--- title: "Manfredo Tafuri, Norma in program: Vitruvij Daniela Barbare" ... Nel finale dell'Amadigi, pubblicato nel 1560 da Gabriele Giolito de Ferrari, Bernardo Tasso pone Daniele Barbaro al centro di un'ideale parata di virtuosi patrizi veneziani, caratterizzandolo come totalmente dedito alla vita contemplativa: "Il Barbaro, che alzando il suo pensiero / S'è dalle cure della patria tolto, / E pensa e scrive".[^1] Ma Sperone Speroni e Paolo Paruta, rispettivamente in Della vita attiva e contemplativa e in Della perfettione della vita politica, offrono un ritratto alternativo del Barbaro. Entrambi lo raffigurano come difensore della vita activa, e — fatto da non sottovalutare - il secondo lo fa addirittura entrare in polemica sull'argomento con Giovanni Grimani, di cui Daniele era stato designato successore eventuale alla carica di patriarca di Aquileia.® È certo al nuovo status del Barbaro che allude Bernardo Tasso; uno status che Daniele aveva accettato dopo un travagliato iter spirituale. Nel 1560, inoltre, l'opera maggiore del Barbaro, i commentari al De architectura di Vitruvio, era uscita da soli quattro anni. Come spiegare l'antinomica caratterizzazione attribuita dai contemporanei al Barbaro? Pronipote del grande Ermolao e fratello di Marcantonio, Daniele è membro di una grande famiglia veneziana legata alla curia pontificia e sodale di altre grandi famiglie di orientamento 'romanista', come i Pisani, 1 Grimani, i Corner. Il che non è certo sufficiente a caratterizzare la cultura e gli intenti del Barbaro, anche se offre alcune coordinate per inquadrarne l'operato. Sin dal XV secolo, i 'papalisti' formano a Venezia un gruppo che si distacca, per finalità politiche e per costumi di vita, dal resto del patriziato, con una storia fatta di conflitti non sempre palesi, resi però espliciti dalla crisi costituzionale del 1582-83 prima, dalla vicenda dell'Interdetto poi. Né poteva essere altrimenti. Proprio in coincidenza delle guerre espansionistiche nell'entroterra, alla ricerca di un primato nella penisola, Venezia aveva consolidato la propria 'religione di Stato': una religione civica, in cui l'identificazione della 'città-vergine' con il luogo della perfetta giustizia tendeva a riaffermare l'indipendenza della Serenissima dal primato pontificio, e non solo in materia temporale. I 'romanisti' costituivano pertanto un pericolo per tale linea tesa a difendere in ogni campo l''unicità' di Venezia. Né va sottovalutato che in seno alle famiglie legate a Roma e solidamente alleate fra loro, grazie allo scambio e al controllo dei benefici ecclesiastici, fossero vive tendenze oligarchiche di tipo assai spinto.3 Su tali orientamenti, si innestavano, già nel XV secolo, afflati spiritualistici e spinte indirizzate alla riforma della Chiesa vive nel cenobio di San Giorgio in Alga e nell'ambiente di Gasparo Contarini: si tratta di tendenze che Daniele Barbaro sembra aver assorbito nella sostanza del loro evangelismo umanistico. Ma è necessario precisare il ruolo di tali componenti nelle scelte personali del Barbaro. Il quale, nato l'8 febbraio 1514 da Francesco e da Elena di Alvise Pisani, è allievo, nello studio patavino, di Marcantonio de' Passeri detto Genua, del Lampridio e di Federico Delfino, l'autore del De fluxu et refluxu maris. Egli è inoltre membro dell'Accademia degli Infiammati e nel 1545 risulta implicato nella fondazione dell'Orto dei Semplici accanto a Pietro da Noale, professore straordinario di medicina presso lo Studio di Padova, e all'architetto Andrea Moroni, autore del progetto di sistemazione.* È questo, per Barbaro — che frequenta nel frattempo Giovanni della Casa, Ludovico Beccadelli, Bernardo Navagero, Benedetto Varchi, Matteo Macigni, Sperone Speroni e Federico Badoer, il futuro fondatore dell'Accademia Veneziana — un primo contatto con la res aedificatoria; un contatto, tuttavia, assai limitato e tutt'altro che specifico. Non sono note altre relazioni fra Daniele Barbaro e Andrea Moroni, al di là di quelle relative alla programmazione dell'Orto Botanico; né è legittimo sopravvalutare la funzione del futuro patriarca eletto di Aquileia in quell'opera.' Rimangono pertanto velate le ragioni che spingono Barbaro a un così intenso impegno sul testo di Vitruvio, su cui egli — come sappiamo da una sua precisa ammissione — inizia a lavorare nel 1547: un anno prima, dunque, della sua partenza come ambasciatore per l'Inghilterra (12 settembre 1548).° Né l'interesse per le arti di Ermolao - individuato da Wendy Stedman Sheard come promotore, insieme al cugino Girolamo Donà, del monumento al doge Andrea Vendramin' — è sufficiente a delineare una tendenza familiare capace di spiegare il singolare exploit del Barbaro. È infatti possibile che Daniele abbia inteso, con la sua opera vitruviana, seguire le orme del prozio, autore delle Castigationes plinianae e delle traduzioni di Aristotele. Ma rimane da spiegare cosa abbia spinto un patrizio veneziano a scegliere come oggetto di intenso studio il testo di Vitruvio negli anni a cavallo della metà del secolo XVI. Né è sostenibile l'ipotesi di un vitruvianesimo serpeggiante sin dal XV secolo fra le é/ttes veneziane. Indubbiamente, Bernardo Bembo è interessato sia a Vitruvio che al De re aedificatoria di Leon Battista Alberti,} mentre il Serlio fa intravedere un circolo di intendenti di cui fanno parte 'dilettanti' come Francesco Zen e Gabriele Vendramin.? Ma gli interessi del Bembo non sembrano valicare i confini di un umanesimo interessato ad ogni espressione dell'antichità, così come non specifici sono gli interessi artistici di Ermolao Barbaro e di Girolamo Donà. D'altra parte, si è forse sopravalutato il 'rigorismo' architettonico dei 'dilettanti' celebrati da Sebastiano Serlio. Almeno per Francesco Zen un riscontro è possibile, dato che è lui stesso l'autore del palazzo Zen presso l'antico convento dei Crociferi;'° e il pastiche orientaleggiante della facciata di tale edificio — malgrado il suo interesse specifico — parla di tutto fuorché di un purismo vitruviano. Fatto sta che l'architettura 'all'antica' è osteggiata, nella Venezia del primo Cinquecento, dalla fedeltà alle tradizioni, dalle strutture istituzionali, dalle forme del dibattito politico. Essa assumeva, hel contesto lagunare, il significato di uno 'strappo', cul soltanto 1 'romanisti' erano disposti a sottomettere l'imago consolidata della città. Tuttavia, negli ultimi anni del dogado Gritti (15231538), con le opere sansoviniane nella platea marciana, la renovatio entra trionfalmente nel cuore politico della Repubblica: ma con notevoli difficoltà, mentre l'edilizia religiosa e quella privata battono — con poche eccezioni — vie di compromesso o alternative. In un tale clima, sottoporre al patriziato un'enciclopedia del sapere tecnico fondata sul testo di Vitruvio assume un sapore inevitabilmente polemico. Abbiamo un motivo di più per assumere come tema di analisi le ragioni meno evidenti che hanno spinto Daniele Barbaro ad iniziare la sua impresa: un tema stranamente ignorato