtà in quanto tale propone. In questo senso, la flessibilità degli spazi
del KAIT -- almeno nelle intenzioni del loro autore -- vorrebbe dimostrare di
essere l'esatto opposto della "flessibilità" come "libera imposizione" che le
società odierne assegnano ai loro "soggetti": là dove infatti a questi ultimi
viene richiesta una capacità di adattamento, nel suo caso è lo spazio che sembra
adattarsi alle svariate esigenze di chi lo utilizza.
Si potrebbe denominare questa architettura -- riprendendo una discussa
espressione di Colin Rowe -- "delle buone intenzioni"[^vi34]. Intenzioni
"preterintenzionali", verrebbe da aggiungere, sulla base delle parole appena
citate dello stesso Ishigami; il quale tuttavia, subito dopo, richiama la
necessità "di essere maggiormente coscienti (...) fin dalla fase della
progettazione"[^vi35] dei possibili gradi di libertà che l'architettura
*autonomamente* può assumere.
Ma la conclusione potrebbe essere anche diversa: che per Ishigami -- al pari
degli altri architetti di cui si è discusso in precedenza -- la suadente libertà
"obbligatoria" della società della trasparenza sia soltanto un'allettante
occasione per scatenare le proprie "fantasie creative", e dunque per cogliere
nuove, fruttuose opportunità di lavoro; mentre per tutto ciò una libertà "vera",
una libertà incondizionata -- come sembra suggerire Reinier de Graaf -- sarebbe
più che altro di ostacolo.
[^vi1]: Tafuri, *La sfera e il labirinto* cit., p. 315.
[^vi2]: Yvonne Farrell e Shelley McNamara, *Freespace-Manifesto*, in *Freespace*,
catalogo della XVI Mostra Internazionale di Architettura - Biennale di Venezia,
Venezia 2018, p. 51.
[^vi3]: Max Weber, *Il senso dell'"avalutatività" delle scienze sociologiche ed
economiche* (1917), in Id., *Il metodo delle scienze storico-sociali*, Einaudi,
Torino 2012, p. 265. Prosegue Weber: "Tra i valori si tratta ovunque e sempre,
in ultima analisi, non già di semplici alternative, ma di una lotta mortale
senza possibilità di conciliazione, come tra "dio" e il "demonio". Tra di essi
non è possibile nessuna relativizzazione e nessun compromesso".
[^vi4]: Oltre ai "classici" testi citati alla nota seguente, vedi Foucault, *La
società disciplinare*, a cura di Salvo Vaccaro, Mimesis, Sesto San Giovanni
2010, e Id., *La società punitiva. Corso al Collège de France (1972-1973)*,
Feltrinelli, Milano 2016.
[^vi5]: Michel Foucault, *Storia della follia nell'età classica*, Rizzoli, Milano
1963; vedi anche Id., *Nascita della clinica. Una archeologia dello sguardo
medico*, Einaudi, Torino 1969; Id., *Sorvegliare e punire. Nascita della
prigione*, ivi 1976.
[^vi6]: Jeremy Bentham, *Panopticon ovvero la casa d'ispezione*, a cura di M.
Foucault e M. Perrot, Marsilio, Venezia 2002.
[^vi7]: Jean Starobinski, *L'invenzione della libertà 1700-1789*, Abscondita,
Milano 2008.
[^vi8]: È quanto rileva lo stesso Foucault, *Disciplina e democrazia. Intervista
di J.-L. Ezine* (1975), in Id., *La società disciplinare* cit., p. 87: "La
disciplina è l'altra faccia della democrazia".
[^vi9]: Byung-Chul Han, *La società della trasparenza*, Nottetempo, Roma 2014.
[^vi10]: Byung-Chul Han, *Psicopolitica. Il neoliberalismo e le nuove tecniche del
potere*, Nottetempo, Roma 2016, p. 11.
[^vi11]: Lo aveva intuito già Foucault, *Disciplina e democrazia. Intervista di
J.-L. Ezine* cit., p. 87 (nel 1975!): "Si vedono apparire ora sorveglianze di
altro tipo, ottenute senza che quasi la gente se ne renda conto, attraverso la
pressione del consumo".
[^vi12]: Questo il significato che Aristotele attribuiva a ὑποκείμενον, tradotto
con il latino *subiectum*; per una discussione di questo termine prima e dopo
Cartesio, e dunque con l'imporsi del Mondo Moderno, vedi Martin Heidegger,
*L'epoca dell'immagine del mondo*, in Id., *Sentieri interrotti*, La Nuova
Italia, Firenze 1984, pp. 71-101.
[^vi13]: Han, *Psicopolitica* cit., p. 9.
[^vi14]: *Ibid.*, p. 18.
[^vi15]: *Ibid.*, p. 25.
[^vi16]: Le Corbusier, *Cinque punti per una nuova architettura* (1927), in Mara
De Benedetti e Attilio Pracchi, *Antologia dell'architettura moderna. Testi,
manifesti, utopie*, Zanichelli, Bologna 1988, p. 381. Continua Le Corbusier a
proposito della pianta libera: "Non esistono più pareti portanti, ma soltanto
membrane dello spessore desiderato. Conseguenza di ciò l'assoluta libertà nella
progettazione della pianta, cioè la libera disposizione delle risorse
esistenti".
[^vi17]: Fredric Jameson, *Postmodernismo ovvero la logica culturale del tardo
capitalismo*, Fazi Editore, Roma 2007, pp. 315-20.
[^vi18]: *Ibid.*, pp. 319-20.
[^vi19]: Karl Marx, *Il 18 brumaio di Luigi Napoleone* (1852), in Marx e Engels,
*Opere complete* cit., vol. XI, p. 107.
[^vi20]: Vittorio Savi e Josep Maria Montaner, *Less is more. Minimalisme en
arquitectura i d'altres arts*, Col•legi d'Arquitectes de Catalunya - editorial
Actar, Barcelona 1996.
[^vi21]: Aureli, *Less Is Enough* cit., p. 8.
[^vi22]: Han, *Psicopolitica* cit., p. 46.
[^vi23]: Owen Hopkins, *Architecture and Freedom: a changing connection*, in
<https://www.royalacademy.org.uk/article/exploring-architecture-and-freedom>, 2
settembre 2015. Vedi anche "Architectural Design", vol. 88, n. 3, maggio-giugno
2018, fascicolo curato dallo stesso Hopkins e interamente dedicato a
*Architecture and Freedom. Searching for Agency in a Changing World*.
[^vi24]: Francis Fukuyama, *La fine della storia e l'ultimo uomo*, Rizzoli, Milano
1992.
[^vi25]: Su ciò vedi Patrik Schumacher (a cura di), *Parametricism 2.0. Rethinking
Architecture's Agenda for the 21st Century*, Academy Editions, London 2016.
[^vi26]: Jürgen Mayer H., *Metropol Parasol*, Hatje Cantz Verlag, Ostfildern 2011;
vedi inoltre Id., *Could Should Would*, scritti di Georges Teyssot, Ana Miljacki
e John Paul Ricco, ivi 2015.
[^vi27]: Farshid Moussavi, *The Function of Style*, Actar, New York 2014, ma anche
Id., *The Function of Form*, Actar, Barcelona 2009.
[^vi28]: Vedi ad esempio Giancarlo De Carlo e Franco Bunčuga, *Conversazioni su
architettura e libertà* (2000), Elèuthera, Milano 2018.
[^vi29]: Scrive lo stesso Jean Nouvel, *Real/Virtual*
([www.jeannouvel.com/en/projects/fondation-cartier-2/](http://www.jeannouvel.com/en/projects/fondation-cartier-2/)),
a proposito di quello che significativamente chiama "il fantasma nel parco":
"L'architettura riguarda la leggerezza, con una raffinata struttura di acciaio e
vetro. Architettura in cui il gioco consiste nel confondere i confini tangibili
dell'edificio e rendere superflua la lettura di un volume solido tra la poetica
della sfocatura e dell'effervescenza. Quando la virtualità è attaccata dalla
realtà, l'architettura deve avere più che mai il coraggio di assumere l'immagine
della contraddizione". La Fondation Cartier pour l'art contemporain è del
1991-94.
[^vi30]: Junya Ishigami, *Freeing Architecture*, catalogo della mostra, Fondation
Cartier pour l'art contemporain -- LIXIL Publishing, Paris-Tokyo 2018.
[^vi31]: Ishigami, *Freeing Architecture* cit., pp. 180-89.
[^vi32]: *Ibid.*, pp. 190-94.
[^vi33]: *Ibid.*, p. 309.
[^vi34]: Colin Rowe, *L'architettura delle buone intenzioni. Verso una visione
retrospettiva possibile* (1994), Pendragon, Bologna 2005.
[^vi35]: Ishigami, *Freeing Architecture* cit., p. 309.
## L'architetto come "produttore" e l'architettura come progetto
> Per gli architetti, la scoperta del loro declino come ideologhi attivi, la
> constatazione delle enormi possibilità tecnologiche utilizzabili per
> razionalizzare le città e i territori, unita alla quotidiana constatazione del
> loro spreco, l'invecchiamento dei metodi specifici di progettazione, prima
> ancora di poterne verificare nella realtà le ipotesi, generano un clima
> ansioso, che lascia intravvedere all'orizzonte uno sfondo molto concreto e
> temuto come il peggiore dei mali: il declino della "professionalità"
> dell'architetto e l'inserimento di questi, senza più remore tardoumanistiche,
> in programmi in cui il ruolo ideologico dell'architettura sia minimo[^vii1].
Per comprendere quanto si sia trasformata la condizione dell'architetto dal
momento in cui Manfredo Tafuri ha formulato la sua analisi -- ma al tempo stesso
quanto di quest'ultima si sia nel frattempo avverato --, è necessario ripartire
proprio dal punto in cui tale analisi è stata giudicata eccessivamente
"drammatica", e dunque nella sostanza è stata del tutto fraintesa. Si tratta
della famosa (e presunta) "profezia" della "morte dell'architettura". Lo stesso
Tafuri vi allude, facendo riferimento alle reazioni a *Per una critica
dell'ideologia architettonica*, da molti letto come un "omaggio a un
atteggiamento apocalittico, come "poetica della rinuncia", come estrema denuncia
di una "morte dell'architettura""[^vii2]. Tale lettura distorta, sorprendentemente
diffusa[^vii3], ha finito per distorcere a sua volta il quadro critico successivo.
Non soltanto quindi l'analisi tafuriana, cosí travisata, è stata bollata come
"oscura profezia", del tutto priva di "valore scientifico"[^vii4], ma ha spinto
anche molti (architetti non meno che storici e critici) a diffidare a priori di
ciò che in essa era contenuto; mancando in questo modo di scorgervi quanto per
loro -- e per le generazioni che sarebbero venute dopo di loro -- poteva invece
essere utile.
Quando Tafuri parla di "estinguersi (...) del ruolo di una disciplina"[^vii5], di
"crisi della funzione ideologica dell'architettura"[^vii6], intende riferirsi
all'esaurirsi di un compito storico, non certo formulare catastrofistici
pronostici in merito al futuro di entrambe. In questo senso, se proprio di
"morte" si dovesse parlare, ciò non riguarderebbe per nulla l'architettura
intesa come fatto materiale (costruito o anche solo progettato): piuttosto
l'architettura come sistema di pratiche, come professione che tradizionalmente
al proprio centro custodisce l'idea di disegnare (ossia progettare)[^vii7] e
organizzare lo spazio, da quello domestico a quello urbano (e volendo anche
oltre), e che in quanto tale comporta sempre, necessariamente, anche aspetti
relazionali, sociali, etici e politici[^vii8]. Se "morte" (o forse meglio, eclissi)
vi è, ciò che viene meno è un certo modo di concepire alcune parti (o
addirittura l'intero *corpus*) dell'architettura intesa in questo senso.
