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Non esiste analisi seria delle vicende delle avanguardie artistiche nella Russia sovietica che possa prescindere dal legare la storia di quelle avanguardie a quella della «scuola formalista», nata dalla convergenza dei due gruppi di ricerca linguistico-letteraria di Pietroburgo e di Mosca.
Se esiste infatti una chiave di volta capace di spiegare le aporie interne alla vicenda dell'avanguardia artistica nella Russia sovietica, questa è esattamente l'analisi del dibattito che si accentra, ancor prima della Rivoluzione di Ottobre, intorno alle tesi dell'Opojaz[^1]. Ciò che è in gioco, sin dall'apparire delle prime indagini critiche di Šklovskij, Jakobson, Vinogradov o Eichenbaum, è infatti la funzionalità dell'arte, in quanto costruzione dotata di leggi e strutture affatto specifiche nel contesto istituzionale in cui il linguaggio fonda la sua genesi. Se è vero – come ha scritto Eichenbaum[^2], – che il gruppo iniziale dei formalisti tendeva a «emancipare la parola poetica dalle tendenze filosofiche e religiose che avvincevano sempre più i simbolisti», è anche vero che quel tanto insistere sul carattere convenzionale, artificioso, sovrapersonale dell'arte, non ha altro scopo che isolare l'oggetto poetico in un laboratorio anatomico, per indagare, nell'autonomia assoluta della sua interna struttura evolutiva, i modi di funzionamento delle istituzioni linguistiche[^3].
E' a questo punto che l'innesto dell'analisi formale sul tronco delle avanguardie storiche diviene problematico. La parola-oggetto di Chlébnikov, la poesia urbana di Majakovskij, la tensione antiestetica di Burljuk e Kručënyck, la disgregazione de i nessi sintattici e la «riduzione al fonema» dei futuristi in genere, o al puro segno e al materiale-segno, di un Malevič o di un Tatlin – si pensi all'elenco degli «strumenti per la rigenerazione della lingua» con cui si apre il manifesto del 1913[^4] – sono, contemporaneamente, conferma degli strumenti analitici usati dai membri dell'Opojaz e contestazione della loro universalità.
Il dissidio si rivela in tutta la sua ampiezza quando l'avanguardia sceglie di legare il proprio destino al farsi della Rivoluzione d'Ottobre. Quando essa, in altre parole, sceglie come propria la dimensione della «progettazione», quando trasforma – in letteratura come in poesia, in architettura, in pittura o nel cinema – la propria negazione in proposta costruttiva, quando sceglie insomma di scendere sul piano della storia.
E' tale scelta soggettiva, che vede il realizzarsi dell'avanguardia come omologo del «realizzarsi del socialismo», che segna, sin dal '17, le tappe di una vicenda storica su cui si è recentemente avuto modo di costruire analisi critiche altamente mistificate. E' da questa stessa scelta che dovremo ripartire per ripercorrere i momenti di una vicenda che è ora di far uscire dal mito.
In quanto critica all'istituzione linguistica, le tesi dell'Opojaz non possono che confermare, anzi storicizzare al livello più alto, la struttura stessa delle discipline artistiche. Proprio perché il suo sforzo è tutto concentrato nel trovare le vie di una massima efficienza nell'organizzazione del materiale linguistico, proprio perché il suo mettere fra parentesi tutte le questioni relative alla genesi dei linguaggi e ai significati da essi convogliati è funzionale a tale ricerca di leggi assolutamente «specifiche», il lavoro svolto dai seguaci del «metodo formale» ottiene due effetti complementari:
a) rovescia per intero le artificiose tesi circa la politicità dell'avanguardia, omogeneizzando tecniche e articolazioni strutturali futuriste a quelle dello stesso passato che i budetljane aggredivano accanitamente[^5];
b) indica una nuova condizione del lavoro intellettuale, riducendo quest'ultimo all'uso coerente ed efficiente di un materiale linguistico in sé indifferente all'elaborazione che di esso dovrà fare il tecnico delle combinazioni formali. Che è come dire consegnare – con un atto di realpolitik culturale non sappiamo quanto cosciente – tutta la responsabilità della scelta dei materiali (= la struttura dei significati) al «committente politico». (Il che è già abbastanza esplicito nelle risposte di Šklovskij alle accuse di parte marxista).
Tale scelta, dal nostro punto di vista, ha un chiaro significato. L'arte – scrive Šklovskij[^6] – «non è una cosa, non è un materiale, ma un rapporto di materiali: e, come ogni rapporto, anche questo è di grado zero. E' quindi indifferente la scala di misurazione dell'opera, il valore aritmetico del denominatore, importante è il loro rapporto. Le opere giocose, tragiche, universali o da camera, le contrapposizioni di un mondo a un altro o di un gatto a una pietra sono uguali tra loro».
Ma questa è esattamente la base teorica della riduzione del «materiale» a se stesso operata dai controrilievi di Tatlin, o dai Merzbilden di Schwitters. (L'accostamento non è casuale: si confrontino le immagini fotografiche superstiti del Merzbau di Hannover con quelle relative alla decorazione del Café Pittoresque eseguita nel 1917 da Georgiy Yakulov, Rodčenko e Tatlin)[^7]. L'oggetto al suo grado zero è il materiale puro. Lo scontro fra i materiali è già applicazione della legge dello «straniamento» (il ready-made di Duchamp ne è d'altronde la quint'essenza), e in un controrilievo o in un Merz l'artista è proprio quell'«istigatore nella rivolta delle cose» di cui parla lo stesso Šklovskij nel caratterizzare la tecnica dello «spostamento semantico» in Tolstoj[^8].
Nasce già, a questo punto, una difficoltà. Fino a quando l'artista guida la «rivolta delle cose» – la majakovskijana rivolta degli oggetti – diviene almeno problematico passare dallo straniamento alla produzione: lo «straniamento» specifico di una «cultura dei materiali», come quella di Tatlin, è, oggettivamente, straniamento dalla produzione.
«La gente che viene dal mare – scriverà Šklovskij per spiegare il significato dello straniamento semantico[^9] – s'abitua talmente al rumore delle onde che non lo sente più. Allo stesso modo raramente udiamo le parole che pronunciamo. Noi ci guardiamo ma non ci vediamo più. La nostra percezione del mondo si è inaridita e dissolta ed è rimasta soltanto un puro e semplice riconoscere».
Il comportamento quotidiano va quindi «corretto» dall'arte. Va, anzi, negato nella sua opacità e nella sua opacità e nella sua afona omogeneità. La «folla urbana» di Baudelaire o la Cura esistenziale di Heidegger sono viste esplicitamente come i prodotti negativi della «condizione» tecnologica. Ed è conseguente, a tale lettura idealizzata della reificazione prodotta dal dominio crescente dei rapporti capitalistici di produzione, il tentativo di rispondere con una astratta tecnica di formalizzazione.
Lo «straniamento semantico» è così identificato da Eichenbaum come la ragione stessa dell'esistenza dell'arte: questa non ha altro compito specifico che «sottrarsi all'uso quotidiano».
«L'automatismo quotidiano nell'uso della parola – egli osserva[^10] – lascia inutilizzate masse di nuances sonore, semantiche e sintattiche, che trovano nell'arte letteraria il loro luogo specifico. La danza si costruisce su movimenti che non hanno nulla a che fare con i gesti abituali. Se l'arte utilizza il quotidiano, è solo come un materiale in un'interpretazione imprevista, o sotto una maschera accentuatamente deformata (il grottesco)»[^11].