finora dagli studiosi. Iniziamo con il considerare alcune circostanze esterne. Dopo l'edizione di Fra Giocondo (I511 e 1513), e le edizioni del Cesariano (1521) e del Caporali (1536), le ricerche vitruviane ricevono un nuovo impulso grazie al gruppo promosso, fra gli altri, da Claudio Tolomei, che fonda a Roma l'Accademia della Virtù (1541-42), con il compito di chiarire definitivamente i passi incerti di Vitruvio. Proprio alla fine del 1547 Tolomei è a Padova, reduce da Piacenza, sconvolta dall'assassinio di Pier Luigi Farnese: su un possibile contatto TolomeiBarbaro è lecito formulare un'ipotesi, come traccia, non foss'altro, per ulteriori indagini al proposito. Che l'iniziativa di Daniele avesse anche il significato di una civile competizione della cultura veneziana con quella romana è probabile. Non va dimenticato che, secondo Francesco Sansovino, qualcosa del genere si era verificato pochi anni prima, quando il padre di Francesco, Jacopo, aveva sfidato gli intendenti di architettura italiani — con la mediazione di Pietro Bembo — a risolvere vitruvianamente il cantonale della Libreria marciana.'' Ma non va dimenticato che il circolo del Tolomei cessa le sue attività intorno al 1545, quando il promotore parte da Roma. In una lettera scritta proprio a Francesco Sansovino — non datata, ma anteriore al 1548 — Claudio dichiara di non saper rispondere in merito alle questioni vitruviane su cui era stato interpellato, essendosi "già quattro anni disviato da cotali studi".'" Infine, va ricordato che proprio nel 1547 veniva pubblicata a Venezia la lettera del Tolomei con il programma dell'accademia vitruviana.'5 Quale senso attribuire, dunque, a un commento al De architectura, che presuppone non solo intense ricerche di tipo archeologico, ma anche una approfondita conoscenza delle tecniche e delle matematiche antiche? Indubbiamente, i commentari del Barbaro, nelle due edizioni del 1556 e del 1567, costituiscono una summa del sapere tecnico-scientifico antico e moderno; e i continui riferimenti ad autori del Quattrocento e del Cinquecento lasciano trapelare una concezione cumulativa del sapere stesso. Barbaro mostra di conoscere non solo le fonti antiche e medievali — Euclide, Tolomeo, Galeno, Boezio, Erone meccanico, 1 matematici arabi — ma anche l'/Horoscopio universalis di Johannes Stabius, le opere matematiche e astronomiche di Johannes Werner, la Compositio horologiorum di Sebastian Munster, l'Arte de navigacion di Pedro de Medina, le opere di Leon Battista Alberti, Diùrer, Francesco di Giorgio Martini, Serlio, Filandro, Francesco Maurolico, Federico Delfino, Federico Commandino. Malgrado l'erudizione e l'alto livello dell'indagine archeologica, i commentari del Barbaro sembrano validi assai più come opera di chiarificazione, sistemazione e critica, che come opera teoricamente originale. Valutiamo, per prima cosa, l'apporto specifico offerto dal Barbaro agli studi vitruviani. La traduzione da lui curata è indubbiamente la prima che mostri una totale comprensione del testo latino: fino al XVIII secolo, essa costituirà un riferimento indispensabile. Uguale cura filologica è nel confronto fra il testo e la realtà dei monumenti antichi. Nel 1554 Barbaro è a Roma, seguito dal Palladio, suo consulente e autore delle più importanti tavole del trattato. È lo stesso Daniele a rendere nota tale collaborazione, in un passo entusiastico nei confronti dell'architetto,'' cui egli si riferisce più volte nel prosieguo dei suoi commenti. Il rigore delle ricostruzioni archeologiche raggiunte da Barbaro e Palladio è insuperato all'epoca. Ne emerge un 'codice', privo, tuttavia, di dogmatismo. Gli ordini vengono analizzati con grande minuzia, ma evitando di fissare astratte proporzioni canoniche; Daniele, anzi, nota la varietà delle soluzioni antiche e interpreta le norme come 'ideali' interpretabili. > Non si deve adunque alcuno dar meraviglia — scrive il Barbaro — se > misurando le antichità di Roma, non rittrova spesso le misure delle > colonne a punto, perché se egli si potesse vedere tutto il corpo, > l'huomo non si meraviglierebbe della grandezza, o picciolezza de i > membri, ma ritrovando un piede, o vero un braccio separato, non può > dire questo piede, o questo braccio, è, grande, o picciolo ... Vedi > che Vitruvio ci leva la soperstitione, l'obbligo, et la servitù senza > ragione...'° Dunque, è la symmetria dell'insieme che guida la scelta dei particolari. La norma è un orizzonte di certezze, non una gabbia condizionante: siamo lontani dall'astrazione precettistica della Regola del Vignola.'* Nel commentare il tempio etrusco, Barbaro scrive che è opportuno adottarne "alcune misure" e "mescolarle con gli altri generi", così da far ammutolire > quelli superstitiosi, che non vogliono preterire alcuni precetti dell' > Architettura temendo, che ella sia tanto povera, che sempre formi le > cose ad uno istesso modo, né sanno, che la ragione, è universale, ma > l'applicarla è cosa d'ingenioso, e risvegliato Architetto, et che la > bella mescolanza diletta, et le cose, che sono tutte ad un modo > vengono in fastidio...'' L'elogio della "mescolanza" rinvia a simili passi del Serlio, lasciando intravedere un comune terreno teorico relativo alla relazione norma-licenza. Ma è indubbio che la licenza serliana sia antitetica a quella presupposta dal Barbaro o sperimentata da Palladio, che gioca ingegnosamente su mescolanze avvertibili soltanto da occhi esperti nel cortile della Carità, nella facciata di San Francesco della Vigna, nella loggia del Capitanio a Vicenza. Ed è indubbiamente rivelatrice l'affermazione del Barbaro: "/o ho in odio non meno la soperstitione, che la heresia"."* Un'affermazione significativa, che sembra costituire un 'manifesto' relativo non soltanto all'architettura, visti gli interessi religiosi dell'autore. Ulteriori contributi fondamentali sono nella ricostruzione della domus antica. Seguendo la corretta interpretazione dell' Alberti, ripresa da Cesariano, Daniele riconosce che atrio e cavedio sono parti di uno stesso cortile porticato: egli corregge pertanto un equivoco di Fra Giocondo, che tuttavia era stato fecondo di soluzioni nei progetti di Giuliano da Sangallo, di Antonio il Giovane, di Raffaello.'9 Nella domus pubblicata nel libro VI °° è facile scorgere un Palladio interessato a fissare il modello concettuale delle sue ricerche formali, specie nell'ordine gigante riservato al vestibolo e all'atrio, in dialettica con il doppio ordine del cortile. Né va dimenticato che la ricostruzione del teatro antico, nel libro Vv, preceduta da lunghi passi sulle armonie musicali ricondotte a rapporti aritmetici, segna una tappa non soltanto per la cultura antiquaria, date le sue conseguenze nell'invenzione palladiana dell'Olimpico. — Il contributo di Palladio al Vitruvio va pertanto al di là della consulenza archeologica e della pura espressione grafica. Il dialogo fra testo e immagini, così come è impostato dal libro III in poi, rende eloquente il trattato antico, grazie alla didascalica 'trasparenza' delle ricostruzioni grafiche. Per le quali viene quasi sempre adottato il metodo della proiezione piana formulato nella Lettera a Leone X.?' La professionalità dei disegni palladiani relativi ai templi, agli ordini, al teatro, alla domus, è la stessa dei suoi progetti coevi. La rigorosa adozione della ortographia e della ichnographia permette la lettura e la verifica dell'ordo metricoproporzionale e della symmetria che informa gli organismi come tali.