Come l'architettura nella sua dimensione materiale, cosí anche l'architettura
come processo è soggetta alle dinamiche storiche; e dunque, cosí come cambiano
gli edifici nel corso della storia, cambia anche il modo in cui la disciplina
architettonica viene intesa da un punto di vista concettuale. In *Per una
critica dell'ideologia architettonica* e *Progetto e utopia*, Tafuri ha cercato
di articolare storicamente le cause (e in misura minore, gli effetti) di questi
cambiamenti. Dall'Illuminismo alle avanguardie del Novecento, dall'utopia come
progetto ideologico alla depurazione dell'ideologia da ogni tratto utopistico,
il ciclo storico da lui individuato mostra una traiettoria ben precisa per
quanto riguarda la concezione dell'architettura da un punto di vista
disciplinare: l'assunzione su di sé di compiti di gestione dei grandi mutamenti
produttivi e sociali che hanno avuto luogo a partire dalla Rivoluzione
industriale, e che si prolungheranno fino ai primi tre decenni del XX secolo,
per essere riattivati ancora dopo la guerra. Per la cultura disciplinare, faro
di questo vorticoso e spesso contraddittorio sviluppo sono i miti della
razionalizzazione e della pianificazione, declinati a vario titolo e in diversi
contesti, fino al momento in cui -- come rileva Tafuri -- le verranno sottratti
dalle politiche dei "paesi a capitalismo avanzato come gli Usa o a capitale
socializzato come l'Urss"[^vii9]. Cosicché,
> ... dopo aver anticipato ideologicamente la ferrea legge del piano, gli
> architetti, incapaci di leggere storicamente il percorso compiuto, si
> ribellano alle estreme conseguenze dei processi che essi hanno contribuito a
> innescare[^vii10].
La comprensione di tali mutamenti -- oggi come allora -- si rivela un elemento
fondamentale. Rimanerne all'oscuro, o addirittura negarli, equivale a rimanere
del tutto estranei alla propria epoca, e di conseguenza essere esclusi dalla
possibilità di leggerla criticamente. Per utilizzare la già richiamata
distinzione proposta da Benjamin, in una misura non trascurabile questo tipo di
condizione costituisce il presupposto "migliore" per mettere chi vi si dispone
nella posizione del "rifornitore", vale a dire in uno stato di muta e cieca
acquiescenza nei confronti della società per cui opera.
Ma prima di passare ad analizzare quali siano gli effetti del cambio di statuto
dell'architettura attuale rispetto a quello di precedenti epoche storiche,
bisogna sgombrare il campo dalla possibile "impressione" che la supposta eclissi
di una certa idea di architettura, verificatasi a partire dagli anni sessanta e
settanta, possa essere il frutto esclusivo di una "deformazione" tafuriana. A
corroborare l'ipotesi relativa alla "crisi della funzione ideologica"
dell'architettura, con particolare riferimento a quel periodo, può quindi essere
utile la coeva testimonianza di De Carlo:
> Guardando con freddezza quel che accade, si può dire che l'architettura non
> interessa più nessuno. Non interessa i clienti tradizionali perché non risolve
> in modo efficiente e rapido i loro problemi di investimento e di potere; non
> interessa le istituzioni perché produce simboli troppo flebili e sbiaditi in
> confronto a quelli che producono altri settori di attività più potenti e
> aggressivi; non interessa la gente comune perché non propone nulla che
> corrisponda alle sue aspettative. Perciò, dal momento che non interessa più
> nessuno, l'architettura è condannata a una rapida estinzione[^vii11].
La fosca premonizione di Giancarlo De Carlo, formulata quasi mezzo secolo fa,
sembrerebbe a prima vista sconfessata dall'evidenza dei fatti: l'architettura --
nonostante tutto -- esiste, continua a esistere.
Tuttavia, a un'analisi più attenta, le parole di De Carlo non sono poi cosí
lontane dal vero: l'architettura, intesa nel senso in cui la intende
l'architetto genovese -- qualcosa che sia il frutto di un vero *interesse*,
ovvero di un effettivo *essere-tra*, un intreccio di relazioni tra *esseri*
diversi, ciascuno dotato di un proprio status di correlazione ma al tempo stesso
d'indipendenza dagli altri --, non soltanto è destinata a sparire ma
probabilmente non esiste già più (ammesso poi che, in una forma più "piena", sia
mai esistita). E qui, ancora una volta, bisogna fare chiarezza: l'architettura
esiste, certo, nella sua concretezza, in forma di edifici per la "gente comune",
rispetto alle cui "aspettative" però risulta spesso deludente. Ed esiste in
forma di sedi di rappresentanza di quelle "istituzioni" (pubbliche o private)
che tuttavia in effetti, nella gran parte dei casi, cercano e trovano altrove i
propri simboli, in settori "più potenti e aggressivi" -- primi fra tutti il
marketing e la pubblicità -- cui la stessa architettura è subordinata e spesso
assimilata. Per quanto riguarda i "clienti tradizionali", invece --
appartenenti, lungo tutto il corso del Novecento, in modo preponderante al mondo
imprenditoriale e politico --, sono proprio questi a essere scomparsi,
soppiantati da nuovi committenti desiderosi assai meno di radicare i loro
"interessi" in oggetti stabili e materiali, per investirli di preferenza in
entità immateriali e "volatili". Con significative differenze, comunque, tra
nuova committenza politica -- strenuamente impegnata a ostentare il massimo
distacco (apparente) del potere dal "palazzo", e dunque poco interessata a
farsene emblema --, e nuova committenza imprenditoriale. In quest'ultimo caso,
il problema non è tanto la differente accezione del termine "interesse", la sua
declinazione in senso prettamente economico anziché relazionale. Che gli
interessi degli investitori siano di tipo economico è qualcosa che non riesce a
sconvolgere neanche i più incalliti idealisti. La metamorfosi decisiva in questo
campo è piuttosto quella relativa al passaggio da un capitalismo "padronale",
ancora radicato in territori e culture, a un capitalismo finanziario, senza
volto e senza "testa", e dunque impersonale e invisibile; un capitalismo per il
quale sono assai poco importanti le appartenenze, le vicende, i linguaggi e le
problematiche locali. Ed è proprio questo sradicamento, con tutte le sue
conseguenze, di cui De Carlo "pre-sente" minacciosamente l'arrivo.
Non è dunque tanto sul piano dell'architettura realizzata (o anche solo pensata)
che oggi sembra avverarsi la "prognosi" di De Carlo, quanto piuttosto sul piano
concettuale e simbolico. Sul piano -- si potrebbe dire -- del *senso*. Nella
società odierna l'architettura non "conta", o lo fa molto meno di un tempo. Si
legga ancora De Carlo:
> Per convincersi che non è una battuta terroristica, e neanche una semplice
> battuta, basta scorrere le diagnosi degli esperti che confortano le decisioni
> dei politici ai quali sono affidate le sorti del mondo. Queste diagnosi
> concordano nel dichiarare che la questione dell'organizzazione dello spazio
> fisico è molto grave, ma anche molto semplice. Per risolverla basta
> identificare i problemi più salienti che sono quelli della residenza e del
> trasporto -- e affidarli a chi è in grado di affrontarli con la massima
> rapidità e col minimo sforzo[^vii12].
Massima rapidità e minimo sforzo: sono le modalità con cui agisce
preferenzialmente la logica capitalista, anzi -- per l'esattezza -- sono i suoi
obiettivi primari. D'altronde, dalle parole di De Carlo risulta evidente come,
in *questa* logica, "chi è in grado di affrontare" tali problemi non sia niente
affatto l'architetto cosí come egli stesso lo intende, capace di organizzare lo
spazio nella sua complessità, fisica e concettuale; non certo l'architetto per
il quale tempo e lavoro costituiscono quantità spesso non precisate, sulle quali
comunque non lesinare. Piuttosto, il pericolo che egli vede incombente è che,
per la risoluzione di questioni spaziali, in un futuro ormai prossimo, si faccia
ricorso "agli strumenti più efficaci utilizzandoli per quel che possono dare,
senza pretendere prestazioni qualitative che sono estranee alla loro natura".
Difficile dire con esattezza che cosa abbia qui in mente De Carlo; l'utilizzo
della parola "strumenti" lascia però evidentemente intuire il carattere
"strumentale" di tali interventi. Mentre la via d'uscita che per parte sua
ritiene possibile -- e che di fatto in diverse circostanze nel corso della sua
carriera ha proposto -- è quella dell'architettura "dalla parte della
gente"[^vii13], l'architettura della partecipazione.
La natura dell'architettura, intesa come somma dei compiti in carico
all'architetto è, fin dalle sue origini, essenzialmente organizzativa,
*gestionale*[^vii14]. Si tratta in sostanza dell'espletamento di alcune mansioni
specifiche (progettazione, disegno, estimo, scelta dei materiali, ecc.) che
tuttavia in larga parte sono assorbite nella capacità più complessiva
dell'architetto medesimo di sovrintendere, coordinare e soprattutto
*comprendere* le condizioni di possibilità del progetto, quand'anche questo
venga realizzato da altri. Pur essendo parte costitutiva del suo profilo
tradizionale, questa attività di gestione si è accresciuta nel tempo in tale
misura da divenire la parte preponderante del suo lavoro. Ma c'è di più:
l'estensione dei mercati potenziali in seguito alla globalizzazione, la
conseguente crescita quantitativa e dimensionale degli edifici, la loro sempre
maggiore complessità tecnologica, la richiesta di competenze sempre più
specialistiche e diversificate, sono alcuni dei fattori che hanno contribuito a
togliere all'architetto quella centralità nella produzione del progetto che in
precedenza deteneva. Ed è qui che l'analisi storica di Tafuri "incontra" le
considerazioni sulla professione di De Carlo. Se infatti la ricognizione
genealogica compiuta dal primo individua le cause scatenanti della crisi
dell'architettura come disciplina, la "fenomenologia" del secondo ne nomina
lucidamente gli effetti. Che sono appunto alla base delle evoluzioni che stiamo
vivendo attualmente.
Il formidabile sviluppo degli studi di architettura, in particolar modo dalla
seconda metà del XIX secolo in avanti, non soltanto in termini di numero di
persone impiegate ma anche di articolazione interna, di complessificazione
organizzativa (basti pensare agli *architectural firms* sorti a Chicago dopo
l'incendio del 1871, vere e proprie aziende di progettazione impegnate a
fronteggiare l'enorme richiesta di *commercial buildings* e *tall
buildings*[^vii15]; o all'*Architekturbüro* scientificamente impostato da Otto
Wagner per realizzare le stazioni della metropolitana e le chiuse del canale del
Danubio, affidategli nel 1894 dalla municipalità di Vienna in qualità di
consigliere superiore all'edilizia)[^vii16], corrisponde in epoche più recenti a un
altrettanto imponente incremento degli apparati gestionali presenti in tali
studi, perfettamente espresso dal dispiegamento di computer al posto di quelli
che un tempo erano i tavoli da disegno. È questa la plastica dimostrazione del
fatto che oggi i sistemi di elaborazione e di controllo del progetto sono
diventati pressoché interamente *strumentali*, come aveva preconizzato De Carlo.
E tuttavia, pur trattandosi di un mutamento importante, addirittura epocale, non
è in fondo cosí rilevante da provocare un vero sovvertimento nel modo di mettere
in rapporto architettura e architetto. Certamente, crescendo dimensionalmente,
ma soprattutto facendo proprio il modello della taylorizzazione del lavoro, gli
studi di architettura hanno visto nel tempo accrescersi pure la divisione e la
specializzazione delle mansioni al loro interno; cosicché, negli studi più
grandi, accanto agli architetti variamente aggettivati (partner, senior, junior,
ecc.), si trovano oggi frequentemente caddisti, renderisti, specialisti di
progettazione computazionale, BIM manager, architetti Revit, modellisti,
archivisti, responsabili dello sviluppo aziendale, esperti in *public
relations*, addetti ufficio stampa, per nominare solo alcune delle posizioni
possibili. Ed è altrettanto innegabile che il lavoro di architettura, negli
studi maggiori per mole e produttività, possa essere assimilato a quello svolto
in una fabbrica, con tutti gli effetti di sfruttamento e alienazione che ne
conseguono[^vii17]. In questa condizione, con l'ampliarsi a dismisura della
divaricazione tra chi occupa posizioni di vertice, di norma in grado di
abbracciare la complessità -- e in qualche caso anche il senso -- delle
operazioni eseguite, e chi invece è relegato nelle zone inferiori della scala
gerarchica, costretto a produrre semplici "spezzoni" di tali operazioni[^vii18],
diventa pressoché impossibile parlare di "lavoro dell'architetto" in maniera
generalizzata e univoca. Aspetto, questo, confermato anche dai diversi "nomi"
con cui si suole spesso indicare il contributo degli uni e degli altri: "opera",
nel caso dei primi, semplice "lavoro", in quello dei secondi:
> La parola "opera" evoca la dimensione autoriale di un prodotto, ovvero l'idea
> che il prodotto, progetto o edificio, sia il frutto dell'architetto. Al
> contrario, il lavoro (...) in architettura, supera i risultati architettonici
> tradizionali e comprende l'intero sforzo -- la fatica -- necessario per
> sostenere la produzione dell'"opera", dal mantenimento personale agli umili
> lavori che un architetto deve compiere per eseguire un incarico[^vii19].