Lo straniamento semantico, il divorzio fra segno e significato, la creazione di sistemi di segni capaci di indurre significati inediti, si rivelano quindi, alla fine, strumenti di lotta contro l'universo reificato del «quotidiano». L'appropriazione del mondo tecnologico o dei mezzi di comunicazione di massa ha quindi una seconda faccia: poiché quell'appropriazione avviene mediante una distorsione (il priëm, l'artificio dei formalisti) e poiché l'obiettivo ultimo di essa è il raggiungimento delle «verità» celate dall'universo mercificato, il percorso labirintico attraverso la forma, proposto da avanguardie e Opojaz, si pone come tentativo di recupero dell'autenticità perduta.
La creazione di forma come terra promessa della vittoria soggettiva sull'alienazione, dunque: questo è ciò che i formalisti teorizzano, questo è il contenuto latente delle loro analisi «scientifiche».
Ma è chiaro che un tale rovesciamento della negazione romantica dell'universo tecnologico, nello stesso momento in cui dichiara l'autonomia dell'arte dalla vita, in cui asserisce la necessità di spezzare le associazioni abituali, di rendere strano l'abituale, rivela anche la sua doppia faccia:
a) da un lato si pone come accettazione della realtà tecnologica e delle sue leggi fondamentali;
b) d'altro lato assume quella realtà solo e unicamente come materiale da deformare, da assoggettare, da restituire carico dei suoi valori perduti.
Ma ciò pone problemi pressoché insolubili: il Costruttivismo sovietico oscillerà perpetuamente fra un'architettura estranea al quotidiano – le ricerche di Mel'nikov e dei Golosov – e un'architettura in dialettica positiva con esso: le ricerche di Ginzburg, principalmente, o di Burov.
D'altronde, lo stesso Šklovskij aveva già affermato che «la creatività, anche quella artistico-rivoluzionaria, è tradizionale. Una infrazione al canone è possibile solo quando il canone esiste, l'atto blasfemo presuppone una religione non ancora morta. Esiste una 'Chiesa' dell'arte nel senso di una congregazione di coloro che la sentono. Questa chiesa ha il proprio canone, creato dalla progressiva stratificazione delle eresie. Preoccuparsi di fondare un'arte collettiva è altrettanto inutile quanto far pratiche perché il Volga si getti nel Caspio»[^12].
In un primo tempo, quindi, fra il 1919 e il '25, quando gli analisti dell'Opojaz indagano sulle opere di Majakovskij, di Puni o di Tatlin, il loro sforzo principale è nel dimostrare il legame del tutto arbitrario e artificioso istituito dalle avanguardie fra arte e politica. Šklovskij dice, della torre di Tatlin, che è «un monumento fatto di ferro, di vetro e di rivoluzione»[^13], ma solo in quanto la «rivoluzione» si è estraniata da se stessa, per divenire, come il ferro e il vetro, materiale linguistico. Con un significativo mutamento di rotta, nel '23 Osip Brik è costretto a definire cosa l'Opojaz offre alla «costruzione culturale del proletariato», asserendo che al «poeta tecnico del suo lavoro... creatore del linguaggio al servizio della sua classe», è necessaria una conoscenza scientifica delle leggi della produzione artistica «al posto di una rivelazione mistica dei misteri della creazione», mentre contemporaneamente Arvàtov si incarica di mediare Produttivismo e metodo formale, dando a quest'ultimo contrassegni marxisti[^14].
Per il LEF, costituitosi appunto nel '23, il compito dell'artista non è che una sperimentazione di «laboratorio», compiuto da «operai che eseguono una ordinazione sociale»[^15] – almeno nell'accezione di sinistra offerta ora al «lavoro sulla parola»: e tale «costruzione della vita» (ziznestroenie), attuata per mandato sociale, sfocia nella più assoluta conferma della stabilità e immutabilità del Linguaggio come istituzione.
Tutta l'analisi dell'evoluzione morfologica alla scienza delle strutture segniche, tutta l'analisi della loro genesi al partito: su questo compromesso concorderanno sia Eichenbaum che Arvàtov e Lunačarskij. Ma ciò significa dare per scontata, e da entrambi i versanti, l'inattaccabilità delle Istituzioni formali.
Un dare per scontato che ha fini immediati opposti, ma che possono anche convergere. Per i formalisti – siano essi i membri dell'Opojaz che più tardi gli architetti dell'Asnova e dell'Aru – si tratta di salvaguardare un'area minima di assoluto controllo sulla disciplina; per la critica di parte «marxista» si tratta di finalizzare il permanere delle ideologie, nelle loro diverse espressioni tecniche, alla generale restaurazione ideologica operante nell'URSS dopo il '24[^16].
Non casualmente, quindi, Šklovskij può affermare che il Futurismo, riempiendo lo spazio tra le rime con «chiazze di sonorità transazionali o metanoiche» porta a consapevolezza «l'opera dei secoli»[^17].
L'isolamento della parola-oggetto, la distorsione e lo slittamento semantico, la disgregazione dei nessi logico-sintattici, la distruzione dei canoni ritmici e metrici, la tecnica dello «straniamento», non sono – per i teorici del formalismo – strumenti specifici delle avanguardie, ma criteri validi in generale per l'attività di configurazione artistica. In tal modo essi distruggono spietatamente l'ntera base teorica del Futurismo e delle avanguardie, facendo di queste ultime solo movimenti il cui compito storico è riportare alle sue schematiche e nude leggi il lavoro letterario, reso, in tale opera di riduzione alla sua struttura primaria, trasparente e del tutto leggibile nella specificità dei suoi attributi[^18].
L'alleanza tra scuola formale e Futurismo è quindi del tutto ambigua. In realtà i formalisti avanzano la più radicale contestazione dei miti e delle pretese «politiche» del Futurismo di sinistra. Fra Tolstoj e Majakovskij non esiste opposizione: esiste per loro solo un diverso modo di articolare – su differenti «materiali» – tecniche del tutto affini se non coincidenti[^19].
Indirettamente il formalismo compie una demistificazione che – se condotta fino in fondo e con mutati obiettivi – avrebbe potuto assumere i connotati di una vera e propria «critica dell'ideologia» nel senso rigorosamente marxista del termine. E' inutile chiedersi perché ciò non sia accaduto: la risposta è tutta nella falsa alternativa sorta fra scuola formale ed «estetica marxista». Avanzando una teoria marxista sull'arte, ignorando che da un punto di vista di classe non si dà altra possibilità che di una critica marxista alle istituzioni linguistiche, si aprirà la via a quella che sarà l'ambigua integrazione del formalismo analitico nei metodi di produzione della forma[^20].
La poetica dell'oggetto, infatti, è nello stesso tempo una rinuncia e un tentativo di dominio sul reale. Riconoscendo che l'universo delle cose, nella sua brutale realtà, non è più sottoponibile ad un'esperienza soggettiva che possa dominarlo con un progetto di razionalità globale, le avanguardie europee avevano concluso il lungo dibattito dell'epoca romantica sulla scoperta kantiana della inconciliabilità fra l'anima e le cose. Anche il disegno dialettico hegeliano era stato mandato in frantumi dal pensiero negativo dell'avanguardia: Futurismo, Espressionismo e Dada concordano nel sottrarsi alla sintesi positiva delle contraddizioni esibendo queste ultime come tali[^21].