** A ciò, Palladio aggiunge una geometria proiettiva fatta di trasparenze e di sovrapposizioni, tale da permettere il contemporaneo controllo di membrature, piani e spazi dislocati a profondità successive: la concezione albertiana e bramantesca dell'edificio come un animans, come una 'macchina' fatta di correlazioni organiche e necessarie, trova un'adeguata espressione grafica. Nelle illustrazioni relative al tempio ionico (1556, pp. 86-7; 1567, pp. 138-9), al capitello ionico (1556, p. 95), ai portali posti sul fondo di portici (1556, pp. 119, 120, 170; 1567, pp. 189, 191, 281), il metodo della trasparenza è analogo a quello che appare, ad esempio, negli studi per palazzo Da Porto-Festa (RIBA, XVII 127, 127), che hanno ingannato l'occhio del Forssman a causa della loro novità grafica.*3 E va osservato, per inciso, che esiste un legame fra tale rappresentazione simultanea di piani successivi e la poetica palladiana delle facciate 'a intersezione”. La collaborazione fra Barbaro e Palladio costituisce un evento di grande portata nella cultura architettonica del Cinquecento, anche se è opportuno non schiacciare l'una sull'altra le due personalità. Com'è evidente nel caso della villa di Maser — la meno palladiana delle opere in cui il Palladio è implicato — l'interpretazione della norma, da parte di Barbaro, è ben diversa da quella di Andrea. È necessario approfondire cosa significasse, per il Barbaro, l'approccio scientifico alla res aedificatoria. Va notato, innanzi tutto, un fatto finora rimasto trascurato. Dai commentari emerge una razionalità tesa all'evidenza dei propri procedimenti, in assenza di ogni esoterismo. E enorme la distanza fra le considerazioni del Barbaro in merito ai rapporti armonici, e la mistica numerica del De Harmonia Mundi di Francesco Zorzi (1534); un'opera neoplatonica informata alla Kabbalah e all'ermetismo, ben presto divenuta sospetta in ambito ecclesiastico.** In tal senso, è sintomatico il passo contro le 'grottesche' inserito nel commento al cap. V del libro vII di Vitruvio. Le grottesche sono condannate in quanto pitture non imitative, innaturali, 'sofistiche', frutti di mostruose e inverosimili fantasie.* Ebbene, tale razionalismo radicale, e persino la semplificazione del pensiero aristotelico che informa le pagine del Vitruvio, rimandano a specifici interessi teologici dell'autore. Durante l'ambasceria in Inghilterra, fra il 1549 e il 1550, Barbaro invia alla zia Cornelia, suora nel convento di Santa Chiara a Murano, una serie di lettere teologiche, da cui trapela una particolare lettura del Brevi/oquium di Bonaventura da Bagnoregic. Come ha rilevato Peter Laven, i medesimi principi di razionalità, semplicità e trasparenza, con cui Bonaventura interpreta il revelatum, caratterizzeranno più tardi le pagine dei commentari.? La stretta alleanza fra razionalismo umanistico e verità di fede fa parte dello specifico atteggiamento del Barbaro, che si inserisce nella storia dell'umanesimo cristiano con posizioni ereditate più tardi dal cardinal Paleotti. Contro le eresie protestanti, Barbaro redigerà, nel 1569, la sua Aurea Catena, su consiglio del cardinal Sirleto; contro il dogmatismo antiumanistico, esprimerà posizioni illuminate nell'ultima sessione del Concilio di Trento, a proposito dell'Indice sui libri.” Abbiamo ora nuove coordinate per comprendere la logica che informa il suo concetto dell'architettura, vista come gioco pitagorico fondato su una matematica qualitativa. Nessuna contraddizione, tuttavia, con quanto Barbaro stesso aveva espresso in uno dei suoi primi scritti, la Predica dei sogni edita da Francesco Marcolini — il medesimo editore del Vitruvio — nel 1542. Questo mondo / è un sogno — scriveva Barbaro — e noi mortali / poveri, ciechi e frali / altro che fumo et ombra / non siamo... sotto la Luna / non si trova alcuna / stabilitade o cosa / che non sia paurosa / come un sogno. Il tema della vita come sogno, che presuppone un risveglio per la vita eterna, si unisce al tema del "sogno vero", che dà frutti positivi: ... l'opre leggiadre, / le belle inventioni, / i puri e bei sermoni / in sonno son nasciuti, / e i dubbi soluti, / che quando vigilavi / t'eran nascosi, gravi. Nei cinque sonetti dedicati al dubbio si fa strada un aspetto gnoseologico, specifico del dubbio stesso: Colui ch'innanzi la sentenza pone / suo cor in dubbio, apprezza quel ch'è vero ... Il dubbio è padre dell'inventione, / perché risveglia il languido pensiero; / il dubbio pugne, isferza e fa leggiero / chi tardo e pigro cerca la cagione.°9 La ricerca delle "cagioni": si tratta della virtù attribuita dal Barbaro al "vero architetto". L'architetto, egli scrive infatti, è capo, soprastante, et regolatore di tutti l'Artefici; come quello, che non sia prima a tanto grado salito, ch'egli non s'habbia in molte, et diverse opere, et dottrine essercitato: soprastando adunque dimostra, dissegna, distribuisce, et commanda; et in questi uffici appare la dignità all'Archi tettura esser alla Sapienza vicina: et come virtù Heroica nel mezzo di tutte l'Arti dimorare, perché sola intende le cagioni.*° Architettura come scientia, dunque, risultato di una ricerca pungolata dal dubbio, disciplina che pretende un comando indiscusso sulle 'arti': dal punto di Vista teorico, l'unità corporativa delle 'arti' stesse viene dissolta a favore di un "soprastante, et regolatore", dotato di un sapere che "intende le cagioni". A tale figura che fa risplendere nell'opera la "virtù Heroica" si apre un ulteriore dominio: la relazione, chiaramente istituita, fra sapere e potere, è chiamata a intervenire nella modificazione dell'intero ambiente fisico. Il che comporta un problema relativo al rapporto fra tecnica e natura. La natura, per Barbaro, è un orizzonte con cui l'attività umana è chiamata a confrontarsi in un doppio esercizio: di riconoscimento della divina e razionale armonia in essa immanente, e di gara tesa a piegare alle necessità della vita civile quanto nella natura stessa sì presenta ostile. L''arte' è chiamata a vincere la natura, dunque. Non si tratta di una contraddizione o di una "confusione di significati", come vorrebbe Laven,3' ma di una concezione aderente ad interpretazioni patristiche e medievali. Le radici del doppio atteggiamento del Barbaro nei confronti della natura sono nel Breviloguium di Bonaventura da Bagnoregio ** e nella Reductio dello stesso autore, dove, a proposito della "luce della capacità tecnica", è richiamato il Didascalicon di Ugo di San Vittore.83 Le belle inventioni de gli huomini ... fatte a commune utilità — scrive il Barbaro nella dedica al cardinale Ippolito d'Este 34 — portano a chi non le intende meraviglia, et a chi le intende diletto grandissimo, perché a quelli pare, che la natura sia vinta, e superata dall'arte, a questi fatta migliore, et perfetta. L'idea di una perfettibilità della natura è implicita nell'analogia, di origine stoica, fra macrocosmo e microcosmo; tema riapparso nel XII secolo all'interno della scuola di Chartres ed ereditato dalla riflessione umanistica. Nel Barbaro, però, è costante la preoccupazione di giustificare teoricamente la Vittoria della ratio sugli ostacoli naturali: Facendo adunque la natura alcune cose contra l'utilità de gli huomini, et operando sempre ad uno istesso modo — egli scrive — è necessario che a questa contrarietà si trovi un modo, che pieghi la natura al bisogno, et all'uso humano. Questo modo è riposto nell'aiuto dell'Arte, con la quale si vince la natura in quelle cose, nelle quali essa natura vince noi.