Benché ovviamente "l'idea stessa di *opera* come qualcosa che possa essere
limitato alla creazione di un oggetto -- come è ancora preteso nella nostra
professione -- sia un'insostenibile farsa"[^vii20].
Ma il vero nodo della questione consiste nella profonda modificazione che ha
subito l'intero processo produttivo dell'architettura, sottoposto alle tensioni
delle trasformazioni epocali citate più sopra; una modificazione che "scavalca"
la stessa organizzazione del lavoro dentro gli studi (ormai raggiunti dal
"modello" post-fordista, con modalità di lavoro più "libere" rispetto a quelle
precedenti e con un controllo delle conoscenze disponibili al suo interno che
porta a intenderle ora come un "capitale cognitivo")[^vii21] e che pone
urgentemente l'architetto di fronte alla necessità di riflettere in merito al
proprio ruolo. Se da un lato infatti questo è radicalmente cambiato, dall'altro
in molti casi gli architetti si ostinano a vederlo immutato, se non nei suoi
aspetti pratici, nel suo significato intrinseco, nel suo valore simbolico. A
partire da quell'"immagine ideologicamente costruita dell'architetto come
indiscutibile creatore"[^vii22] che ancora resiste, non soltanto presso un pubblico
distratto e poco informato ma anche nell'autorappresentazione di molti
architetti. Nell'odierna realtà progettuale, invece, non muta soltanto
l'"identità" dei protagonisti, ma anche -- e radicalmente -- il "punto di vista"
secondo cui questi vanno osservati: in essa, infatti, non più l'architetto,
bensì "il progetto, suddiviso in parti condotte separatamente, individua diversi
ruoli di responsabilità e capacità dispiegati lungo il suo processo"[^vii23]. È il
*progetto stesso* a "scrivere il proprio destino", cioè a dettare le regole, a
imporre la propria agenda a tutte le figure professionali che incontra sul suo
cammino. Se un tempo "ruotava" intorno allo studio di architettura (fatta
eccezione per gli indispensabili interventi ingegneristici, finalizzati
all'elaborazione dei calcoli strutturali e all'inserimento dei sistemi
impiantistici, nonché -- in casi più rari -- di progettisti d'interni), oggi si
potrebbe dire che il progetto ha il proprio "centro" in se stesso: dopo essere
stato ideato e sviluppato in uno studio di architettura nelle fasi preliminare e
definitiva, non è infrequente che passi di mano e che venga integralmente
trasferito a società di ingegneria che lo porteranno in modo del tutto autonomo
alla fase esecutiva, ottimizzandolo (in linguaggio tecnico, "ingegnerizzandolo")
in vista della realizzazione. Ma spesso i passaggi non sono cosí definiti,
perché può capitare che il progetto venga rielaborato e modificato, anche
radicalmente, sotto un profilo strutturale, estetico o dei materiali, da altri
operatori, prima di arrivare alla fase costruttiva; la quale, anch'essa, è di
sovente frazionata dalla società capo-commessa in molteplici porzioni, ciascuna
delle quali eseguita da altre imprese mediante appalti separati. Un complesso
iter nello svolgersi del quale il progetto (o "servizio di progettazione", come
lo denomina ora il linguaggio burocratico italiano) viene variamente -- e da
svariati soggetti -- "processato"; termine, questo, che lascia involontariamente
intendere come il progetto venga sottoposto a revisioni nel corso delle quali --
di passaggio in passaggio -- perde via via ogni traccia di una paternità (o
maternità)[^vii24] che in altre epoche l'affiancarsi di altri nomi e competenze a
quelli dell'architetto poteva contribuire semmai a precisare, ma in nessun modo
mettere in dubbio.
Si tratta dunque di un "processo" -- frutto di una competizione più che di una
cooperazione -- che può portare anche alla completa alienazione dei "diritti"
sul progetto da parte del suo ideatore originario; sempre ammesso poi che abbia
ancora senso definire "autore" di un progetto chi, come accade in molte
circostanze, ne cede di fatto la proprietà materiale e intellettuale nel momento
stesso in cui questo passa di mano.
Il fatto che nell'epoca contemporanea il progetto -- dietro apparenze spesso
ingannevoli -- sia costitutivamente "in cerca di autore", dimostra quanto esso
sia indipendente dallo stesso architetto. Ma si tratta soltanto di una "spia"
che segnala una situazione di allarme più generale. È la prova che
l'architettura, ben lungi dall'essere il punto focale del progetto, è ormai
soltanto una "tappa" -- e a volte neppure la più rilevante -- di un percorso ben
più lungo e intricato. Ma proprio qui sta il problema: nell'accettare il lavoro
di architettura come mansione limitata, parziale, scorporabile da una lettura e
da un'interpretazione più complessiva e allargata della città e della società,
ovvero della politica e dell'economia -- nell'accettare l'architettura come
*mestiere specializzato*, come "comparto" operativo del capitale --,
l'architetto definisce la propria posizione rispetto a esso prima ancora di aver
compiuto qualsiasi "gesto" progettuale.
Certo, si è detto, l'architettura intesa come edificio materiale continua --
nonostante tutto -- a sussistere. E, a dispetto delle insidie di cui si fa
portatore ogni giorno il mondo virtuale, non è stato ancora trovato un valido
sostituto per gli edifici reali, in "carne e ossa". Pur attraversando fasi
altalenanti, dunque, il settore delle costruzioni rimane sempre uno dei comparti
migliori a cui affidare capitali in cerca di collocazioni sicure. Di
conseguenza, architetti e studi di architettura, nella misura in cui riescono a
sconfiggere una concorrenza che si presenta sempre più numerosa e agguerrita,
sembrano avere lavoro assicurato. Non tutti naturalmente se la cavano bene, ma
l'obiettivo comune alla gran parte di essi risulta ben chiaro: concorrere
ciascuno alla costruzione di un pezzo del mondo come lo conosciamo, *lasciandolo
cosí com'è* (con soltanto marginali aggiustamenti, nella maggioranza dei casi di
carattere estetico). Sono gli architetti "rifornitori". Ma che cosa ne è degli
architetti "produttori"? È cosí che Benjamin chiama coloro che trasformano *in
senso tecnico* l'apparato produttivo[^vii25].
Va chiarito immediatamente che non esistono architetti "rifornitori" e
architetti "produttori" *a priori*. È soltanto in relazione alla posizione che
ciascuno di essi assume nella realtà concreta dei processi produttivi
dell'architettura -- se li accetta passivamente facendosene semplice tramite o
se invece piuttosto li reinterpreta criticamente al punto da riuscire a
*trasformarli* sotto qualche profilo dall'interno[^vii26] -- che si determinerà il
loro essere "rifornitori" o "produttori". Esattamente la stessa posizione sulla
base della quale, nota ancora Benjamin, "può essere stabilito o meglio *scelto*
(...) il posto dell'intellettuale nella lotta di classe"[^vii27]. E qui è
necessario affrontare una questione essenziale: ha ancora senso questo discorso
*al di fuori* della prospettiva della "lotta di classe"? Vale a dire, al di
fuori di una prospettiva *rivoluzionaria* quale sussisteva per Benjamin? Non è
forse proprio la mancanza di questa -- o quantomeno di un'ideologia o di una
finalità condivisa, sia pur meno radicale -- a rendere difficile, se non
addirittura impossibile, attualizzare il discorso di Benjamin? Alla risposta più
apparentemente ovvia e immediata -- in assenza di una "lotta di classe" tale
discorso è *ipso facto* destituito di senso -- bisogna opporre una risposta più
meditata. L'attuale mancanza di un'alternativa politica al capitalismo è un
fatto assodato. Se mai ce ne fosse bisogno, sotto un profilo disciplinare questo
è "provato" dall'odierna rilettura in senso puramente "scientifico" (con Carl
Schmitt si potrebbe dire "neutralizzazione", ovvero *de-politicizzazione*)[^vii28]
dell'architettura, i cui obiettivi -- dall'edificio alla città, per giungere ad
*habitat* ancora più allargati -- sono umani e sociali, e dunque eminentemente
politici. Oggi, al posto degli obiettivi collettivi politicamente condivisi il
cui raggiungimento Benjamin poteva quantomeno indicare, si impongono interessi
individuali in cui, al di là di una pur significativa ma nella maggior parte dei
casi generica vocazione a "cambiare il mondo" con il proprio intervento,
prevalgono "obiettivi" come l'affermazione personale e l'ottenimento di maggiori
guadagni.
E tuttavia, a ben guardare, esiste un più che diffuso malessere nei confronti di
condizioni di vita e di lavoro che tocca punti di vista non soltanto
individuali. Si tratta di un disagio che trascende, in larga misura, la
singolarità di una visione soggettiva, limitata e parziale, e che coinvolge
ormai quella che Paolo Virno chiama una "moltitudine"[^vii29]. Pur essendo priva di
una prospettiva unitaria, la moltitudine ha in comune "il linguaggio,
l'intelletto, le comuni facoltà del genere umano"[^vii30]. I tanti soggetti
individuali che la compongono condividono tra loro aspirazioni e bisogni. E ciò
tanto più in un comparto ben definito qual è quello che ruota intorno al mondo
dell'architettura. All'interno di questo, da alcuni anni a questa parte, si sono
individuati non soltanto motivi d'insoddisfazione comuni (primo fra tutti,
condizioni di sfruttamento selvaggio dei lavoratori che spesso non hanno
paragoni nel panorama del lavoro intellettuale, e neppure di quello
manuale)[^vii31], ma anche forme di relazioni intersoggettive che, se non arrivano
certo a definire un vero e proprio soggetto politico, hanno però almeno la
capacità di inquadrare i problemi in modo analitico[^vii32], e istituire reti di
comunicazione e di scambio tra i soggetti coinvolti. Sono ancora lontani
dall'essere messi a fuoco, in tutto ciò, comportamenti solidali e rivendicazioni
condivise; ma soprattutto manca una vera e propria "coscienza di classe",
sostituita al momento da una più generica consapevolezza di appartenenza, di
compartecipazione a una medesima condizione o "destino". Al tempo stesso, però,
vi sono diffusi e ricorrenti segnali di un risveglio di attenzione e di
interesse nei confronti di una lettura politica della disciplina architettonica
nel suo complesso, in netta controtendenza rispetto all'orientamento ancora
dominante che vede in essa l'esclusiva espressione di una cultura
scientifico-tecnologica, cui corrispondere in termini "prestazionali" e
professionalistici. Ed è sulla strada -- pur lunga e difficoltosa --
dell'individuazione di strategie e dell'adozione di tattiche finalizzate
all'organizzazione di una maggior "resistenza" e di una lotta più efficace e
consapevole, che i testi di Benjamin -- e in particolare quello citato -- hanno
spesso rappresentato un fondamentale viatico per la cultura architettonica[^vii33].
Benché naturalmente al di fuori di qualsiasi realistica prospettiva di
rivoluzione, la *prospettiva rivoluzionaria* proposta da Benjamin --
specificamente rivolta al lavoro intellettuale -- ha fornito e continua a
fornire un impulso e una possibile "linea di condotta" per i soggetti coinvolti
a vario titolo nel processo produttivo dell'architettura. Distogliendo lo
sguardo dagli scenari più "eroici" della lotta di classe, per fissarlo
sull'obiettivo più circoscritto delle dinamiche interne ai rapporti di
produzione, il testo di Benjamin apre uno squarcio in un momento storico quasi
senza speranze. L'alternativa tra farsi "rifornitori" o "produttori" di tali
rapporti mantiene infatti la propria validità anche al di fuori di prospettive
politiche più radicali, offrendosi come opportunità per chi, pur essendo
*dentro* di essi, intenda porsi *contro* le logiche che li informano.