Le avanguardie sovietiche in particolare – parallelamente alle esperienze collaterali del Bauhaus – tendono a fondare un nuovo tipo di dominio su un reale riconosciuto come contraddittorio, non assoggettabile ad alcun a priori formale: ma per fare questo debbono riconoscere che non è più il soggetto a fondare la realtà, ma è quest'ultima a fondare il soggetto. «Noi poeti futuristi – è scritto nel manifesto *La parola come tale[^22] – ben più che alla Psiche diamo valore alla Parola, bistrattata senza pietà dai nostri predecessori. Noi vogliamo vivere della parola più che della nostra esperienza». Il che non è affatto in contrasto con il manifesto «rumorista» di Russolo (1913), e giustamente le esperienze dei rumoristi italiani sono state messe in relazione alle prime ricerche di Dziga Vertov[^23]. Le Kino-Pravda di Vertov (cui collabora, dalla tredicesima in poi, Rodčenko) assumono come materiale da riorganizzare attraverso la manipolazione degli intervalli e del montaggio lo spettacolo della città di massa, o avvenimenti distanti nello spazio, in cui l'azione collettiva in quanto realtà nuova venga scoperta, nelle sue verità nascoste, dalla legge dello straniamento[^24].
Anche qui l'esperienza soggettiva è fondata a partire dal riconoscimento della sua impotenza di fronte agli oggetti che lo stesso soggetto ha posto dinanzi a sé, che il soggetto ha creato, e che gli si ripresentano come estranei. I controrilievi tatliniani, le «favole geometriche» di El Lisickij, le Kino-Pravda di Vertov, sono tentativi di gestire la propria alienazione; così come i planiti di Malevič erano tentativi di sublimare l'alienazione cosmica. «La psicologia – scrive Vertov[^25] – impedisce all'uomo di essere esatto come un cronometro, frustra la sua ambizione di apparentarsi alle macchine. Da noi non c'è ragione perché l'arte del movimento non consacri tutta la sua attenzione all'uomo futuro piuttosto che all'uomo attuale. E' vergognoso che, contrariamente alle macchine, gli uomini non si sappiano comportare. Ma cosa fare, se il comportamento impeccabile dell'elettricità ci tocca più che il disordine della gente attiva o l'ozio pedante di quella passiva... Noi escludiamo per il momento l'uomo come oggetto di ripresa filmica, dato che, questi è incapace di dirigere i propri movimenti. La nostra strada è di partire dal sedicente cittadino per pervenire all'uomo elettrico compiuto, attraverso la poesia delle macchine».
E' esattamente, la strada opposta – nonostante le apparenze superficiali – a quella dell'Esprit Nouveau. L'uomo deve farsi macchina per estinguere la propria colpa di fronte all'universo della produzione da lui creato ma non dominato. Ma deve farsi macchina, principalmente, per pagare cos1 il proprio scotto alla legge della produzione incessante, della produzione per la produzione.
«Mettere a nudo l'anima della macchina, far amare la macchina all'operaio, far amare il trattore al contadino, far amare la locomotiva al meccanico» [^26].
Con questi assiomi Dziga Vertov rivela il fine ultimo dell'avanguàrdia fattasi produttiva. E' il collettivo, la classe, ora, che è chiamata a farsi macchina, a identificarsi con la produzione. Il Produttivismo è si un progetto di avanguardia: ma è progetto di conciliazione fra Capitale e Lavoro, operato con la riduzione della forza-lavoro a ingranaggio obbediente e muto della macchina complessiva [^27].
Il progetto iniziale del Suprematismo o della scuola formale – il recupero di un lavoro intellettuale opportunamente distanziato e differenziato da quello produttivo – regge sempre meno dal '25 in poi: lo dimostrano non solo le parole e i films di Vertov, ma anche, e principalmente, le crisi di Šklovskij ed Eichenbaum, con le quali lo Erlich fa iniziare, giustamente, il dissolvimento del formalismo[^28].
D'altra parte sarebbe errato dar fede per intero alle pretese scientifiche del formalismo stesso nella sua fase più rigorosa. Anche quell'ostinato e polemico scavare nelle strutture prime della forma, senz'altro obiettivo apparente che la dimostrazione della fondamentale tautologicità dell'arte, era a sua volta un «progetto» artistico. La distanza dell'analista dall'opera non era che un pretesto: fissando un perimetro rigoroso per il proprio scavo analitico, il formalismo progettava in realtà il recupero di una qualità specifica per il lavoro intellettuale, dando coraggiosamente per scontata l'inutilità di quella stessa qualità di fronte alla realtà della produzione.
E' ciò che avviene anche nella vicenda culturale dei paesi occidentali. Ma le difficoltà, nella Russia sovietica, vengono accentuate proprio dal fatto che la dialettica interna al lavoro intellettuale e il suo scontro con il lavoro tutto omogeneizzato, astratto, senza qualità, direttamente produttivo, insistono sul dato insopprimibile della Rivoluzione del '17.
Šklovskij, Eichenbaum, Tret'jakòv non riescono a convincere se stessi della correttezza del loro «aureo» progetto di recupero di una qualità intellettuale. Il metodo formale, dal '25 in poi, vuole inserirsi nella produzione come per espiare un complesso di colpa. La letteratura viene ora spinta a farsi literatura fakta, «fattografia», secondo l'espressione dei formalisti: esattamente come per Rodčenko, la pittura deve farsi produzione, o, come per Ginzburg, l'architettura deve farsi strumento «sociale». Per tutta l'avanguardia sovietica, come per Dziga Vertov, il campo da cui trarre i materiali primari della nuova arte produttiva è la banalità quotidiana.
«Noi consideriamo elemento essenziale dell'arte oggi – scrive Tret'jakòv[^29] – il movimento dei fattografi. Respingiamo decisamente le affermazioni sprezzanti di certi compagni del LEF: "Vorrete forse considerare lefista ogni reportucolo di giornale, ogni ragazzino che sa scattare qualche foto?" Ma è aristocraticismo estetico. La massa dei fotografi dilettanti le migliaia di reporter e di corrispnndenti operai, nonostante la loro bassa qualifica e il loro rigore, sono "fattografi" potenziali. Si deve cercare di migliorare la loro qualifica, e per ogni autentica socializzazione dell'arte costoro valgono più di qualsiasi pittore o letterato qualificato, intento a lavorare in senso progressivo, una volta pentito e dopo aver rinnegato il proprio passato».
La qualità sperimentata nel lavoro puro sulla forma deve ora entrare nei processi di «socializzazione»: il rifiuto verbale dell'aristocrazia culturale è tutto funzionale alla polemica ormai ingaggiata dall'intellettuale con se stesso.
Il banale quotidiano ha la sua forma specifica nel giornalismo: non a caso il progetto dei Vesnin per la «Pravda» o la grafica di El Lisickij assumono dal collage cubista (con la mediazione della ricerca tatliniana) la degradazione della forma e la sua identificazione con la materia. «Quando diciamo che il romanzo sarà sostituito dal giornale – scrive Šklovskij[^30] – non intendiamo dire che sarà sostituito da singoli articoli. No, è la rivista stessa a rappresentare una determinata forma letteraria, com'era ben chiaro all'epoca in cui nacque il giornalismo inglese, quando si sentiva in modo cosi lampante il redattore come autore». Ma subito dopo la «fattografia» è presentata come medium. di «creazione collettiva», di funzione-collaborazione, secondo la tradizione più ortodossa delle avanguardie storiche: «trovare il punto di vista essenziale, capace di spostare il materiale e di offrire al lettere la possibilità di ricostruirlo, ecco un procedimento molto più organico di qualsiasi paragone, che ben raramente riesce a raggiungere il proprio fine».