* E in un passo del proemio dei commentari, la virtus della res aedificatoria è individuata nella sua destinazione civile — il "riunire in unità uomini rozzi, ridotti a culto e disciplina nelle Città" — e nel suo esplicitarsi in una intensa e vasta opera di trasformazione dell'ambiente fisico. Nel tagliare rupi, forare monti, riempire valli, bonificare paludi, nel modificare il corso dei fiumi, nella costruzione di navi, porti e ponti, il Barbaro indica il concreto carattere 'produttivo' dell'architettura, da armonizzare con le premesse e i presupposti imitativi e assimilativi.3 In altra sede, abbiamo tentato di dimostrare quanto tale passo — che parafrasa un analogo brano del De re aedificatoria di Leon Battista Alberti — sia profondamente anti-albertiàano nella sua sostanza.” Qui è piuttosto necessario insistere sulla logica che permette al Barbaro un'attribuzione di senso così pregnante. Si noti: sin dal commento al libro I di Vitruvio, il patriarca eletto di Aquileia trasporta l'architettura nel regno dell'etica e della conoscenza. Si tratta di una conoscenza certa e superiore, ben diversa, questa volta, da quella riservata alle tecniche dalla Reductio di Bonaventura. Infatti "nel conoscimento, et nel giudicio ella [l'architettura] può essere con la Sapienza, et con la prudenza, meritatamente paragonata, et per l'operare tra le arti come Heroica Virtù chiaramente riluce".8* Sapienza e prudenza: essenzialmente, arti di governo. Aristotele, nella Politica, aveva parlato metaforicamente del politico come architetto; e che tale metafora fosse presente alla cultura umanistica lo dimostra l'interesse mostrato per Vitruvio da un politologo come Francesco Patrizi senese. Il Patrizi, vescovo di Gaeta, nel 1461 aveva scritto ad Agostino Patrizi Piccolomini, comunicandogli che, per dar compimento al suo De institutione rei publicae, gli era necessario lo studio di Vitruvio. Non avendo a disposizione un codice vitruviano — aveva aggiunto — egli lo chiederà in prestito all'amico Roverella, vescovo di Ferrara. L'esempio addotto è tutt'altro che unico nella cultura del Quattrocento e del Cinquecento. Proportio, eurythmia, symmetria: 1 presupposti dell'estetica vitruviana rimandano a un tentativo di riduzione del molteplice all'unità, in cui è immediato leggere in trasparenza l'imago del 'buon governo'. Puntualmente, questa viene raffigurata nell'opera di Patrizi senese nell'attività dell'optimus architectus ordinatore della polis. Nel clima veneziano, è nel De bene instituta re publica di Domenico Morosini che vengono avanzate simili istanze.*° Si può dire di più. Poiché l'architettura assorbe — per l' Alberti come per il Barbaro — le verità superiori del sapere matematico tradotte in proporzioni armoniche, in quel tentativo di dominio sul molteplice è anche l'eco del 'bello come figura del bene' teorizzato da Platone nel Filebo e nella Repubblica. Il Socrate che vien fatto parlare nella Repubblica tratta l'idea del bene come qualcosa di difficile comprensione — osserva Gadamer *' — riconoscibile solo dai suoì effetti. Il bene esiste per noi soltanto nel dono da esso arrecato: conoscenza e verità. Il che ha un significato profondo. Nel contesto della Repubblica 11 bene si presenta come l'unificatore supremo. Nel Febo, l'idea del bene esercita una funzione di orientamento pratico alla vita giusta, mescolanza di 'piacere' e di 'sapere': una mescolanza retta da un bello definito dalle idee di misura, proporzione e razionalità. La cultura rinascimentale riflette inoltre a lungo su un testo antico in cui le idee platoniche vengono riproposte con coloriture latamente stoiche. Nel De officiis, Cicerone insiste sulla categoria del decorum, definito in analogia alla concinnitas del corpo umano: misura, temperanza e armonia sono elette a parametri dei comportamenti privati e della gestione della cosa pubblica. L'equivalenza ciceroniana fra l'onesto e l'utile è fondata su un concetto ricco di implicazioni per gli ideali armonici perseguiti dalle arti visive. Daniele Barbaro risulta aver assorbito tali grandi temi. Se il bene si 'nasconde' nel bello, e se il 'numero' permette l'intelligibilità e costituisce la 'svelatezza' (aletheia) dell'ordine armonico dell'universo, è possibile la costruzione di una techne che rimandi all'ideale, fondandosi sulla dynamis del bene stesso. L'architettura, l'arte di 'ridurre a unità', si conferma come strumento fondante la retta polis. Sua è la specifica tecnica del 'misurare' — il criterio del 'giusto mezzo' —, dunque suo è il principio fondamentale dell'etica aristotelica. Ma suo è anche il 'numero', che svela l'ordine aprendo al bene. È dunque plausibile pensare che per Daniele Barbaro l'architettura sia una grande metafora. Arte che unifica il molteplice, essa significa una totalità di comportamenti, una strutturazione con-sonante della pluralità, chiamata a introdurre concordia in una bene instituta republica. Il "bene" coincide con l'ingresso trionfale, nelle strutture istituzionali e nella mentalità collettiva, di 'ragioni' sottratte alla doxa. Il che presuppone, per i commentari e per l'intera attività dei fratelli Barbaro, una finalità politica da indagare nelle sue specifiche articolazioni. La sostanza polemica, nei confronti della tradizione veneziana, di un'architettura come 'Sapienza', non può, al proposito, sfuggire. L'obiettivo costante contro cul combatte la 'scienza' del Barbaro è l'empiria dei 'proti': dei tecnici sine scientta, forniti di un sapere fondato sull'empiria e sulla tradizione, del tutto soggetti alle scelte delle magistrature e dei provveditori 'alle fabbriche. Figure come quelle di Giorgio Spavento, Bartolomeo e Piero Bon, Antonio Abbondi detto lo Scarpagnino — proti dei Procuratori de supra o della Magistratura del Sal — non possono in alcun modo essere assimilati alla nuova figura umanistica dell''architetto'. L'incertezza dei loro linguaggi deriva dal loro approccio pragmatico alla forma; il vantaggio che essi assicurano alle istituzioni veneziane è proporzionale alla loro incapacità a formulare 'programmi', assicurati