E proprio dal testo di Benjamin emerge un dato importante: le posizioni occupate
nel processo produttivo sono frutto di una *scelta*. Nessun ostacolo logico
esiste, di ordine trascendentale, che impedisca di posizionarsi nell'una o
nell'altra. Ciò non significa che sia una "libera" scelta: essa dipende comunque
da condizionamenti e congiunture, cosí come dipende dal punto a partire dal
quale viene compiuta. Vi sono fattori economici in gioco, ma anche culturali e
sociali, che vincolano tale scelta, orientandola in un senso o nell'altro. Ma
pur con tutti i limiti ipotizzabili ed entro condizioni storicamente
determinate, la scelta della propria posizione nel processo produttivo da parte
dell'architetto si presenta -- se non certo libera in assoluto -- quantomeno
*possibile*. Come in altre contingenze della vita individuale e sociale, è il
risultato della composizione, in positivo o in negativo, di convenzioni e
convenienze che possono influenzarla, quando non addirittura determinarla del
tutto. Ma ciò nondimeno è e rimane anche una *decisione*: un "taglio" netto,
deliberato, che risolve la *quaestio* in un modo o nell'altro. Come tutte le
decisioni, comporta un'assunzione di responsabilità e l'esercizio di una
convinzione[^vii34]. Non è insomma possibile -- di fronte all'occupazione dell'una
o dell'altra posizione -- invocare l'ineluttabilità delle circostanze o del
"fato", non comunque in una misura determinante.
Ma, come non esistono architetti "rifornitori" e architetti "produttori" *a
priori*, neppure esistono architetti "rifornitori" e architetti "produttori" una
volta per tutte. Ciascun architetto compie la propria scelta ogni giorno, in
ogni momento, spesso inconsapevolmente, e altrettanto di frequente in modo
inapparente, non dichiarato. Lo fa nell'ambito del proprio lavoro, accogliendo o
meno offerte che le/gli vengono fatte, soddisfacendo o meno condizioni che
le/gli vengono imposte, ridiscutendo progetti che le/gli vengono commissionati,
ponendosi o meno a disposizione nell'accettare compromessi o imposizioni.
Insomma, si tratta di casi molto frequenti e di scelte molto concrete, che
portano l'architetto a posizionarsi come "rifornitore" dell'apparato di
produzione, oppure piuttosto come "produttore". Ma produttore di che cosa? Come
va inteso esattamente questo termine? Non è forse anche l'architetto
"rifornitore" un produttore, nella misura in cui realizza per l'appunto
"prodotti"? Innanzitutto si può dire -- anzi ribadire -- che tutta
l'architettura è un prodotto, vale a dire una merce. La natura di merce
dell'architettura non è minimamente revocata, e neppure insidiata,
dall'intervento dell'architetto "produttore" invece che da quello
dell'architetto "rifornitore", o viceversa. Ma se l'architettura è senza dubbio
un prodotto nel caso di entrambi, in quello dell'architetto "produttore" si può
dire che essa è *anche* un prodotto, ma non solo: ovvero non è un
prodotto-e-basta. Essa è anche -- ed essenzialmente -- un *progetto*. Non però
quel "progetto" che l'architetto in quanto architetto produce (o meglio,
dovrebbe produrre, se altri operatori, altri "attori" -- come si è visto -- non
ne insidiassero il compito) in vista di una possibile realizzazione. Piuttosto
un progetto da intendersi come *idea*, come *finalità* (e non come semplice
presupposto) dell'architettura medesima.
L'avvicinamento di prodotto e progetto non è affatto inedito o sorprendente.
> Pro-durre e pro-getto sono termini solidali, rappresentano, nel nostro
> linguaggio, un'unica "famiglia". Il progetto è inteso come intrinsecamente
> produttivo: esso elabora modelli di produzione. Il pro-durre è compreso nel
> pro-getto che ne illumina il senso e il fine[^vii35].
In realtà, molto più di quanto si possa pensare, il progetto è distante da una
dimensione semplicemente produttiva-predittiva (idea che linearmente anticipa la
propria realizzazione), per aprirsi invece alla "massima (...) irruzione
dell'imprevedibile"[^vii36]. È questa idea di progetto che s'affaccia nella
produzione dell'architetto "produttore": dove dunque l'architettura *come
progetto* non indica il mero svolgimento di un'intenzione iniziale, l'attuazione
di qualcosa di interamente presente in essa, e perciò di perfettamente aderente
a un programma "dato" (e "dato" appunto dal processo produttivo come tale),
bensì qualcosa che "eccede" da esso, che si apre a possibilità ulteriori, non
previste, azzardate, che mettono in crisi il processo produttivo medesimo.
Architettura come progetto significa che l'architettura *nel suo complesso*,
come disciplina pratica *e* concettuale, in tutti i suoi aspetti e passaggi --
dall'elaborazione teorica all'organizzazione produttiva, passando naturalmente
anche per il progetto architettonico inteso in senso tradizionale, con tutti i
processi che ne rendono possibile la realizzazione -- è ripensata in una
prospettiva progettuale, nell'accezione "aperta", arrischiata al futuro,
enunciata poc'anzi.
Per rendere più facilmente comprensibile come ciò vada inteso (e per dissolvere
il possibile equivoco ingenerato dalla somiglianza formale delle espressioni
"architettura come progetto" e progetto architettonico, cui corrisponde nei
fatti un'abissale distanza), si potrebbe richiamare il senso che il termine
"progetto" assume allorché ci si riferisce a un progetto letterario o artistico
o, ancora, a un progetto politico, o a un progetto di vita; dove il "progetto"
in questione non ha palesemente nulla a che fare con pratiche relative a quegli
ambiti, come accade invece nel caso dell'architettura. Oppure, più propriamente,
si potrebbe richiamare l'uso che ne ha fatto Tafuri a proposito del "progetto"
storico[^vii37]; appare chiaro, infatti, in questo caso, come non soltanto il
lavoro storico in generale venga assimilato a un "progetto" ma come tale
"progetto" sia per molti versi assimilabile a quello aperto, arrischiato e
capace di mettere in crisi il proprio stesso processo produttivo descritto in
precedenza[^vii38]: un "progetto" che non a caso egli definisce "progetto di
crisi"[^vii39]. È lo stesso orizzonte a cui si riferisce Cacciari parlando della
tecnica in relazione al noto saggio di Benjamin: "Non si dà discorso autentico
sulle tecniche, finché non se ne *teorizza* la struttura di *crisi*: esse non
avvengono che in base a crisi -- a causa del trasformarsi degli assetti
culturali precedenti"[^vii40]. E ancora: "La crisi non è un momento che lo sviluppo
delle tecniche attraversa, ma la loro immanente struttura". Una "coincidenza"
niente affatto casuale, dal momento che è l'analisi dello stesso Cacciari a
"finire" per occuparsi proprio dell'*Autore come produttore*. Qui, quanto
precedentemente affermato in merito alla capacità del progetto di mettere in
crisi -- *trasformandoli* -- i processi produttivi, viene ulteriormente
illuminato: infatti
> \[La\] crisi non può essere operata speculativamente -- riflettendo
> *dall'esterno* sul processo di trasformazione. Essa deve essere *prodotta*.
> (...) Qualsiasi posizione intellettuale che non si ponga come *produttiva* è
> reazionaria. Ma *produttiva* significa: non soltanto integrata nel rapporto di
> produzione -- ma in grado di trasformarne-metterne in crisi l'apparato
> tecnico-linguistico[^vii41].
L'architettura come progetto non indica dunque un "progetto" *per* essa o *con*
essa: piuttosto indica l'essere progetto *essa stessa*. E un progetto non
semplicemente confermativo bensì effettivamente *trasformativo* degli apparati
produttivi; un progetto di crisi. Soggetto di tale progetto di crisi è
l'architetto come produttore, o per dir meglio, l'architetto che accetti di
calarsi *dentro* tali apparati, confrontandosi con essi, con le loro forme, i
loro linguaggi, e al tempo stesso scelga di criticarli, andando *contro* una
loro riproposizione immutata. Non si tratta affatto -- si badi bene -- di mere
"astrazioni". Piuttosto di ben precise *relazioni* sviluppabili all'interno
della catena di produzione attraverso i diversi anelli della quale il progetto
architettonico man mano transita: relazioni con gli altri soggetti e le altre
competenze della catena di produzione; relazioni con le amministrazioni
pubbliche, con le istituzioni e con i committenti privati; relazioni con le
imprese di costruzioni e con le maestranze; relazioni con i fornitori; relazioni
con l'utenza di un edificio e più in generale con la cittadinanza e con il
pubblico; relazioni con gli altri componenti dello studio; relazioni con gli
altri studi; relazioni con il mondo della comunicazione dell'architettura
(editoria, riviste, giornali, internet); relazioni infragenerazionali e con gli
studenti. Tali relazioni risultano naturalmente tanto più significative quanto
più i soggetti implicati sono disponibili a lasciarsi coinvolgere e a farsi
mutare, ma non escludono neppure il ricorso a modalità conflittuali[^vii42]; anzi,
spesso ciò è inevitabile.
A questo elenco si possono aggiungere l'organizzazione del lavoro interna allo
studio; il quadro legislativo entro il quale l'architetto si muove; il corpus
teorico disciplinare; le possibili analisi storiche, sociologiche, economiche,
politiche compiute su architettura e città; e ovviamente il progetto vero e
proprio, alle sue possibili scale diverse, architettonica e urbana, visto sotto
*tutti* i suoi aspetti, e in particolare sotto il profilo delle modalità
alternative di concepire e organizzare lo spazio, unico terreno di applicazione
e verifica della politica all'architettura. Si tratta di una molteplicità di
campi diversi, con cui -- in differenti modi e in vari momenti nel corso del suo
lavoro -- l'architetto viene a contatto. Agendo su uno o più di questi ambiti,
vale a dire mettendoli in crisi, modificandoli, per innovarli -- ma soprattutto
per *migliorarli* nella misura del possibile[^vii43] --, l'architetto propone se
stesso come intellettuale.
Nella condizione attuale, in modo nettamente contrastante rispetto ad altre
epoche storiche precedenti, la figura dell'intellettuale appare fortemente
screditata. In realtà, pur non risalendo a tempi troppo recenti, la condizione
di crisi non sembra affatto essere endemica per l'intellettuale: il quale, in un
passato più o meno distante, ha rivestito posizioni centrali non solo al fianco
di regnanti o potenti, né solo in qualità di membro della *respublica
litterarum*, ma anche in settori vitali e operanti della società[^vii44]. Non è
dunque qui il caso di ritornare sulla questione già accennata della sua
(presunta) "crisi", se non per far notare che curiosamente l'intellettuale,
stante quanto detto sin qui, sembrerebbe porsi in un duplice rapporto con la
crisi: da un lato come colei/colui che la patisce, dall'altro come colei/colui
che la impartisce. Al punto da far sorgere il dubbio che la crisi
dell'intellettuale, in ultima istanza, non sia nient'altro che il rovesciamento
su di sé della propria stessa attitudine a mettere in crisi. Ormai da tempo
affermatisi come ceto separato, con un'espressa funzione "contemplativa" -- di
osservatori privilegiati -- della società[^vii45], gli intellettuali sconterebbero
in tal modo la propria crescita ipertrofica, o sarebbero vittime di un "delirio
di onnipotenza", giungendo a rivolgere le proprie armi contro se stessi. O forse
piuttosto, agendo e "abitando" costantemente la crisi, la loro esistenza non è
contraddetta dalla presenza di questa.
Di certo comunque si può dire che il ruolo dell'intellettuale, oltre a quello
più ovvio di istruire la società propagandovi la cultura sotto varie forme,
consista nel "rompere" costellazioni di saperi consolidate, riconfigurandole
secondo altre strutture di senso[^vii46]. Quest'opera di "rottura" è sempre stata
fondamentale per l'intellettuale produttivo e progressivo. Ben lungi dal
confermare condizioni e opinioni già note e diffuse, questi si presenta come un
"quieto agitatore", il portatore di un conflitto che non è tuttavia frutto di
una "visione personale", bensì appartiene alle *cose stesse*. "Per "ritornare
alla cosa" occorre (...) saperla porre nel suo dissidio rispetto alle
altre"[^vii47]. L'intellettuale weberiano, da questo punto di vista, costituisce
forse il culmine della capacità di rendere continuamente presente il conflitto
che è nelle cose, con *disincanto*; una forma di distacco, quest'ultima, che non
può essere adottata però come un semplice "atteggiamento" e che è invece il
motore stesso del suo agire.