«Lo sviluppo della "letteratura del fatto" non deve seguire una direttrice capace di avvicinarlo alla grande letteratura, bensì una divergente, e una delle condizioni essenziali è la lotta contro l'aneddoto tradizionale che contiene in sé, allo stato embrionale, tutte le qualità e tutti i vizi del vecchio metodo estetico»[^31].
Non sappiamo fino a che punto Šklovskij o Tret'jakòv si accorgessero, nel '29, che la loro scoperta della «fattografia» non era che la riduzione aggiornata del programma Produttivista del '20, certo apparso alle loro orecchie, a suo tempo, come vaniloquio dilettantistico[^32].
«L'arte collettiva del presente è la vita costruttiva»: nelle parole di Rodčenko e della Stepanova, in tutto aderenti alle idee di Tatlin, riecheggia l'utopia positiva delle avanguardie del primo dopoguerra, dalla Novembergruppe al De Stijl. E del resto, lo strumento più elementare di quelle avanguardie – la riduzione, del «materiale» formale al puro segno, al puro oggetto, come risposta alla scoperta della reificazione dell'oggetto in seno all'universo mercificato della produzione – è anche lo strumento principe del Costruttivismo russo; in tutta la gamma delle sue specificazioni.
La «rivolta delle cose», questo tema che, nella tradizione dell'angoscia borghese è esperienza e prefigurazione di un mondo completamente dominato da quel simbolo del negativo che è, per la falsa coscienza intellettuale, la merce, si presenta ribaltato nelle ricerche delle avanguardie sovietiche. L'Opojaz aveva ridotto scientificamente l'arte a progetto di relazioni specifiche fra puri segni, fra elementari oggetti. Il Vešč di Ehrenburg e di El Lisickij, l'astrazione geometrica di Ladovskij e dei Vesnin, l'oggetto come prodotto, di Rodčenko o del Metfak, le immagini virtuali di Dziga Vertov o di Ejzenstejn, le «cose di Majakovskij, possono ora ripartire da quelle analisi, utilizzandole positivamente, re inserendo le in un'ideologia della produzione che rovesci la sospensione di giudizio compiuta dal formalismo circa la propria collocazione politica.
La «riduzione all'oggetto» tuttavia, non è, per il Formalismo, una conseguenza diretta della sua analisi scientifica. Essa è piuttosto la conseguenza di un compromesso. Trasformare una tecnica di indagine in un metodo costruttivo della forma, rovesciare nella produzione la medesima teoria che aveva rivelato le aporie delle avanguardie produttiviste, ribaltare il valore «negativo» dell'analisi formale in teoria «positiva»: questo è l'equivoco cui il gruppo dell'Opojaz in gran parte e l'ala «sinistra» dell'arte sovietica nella sua totalità non riusciranno a sfuggire, dal '25 in poi. Si noti ancora una volta la singolare omogeneità di funzioni storiche e di comportamenti che lega fra loro avanguardie negative (Espressionismo e Dada) e formalismo russo. La «riduzione all'oggetto» è il termine ultimo della loro dissacrazione: anche se per le prime si tratta di un risultato ottenuto tramite l'autodegradazione dell'attività artistica, e per il secondo di un estremo tentativo di «salvarsi l'anima». Dada non «si traduce» in De Stijl, la Negazione non si rovescia in Positivo attraverso un qualche magico reagente. L'aporia dell'avanguardia è tutta qui: nel non saper trovare altri strumenti per denunciare il proprio processo di mercificazione, la propria incomunicabilità, che in un atto comunicativo, anche se ridotto a pura testimonianza di se stesso, a puro segnale. Negando la possibilità della comunicazione, l'avanguardia rappresenta e rivela la «miseria» di una tipica utopia borghese: la scoperta, cioè, che non è più dato altro Valore che il tendere verso valori ineffettuali, irraggiungibili, privi di senso. Anche il formalismo aveva distrutto – e scientificamente, per giunta – ogni illusione circa il significato della comunicazione. Eichenbaum o Šklovskij hanno un bell'attribuire agli «specialisti del compromesso» - primo fra tutti Arvàtov – la responsabilità del dissolversi della teoria scientifica della forma in banali artifici. La banalizzazione del formalismo è già insita nel suo disperato tentativo di autorecuperarsi alla produzione[^33].
«L'unità dell'opera letteraria – scrive Tynjanov nel '24[^34] – non consiste nella perfetta simmetria delle componenti, bensì... nella loro integrazione dinamica... La forma dell'opera letteraria va intesa dinamicamente». La «somma degli artifici», in cui nel '21 Šklovskij riconosceva il principio cardine del processo formale, si presenta ora come un tutto, un sistema, una struttura. Intorno al '25 Eichenbaum scopre che nella linea di confine tra fonetica e semantica esiste la, sintassi: la legge dello straniamento dovrà ora insistere su un recuperato concetto di totalità della forma. Solo che si tratta di una forma instabile, di una struttura che ha sempre meno a che fare con uno stabilizzato «principio di ragione»: di una forma, insomma, che è piuttosto un tendere verso una razionalità progettante. E' esattamente il medesimo processo che si rivela nella vicenda delle avanguardie figurative: si pensi al passaggio dalla pura «cultura dei materiali», perpetuata da Ladovskij nel Vchutemas, alle prime esperienze dei Vesnin nel '23, a quel «manifesto» di sintesi positiva che è Lo stile e l'epoca, scritto da Ginzburg nel '24.
L 'uso di una tecnica di analisi come supporto di una metodologia di progettazione (letteraria o architettonica che questa sia ) è già nel Tatlin dei Controrilievi; ma è con la costituzione del LEF' che nella Russia sovietica avviene qualcosa che solo molto più tardi avverrà nell'Occidente capitalista. Facendo funzionare in senso produttivo l'analisi formale, tutto il contenuto demistificante della sua analisi viene annullato. La sua inquietante contestazione del Futurismo risulta neutralizzata:. la scoperta della distanza ineliminabile dell'arte dalla vita, della fatale estraneità dell'arte alla «bandiera che sventola sopra la cittadella»[^35], è fatta funzionare come forza» trainante di un'ideologia. L'analisi formale si cala tutta all'interno della struttura, del processo di formazione, dei congegni di articolazione delle poetiche che ne ereditano, quindi, il lascito «positivo».
L'arte costruzione della vita, preconizzata dal LEF, può cos1 assorbire in sé tutti gli apporti di movimenti oggettivamente antitetici.
Il messaggio lanciato nel '23 a futuristi, costuttivisti, produttivisti e Opojaz è estremamente significativo[^36].
L'artista «tecnico del suo Javoro» agganciato allo studio delle «leggi scientifiche della produzione poetica» può ora recuperare il formalismo come affossatore delle tradizioni della letteratura borghese e come rivèlatore delle leggi della produzione poetica, mentre si profila. una nuova utopia, quella dell'arte proletaria come creazione della società proletaria[^37].
Il carattere tutto accessorio e sovtastrutturale delle tesi formalistiche circa la riduzione della progettazione alla.pura organizzazione si rivela compiutamente nel momento in cui non può più essere sottaciuto il predicato specifico di quella generica «organizzazione».