invece alle magistrature patrizie. Il loro 'far di pratica' aveva tuttavia permesso — anche nell'edilizia privata — uno sviluppo della forma urbana continua e omogenea. Le innovazioni dei pochi maestri maggiori (i Lombardo, Mauro Codussi) erano state da loro ricondotte nell'alveo di tipologie collaudate dal tempo. In tal modo, Venezia aveva evitato lo choc della novitas assoluta. Uno degli obiettivi del Vitruvio del Barbaro è la rottura di tale tradizione. Ma ciò non comporta una sottovalutazione dell''esperienza': un'impostazione etica della disciplina architettonica non permette di prescindere dal concetto aristotelico di phronesis.!? L'isperienza adunque — scrive il Barbaro 4 — è simile all'orma, che ci dimostra le Fiere perché sì come l'orma èprincipio di ritrovare il Cervo, né però è parte del Cervo ... così l'isperienza è principio di ritrovar le Arti, et non è parte di alcun'Arte, perché le cose a' sensi sottoposte non sono Principi) delle Arti, ma occasioni, come chiaramente si vede, perché il Principio delle Arti è universale, et non sottoposto a' Sensi humani, benché da' Sensi stato sia trovato. "Occasione" e universalità dei "principi": 'fabbrica' e 'discorso', per il Barbaro, sono uniti, come vuole Vitruvio, ma con un indiscusso privilegio per i "principil", unici garanti della certa verità (della giusta finalità). Tali principii sono quelli delle matematiche insite da Dio nell'universo. La triade "pondo, numero et mensura" menzionata nel libro della Sapienza (11, 20), e ripresa da Boezio, da Agostino, da Bonaventura,* ritorna legittimata dalla tradizione platonico-pitagorica. Barbaro può così scrivere che La Mathematica è quella, che non più riguarda al senso, ma è facultà di giudicare secondo la speculatione, et la proposta ragione conveniente alla Musica de i numeri sonori, et de i modi, et delle maniere delle Canzoni, et de i mescolamenti, et de i versi de' Poeti, forsi più alto salendo la Humana, et Mondana convenienza de i Cieli, et dell'Anima va conside rando.* La superiorità dell'architettura è affermata — su base matematica — sin dalle prime pagine dei commentari: a conoscere l'Arti più degne questa è la via: che quelle, nelle quali fa bisogno l'Arte del numerare, la Geometria, et l'altre Mathematice, tutte hanno del grande, il rimanente senza le dette Arti, (come dice Platone) è vile, et abietto come cosa nata da semplice imaginatione, fallace coniettu ra, et dal vero abbandonata Isperienza.*° L'"Isperienza dal vero abbandonata" è quella che aveva dominato la prassi dei 'protomagistri' nella Venezia del XV e del XVI secolo, con l'eccezione di Jacopo Sansovino. Ma le opere sansoviniane posteriori al 1598-40 non potevano soddisfare il Barbaro, che del resto si mostra assai tiepido nei confronti dell'artista fiorentino. Rispetto alle continue lodi riservate al Palladio, nell'edizione del 1556, le scarse menzioni del Sansovino sono significative: Daniele loda Jacopo per aver inserito nelle metope della Libreria il leone alato, insegna della Serenissima,* e cita la sua opera per la Zecca senza commento. La critica alla pratica senza teoria rinvia alla mentalità di un patriziato che appare al Barbaro pigramente soddisfatto di consuetudini non sottoposte alla critica umanistica. L'insistere sulla 'teoria' è un esplicito 'manifesto' rivolto al patriziato veneziano, ancor prima che agli architetti. La funzione politica dei commentari trapela già dalla scelta preventiva compiuta da Barbaro: è una sorta di appello al rinnovamento — traumatico per Venezia — delle attrezzature mentali consolidate, che la proposta 'romanista' contenuta nel Vitruvio del 1556 rivolge al ceto dirigente. Barbaro presenta tale romanismo sotto una luce universalista; ma la sua proposta non poteva che suonare sospetta al patriziato conservatore o antipapalista. Quell'universalismo, infatti, appariva troppo connesso a quello della curia pontificia. La stessa architettura come rigorosa ricostruzione delle sintassi antiche parla a Venezia la lingua di una verità esclusiva e metastorica, difficilmente accordabile con l'immagine fisica e ideale che la 'città-vergine' si era costruita nel tempo. Il fondamento dell'attacco del Barbaro alla doxa degli empirici era rinvenibile sia in Platone che in Aristotele. La techne, per il primo, non sa nulla del 'bene in sè', procede senza accorgersi delle nebbie che ne avvolgono il telos. Solo 'oltre il sensibile' si installa la percezione del fine; musica e astronomia sono al contrario 'virtuose', dato che rendono 'pure' le matematiche. Nell'Etica Nicomachea, d'altronde, Aristotele osserva che la subordinazione del produrre all'uso sbarra alla techne la strada verso l'areté.** L'insistere del Barbaro sul carattere di "virtù Heroica" dell'architettura trae le logiche conseguenze dal fondamento etico insito nel sapere 'per principii'. È ancora ad Aristotele che il Barbaro attinge nel definire la scientia una sintesi di nous ed episteme; anche se dell'episteme Daniele dà un'interpretazione personale, identificandola con la certezza delle matematiche. Ma il punto è un altro. Vitruvio e il richiamo all'Antico soddisfano l'impellente bisogno di norma vivo da più di un secolo. La norma, all'interno della nuova 'età dell'immagine del mondo', significa strumento di dominio sul futuro, potente esorcismo dell'imprevedibile, dell'evento, del caso, tramite un eidos fissato per via filologica. Pro-gettare, in tale ambito culturale, significa volere 'prospetticamente' il futuro: la volontà di norma si proietta nella perfezione dell''idea' al di là del presente, presupponendo l'assoluta stabilità del 'Vero'. E la norma più potente sarà quella eticamente legittimata.** I motivi polemici dei commentari del Barbaro emergono più chiaramente. Da un lato, il presupposto di una Repubblica capace di rinnovarsi accogliendo all'interno delle proprie istituzioni un sapere antiempirico. Dall'altro, l'esigenza di tenere uniti i saperi attraverso una teoria forte', che compensi o addirittura scongiuri la disseminazione degli specialismi. Abbiamo più volte insistito sul fatto che l'architettura preconizzata da Barbaro e realizzata dal Palladio non poteva che trovare resistenze a Venezia, dove il sapere e il felos sono gelose prerogative di un patriziato che guida l'operato di tecnici che non spezzino la tradizionale struttura delle 'arti'. Ma anche in Daniele Barbaro vive l'esigenza di mantenere la 'teoria' in mani patrizie. La sua summa vitruviana esprime compiutamente la distanza implicita mente posta fra ceti e ambiti di competenza. Lo scientismo che si esprime nei commentari si riallaccia, peraltro, a tendenze già vive nell'ambiente veneziano, dai tempi di Giorgio Valla almeno, specie tenendo presente i tentativi compiuti sotto il dogado di Andrea Gritti. È piuttosto importante interrogare il testo del Barbaro circa i fini immediati che esso si propone. I commentari assumono un valore particolare qualora si faccia attenzione ad alcune pieghe contenute in essi. Nel testo si annidano indicazioni relative