Per quanto concerne l'architettura, le figure analizzate in precedenza
rispondono perfettamente a questi caratteri: sia che -- come fa Aldo Rossi -- si
ridisegni a livello teorico il nesso tra architettura e città, facendo ampio
ricorso ad altre culture disciplinari[^vii48]; sia che -- come fa Aldo van Eyck --
si intervenga a livello urbano escogitando un intelligente riuso di un ingente
numero di spazi pubblici residuali e istituendo al tempo stesso una proficua
collaborazione con una municipalità[^vii49]; oppure, sfidando convenzioni sociali e
tipologiche, si offrano spazi di relazione davvero capaci di commisurarsi agli
utenti[^vii50], è sempre e comunque l'impronta di un architetto intellettuale
quella che qui si lascia riconoscere. Come da questi due esempi risulta
evidente, nell'entrare in rapporto con singoli ambiti o temi, i diversi
architetti citati utilizzano metodi e strumentazioni differenti: dalla ricerca
più tradizionale, svolta individualmente, a quella che prevede una pluralità di
contributi, che vanno dunque selezionati e coordinati tra loro, fino al diretto
intervento sulla città o su un edificio. E molti altri ancora sono e potrebbero
essere i mezzi impiegati. Con ciò si dimostra l'ampiezza dello spettro d'azione
dell'architetto intellettuale, ma anche la sua completa libertà da qualsiasi
"obbligo" culturalistico. Come avverte Gramsci nel Quaderno già ricordato[^vii51],
del resto, per il costruttore, per l'organizzatore -- e dunque anche per
l'architetto --, l'attività intellettuale si estrinseca non più nell'"eloquenza
(...) ma nel mescolarsi attivamente alla vita pratica". Nessun vuoto
"intellettualismo" è pertanto richiesto (e concesso) all'architetto che agisca
*sub specie intellectualis*. Semmai, a questo punto, ostentazioni di cultura e
fumose "astrattezze" divengono i migliori indici della presenza di ormai
intollerabili pseudo-intellettuali (architetti o altro che siano)! E come
l'architetto intellettuale non deve per forza disporre di capacità oratorie o
retoriche, cosí non per forza deve profondere il suo impegno su un terreno
diverso da quello dell'architettura.
Riletti in questa chiave, i "casi" più interessanti che emergono dalla storia
dell'architettura sono proprio quelli *produttori di crisi*, più che quelli
portatori di ordine (oppure quelli portatori di un ordine che mette in crisi a
sua volta). Sono i momenti di "rottura", più che i momenti di continuità. Sono
le opere che tolgono certezze, più che le opere che le confermano. Ovviamente
nella misura in cui ciò sia fondato. Da questo punto di vista, persino una
nozione pur pesantemente gravata da una matrice idealistica qual è quella di
"capolavoro" potrebbe essere recuperata a una critica produttiva. Idealistica,
nella categoria di "capolavoro", è la maniera di concepire l'opera d'arte (o di
architettura) come un prodotto eccezionale, isolato, frutto dell'intuizione
sublime di un genio; e idealistica è parimenti la presunzione dell'esistenza di
un rapporto di "continuità" tra il presunto "capolavoro" e la sua epoca, di cui
esso rappresenterebbe semplicemente il "culmine". In realtà, volendosi servire
ancora di questa vecchia categoria degradata, bisognerebbe riconoscere nel
"capolavoro" da un lato la piena implicazione nelle vicissitudini produttive del
proprio autore, e dall'altro una capacità -- questa sí davvero straordinaria --
di rompere con il proprio tempo, di mettere in crisi l'ordine precedente, e di
istituirne al suo posto uno nuovo. Da questo punto di vista, lungi dall'esserne
estraneo, il capolavoro ha a che fare con l'epoca nel preciso senso che esso *fa
epoca*, vale a dire che provoca un arresto del corso del tempo (*epoché*,
sospensione). Ma, nel "far epoca", il capolavoro mostra la propria attitudine
rivoluzionaria, non certamente l'opposta tendenza a occupare un posto centrale
all'interno d'un quadro lasciato però sostanzialmente immutato.
Per l'architetto come intellettuale, inoltre, al pari dell'autore come
produttore di Benjamin, "il progresso tecnico è la base del suo progresso
politico"[^vii52]. Tale discorso non va assolutamente confuso con un progresso
tecnologico. Per quanto rivesta un ruolo fondamentale per gli apporti che dà al
processo produttivo dell'architettura, la tecnologia non ha nulla a che fare con
la tecnica nel modo in cui Benjamin la intende in questo contesto. Parlando di
"progresso tecnico", egli si riferisce piuttosto al padroneggiamento di
competenze specifiche, nonché ai possibili avanzamenti rappresentati
dall'ulteriore acquisizione di esse. Ma soprattutto, per Benjamin il vero
"progresso tecnico" non consiste affatto nell'incremento delle potenzialità
degli strumenti che l'uomo ha a disposizione; esso piuttosto va inteso come
qualcosa di cui l'uomo di per sé dispone, ovvero -- ancora una volta -- la
capacità di intervenire sui processi produttivi in maniera tale da modificarli.
A questo fine -- in qualità di architetto -- può anche servirsi di dispositivi
informatici e digitali, ma non solo: oltre alle tecniche tradizionali di
rappresentazione legate al progetto e alla pianificazione (dallo schizzo al
disegno, fino alla fotografia e al video), un "buon" architetto sa -- o dovrebbe
sapere -- impiegare, almeno entro certi limiti, competenze strutturali,
estimative, giuridiche, sociologiche, psicologiche, politiche e di altre
discipline ancora. Nel fare tutto ciò egli si avvale della parola (in forma
scritta o verbale), strumento massimamente duttile e diversificato che offre a
chi la usa coscientemente la possibilità di fare ricorso a un vasto numero di
"tecniche". Ed è su questo terreno che si lasciano misurare le capacità
*produttive* dell'architetto intellettuale. Al di là del suo essere mezzo di
comunicazione oggi eccessivamente abusato, infatti, la parola è -- o dovrebbe
essere -- anche e soprattutto suprema "innescatrice" di relazioni e
impareggiabile apportatrice di potenzialità inventive e trasformative. Non
"vuote" parole, destinate di conseguenza a cadere nel vuoto, dunque, bensì
parole corpose, precise, circostanziate, la cui fondamentale missione si
presenta quella di ridefinire ogni volta il senso della disciplina nei suoi
diversi aspetti, ma anche quella di renderne partecipi gli altri ambiti, il
"resto del mondo", che troppo spesso ne rimane all'oscuro.
Rispetto al lavoro di *routine* svolto dal semplice "rifornitore", a quello
dell'architetto intellettuale è richiesto qualcosa di più: a esso non è
sufficiente ripetere soluzioni già note; piuttosto deve sperimentare soluzioni
inventive, conquistando cosí nuovi territori e nuovi rapporti da esplorare. In
questo senso, "contro" può significare anche contro il lavoro assegnato,
prestabilito, contro le convenzioni, contro le abitudini non più verificate.
Nell'ottica del lavoro intellettuale, del resto, proprio il tema della
"verifica" è fondamentale, come già ricordato in precedenza con parole di Franco
Fortini che presentano forse inconsapevoli risonanze benjaminiane[^vii53]. Non si
dà lavoro autenticamente produttivo senza un'attenta verifica delle sue
implicazioni e ricadute. E come esso non può "confidare" su un atto puramente
ri-produttivo, cosí il suo autore non può "pretendersi" libero dalla necessità
di dare continuità al proprio operato: soltanto cosí si comprova il suo ruolo.
La sua attendibilità di "produttore" dipende da essa e va parimenti sottoposta a
verifica. E in ogni caso, nulla vieta che l'architetto "produttore" torni
nuovamente a "rifornire". Alla libertà della sua scelta è data anche la
possibilità dell'incoerenza.
Può questo *idealtypus* dell'architetto intellettuale -- portatore di
inquietudine e di "sconvolgimenti" (*produttore di crisi*) nel cuore stesso del
proprio lavoro, destinato per sua essenza a "edificare" (*ædes facere*), o
quantomeno a occuparsi di *rerum ædificatoriarum*[^vii54] -- aderire all'architetto
attuale? Ovvero, corrispondono gli architetti *reali* a questa figura ideale? Si
potrebbe rispondere che è certamente possibile, come lo è stato in momenti e in
epoche precedenti, a patto naturalmente di non idealizzare la realtà in modo
eccessivo. Ma la vera questione qui non è dare volti e nomi reali a un profilo
ideale; né compilare liste di eletti e di proscritti, che per di più sarebbero
comunque soggettive e parziali. Alla "famiglia" degli architetti infatti
appartengono non soltanto i "grandi" nomi ma anche i nomi "normali", e le
miriadi di "anonimi" che compiono il loro lavoro quotidiano negli studi, coloro
che svolgono le stesse mansioni in altre posizioni, coloro che insegnano, coloro
che per perversione o passione si dedicano alla storia e alla critica...[^vii55].
Insomma, una "famiglia" molto vasta e complessa, tutta impegnata nel suo insieme
in un'attività intellettuale, ma all'interno della quale non tutti i suoi membri
risultano *produttivi* nel senso indicato. La vera questione insomma non è
individuale ("non esistono più gli architetti intellettuali di una volta...")
bensì collettiva. Detto in altri termini, la vera questione su cui interrogarsi
è la funzione storica dell'architetto intellettuale *nel momento attuale*.
Se un tratto specifico sembra contrassegnare il momento attuale (vale a dire una
società neoliberalista), esso potrebbe essere identificato con un'assoluta
"refrattarietà" da parte di questa per qualsiasi tipo di critica. La mentalità
dominante pare costitutivamente lontana da uno spirito critico, cosí come lo è
dall'elaborazione di un pensiero critico (un pensiero *di crisi*). Lungi
dall'essere una caratteristica accidentale o neutrale, tale mancanza risponde
invece -- almeno in prima istanza -- a una precisa volontà di autoaffermazione
apodittica. La stessa spasmodica ricerca del consenso va letta precisamente in
questa ottica: come massima avversità per la crisi (il fatto poi che la crisi si
ripresenti ciclicamente sotto forma "economica", non diminuisce di certo -- e
semmai anzi aumenta -- tale avversità). Ma al tempo stesso, è proprio in
quest'epoca apparentemente priva di spirito critico che si può sviluppare uno
spirito critico, sia pure sporadico e disorganizzato, e complessivamente
estraneo alle logiche dominanti. Si tratta di uno sviluppo *non imprevisto*;
esso cioè non soltanto è tollerato ma in qualche modo finisce anche per essere
funzionale al sistema. In una società come quella attuale, infatti,
> ... la tensione antagonistica tra diversi punti di vista è appiattita nella
> pluralità dei punti di vista indifferenti. "Contraddizione" perde cosí il
> proprio significato sovversivo: in uno spazio di permissivismo globalizzato,
> punti di vista incoerenti coesistono cinicamente[^vii56].
Inoltre, essendo il capitalismo in quanto tale *sviluppo*[^vii57], esso ingloba al
suo interno e *sfrutta* in una certa misura le critiche avanzate nei suoi stessi
confronti; al punto che -- come è stato affermato -- il fattore principale di
trasformazione del capitalismo sarebbe la critica stessa[^vii58].