Rovesciare tutta la tematica della «morte dell'arte» nell'ideologia del lavoro, funzionalizzare come stimòlo verso il rinnovamento dei mezzi e delle tecniche di p roduzione la scoperta marxiana dei connotati di classe delle Istituzioni e delle discipline, affermare declsamente un possibile uso di cla.s se più insidioso quanto più raffinato l'ideologia del «soçialismo realizzato» a quella dell'organizzazione (tettonica, fattura, costruzione): questi i compiti che il 10 gruppo di Lavoro dei Costruttivisti (1920) e il loro massimo teorico, A. Gan, si assumono in proprio[^38].
Sarebbe però errato considerare chiusa, dal '20 in poi, la partita dell'àvanguardia: questa ha solo spostato in là i propri obiettivi. L'estraneità delle istituzioni borghesi al destinò del proletariato rende legittima la dichiarazione di morte al feticismo dei Valori artistici, dà un fondamento < politico» al tradizionale ruolo distruttivo delle avanguardie storiche. La guerra alle «verità eterne e incorruttibili»[^39] è solo il polo dialettico della ricostruzione, tutta ideologica, del ruolo sovrastorico delle discipline: dove il cambiamento di segno da queste assunto non trova. altra giustificazione che quella etica.
In luogò della classe, il proleta.riato unico arbitro del proprio destino; in luogo delle contraddizioni ineliminabili insite nella gestione operaia del Capitale, l'esaltazione dell'organizza zione socialista; in luogo della rivelazione dell'oggettivo funzionamento della Russia sovietica come momento di crisi del Capitale internazionale, abbiamo l'assunzione dell'ttobre proletario come momento di palingenesi universale, di epifania etica. Attribuendo al proletariato il compito storico di reintegrare l'Uomo a se stesso e al suo ambiente sociale, il recupero di un l avoro risacralizzato in quanto non più ' alienato si traduce direttamente nell ideologia dell'organizzazione, nel Piano. Né conta qualcosa l'osservazione dei «diplomatici sovietici della cultura» in Occidente – Ehrenburg ed El Lisicki, non casualmente attaccati sia da Arvàtov che da Gan[^40] circa la coincidenza delle linee gènerali di sviluppo capitalisti che e sovietiche verso l'rganizzazione della produzione e la sua pianificazione[^41].
Solo il socialismo realizzato ammette il Piano come espressione organica del colloquio mistico fra le masse e il nuovo universo tecnologico: solo in esso quel colloquio può significare la nuova verità della «raggiunta» fine della divisione sociale del lavoro. La «città comunista» – Gan lo dichiara esplicitamente, e dopo di lui lo ripeteranno fino all'saurimento El Lisickij e tutti i tecnici europei impegnati nella costruzione reale di quella città, da Hannes Meyer ad Hans Schmidt 4 2 - è il luogo specifico della manifestazione sociale del Piano, come la «città borghese» è il luogo delle contraddizioni soggettivistiche e dell'anarchia della produzione».
L'Organizzazione è pronta ora a divenire il campo specifico su cui l'intellettuale può fonaare le proprie speranze di riscatto e di sopravvivenza; né manca chi, come Kusner, portando fino in fondo l'deologia costruttivista, individua nel mito dell'rganizzazione la fine del «feticismo della tecnica»[^43].
L'immagine della produzione come celebrazione della socialità del lavoro, dunque. Produttivismo e Costruttivismo, ereditando, dal '23 aleno, tutte le aspirazioni troricate del Suprematismo, indicano le vie del rovesciamento del momento col lettivo nell'organizzazione di un lavoro produttivo in cui la classe operaia sia esplicitamente chiamata a riconoscersi completamente. Il macchinismo celebrativo della torre di Tatlin del '19, i garages e i clubs operai di Mel'ikov dal '25 al '30, i progetti urbanistici di Lavinskij, di Varentsov e dell'RU – pensiamo alla planimetria di Autostroi (1930), in cui Lavrov, Popo e Krutikov sembrano tradurre in segno planimetrico reiterato l'equilibrio dinamico di alcuni famosi Controrilievi tatliniani[^44], – sono le tappe di un progressivo sganciarsi dalla realizzazione di quello stesso piano sociale che l'rganizzarsi dellé fcirme si assume il compito di comunicare metaforicamente. (L'avvertimento di Maj akovskij agli studenti del Vchutemas è veramente sintomatico al riguardo, cosi come lo è la narrazione autobiografica. della Semenova sul ruolo del produttivismo «astratto» in seno alle scuole di architettura) 4'.
Non vorremmo che si interpretassero le nostre osservazioni come una scontata critica rivolta al carattere puramente propositivo, simbolico, «non realistico», delle correnti eredi dello spiritualismo suprematista e dell'ccezione costruttivista offerta da Gabo e Pevsner. In realtà è proprio il formalismo dei membri dell'ASNOVA, di Mel'ikov, dei Golosov, di Leonidov, a segnare con maggiore chiarezza storica le tappe successive in cui si realizza il «dover essere» dell'vanguardia.
Notiamo anzitutto un fenomeno solo in apparenza paradossale. In nome dell'autonomia della costruzione formale Tatlin aveva duramente criticato il programma di addobbo monumentale delle città promulgato da Lenin nel 1918. Nel '19 Tatlin stesso elabora il proprio «monumento», dimostrando involontariamente quale fosse lo sbocco logico delle teorie produttivistiche sui materiali; nello ste::ro tempo, le avanguardie danno il meglio di sé nel teatro, nello spettacolo di massa, nella propaganda urbana: il ribaltamento «produttivo» dell'«arte» sulla città diviene la soluzione «naturale» della emblematica della tecnica e delle implicazioni libertarie ad essa attribuite. L'ideologia dello sviluppo si cala nell'p pello al lavoro sociale, all'integrazione della classe nel piano di sviluppo, all'identificazione della classe nello sviluppo. Lo stesso Lenin aveva confermato la necessità per la classe di considerarsi estranea agli strumenti di valorizzazione del Capitale fisso. La NEP aveva sancito implicitamente l'insopprimibilità dell'opposizione dei diretti interessi di classe al pur \ necessario sviluppo degli strumenti e dei metodi di produ- zione.
Non cogliere la dialettica insita nella NEP e scegliere come proprio campo di lavoro l'organizzazione dei modi di produzione – come ideologia pura per i formalisti, come ambiguo compromesso fra ideologia e tecnica di intervento settoriale per gli architetti dell'OSA – fa tutt'uno, per gli intellettuali sovietici, con il travisamento del progetto leninista rivolto a non annullare la classe nel piano, a liberare, anzi, il potenziale di lotta della classe stessa, nell'autonomia della propria estraneità allo stesso capitale sociale dentro al quale essa funge come elemento trainante.
La doppia faccia del lavoro produttivo – tutto dentro allo sviluppo e contemporaneamente in lotta contro di esso viene annullata dall'deologia che identifica classe e Piano. E' proprio questo, infatti, che Ehrenburg, El Lisickij o i Vesnin indicano con il loro immediato implicare il proletariato nel progetto di «liberazione collettiva» da realizzare con lo sviluppo pianificato. Non a caso gli architetti «radicali» tedeschi, olandesi o cecoslovacchi, potranno vedere nella Russia sovietica il paese dell'utopia realizzata, il luogo eletto dell'rganizzazione dello sviluppo, il campo di applicazione specifico in cui è possibile attuare ' il sognato recupero di un lavoro intellettuale riscattato nel suo ruolo di guida – etica e tecnica a un tempo – della Civilisation machiniste[^48].