ai problemi fondamentali della realtà veneziana: la tecnica — l'artificium — viene invocata in funzione della più 'artificiosa' delle città. Quattro sembrano le funzioni primarie cui l'auspicata res aedificatoria elevata a scientia è chiamata a rispondere. E per ognuna di esse Barbaro esprime posizioni che implicano profondi rinnovamenti nei costumi e nelle istituzioni veneziane. a) La difesa della città e dei Domini: Barbaro pubblica, alla fine del libro 1 dell'edizione del 1556, il sommario del Libro delle fortificazioni di Giovan Jacopo Leonardi, la cui redazione era stata pressoché completata nel 1553. Il rinvio è altamente significativo. Il trattato del Leonardi riflette i principii dell'ars fortificatoria di Francesco Maria della Rovere, i cui allacci con lo scientismo favorito dalla cerchia di Andrea Gritti sono stati acutamente messi in luce da Ennio Concina.8 Lo stesso Concina ha dimostrato — sulla base di puntuali riscontri — come fra il Vitruvio del Barbaro, il Libro di Leonardi e i Quattro libri palladiani esista uno stretto legame: la securitas — nelle concezioni di Francesco Maria e di Leonardi — è raggiungibile, da parte della Serenissima, esaltando la via speculativa, in stretta associazione con una decisa volontà politica e una specializzazione dei saperi. La riforma dell'ars fortificatoria preconizzata da della Rovere, dal Leonardi, dal Barbaro, è basata su un accentramento delle scelte in mano di specialisti: una riforma che aveva suscitato notevoli opposizioni contro Francesco Maria, e che, fino alla fine del secolo, rimarrà inattuata e ostacolata. b) La ristrutturazione del Cantiere di Stato, l' Arsenale: nel capitolo xII del libro v, Barbaro esalta il ruolo di Nicolò Zen nella ristrutturazione dell' Arsenale, ricordando, nella seconda edizione dell'opera, gli esperimenti svolti da lui stesso con macchine adibite al sollevamento di pesi eccezionali:9 abbiamo un'ulteriore indicazione relativa all'uso civile della tecnica sottoposta alla ratto umanistica. Né va sottovalutato che Nicolò Zen, proprio nel 1556, viene eletto provveditore della nuova magistratura dei Beni Inculti, oltre che provveditore al Cantiere di Stato. La modernizzazione dell'Arsenale costituiva un tema spinoso. Vettor Fausto aveva tentato di introdurre la nuova figura dell'architectus navalis, con una 'usanza nuova' parallela a quella poi sostenuta dal Palladio; ma il suo tentativo era stato accuratamente marginalizzato. Le irrazionalità e le contraddizioni che agitano le vicende dell'Arsenale per l'intero secolo XVI impediscono a Venezia di adeguare la propria produzione navale ai nuovi standard europei, accentuando la crisi delle mercature. L'empiria tradizionale viene contrapposta agli sforzi degli innovatori, in nome di una continuità diffidente nei confronti dell'accentramento dei poteri e della specializzazione dei saperi. Il patrizio che continuamente muta le proprie cariche è, per istituzione, un 'dilettante' in tutti 1 rami dello scibile; ogni riforma basata su livelli alti di razionalità e teoria minaccia un cardine della costituzione veneziana. I passi sull' Arsenale contenuti nel Vitruvio del 1556 e del 1567, per quanto celebrativi ed encomiastici, nascondono un motivo critico, dato l'accento posto sull'operato di uno dei riformatori più radicali del Cantiere di Stato. c) La preservazione della laguna: è un tema che appare nella seconda edizione dei commentari, e in modo singolare. Barbaro enumera tre elementi, il tempo, il mare e la terra, che sembrano congiurare insieme in una 'guerra' scatenata contro la realtà fisica della Venezia lagunare, "dico il mare, et la terra" egli scrive 5° "de i quali l'uno pare, che voglia cedere, et l'altra occupare il luogo di queste lagune". Torna il motivo della 'Natura' "talvolta nemica all'utilità de gli huomini", associato al motivo del 'tempo corruttore'. Diviene evidente il ruolo assegnato alla tecnica in questo delicato settore, al centro delle preoccupazioni veneziane da più di un secolo. La tecnica ha compiti di 'restauro' nella lotta contro le degenerazioni della corruttibile. 'Natura' provocate da 'Kronos'. Più che 'innovare', nell'assumere il comando della situazione idrogeologica, la tecnica deve ripristinare equilibri spezzati. Né ci sembra casuale che il passo sia stata aggiunto da Daniele Barbaro dopo la morte di Cristoforo Sabbadino, il geniale proto dei Savi ed Esecutori alle Acque che aveva combattuto con rara perizia contro gli interessi dei 'particulari', pericolosi per l'equilibrio lagunare. Sì legga come Barbaro affronta il tema: però con lo essercitare de gli ingegni, et de gli animi de i Senatori, in una grandissima impresa vuole, che'l mondo veda la grandezza dello stato loro, la prudenza de gli huomini, et l'amore di giovare alla patria dove sarà opera di speculatori della natura, et de i pratichi, investigare le cause della atterratione di queste lagune, come sogliono fare i medici, che prima considerano le cause delle infermità, et poi danno i rimedij opportuni: troveranno, che la terra usa i fiumi in questa usurpatione, che ella vuol fare, et da quelli si fa portare nelle acque salse: troveranno, che le acque salse di loro natura rodeno, e consumano le immonditie; troveranno, che più acqua salsa, che entra in questa laguna è meglio, perché uscendo con maggiore empito porta via poco terreno ... però moveranno quelli terreni, che già sono alquanto induriti ... drizzeranno i canali, et i corsi delle acque, impediranno la mescolanza delle dolci con le salate, faranno de gli argini, et non lascieranno molto spacio. oltra quelli arare, et movere i terreni. et finalmente condurranno quanto più da lontano si può i fiumi...57 In tale passo — mantenuto nell'edizione latina, anche se abbreviato — è il riassunto dei grandi temi al centro della polemica fra Cristoforo Sabbadino e Alvise Cornaro: fra le tesi che privilegiano lo 'Stato da Mar”, con un attacco all'operato anarchico dei privati nell'entroterra, e quelle che adottano l'ottica dei bonificatori, difendendo il primato dello 'Stato da Terra'. Barbaro sembra adottare un'ipotesi mediatrice. Il suo obiettivo è mettere a fuoco la necessità di Scelte e di interventi guidati da una tecnica solidamente fondata. Non aveva egli Stesso incluso nei compiti della res aedificatoria la trasformazione e la cura dell'assetto territoriale? Non è difficile decifrare, dietro le sue parole, la preoccupazione derivante dall'assistere a interventi condizionati da incertezze, frammentarietà, rimandi indefiniti, compromessi dovuti al premere degli interessi privati. La ratio invocata anche in questo settore è, una volta di più, espressione critica nei confronti di politiche da riformare radicalmente. d) La 'forma urbis' e il costume edilizio veneziano: è questo il tema su cui la sostanza programmatica dei commentari è più esplicita, esprimendosi con toni privi di ambiguità o reticenze. La polemica esplode, con insolita violenza, nel finale del capitolo x del libro VI. Dopo aver annunciato "un libro delle