Con tutto ciò -- che piaccia o meno -- questo è il momento attuale. E se
all'interno di esso l'intellettuale (e l'architetto intellettuale) può avere un
suo ruolo, per quanto esposto a rischi di fraintendimenti e di
strumentalizzazioni, è questa la partita che è chiamato a giocare: senza alcun
vano "principio speranza" ma anche senza alcuna preventiva disillusione. Semmai
con il disincanto -- e/o il distacco -- più sopra evocati. Tentativi in tal
senso ci sono, e alcuni di essi sono stati oggetto di analisi nelle pagine
precedenti. In linea generale, comunque -- si potrebbe affermare --, tali
tentativi appaiono oggi meno strutturati, e fors'anche meno "impegnati",
rispetto a quelli compiuti in altre epoche. Sicuramente minore appare la loro
efficacia, se l'architetto come intellettuale può risultare pressoché del tutto
sparito dall'orizzonte attuale, e neppure entrare a far parte -- stando a
"impressioni" potenzialmente anche ingannevoli -- dell'agenda dei maggiori
esponenti della disciplina. Ma forse non è lí che bisogna cercare. In una
situazione come quella attuale, difficoltosamente costretta tra crisi e
sviluppo, il mondo dell'architettura sembra per una parte accontentarsi di
quello che ha, e per la parte restante aspirare a ciò che non ha, mostrando
segni di sfiducia e stanchezza nei confronti della possibilità di cambiare
qualcosa. Si tratta certo di una situazione difficile, magari persino *più*
difficile di quelle storicamente attraversate sinora. Ma -- come scrive
Hölderlin citato da Heidegger -- "là dove c'è il pericolo, cresce anche ciò che
salva"[^vii59]. E proprio la storia dimostra come, in condizioni e momenti
cruciali, non soltanto le difficoltà non si presentino affatto come un
impedimento al raggiungimento dei risultati auspicati, ma come a volte questi
stessi possano essere ottenuti proprio grazie alla presenza di esse. Un caso
emblematico in tal senso -- vale a dire una lampante dimostrazione di come ogni
occasione possa essere "buona" per chi operi come "produttore", anziché
accontentarsi di essere un "rifornitore" -- è rappresentata dal complesso
realizzato per "The Economist Group" (1959-64) a Londra dai coniugi Alison e
Peter Smithson. Ottenuto grazie alla vittoria di un concorso a inviti,
l'incarico prevedeva la realizzazione della sede dell'importante settimanale
economico inglese, fondato nel 1843 dal banchiere e uomo d'affari James Wilson.
Da quel momento in avanti la testata ha sempre sostenuto una posizione
liberalista, avente come propri fondamenti la proprietà privata e l'economia di
mercato. Dovendo inserirsi in un lotto non distante dalla City, prospiciente St
James Street, ma confinante anche con un club preesistente costruito alla metà
del XVIII secolo, gli Smithson hanno disposto i tre edifici (la sede di "The
Economist", una banca e un edificio residenziale, rispettivamente di 15, 4 e 8
piani) su un plateau quadrato sopraelevato rispetto alla quota della città
circostante. Pur richiamandosi a strutture presenti nella zona (dai vicoli alle
*arcades* e ai cortili che penetrano negli edifici), la soluzione trovata dai
due architetti rappresenta una vera e propria "rottura" rispetto agli interventi
urbani precedenti: la *plaza* pedonale, rivestita di pietra arenaria, si offre
come un'isola di tranquillità all'interno della densa e caotica rete di strade
della capitale britannica. Né l'intervento manca pure di una lucida coscienza
del proprio significato strategico e del ruolo che potrebbe assumere in una
prospettiva urbana più allargata. Nelle parole dei suoi stessi autori, esso
> ... offre uno spazio di "pre-ingresso", in cui c'è il tempo di riordinare la
> propria sensibilità, preparandosi a entrare negli uffici per una visita o per
> lavoro. La città è lasciata al di fuori dei limiti dell'area e le si aggiunge
> un altro tipo di spazio "intermedio"; se, come nel passato, più proprietari
> contribuissero a realizzare queste "pause", allora altri modelli di movimento
> sarebbero possibili; l'uomo per strada potrebbe scegliere di cercare il
> proprio percorso "segreto" attraverso la città, potrebbe ulteriormente
> sviluppare una sensibilità urbana, elaborando il proprio contributo alla
> qualità d'uso[^vii60].
E ancora:
> The Economist costituisce un insieme "didattico", volutamente asciutto, di
> edifici. E questo, fra duecento anni, potrà sembrare un errore; ma nella
> nostra situazione non c'è altra strada se non quella di "costruire" e di
> "dimostrare". La lezione non sta solo in ciò che abbiamo fatto, ma in ciò che
> non abbiamo fatto[^vii61].
Nel sottolineare il significato "pedagogico" del loro intervento (a proposito
dei "produttori", Benjamin ne rimarca proprio il "comportamento
didattico")[^vii62], gli Smithson rivelano in pieno la sua natura *politica*: un
frammento di "arcipelago" urbano *dentro e contro* nel cuore del maggior centro
finanziario internazionale. E infatti, in perfetto accordo con ciò, il *corretto
uso* di questo spazio è indicato dalla scena iniziale del film *Blow up* (1966)
di Michelangelo Antonioni: una jeep carica di una compagnia di mimi mascherati
fa improvvisamente irruzione nella *plaza*; dopo un breve giro dello spazio
deserto tra gli edifici, la jeep viene abbandonata e la compagnia di giovani
festanti si sparge a piedi per le vie di Londra. La città del capitale è cosí
riletta come palcoscenico di un gran teatro dell'assurdo; il seme a "reazione
ludica" che vi viene impiantato diviene generatore di comportamenti "eversivi"
in cui si colgono echi surrealisti e situazionisti.
A fronte di un "caso" come questo viene da chiedersi se ci troviamo in un'epoca
in cui una simile "immagine del mondo" è ancora possibile. Non è forse un caso
che oggi gli incarichi più allettanti, in termini economici e di prestigio,
finiscano in larga parte nelle mani degli architetti più propensi a "rifornire"
(o per dir meglio, trovino adeguati studi e progetti a cui affidare il proprio
sicuro "rifornimento"). Di questo "materiale" sono fatte in prevalenza le città
contemporanee: gigantesche confezioni regalo senza sorprese. E qui non bisogna
lasciarsi ingannare dai facili effetti di carattere estetico: la *sostanza*
rimane quella di una spesso elegante salvaguardia dell'ordine costituito. Ma non
sono solo gli incarichi importanti quelli con cui un architetto "produttore"
deve misurarsi per potersi mostrare all'altezza del compito: il ruolo di
intellettuale pubblico e mediatizzato, con tutte le responsabilità che ne
conseguono. Né è in questa chiave soltanto che va valutato il suo possibile
ruolo di intellettuale. Esistono -- per limitarsi all'esclusivo piano
progettuale -- operazioni di dimensioni assai più misurate, a volte persino di
dimensioni modeste, che costituiscono però un valido banco di prova per
effettuare sperimentazioni e innovazioni capaci di originare trasformazioni
produttive. Si tratta di operazioni in cui l'architetto è spesso chiamato a
ruoli di "supplenza" che lo impegnano nell'elaborazione di programmi che devono
variamente tener conto di condizioni locali particolari, di fruizioni insolite,
di soggetti deboli, di situazioni economiche d'emergenza. Ma soprattutto si
tratta di una questione di "mentalità". Si pensi ai molti interventi compiuti
negli ultimi vent'anni da Lacaton & Vassal (Anne Lacaton e Jean Philippe
Vassal), dal Palais de Tokyo di Parigi (2001-14) al FRAC (Fond régional d'art
contemporain) Nord-Pas de Calais a Dunkerque (2009-15), differenti tra loro per
genere e dimensioni, ma tutti ugualmente improntati alla medesima volontà di
offrire qualcosa di più e di diverso rispetto alle attese. Arrivando anche a
"forzare" le richieste poste dai bandi[^vii63], i progetti degli architetti
francesi si segnalano per la "generosità" dei loro spazi, spesso
quantitativamente maggiori di quelli previsti, e per la contemporanea rinuncia
ad assumere un ruolo da protagonisti, per lasciare piuttosto la scena alle
azioni destinate a installarvisi[^vii64]. O ancora, ai pochi interventi di Maria
Giuseppina Grasso Cannizzo, tanto misurati quanto attenti a ogni minimo
dettaglio: con ammirevole caparbietà e semplicità l'architetta siciliana produce
le proprie opere -- la Torre di controllo nel porto turistico di Marina di
Ragusa (2008-2009) e un esiguo numero di case private in Sicilia[^vii65] --
controllandone per intero il processo progettuale ed esecutivo secondo una
modalità "artigianale" apparentemente appartenente ad altri tempi.
Denominare questo tipo di interventi "architettura responsabile"[^vii66] significa
mettere in evidenza la loro capacità di rispondere a domande socialmente
complesse, ma anche singolarmente essenziali, anziché perdersi in vaniloqui o in
narcisistici rispecchiamenti. E non meno rilevante, sotto il profilo della
dimostrazione di "responsabilità", è il fatto che per conquistare il "diritto a
esistere" a questi interventi, l'architetto -- in ciò "produttore" davvero
straordinario di conflitti per buone cause -- sia non di rado costretto a
ingaggiare vere e proprie battaglie *contro* tutte le circostanze che dovrebbero
invece renderli attuabili.
In altri casi -- e per altri livelli e posizioni -- sono sufficienti gesti
invisibili, dal basso, destinati a non passare alla Storia. "Aggiustamenti",
"riconfigurazioni", "rimodulazioni", che possono riguardare i rapporti interni a
determinate condizioni lavorative od organizzative. Modalità silenziose di agire
in senso migliorativo, uguali e contrarie a quelle solitamente adottate dagli
apparati produttivi, che cambiano nel concreto il modo di operare al suo
interno, predisponendo a un *minor* sfruttamento e a una *maggior* condivisione
di saperi.
Anche queste ultime modalità d'intervento, cosí come le prime -- per non dire
poi di quelle di carattere più direttamente culturale --, prevedono sempre, al
fine di poter essere produttive, uno studio, una conoscenza, un'applicazione, un
*impegno* che, se non può propriamente essere definito politico, si connota però
di sovente in un senso civile. Tutto ciò deve avvenire -- quando avviene --
senza dar luogo a illusioni di false liberazioni o rivoluzioni; spesso piuttosto
come un'ardua e oscura "opera di resistenza" all'interno delle condizioni date e
nei confronti di esse. E non deve stupire che questo terreno, alla fine, possa
essere non soltanto parimenti difficile ma addirittura *più* difficile ancora
per *star architects* e altri cacciatori di esposizione mediatica che non per
gli architetti "normali", animati da una reale voglia di cambiare e dal coraggio
e dalla pazienza di farlo. Per chiunque intraprenda questo cammino, comunque, il
percorso non manca di rivelarsi accidentato e irto di pericoli: innanzitutto
quello di "perdersi" nella propria stessa immagine di "architetto
intellettuale"; inoltre, di tradire il proprio "mandato", ritenendolo
erroneamente una "delega" conferita e ricevuta in modo permanente, e non invece
da riguadagnare ogni volta da capo, con la credibilità delle proprie "azioni"; e
ancora, di incorrere in vuote e sterili ripetizioni di se stesso,
nell'affermazione -- e più di frequente nella difesa -- di posizioni
(professionali, culturali) ormai superate ed esaurite. Da questo punto di vista,
sono sempre esistite forme di lotta "intestina" fra intellettuali per la
conquista dell'egemonia in un determinato ambiente e in un certo periodo; e
queste, per quanto siano il segnale di una "volontà di potere" più e oltre ogni
legittima "volontà di sapere", possono costituire a loro volta un auspicabile
fattore di rinnovamento. Ciò, nello specifico ambito architettonico, riguarda
gli spesso difficoltosi ricambi generazionali, e dunque l'inevitabile scontro
tra vecchi e nuovi baricentri intellettuali[^vii67]: dove i primi tendono a
perpetuare se stessi sulla base delle posizioni acquisite, dell'autorità
guadagnata, cosí come pure di sterili arroccamenti a protezione del proprio
universo di riferimenti, concepito come l'unico e il solo possibile; mentre i
secondi si propongono come nuova "intelligenza" del mondo, incardinata su altri
"punti archimedici", portatori non soltanto di punti di vista ma anche di saperi
diversi, alla ricerca del riconoscimento di una piena dignità culturale. A ben
guardare, allorché esuli da contrapposizioni puramente personali, questo scontro
costituisce a sua volta un elemento capace di far avanzare il dibattito,
sottoponendo a critica antiche tesi "incrostate" e passando al vaglio ipotesi
inedite. Per entrambi -- anziani e giovani rappresentanti dell'ambizione a
detenere l'egemonia intellettuale --, comunque, rimane da esercitare una
sorveglianza reciproca a fronte del pericolo ulteriore di vecchi e nuovi
accademismi. Non soltanto quello che si verifica all'interno delle scuole, dove
gli architetti insegnanti -- già in un non lontano passato ma nuovamente anche
oggi -- rischiano sempre di risultare "scollati" dalle problematiche
attuali[^vii68]; ma pure il pericolo di una "stilizzazione" dei propri prodotti, di
qualunque tipo essi siano; pericolo che si concretizza ad esempio nella consueta
tendenza, da parte degli uni, a "sterilizzare" la propria grammatica e sintassi
progettuale, e nell'insorgente (ma già sufficientemente affermato) orientamento,
da parte degli altri, verso l'esercizio di un disegno completamente scollegato
dalla prassi, nonché soprattutto da qualsiasi fondamento teorico.