Il saggio di Vitezslav Prochazka, pubblicato in questo stesso volume, documenta ampiamente la tensione ideale verso l'universo dell'umanesimo socialista», tipico delle avanguardie progressiste cecoslovacche, da Leva Fronta in poi. Ma forse, ancor più dell'opera. dei gruppi tedeschi e ceki, è il pro getto elaborato d a Berlage per i l mausoleo di Lenin ( 1 924 ) ad esibire uno spaccato concettuale di tale identificazione dell'URSS, da parte della cultura radicale, come il luogo specifico della fratellanza. universale, del riscatto miilenario dalla oppressione. Il progetto. di Berlage non a caso si struttura intorno a due alti fari, che ripetono il motivo del precedente progetto di «Pantheon dell'manità» (1915), elaborato come accorato appello umanitario contro la «barbarie» della prima guerra mondiale4 1
Lenin come incarnazione del recupero dell uomo totale e del riscatto del, «lavoro», dunque: il corpo di fabbrica laterale, echeggiante con la sua copertura a sheds ' un edificio industriale, è esplicito nella sua allegoria del lavoro sublimato. L'intera attesa messianica di un futuro liberatorio, che agita la cultura olandese della fine dell'800 e del primo ventennio del '90 0, con tutto if suo bagaglio di teorie teosofiche mistiche e anarchiche, sembra, con il progetto di Berlage, aver trovato un oggetto concreto. capace di soddisfare quell'attesa. Fra il mausoleo berlagiano, la Stadtkrone di Taut, la cattedrale del futuro di Feininger e le «città della pace» di Kampffmeyer, C. Klein e Schmidt-Rottluff, le differctPze soo – al di là delle forme – solo marginali.
L'oscillare ambiguo tra l'autoconfinamento nell'deologia e il diretto intervento nell'invenzione di forme socialiste di vita dal '28 in poi si tratterà dell'invenzione della città socialista – caratterizza il dibattito architettonico nel periodo della NEP.
Ma il continuo insistere sul ruolo della letteratura o del cinema come contributi all'organizzazione e alla «costruzione delle coscienze», o su quello dell'architettura e della città come immagini sociali di una pianificazione possibile, rivela a ben vedere una profonda inquietudine.
Il ruolo dell'ideologia e dell'utopia, dal periodo della NEP in poi, non può più essere mis tificato. Quanto più l'rchitettura salva se stessa come disciplina, quanto più tenta la salvaguardia del proprio ruolo istituzionale, tanto più essa gettualità del prodotto di massa e, il destino del tecnico che ne guida il ciclo di produzione vengono legati insieme, in modo non dissimile a quanto faranno Benjamin e Dorner ' 2. Non solo rispetto alle condizioni reali dell'industria sovietica degli anni '20, ma anche nei confronti della situazione storica più generale dell'organizzazione produttiva, quell'invocazione, quella scelta soggettiva di proletarizzazione, appare l'ultima prefigurazione possibile del Geist borghese. Se ora la Totalità è il proletariato, se è questa la classe che porta a compimento la filosofia dialettica tedesca
- è il tema costante, del resto, delle pagine più mistificanti di Engels e del giovane Lukàcs se è solo nel processo di costruzione dell'niverso socialista che sembra darsi il nuovo, unico Valore, allora non rimane che scavalcare i tempi, scongiurare il momento dell'estinzione reale, oggettiva, del lavoro intellettuale e della sua trasformazione in lavoro tecnico produttivo, anticipare con una scelta soggettiva esattamente questo momento: scegliere insomma la propria proletarizzazione per poterne gestire completamente i modi, la qualità, i fini generali.
Che è come dire, per il lavoro intellettuale, mantenere inalterato il proprio ruolo di coscienza del mondo, di anticipatore profetico, di gestore dei fini etici dell'mrianità ( ora, nell'URSS, dell'umanità liberata dalla Rivoluzione d'Ottobre). E' difficile non vedere in tale scelta, chiarissima in tutti i documenti delle avanguardie sovietiche, il pieno esplicarsi del ruolo specifico dell'ideologia borghese nel senso più pieno del termine. Né ci faremo ingannare, in tale riconoscimento ( come tanta parte della critica occidentale e sovietica recente ), dal fatto che quell'ideologia insista ora su uno spazio storico cambiato di segno. Si può seguire agevolmente il processo storico delle ideologie artistiche sovietiche nella duplice vicenda che fra il '28 e il '30 segna l'estinzione dei ruoli soggettivi datisi dai due gruppi dei Razionalisti raccolti nell'OSA e intorno alla rivista «SA» e dei Formalisti – non solo i membri dell'ARU, l1' ''. anche, e principalmente, Mel'nikov e Leonidov.
Di fronte al tema della riorganizzazione delle città, Ginzburg o Sabsovic non possono rispondere – come, del resto, Ochitovic o Barse - che con proposte d'invenzione soggettiva di «città socialiste»: sarà Kaganovic, nella sua relazione al Plenum del c.c. del 15 giugn'o 1931 a ricordare come non esista spazio colmabile mediante prefigurazioni soggettivé, nella gestione dell'conotnia socialista[^53]. L'intervento degli architetti ed urbanisti stranieri, dal '29 in poi, si rivela così come frutto di una scelta politica conseguente. La gestione socialdemocratica della città, sperimentata in Germania dà! '24 in - poi, può essere ora utilizzata come utile supporto tecnico allo sviluppo regionale fissato dal primo piano quinquennale. Gli sbocohi – che avrà il lavoro di May, di Hannes e Kurt Meyer, di Hebebrand, di Stam, di Schmidt, nell'Unione Sovietica', saranno studiati in modo particolareggiato in questo stesso volume e pertanto possiamo per ora tralasciarne l'analisi. Ai nostri fini è sufficiente sottolineare che è proprio nel loro presentarsi come puri tecnici del Pi!tno, forniti del mio, nimo ideologico ammissibile (o meglio, capaci di dare una veste tutta. tecnica al loro minimo di ideologia ), che May o Schmidt rivelano, storicamente, il reale volto sòvJ,:astrutturale del dibattito interno ai gruppi di ricerca russi.
Sovrastrutturalità che potrà avere ancora, certo, un suo ruolo: come propaganda. E non ' si è mai data propaganda che abbia. scelto autonomamente gli oggetti di cui co.p.sigliare la fruizione. Alla luce di tali considerazioni acquista 'un. nuovo significato quello che. è stato acutaente chiamato il «recu7 pero del Suprematismo» da parte -delle ' avanguardie russe tra il '27 e il '33 54
Nel '27 Aleksei Gari, il più accariitQ lassertore, nel '22, dell' estinziqne dell'arte, scrive – e proprio su «SA» – le sue «Note su azimir Malevié», in cui il consueto attacco ai formalisti e alla ASNOV A, si, traduce. in un, progetto di recupero, delle «composizioni. suprematiste astratte» come promotrici di «un nuovo atteggiamento psicològico-percettivo di fronte alle mass.e – volumetrico-spaziaIi»[^55].