case private, composto, et dissegnato dal Palladio",°° Daniele auspica un vero e proprio 'ravvedimento' della committenza veneziana, legata a un costume fatto di 'errori'. Et se o posso pregare — egli scrive — prego e riprego specialmente quelli della patria mia, che si ricordino, che non mancando loro le ricchezze, et 11 poter fare cose honorate, voglino ancho provedere, che non si desideri in essi l'ingegno, et il sapere, il che faranno, quando si persuaderanno di non sapere quello, che veramente non sanno, né possono sapere senza pratica, e fatica, e scienza. Et se gli pare che l'usanza delle loro fabriche gli debbia esser maestra, s'ingannano grandemente, perché in fatti, è troppo vitiosa, et mala usanza, et sì pure vogliono concieder all'uso alcuna cosa, il che anch'io conciedo, di gratia siano contenti di lasciar moderare quell'uso da chi sì ne intende, perché molto bene con pratica, et ragione si può acconciare una cosa, e temperarla in modo, che levatole il male, ella si riduca ad una forma ragionevole, e tolerabile con avantaggio dell'uso, della commodità, et della bellezza...' La critica investe, esplicitamente, la tipologia della casa patrizia: vale a dire, uno dei fondamenti dell'autoidentificazione del patriziato come garante della 'libertà' repubblicana. La mitica 'legge Daula' aveva fino ad allora funto da regolatrice di un costume edilizio preservato gelosamente come signum individuationis dell'unità del ceto dirigente e della 'sacra immagine' della città lagunare. È esattamente tale tradizione, indipendente dai linguaggi — bizantino, gotico, protoumanistico — su di essa depositati, che Barbaro pone sotto accusa. Il supporto formale della continuità politica della Repubblica è definito addirittura "vitiosa e mala usanza". Il Barbaro ribadisce poco oltre, nel capitolo x1 dello stesso libro VI, l''errore' in cui i Veneziani sono confitti, dopo aver condannato alcune incongruenze costruttive: Di questi errori e danni molti ne sono nella città nostra, nella quale a me pare che gli huomini per hora deono più presto esser avvertiti, che non incorrino ne gli errori, che ammaestrati, che facciano belli, et ragionevoli edifici. benché esser non può, che non fabrichino senza errore, quando non fabricheranno con ragione... Il patriarca eletto di Aquileia si propone un severo compito pedagogico nei confronti dei suoi compatrioti. La ricostruzione della domus antica assume un senso particolare: il Barbaro invita ad abbandonare quanto vi è di più specifico nella facies edilizia lagunare, per affidarsi alla 'sapienza' del 'vero architetto'. La lingua universale dell'antico è contrapposta al 'dialetto' veneziano: ve n'era abbastanza perché il 'latino' propugnato dal Barbaro ed esemplificato dalle architetture del Palladio fosse letto dal patriziato antiromanista come una sfrontata provocazione. | Nell'esaltare Palladio come architetto civile, il Barbaro non fa che ribadire la sua concezione dell'architettura come "virtù Heroica". Non è certo Palladio il tecnico adeguato a dare concretezza a piani di fortificazione urbana o territoriale, né ha le competenze necessarie a intervenire nei cicli produttivi dell' Arsenale o nel problema della dinamica lagunare. L''usanza nuova', come la chiamerà Palladio, presuppone infatti un'alta specializzazione del sapere. Lo stesso Cristoforo Sabbadino aveva difeso strenuamente la propria disciplina dal dilettantismo — nel campo dell'idraulica — di architetti e di "inzegneri":®' l'architettura di Palladio è coerente con tutta una tendenza che va configurando 'saperi speciali' e che respinge i proti tradizionali verso ambiti esecutivi e collaterali, dominati dall'episteme posseduta dallo 'scienziato'. Barbaro opera attivamente nell'introdurre il Palladio a Venezia. Nel gennaio 1558 (m.v.), insieme al fratello Marcantonio, Daniele appare come garante, presso il patriarca di Venezia Vincenzo Diedo, dell'opera di Palladio per la facciata (rimasta ineseguita) della chiesa di San Pietro di Castello. Si tratta del primo importante incarico lagunare affidato all'architetto, e non a caso per una chiesa simbolo della sgradita presenza nella laguna di un emissario della curia romana. Vincenzo Diedo sarà attaccato duramente in senato, nel 1559, da Giovanni di Bernardo Donà, per non aver pagato 2000 ducati di tasse e per la sua vita fastosa, con epiteti come "hippocrito" e "lupo rapace". Il che conferma l'ambito 'romanista' dei committenti e degli amici veneziani del Palladio, che opererà per il convento dei Canonici Lateranensi della Carità e per la facciata di San Francesco della Vigna, grazie alla più che probabile mediazione del Barbaro. Ed è ben noto il sostegno che il maestro riceverà da Marcantonio Barbaro dopo la morte di Daniele (1570). È dunque poco credibile l'ipotesi relativa a un raffreddamento del Barbaro nei confronti del Palladio a causa di dissensi sorti durante la fabbrica della villa di Maser. Palladio figura sia nel 1560 che nel 1563 come testimone ad atti di procura stipulati dal Barbaro nel palazzo di San Vidal, e nel testamento del patriarca eletto di Aquileia è ricordato come "nostro amorevole", con un lascito di 15 ducati.* Piuttosto, è significativo che né i Barbaro, né Jacopo Contarini,° 65 né Giovanni Grimani, né Domenico Bollani usino il Palladio per clamorosi rinnovamenti dei loro palazzi famigliari. Si potrebbe vedere in ciò una contraddizione rispetto alle parole del Barbaro che sottolineano il valore particolare del maestro nel campo dell'edilizia residenziale. Si tratta, invece, di un'oculata politica culturale. Palladio è utilizzato dalla committenza partecipe del programma del Barbaro in due modi: è chiamato a dar forma aulica, nell'entroterra, alla nuova ideologia della "Santa Agricoltura"; è designato, a Venezia, a dar forma ai luoghi sacri in Quanto 'siti pubblici'. Ma si badi: Palladio non viene mai assunto ufficialmente come funzionario pubblico a Venezia e le difficoltà da lui incontrate nelle vicende del Redentore, di Palazzo Ducale e forse in quelle di Rialto parlano esplicitamente delle resistenze che si oppongono al programma del Barbaro. Malgrado quanto si è fantasticato impropriamente circa un Palladio 'proto della Serenissima' — carica, peraltro, inesistente -, Andrea di Pietro della Gondola non ricopre a Venezia il ruolo già assegnato a Jacopo Sansovino. I successori di Jacopo come proti della Procuratia de Supra sono Giacomo Spavento e, dal 1572, Simon Sorella. Forse, gli insuccessi palladiani ai concorsi pubblici del 1554 e del 1555 non sono stati senza influenze sulla tattica individuata dal Barbaro per introdurre a Venezia la 'vera architettura': una tattica che rinuncia a un inserimento istituzionale dell'architetto, con la conseguenza di farne una figura appoggiata dalle forze 'papaliste'. Tuttavia, quest'ultima è soltanto una conseguenza. Palladio è, per Barbaro, la personificazione della sintesi di scientia e phronesis invocata per strappare Venezia dal culto delle proprie tradizioni. Inoltre, Palladio prefigura un nuovo professionista: un artista che oppone alla fallace doxa un sistema di verità fondato su 'principil'. In parte utopico, il programma del Barbaro. Egli sottovalutava il costo che uno strappo dalle tradizioni avrebbe reso inevitabile per una Venezia arroccata in un mito compensatorio, dopo lo choc della pace di Bologna e la frustrante constatazione del ruolo secondario rivestito all'interno del nuovo assetto europeo. Senza contare che la 'specificità' di Venezia veniva difesa da chi s1 proponeva, spezzando l'egemonia dei Primi, di limitare il potere del Consiglio dei Dieci, rilanciando la vocazione mercantile della Serenissima e aprendosi all'Europa sulla base di una ritrovata autonomia dello Stato.