Nella scelta che l'architetto *può* sempre compiere -- va rammentato ancora una
volta -- vi sono in gioco obiettivi e azioni *reali*, non utopie o chimere. Ciò
a patto naturalmente che dimostri di possedere alcune capacità basilari: tra
queste, innanzitutto la capacità di pensare e fare *insieme*, in modo coerente,
come differenti espressioni di un'*unica* intenzione; poi la capacità di
compiere ricerche, di cui i propri progetti siano la conseguenza, e non già il
presupposto; la capacità di usare la storia con piena consapevolezza, perché
possiede un'idea, sa a che cosa questa le/gli serve, ancora una volta in vista
dei propri progetti; la capacità di interrogare parole, concetti, forme, figure,
anche basilari, che l'architettura utilizza, per riverificarne il senso in vista
di un loro possibile uso; la capacità di incrociare saperi diversi, tutti
indispensabili a una comprensione del quadro complesso in cui il proprio lavoro
si colloca; la capacità di pensare la relazione concreta tra lo *spazio* e la
*vita*, che in ultima analisi è l'oggetto e lo scopo del suo intero lavoro;
infine la capacità di tradurre tutto ciò in spazio.
Quanto più l'architetto intellettuale è padrone dei mezzi che ha -- o che
dovrebbe avere -- a propria disposizione, tanto più "tecnicamente" sa
intervenire sui processi produttivi. Per fare che cosa? Da un lato, si potrebbe
rispondere, per produrre grandi o piccoli mutamenti nel mondo che lo circonda. E
non è tanto importante che si tratti di grandi o di piccole visioni; non è la
dimensione che conta. Ovvero (si potrebbe anche dire), obiettivo dell'architetto
come intellettuale dovrebbe essere di avere grandi visioni anche in piccole
dimensioni. Se non è più tempo per le utopie, lo è però sempre ancora per i
*progetti*; progetti mirati, circoscritti, anche minimi, ma in ogni caso
progetti nel senso più sopra indicato, aventi per *soggetto* l'architettura
nella sua accezione più onnicomprensiva. Dall'altro, per far diventare quegli
stessi processi e il mondo in cui si collocano più comprensibili; non per
rivoluzionarli, forse, ma almeno per portarli alla luce, per renderli
riconoscibili. In questa prospettiva, l'opera dell'architetto intellettuale si
presenta (o dovrebbe presentarsi) anche sempre come un "disvelamento", un lavoro
di scavo all'interno delle condizioni date per recuperare da esse qualcosa di
sottratto a un sapere collettivo. Perché quella che persegue è una causa
collettiva, non individuale.
Conoscere, far conoscere, demistificare, progettare, condividere. Espresso in
questo modo il programma di un architetto che voglia produrre se stesso come un
intellettuale apparirà più che improbo: una molteplicità di prospettive, anche
contraddittorie tra loro, troppo gravose per un singolo individuo. Ma è qui che
gli effetti della condivisione, "spezzando" la falsa naturalità della divisione
del lavoro e dei processi produttivi, possono farsi sentire.
> L'unico modo per riguadagnare una propensione ad agire è quello di trovare
> nuove forme di cooperazione nella progettazione architettonica che
> metterebbero allo stesso livello tutte le professioni che fanno parte del
> progetto e del processo di costruzione: architetti, costruttori e ingegneri,
> cosí come educatori, storici, critici, grafici, editori, fotografi e tecnici.
> Coinvolgendo conoscenze condivise, anziché specializzate, questo approccio
> collaborativo all'architettura potrebbe portare a una maggiore forza
> professionale e una maggior equità economica, in cui i compiti lavorativi
> potrebbero essere ugualmente e non più gerarchicamente distribuiti. Ciò
> porterebbe con sé una nuova definizione istituzionale di architettura che non
> sarebbe più basata su relazioni gerarchiche e di sfruttamento e su autorialità
> singole ma sulla cooperazione dei lavoratori come co-produttori di
> architettura[^vii69].
Potrebbe essere questa *trasformazione* (non morte!) il futuro
dell'architettura? Oppure il futuro dell'architettura (come le condizioni
attuali sembrerebbero far presagire) sarà più spettrale? Un'architettura non
solo prefabbricata ma addirittura preconfezionata? Un'architettura
*prêt-à-porter*? La semplice risultante della complicata equazione "problema =
soluzione"? Un vero paradiso per i "rifornitori" a venire...
La risposta però potrebbe non essere già scritta, potrebbe passare anche
attraverso una decisione, una *scelta*, pur nei limiti delle comuni
"alienazioni". La scelta di scacciare i fantasmi affrontando le questioni.
Potrà essere l'architetto intellettuale a farsene carico? O forse piuttosto
qualcuno che -- come Foucault -- avrà il coraggio e la lucidità di riferirsi a
se stesso come "un mercante di strumenti, un fabbricante di ricette, un
suggeritore di obiettivi, un cartografo, un rilevatore di piani, un
armaiolo..."[^vii70].
[^vii1]: Tafuri, *Progetto e utopia* cit., pp. 166-67.
[^vii2]: *Ibid.*, p. 2. Vedi anche R. Amirante, F. Dumontet, M. Perriccioli e S.
Pone, *Fortuna critica della "Tendenza"*, in "Op.cit.", n. 50, 1981, pp.
5-20, in cui gli autori accennano alla "nota tesi tafuriana della "morte
dell'architettura"", cui Tafuri replica con una lettera ("Op. cit.", n. 51,
1981, p. 83) in cui definisce la frase citata "una vulgata da cui mi è
persino superfluo prendere le distanze". Aggiungendo subito dopo: "Non
ricordo (\...) di aver mai cantato su tombe inesistenti. (\...) Ma di
estinzione di ruoli per vecchie discipline ho certo parlato".
[^vii3]: Vedi ad esempio l'intervista di Hans van Dijk a Rem Koolhaas, in cui si
legge tra l'altro: "Ho la netta impressione che Tafuri e i suoi amici
abbiano in odio l'architettura. Costoro dichiarano morta l'architettura. Per
lui l'architettura è una schiera di cadaveri all'obitorio": Hans van Dijk,
*Rem Koolhaas Interview*, in "Wonen-TA/BK", n. 11, 1978, p. 18.
[^vii4]: Paolo Portoghesi, *Autopsia o vivisezione dell'architettura?*, in
"Controspazio", n. 6, 1969, p. 7. La lunga recensione di Portoghesi è
comunque la più lucida nel criticare e -- in parte -- nel decostruire le
posizioni tafuriane.
[^vii5]: Tafuri, *Progetto e utopia* cit., p. 3.
[^vii6]: *Ibid.*, p. 169.
[^vii7]: Come noto, Leon Battista Alberti nel *De re ædificatoria* definisce
*lineamenta* quello che potrebbe essere definito altrettanto "disegno" che
"progetto"; vedi Alberti, *L'architettura* cit., vol. I, pp. 18-19.
[^vii8]: "Il ruolo dell'architetto è quello di mediatore tra il cliente o
committente, cioè la persona che decide di costruire, e la forza lavoro con
i suoi supervisori, che potremmo chiamare collettivamente i costruttori":
Spiro Kostof, *Preface*, in Id. (a cura di), *The Architect* cit., p. XVII.
[^vii9]: Tafuri, *Per una critica dell'ideologia architettonica* cit., p. 77.
[^vii10]: Tafuri, *Progetto e utopia* cit., p. 167.
[^vii11]: De Carlo, *L'architettura della partecipazione* (1973) cit., pp. 76-77.
La sezione a cui appartiene il brano citato s'intitola significativamente *È
morta l'architettura: Viva l'architettura!*
[^vii12]: *Ibid.*, p. 77.
[^vii13]: De Carlo, *L'architettura della partecipazione* cit., p. 78. più in
generale va ricordato l'impegno di De Carlo in questa direzione attraverso
la rivista "Spazio e Società", da lui fondata e diretta dal 1978 al 2000:
vedi Isabella Daidone, *Giancarlo De Carlo. Gli editoriali di Spazio e
Società*, Gangemi, Roma 2018.
[^vii14]: Si rammenti la già citata definizione vitruviana. Interessante tuttavia
notare come il ruolo di "controllore" delle forze produttive impegnate sul
cantiere assegnato all'architetto, affermato nel 1567 da Philibert Delorme
nel suo *Premier tome de l'architecture* (e, un secolo prima prima di lui,
da Leon Battista Alberti), appaia ancora "sorprendente" nella Francia del
XVI secolo: vedi il bel saggio di Catherine Wilkinson, *The New
Professionalism in the Renaissance*, in Kostof (a cura di), *The Architect*
cit., pp. 124-60, in particolare p. 131.
[^vii15]: Carl W. Condit, *The Chicago School of Architecture. A History of
Commercial and Public Building in the Chicago Area, 1875-1925*, The
University of Chicago Press, Chicago 1964.
[^vii16]: Otto Antonia Graf, *Otto Wagner: Das Werk des Architekten 1860-1918*, 2
voll., Bölhau, Wien 1994; Robert Trevisiol, *Otto Wagner*, Laterza,
Roma-Bari 2006.
[^vii17]: Su ciò vedi Riccardo M. Villa, *L'architetto e la fabbrica*, in GIZMO,
*Backstage. L'architettura come lavoro concreto*, a cura di Florencia
Andreola, Mauro Sullam, Riccardo M. Villa, Franco Angeli, Milano 2016, pp.
17-27. più in generale, sul tema dell'evoluzione del lavoro di architettura
nell'epoca della digitalizzazione, vedi Peggy Deamer e Phillip G. Bernstein
(a cura di), *Building (in) the Future. Recasting Labor in Architecture*,
Yale School of Architecture - Princeton Architectural Press, New Haven --
New York 2010.
[^vii18]: A ciò per costoro si aggiungono di sovente orari molto pesanti, ben oltre
le otto ore giornaliere, una "flessibilità" dell'orario che si traduce in
serate e nottate occupate, un'estensione del lavoro ai sabati e alle
domeniche. Il tutto all'interno di un quadro in cui le ferie sono un sogno,
il trattamento di fine rapporto un miraggio e la pensione una chimera. Di
questi temi mi sono occupato in *L'architettura come mestiere*, in
[www.gizmoweb.org/2012/03/larchitettura-come-mestiere/](http://www.gizmoweb.org/2012/03/larchitettura-come-mestiere/),
25 marzo 2012, e *Architettura e lotta di classe*, in
[www.gizmoweb.org/2014/05/architettura-e-lotta-di-classe/](http://www.gizmoweb.org/2014/05/architettura-e-lotta-di-classe/),
4 maggio 2014.
[^vii19]: Aureli, *Labor and Work in Architecture* cit., p. 72.
[^vii20]: *Ibid.*, p. 74.
[^vii21]: Carlo Vercellone (a cura di), *Capitalismo cognitivo. Conoscenza e
finanza nell'epoca postfordista*, Manifestolibri, Roma 2006.
[^vii22]: Pier Vittorio Aureli, *History, Architecture and Labour: A Program for
Research*, in Aaron Cayer, Peggy Deamer, Sben Korsh, Eric Peterson e Manuel
Shvartz­berg (a cura di), *Asymmetric Labors: The Economy of Architecture in
Theory and Practice*, The Architecture Lobby, New York 2016, p. 158.
[^vii23]: Giulio Barazzetta, *Che fare*, in GIZMO, *Backstage. L'architettura come
lavoro concreto* cit., p. 50.
[^vii24]: Filarete, *Trattato di architettura* cit., libro II, pp. 39-41.
[^vii25]: Benjamin, *L'autore come produttore* cit., pp. 207 sgg.