Nello stesso tempo – tra il '27 e il '28 Mel'ikov, e dal '27 al '33 Leonidov – i Formalisti portano al massimo compimento la poetica dello «straniamento semantico» dell'ggetto, letto – in chiave neosuprematista
- non come oggetto-modulo di produzione o di serie, bensì come oggetto autonomo inserito in una serie definibile solo in termini ' dir linguaggio, di articolazione geometrica. Dal planita e dal Proun, piattaforme di passaggio all'rchitettura e alla produzione, produzione e architettura riapprodano, con loro, a planiti e Proun «realizzati», ma non per questo meno programmatici.
Basterebbe intraprendere una compiuta analisi strutturale degli assemblages geometrici melnikoviani per scoprire quanto la tecnica del montaggio sia per essi non tanto e non solo metafora della catena di produzione, quanto piuttosto proposta di recupero di una qualità all'interno di questa. I modi di produzione riducono oggettivamente il rapporto ' uomomacchina a relazione astratta fra «oggetti»: il club operaio sarà il luogo dove tale relazione dovrà ricaricarsi di significati. E' proprio la distanza dalla fabbrica del club operaio che permette tale recupero: lo straniamento semantico insisterà quindi sulle immagini della catena di produzione, astratta fino ad assumere i connotati di un insieme di puri segni geometrici. Il lavoro del «tecnico della forma» inizierà da qui: suo compite.. non sarà quello di rendere significanti quei segni, bensì di fàrli «scontrare» fra loro, di assumere il loro vuoto come materiale di una comunicazione volutamente ambigua, perché sospesa fra la pura ed ermetica affermazione di se stessa e l'indicazione – altrettanto ermetica – di una forma come tensione verso un inattuale principio di Ragione.
Più che nel club Rusakov, club Svoboda (detto «il sigillo per la fabbrica «Procellaria» '28-'29. Nel primo è notevole del '28, ciò è leggibile nel della libertà» ), o in quello (detto «dei cilindri» ), del l'ntroduzione di un invito esplicito a una lettura in movimento, in cui il percorso dell'sservatore, indirizzato secondo la direttrice avvolgente delle rampe che attraversano e spaccano.trasversalmente la ' «mac china» formale, segue da vicino l'quilibrio di namico degli oggetti geometrici che si contrappongono nella loro assoluta disomogeneità 5 6. Nel secondo, la «distorsione», il priem, entra nella stessa definizione dei singoli elementi: i cilindri vetrati, che si intersecano e si raccordano solo nel «piatto» superiore che unifica la frase geometrica, contrastano con la loro articolazione il neutro parallepipedo da cui emergono. ( E ' la medesima esibizione di un montaggio di forme discontinue che gli allievi di Ladovskij e Doukacaev avevano sperimentato allo stato puro nel V chutemas, e che verrà ripreso da Ilya Golosov, nel club Zujev o nel progetto di tea tro per Sverdlovsk).
Ciò che caratterizza tali esperienze, comunque, è – come per le Kinopravda di Vertov ' il tentativo di estrarre un massimo di comunicazione dal montaggio di segni privi di s ignificati intrinseci.
L'avanguardia torna su se stessa, ripercorre filologicamente le tappe del proprio processo.
La teoria dell'ir rile vanza della dimensione semantica nel contesto poetico ha ormai dato la mano all'utopia del Significato. Il primato della parola-segno – o, in architettura, dell'oggetto-segno – si rivela come giustificazione di tecniche di montaggio formale che comportino una «tensione nella ricerca del significato». 5 7. E' esattamente quanto accade nel cinema di Dziga Vertov, nelle ermetiche aggregazioni di Mel'nikov e Leonidov, negli assemblages metaforici di El Lisickij. Degradandosi volontariamente a combinazione di vuoti segni, il linguaggio artistico recupera così l'nica stratificazione di semanticità ormai ammissibile, e proietta la questione del proprio senso al di là di se stesso, al di là dell'mmediato presente (proprio l'opposto di quanto teorizzato da Tatlin, Rodčenko e dalla Stepanova nel '20 ).
Ancora una volta l'arte, in quanto puro progetto, in qu anto anticipazione di una globalità pianificata che ' attende un significato, in quanto istanza che dichiara implicitamente la propria impossibilità oggettiva a riempire di senso le pro prie antlcIpazioni, cerca nel futuro le condizioni della propria sopravvivenza. E nello stesso momento in cui essa rinchiude l'intera questione del proprio valore in una ipotesi, essa segna le vie della propria estinzione. L'ipotesi vale in se stessa, recupera un proprio significato solo se sospende se stessa al di sopra del reale: le forme in tensione e in opposizione dei garages e dei clubs operai di Mel'nikov non alludono ad alcuna utopia, affermano solo se stesse, al di là di ogni attributo funzionale.
Sotto questo aspetto la vicenda dell'arte russa non si differenzia da quella dell'vanguardia nel suo complesso, altro che per la radicalità con cui essa si sviluppa nell'Unione Sovietica tra il '20 e il '30. Il p'ensiero negativo, questo culmine dell'laborazione dialettica borghese, sceglie ancora una volta il terreno dell'ipotesi fine a se stessa, per scongiurat e provvisoriamente un'eutanasia paventata come inevitabile.
Il dilemma, allo scadere degli anni '30, diviene angosciante. Rimanere fedeli – come fanno Tatlin, Mel'ikov, i fratelli Golosov o Leonidov - alla legge dell'ostranenie, dello «straniamento» dell'ggetto, non può che significare il ritorno allo «slittamento semantico», teorizzato dal giovane Šklovskij come artificio necessario all'strazione dell'oggetto stesso dall'utomatismo della percezione. (I traslati geometrici e le intersezioni articolate dei clubs operai di Mel'nikov, la riinvenzione continua dei modi di articolazione degli oggetti, l'so dello perimentalismo basato sull'associazione arbitraria delle interiezioni geometriche nel Dom Narkontiazproma di Leonidov, ne sono solo le prove più appariscenti). Ma con ciò si sancisce definitivamente la propria com pleta estraneità al progetto cui tutte le avanguardie avevano teso: l'organizzazione di un universo tipizzato, dominato dalle leggi dell'automatismo percettivo. La distanza, alla fine, da quello che Benjamin chiamerà l'uso «politico» della riproduzione tecnologica[^58].
Né può sfuggire che la protesta implicita nelle metafore di Mel'nikov è tutta calata nella tradizione della negazione romantica. L:immagine del nuovo universo della produzione
- cui alludono, malgrado tutto, i suoi «montaggi» formali
- ha come fine l'esorcizzazione di quello stesso universo, si, risolve in un 'ipotesi, data in partenza come ineffettuale, circa la possibilità di un dominio soggettivo e intellettuale su di esso.
Al di là delle autogiustificazioni programmatiche ciò ha un solo significato. L'arte – riproponendosi come tale scopre di poter sopravvivere solo tornando ac;l estraniarsi dalla «bandiera che sventola sulla cittadella». Anche per i formalisti, dopo il '30, non rimane che la poesia come atto privato, ermetico, improduttivo, àl limite incomunicabile.
La stessa teoria dell'irrilevanza semantica nel contesto formale implica la disponibilità delle strutture geometriche a significati predeterminati: ed è innegabile che gli artifici combinatori di Mel'ikov sono – al di là del loro macchinismo generieo – oggetti tanto più disponibili quanto più concentrati sulla specificità del loro autonomo costruirsi.
Un solo passo avanti e otterremo il Letatlin, l'uomomacchina volante elaborato da Tatlin, nel 19;3 0-'31, nel monastero Novodevicky di Mosca. Nel Letatlin c'è tutto: la mistica della macchina e l'stanza di un dominio «umano» su di essa, la tensione verso il futuro e il naufragio nell'arcaico, l'ansia produttiva e il recupero di un'incolmabile distanza dalla produzione 9. Ma c'è, principalmente, la scoperta dell'nattualità della stessa avanguardia. Per sopravvivere non c'è che tornare alle origini, accettare di giocare di nuovo, su un filo da equilibrista, una partita con la storia in bilico tra l'utile e il ridicolo. La distanza – per il Tatlin del '30 fra l'quilibrista e il clown è minima.
In questo tornare al banale di un'arte che nonostante tutto si ostina a volersi presentare come produttiva, è inutile leggere fasi biomorfiche della poetica tatliniana o profezi[^60]. bilanciate da un profondo disincantamento
Il gesto-buffonata dei primi budetljane si ripresenta con il Letatlin privato di aggressività. Comunicando inequivoca bilmente che il vuoto oggettivo che esso occupa è l'eco, la rappresentazione, l'evocazione del deserto scoperto nel '13 da Malevic: con la differenza che laddove il deserto di Malevic era un campo vuoto, da colmare di infinite forze potenziali, quello del Letatlin è il simbolo del definitivo «addio al mondo» dato dall'avanguardia. Un addio che è tuttavia tutto scontato nelle proprie premesse e che era già contenuto nel coerente rifiuto della cosiddetta «ala destra» del Costruttivismo o dei primi saggi dell'Opoj az a risolvere l'arte nella produzione.
E' proprio la «macchina inutile» tatliniana che rende evidente la fondamentale ambiguità dell'Avanguardia: una ambiguità che l'architettura ha avuto il'compito storico di coprire piuttosto che di rivelare.
Il Formalismo aveva visto giusto: il soggiacere al reale, alle cose, alle parole-cose del Futurismo, era in realtà un diabolico artificio per sfuggire al dominio del reale. Lo straniamento, la deformazione del dato, non è che l'ltimo progetto di dominio soggettivo del!'anima sul mondo attraverso le forme.
Assumendo i connotati della macchina – e di una macchina particolarmente carica di valori simbolici, come l'uomo volante – ed estraniando quest'ultima dalla concretezza della produzione, Tatlin torna all'origine. Il pathos cosmico del Suprematismo, nella sua tensione verso la conquista di una riconciliazione globale dell'uomo con l'universo, si trasforma
- nel Letatlin progettato nell'RSS del primo piano quinquennale all'interno di una torre monastica[^61] – in un mònito ironico e disincantato ad un tempo, che sancisce,.insieme al totale recupero dell'estraneità dell'arte alla vita, la nullità di se stessa, in quanto groviglio di cuntraddizioni soggettive tanto prive di soluzioni quanto del tutto ineffettuali.
Il ritorno dell'arte a se stessa e il suo estinguersi reale, verificabile in tutte le più significative esperienze dell'architettura sovietica alle soglie degli anni Trenta, non presenta assolutamente nulla di «eroico», nulla di imposto dall'esterno. Il Kitsch staliniano è solo una cartina di tornasole che chiarisce un destino storico che accomuna l e avànguardie sovietiche a quelle occident aÌi, e che in quanto tale attende di essere ristudiato.
E' piuttosto significativo che nelle recenti rivalutazioni delle tesi «eroiche» del Costruttivismo russo, si eviti accura. tamente di osservare come 't utto quell'nticipare ideologicamente, metaforicamente, simbolicamente, il momento «necessario» dell'rganizzazione produttiva, del funzionamento del ciclo economico complessivo come «macchina globale, non trovasse altra giustificazione che in ragioni tutte immerse in una visione palingenetica ed etica del «mondo nuovo». In tutto quell'gitare il vessillo della «conoscenza», dell'indagine analitica, della ricerca formale come scavo nelle strutture logiche del reale, nessuna indagine oggettiva si è preoccupata di mettere in luce il significato ultimo dell'organizzazione e della razionalizzazione del lavoro in sé, come modi del controllo e del dominio del capitale sociale sui movimenti di classe. L 'ideologia del lavoro, offerta e riprodotta dagli intellettuali, proprio per la connessione tutta mistificata da essi istituita fra il volto sociale della classe operaia e la rior ganizzazione della divisione sociale del lavoro, fra,clàsse e piano produttivo, non può che assumere un ruolo celbrativo della «costruzione del Socialismo»: tanto da poter capire, in questa chiave, le insofferenze di un Gan di un Pasternak o di un Majakovskij nei confronti del lucido esperimento della NEP.
Ma è chiaro che non è solo l'alleanza tutta verbale fra avanguardie ' e Rivoluzione che provoca l'impasse. La distanza incolmabile fra intellettuali e processo rivoluzionario è proprio nell'impossibilità di quegli intellettuali a rovesciare integralmente in analisi politicà i loro strumenti di conoscenza, nella loro incapacità a rileggere criticamente il ruolo con solidato delle loro discipline. Scoprire il ruolo di strumento di valorizzazione del capitale, proprio di quell'organizzazione del piano da loro agitato come asse ideologico, ri scoprire marxianamente l'pposizione ineliminabile. fra capi tale e lavoro, rifiutarsi di agitare, nella prOleZlOne sociale dei rapporti di produzione, la mitologia della raggiunta sparizione della divisione sociale del lavoro: sono questi 1 compiti politici cui gli intellettuali russi si sottraggono storicamente. Cosi, da rendere lampante che la loro Rivoluzione aveva ben poco a che fare con quella bolScevica. Come per il Lukàcs di Storia e coscienza di classe, come per Karl Korsch, come per tutto il Linkskommunismus europeQ o per gli intellettuali «radicali» della Germania di Weimar, la rivoluzione è il compimento, per loro, del compito storico del proletariato: la restaurazione della categoria della totalità, la distruzione immediata e soggettiva della reificazione, il recupero dell'integralità dell'Uomo come Sp'irito hegeliano finalmente autorealizzato. Confondendo la Rivoluzione bolscevica con la Rivoluzione etica auspicata per tutto il corso dell'800 dagli intellettuali «dissidenti», l'intelligencija russa rivela come in tutta la sua volontà di costruzione del «mondo nuovo» per l'omo nuovo si celi il permanere dell'antico sogno dell'intellettuale europeo: porsi come guida morale dell'rganizzazione di classe. Perché nient'altro significa quel continuo affrontare il tema della costruzione del volto sociale del potere proletario, che far passare sopra generici slogans politici il preciso obiettivo di una ristrutturazione globale della divisione sociale del lavoro, in cui l'elaborazione intellettule continui ad assumere un ruolo privilegiato.
Con il che si scopre che è proprio nelle autogiustificazione politiche dell'ASNOVA, dell'OSA, dell'ARU, nella riorganizzazione disciplinare compiuta nel Vchutemas e nel Vchutein, nei tentativi di definire formalmente l'assetto della «città socialista», che gli intellettuali, al di là di tutte le loro pur reali differenziazioni, offrono il loro formidabile appoggio all'ideologia del socialismo realizzato. Tanto, che è legittimo chiedersi se nella vicenda che vede quel socialismo fagocitare le ideologie che ne avevano facilitato la crescita, sia da vedersi una tragedia o non piuttosto una «necessaria ironia della storia».