[^vii26]: In realtà, come scrive Massimo Cacciari, *Introduzione* a Max Weber, *Il
lavoro intellettuale come professione*, Mondadori, Milano 2018, p. XXVII,
"... per quest'epoca, non si dà (...) interpretazione che non sia
trasformazione".
[^vii27]: Benjamin, *L'autore come produttore* cit., p. 207 (il corsivo è mio).
[^vii28]: Carl Schmitt, *L'epoca delle neutralizzazioni e delle spoliticizzazioni*
(1929), in Id., *Le categorie del "politico"* cit., pp. 167-83.
[^vii29]: Virno, *Grammatica della moltitudine* cit.
[^vii30]: *Ibid.*, p. 14.
[^vii31]: Su ciò rimando al mio *L'architettura come lavoro concreto*, in GIZMO,
*Backstage. L'architettura come lavoro concreto* cit., pp. 7-10.
[^vii32]: Oltre ai lavori citati in precedenza, vedi Peggy Deamer (a cura di), *The
Architect as Worker. Immaterial Labor, The Creative Class and the Politics
of Design*, Bloomsbury, London 2015. Sul tema, in senso più allargato, vedi
anche *IWW: Immaterial Workers of the World*, in "DeriveApprodi", n. 18,
numero monografico, 1999.
[^vii33]: Non è letteralmente possibile dar conto del numero delle citazioni di
*Der Autor als Produzent* nel dibattito architettonico, dapprima degli anni
settanta, e poi nuovamente in quello più recente, quasi sempre però senza
adeguate storicizzazioni di esso. Sulle possibili ambiguità del suo impiego,
basti ricordare che i medesimi passi del saggio sono utilizzati *contra*
Tafuri da Portoghesi, *Autopsia o vivisezione dell'architettura?* cit.
(recensione a *Per una critica dell'ideologia architettonica*), e poi dallo
stesso Tafuri con altre finalità in *L'Architecture dans le Boudoir. The
language of criticism and the criticism of language*, in "Oppositions", n.
3, 1974, pp. 37-62, dove nota tra l'altro che "qui Benjamin si rivela
ambiguo e può prestarsi a diverse interpretazioni" (p. 62).
[^vii34]: Il rimando è evidentemente a Max Weber, *La politica come professione*
(1919), in *Il lavoro intellettuale come professione* cit., pp. 49-130.
[^vii35]: Massimo Cacciari, *Progetto*, in "Laboratorio Politico", n. 2, 1981, p.
88.
[^vii36]: *Ibid.*, p. 114.
[^vii37]: Tafuri, *Il "progetto" storico* cit., pp. 3-30.
[^vii38]: Scrive Tafuri, *ibid.*, p. 13: "L'autentico problema è come progettare
una critica capace di porre di continuo in crisi se stessa mettendo in crisi
il reale".
[^vii39]: "Il "progetto" storico è sempre "progetto di una crisi"": *ibid.*, p. 5.
Su ciò vedi Biraghi, *Progetto di crisi* cit., pp. 9-53.
[^vii40]: Massimo Cacciari, *Di alcuni motivi in Walter Benjamin*, in "Nuova
Corrente", n. 67, 1975, p. 238. Il saggio di Benjamin cui si fa riferimento
è *L'opera d'arte nell'epoca della sua riproducibilità tecnica* (1936).
[^vii41]: Cacciari, *Di alcuni motivi in Walter Benjamin* cit., p. 241.
[^vii42]: Vedi al proposito la concezione della "relazione" in Enzo Paci,
*Dall'esistenzialismo al relazionismo*, D'Anna, Messina-Firenze 1957.
[^vii43]: Sugli effetti "migliorativi" delle trasformazioni dei rapporti di
produzione, vedi Benjamin, *L'autore come produttore* cit., p. 212.
Ovviamente, nel suo caso, tale "miglioramento" va inteso in relazione alla
funzione didattico-organizzativa della produzione in vista di una
rivoluzione comunista. Nella situazione odierna ogni "miglioramento" degli
apparati citati va invece valutato alla luce della sua capacità di apportare
una maggiore equità al loro interno e di fornire migliori condizioni ai loro
fruitori.
[^vii44]: Per quanto limitato alla sola Italia, è interessante *Intellettuali e
potere* (*Storia d'Italia Einaudi. Annali 4*, a cura di Corrado Vivanti,
Torino 1981), in cui la figura dell'intellettuale si frange in molteplici
soggetti che, a seconda dei contesti sociali e storici, sono impegnati in
settori e a livelli tra di loro molto differenti (medicina, pedagogia, arte,
religione, ecc.). Vedi inoltre Alberto Asor Rosa, *Intellettuali*, in
*Enciclopedia Einaudi*, Torino 1979, vol. VII, pp. 801 sgg.
[^vii45]: Corrado Vivanti, *Presentazione*, in *Intellettuali e potere* cit., pp.
XIX-XX.
[^vii46]: Sull'intellettuale come "destabilizzatore" e "risvegliatore di coscienze"
(da Socrate a Heinrich Heine -- ma anche, si potrebbe aggiungere, a Karl
Kraus e oltre), vedi Maldonado, *Che cos'è un intellettuale?* cit., pp.
92-95. Inoltre vedi Edward W. Said, *Dire la verità. Gli intellettuali e il
potere*, Feltrinelli, Milano 2014.
[^vii47]: Cacciari, *Introduzione* cit., p. XI.
[^vii48]: Il riferimento è a Rossi, *L'architettura della città* cit. Per
un'analisi delle fonti rossiane del libro, vedi Elisabetta Vasumi Roveri,
*Aldo Rossi e "L'architettura della città". Genesi e fortuna di un testo*,
Allemandi, Torino 2010.
[^vii49]: Ci si riferisce ai *playgrounds* realizzati da van Eyck ad Amsterdam per
conto dell'amministrazione pubblica tra il 1947 e il 1978\. Oltre a Lefaivre
(a cura di), *Aldo van Eyck. Playgrounds* cit., vedi anche Anna van Lingen e
Denisa Kollarova, *Aldo van Eyck. Seventeen Playgrounds*, Lecturis,
Eindhoven 2016, e Merijn Oudenampsen, *Aldo van Eyck and the City as
Playground*, in *Urbanacción 07/09*, a cura di Ana Mendez de Andés, La Casa
Encendida, Madrid 2010, pp. 25-39.
[^vii50]: È il caso dell'Orphanage di Amsterdam (1955-60) dello stesso van Eyck, su
cui vedi Francis Strauven, *Aldo Van Eyck's Orphanage. A Modern Monument*,
NAi Publishers, Rotterdam 1997.
[^vii51]: Gramsci, *Quaderni del carcere* cit., vol. III, Quaderno 12 (XXIX), § 3,
p. 1551.
[^vii52]: Benjamin, *L'autore come produttore* cit., p. 209.
[^vii53]: Fortini, *Verifica dei poteri* cit., pp. 41-57.
[^vii54]: Va qui rammentata l'ambiguità del titolo albertiano *De re ædificatoria*,
che esclude deliberatamente l'uso dell'ovvio vocabolo vitruviano
*architectura* per i suoi dieci libri, scegliendone uno più "edificante".
Per un'accurata analisi di tale titolo, vedi Leon Battista Alberti, *Prologo
al 'De re ædificatoria'*, a cura di Elisabetta Di Stefano, Edizioni ETS,
Pisa 2012, pp. 9-17.
[^vii55]: Tra coloro che con maggior costanza e serietà si sono impegnati in questi
anni in una lettura dei ruoli rivestiti dall'architetto e dallo storico
dell'architettura nel corso del Novecento vi è Carlo Olmo: vedi in
particolare *Architettura e Novecento. Diritti, conflitti, valori*,
Donzelli, Roma 2010, e *Architettura e storia. Paradigmi della
discontinuità*, Donzelli, Roma 2013.
[^vii56]: Slavoj Žižek, *Il parallasse architettonico. Pennacchi e altri fenomeni
di lotta di classe*, in Id., *Il trash sublime*, a cura di Marco Senaldi,
Mimesis, Sesto San Giovanni 2013, pp. 56-57.
[^vii57]: Come scrive Raniero Panzieri (in *Relazione sul neocapitalismo* (1961),
in Id., *La ripresa del marxismo-leninismo in Italia*, Nuove Edizioni
Operaie, Roma 1977, pp. 170-71), "si potrebbe dire che i due termini
capitalismo e sviluppo sono la stessa cosa".
[^vii58]: Luc Boltanski e Ève Chiapello, *Il nuovo spirito del capitalismo*,
Mimesis, Sesto San Giovanni 2014.
[^vii59]: Martin Heidegger, *La questione della tecnica* (1953), in Id., *Saggi e
discorsi*, a cura di Gianni Vattimo, Mursia, Milano 1980, p. 22. L'inno da
cui è tratto il verso citato di Friedrich Hölderlin è *Patmos* (1803).
[^vii60]: Alison Smithson e Peter Smithson, *The Charged Void: Architecture*, The
Monacelli Press, New York 2001, p. 248.
[^vii61]: Alison Smithson e Peter Smithson, in Marco Vidotto, *A + P Smithson*,
Sagep Editrice, Genova 1991, p. 35. Sul carattere "didattico" del progetto
per "The Economist" insiste anche Kenneth Frampton, *The Economist and the
Hauptstadt*, in "Architectural Design", n. 194, 1965, p. 62.
[^vii62]: E aggiunge: "La migliore tendenza è falsa se non insegna quale
atteggiamento si deve tenere per soddisfarla": Benjamin, *L'autore come
produttore* cit., p. 212.
[^vii63]: È il caso, tra gli altri, dell'École d'Architecture di Nantes (2003-2009)
dove, "come uno strumento pedagogico, il progetto mette in discussione il
program­ma e le pratiche della scuola tanto quanto le norme, le tecnologie e
il proprio processo di elaborazione": vedi
www.lacatonvassal.com/index.php?idp=55#.
[^vii64]: Antonio Lavarello, *Indifferenza come forma di impegno politico*, in
www.gizmoweb.org/2015/12/indifferenza-come-forma-di-impegno-politico-edifici-e-spazi-pubblici-nellopera-di-lacaton-vassal/#\_ftn14,
24 dicembre 2015.
[^vii65]: Maria Giuseppina Grasso Cannizzo, *Loose Ends*, a cura di Sara Marini,
Lars Muller Publishers, Zürich 2014; Sara Marini, *Sull'autore. Maria
Giuseppina Grasso Cannizzo e le sue foreste di cristallo*, Quodlibet,
Macerata 2017.
[^vii66]: Vedi il capitolo *L'architettura responsabile*, in Biraghi e Micheli,
*Storia dell'architettura italiana 1985-2015* cit., pp. 329-52.
[^vii67]: Su ciò rimando ai miei *L'ultima resistenza ovvero la lotta degli anziani
contro i giovani*, in GIZMO, *MMX. Architettura zona critica* cit., pp.
15-21, e *Non si può fare meno dell'architettura*, in Chiara Baglione (a
cura di), *Ernesto Nathan Rogers 1909-1969*, Franco Angeli, Milano 2012, pp.
196-98.
[^vii68]: Vedi il capitolo *Dall'architettura disegnata all'architettura insegnata:
l'accademia della composizione*, in Biraghi e Micheli, *Storia
dell'architettura italiana 1985-2015* cit., pp. 183-95. Sempre valida -- pur
con i necessari adeguamenti -- rimane la critica condotta da Massimo Scolari
in *Una generazione senza nomi*, in "Casabella", n. 606, 1993, pp. 45-47.
[^vii69]: Aureli, *Labor and Work in Architecture* cit., p. 81.
[^vii70]: Foucault, *Disciplina e democrazia. Intervista di J.-L. Ezine* cit., p.
90.
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lang: sl
references:
- type: book
id: biraghi2019larchitetto
author:
- family: Biraghi
given: Marco
title: "L'architetto come intellettuale"
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issued: 2019
language: it
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id: benjamin2016avtor
author:
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container-title: "Usoda in značaj"
publisher-place: Ljubljana
publisher: Beletrina
issued: 2016
page: 81-96
language: sl
- type: book
id: battisti1981brunelleschi
author:
- family: Battisti
given: Eugenio
title: "Filippo Brunelleschi"
publisher-place: New York
publisher: Rizzoli
issued: 1981
language: en
# vim: spelllang=sl,en,it
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