® Il conflitto culturale e politico che agita la Venezia del XVI secolo assume toni tragici, specie considerando il suo esito. Al proposito, va notato che, con i quattro settori di intervento sopra elencati, Barbaro individua temi sui quali il dibattito veneziano permarrà scottante fino alla fine del secolo. Le polemiche relative a Palmanova, le contraddizioni e le crisi che agitano l'Arsenale, il modo in cui vengono recepite le indicazioni offerte dal piano del Sabbadino del 1557, gli accesi dibattiti degli anni '80 sui cantieri di Rialto, delle Procuratie Nuove, delle chiese della Celestia e di San Nicolò da Tolentino, provano l'esistenza di tendenze ben delineate, che rendono conflittuali le decisioni proprio in merito al temi indicati dal Barbaro come i soggetti specifici della res aedificatoria.® La nuova ratio, che il Barbaro vorrebbe pienamente dispiegata nelle strutture portanti della Serenissima, è tutt'altro che mentale. Essa, tuttavia, non fa i conti con le leggi che guidano le scelte della Repubblica: il paradigma scientista sembra richiedere decisionalità concepibili soltanto in uno Stato assoluto. Siamo ora in grado di rispondere al nostro quesito iniziale. Erano nel giusto sia Bernardo Tasso che Sperone Speroni e Paolo Paruta. In Barbaro è viva l'esigenza di un'azione guidata da teoria: di vita activa fondata solidamente su vita contemplativa, dando a tale ultima un'interpretazione sia civile che religiosa. É non è certo estranea alla mentalità che Daniele Barbaro tenta di introdurre e consolidare a Venezia l'espressione che Giovan Francesco Sagredo userà in una lettera a Galileo dell'agosto 1611; invocando uno "stromento" capace di distinguere "l'architetto intelligente da un proto ostinato e ignorante". Esiste un ulteriore spunto polemico nei commentari. Si tratta di un tema che investe i costumi religiosi e l'atteggiamento patrizio nei confronti della morte e della fama terrena. L'intero commento del capitolo virt del libro IV è dedicato all'edilizia ecclesiastica. Daniele ricorda la norma che vuole gli altari rivolti ad oriente, aggiungendo: "se stiano meglio, più altari, o d'un solo lo lascio decidere ad altri".?° Dopo aver consigliato di disporre le sagrestie accanto al coro, "in quelle parti dove anticamente ne i Tempi era il postico", egli dà consigli per i campanili e parla infine dei cimiteri posti sul retro delle chiese: Hanno dietro la Chiesa il Cimitero, dove si sepeliscono i corpi, luogo Sacro, imperoché la bene ordinata nostra Religione ha voluto haver cura del sepelire i corpi, essendo i corpi humani stati vasi dello spirito Santo ... Ma Dio voglia, che a nostri Tempi non si facciano simili uffici) più presto a pompa de' vivi, che a pietà, e consolatione de i morti. Non è lodevole, che i monumenti, o sepulture siano nelle Chiese, pure egli si usa a grandezza nelle capelle a questo con pregio appropiate, et in luoghi eminenti si pongono più alte de i Sacri Altari, et stappongono le memorie, 1 titoli gli Epigrammi, i Trofei, e le insegne de gli antipassati, dove le vere effigie di bellissime, et finissime pietre si vedono, et i gloriosi gesti in lettere d'oro intagliati si leggono cose da esser poste più presto nel Foro, et nella piazza, che nella Chiesa, et solamente de gli huomini illustri, et di quelli le opere virtuose de i quali, esser possono di memorabile, et imitabile essempio a i Cittadini.” La polemica contro gli sfarzosi monumenti tombali all'interno delle chiese ha un significato particolare a Venezia, ricordando il proliferare, nelle chiese lagunari, degli apparati monumentali chiamati ad assicurare la fama terrena di patrizi e condottieri della Repubblica. Con un processo già avviato nel XV secolo, con i monumenti di Antonio Rizzo, Pietro e Tullio Lombardo, Lorenzo Bregno e Giovanni Buora, chiese come quelle dei Frari o dei Santi-Giovanni e Paolo si erano andate trasformando in veri e propri Pantheon di dogi, eroi militari, benemeriti della Repubblica. La critica del Barbaro ha un precedente nelle Constitutiones del vescovo Giberti per Verona (1542), e sarebbe scorretto leggervi semplicemente un atteggiamento pretridentino. Il tono è piuttosto erasmiano, e non è escluso che agissero sul Barbaro residui di temi agitati dal pensiero evangelico. Atteggiamenti congruenti con quelli espressi dal patriarca eletto di Aquileia hanno precedenti in scelte di patrizi veneziani a lui vicini. Marco Grimani — fratello del cardinale Marino, di Vettore e di Giovanni, patriarca di Aquileia — ordina la propria sepoltura in uno dei chiostri della chiesa di Sant'Antonio di Castello, aggiungendo: "né per via nessuna voglio esser sepolto in chiesa, perché né a me, né ad altri si conviene seppellire l'ossa de peccatori et massime le mie in luoghi simili, né voglio gli sia altare né si ne facci, acciò non si celebrasse in alcun tempo dove riposassero l'ossa d'un peccatore".'? Ancor più significativa è la volontà dello stesso Daniele Barbaro, che ordina di venire sepolto nel cimitero del convento francescano di San Francesco della Vigna — il 4 gennaio 1561 egli era stato nominato "defensor et conservator omnium privilegiorum Seraphici Ordinis et Religionis Sancti Francisci de Observantia" — invece che nella tomba di famiglia. Per far rispettare la volontà del Barbaro dovrà intervenire Pio IV, contro la Signoria che avrebbe voluto onorare la memoria di Daniele in modo più eloquente: "et così fo sepulto in Campo Santo per mezo l'organo, con un monte de terra alto, et per reverentia, acciò se cognoscesse dove era sepulto".?* L'umiltà evengelica è contrapposta all'appropriazione dei luoghi sacri da parte di cittadini e patrizi spinti da un profano esibizionismo, che non esita ad investire le facciate stesse delle chiese. Ancora una volta, il Barbaro appare fautore di una renovatio conforme allo spirito dei riformisti cattolici, anche per la combinazione di evangelismo e aristocraticità che lo ispira. Rimane da valutare il ruolo svolto dai commentari all'interno del dibattito scientifico cinquecentesco. A tale scopo è utile esaminare il testo in margine al libro IX di Vitruvio, da cui emerge un interesse specifico dell'autore, che si impegna con particolare applicazione allo studio della gnomonica. È di Vitruvio la definizione della gnomonica come "seconda parte dell'architettura", e certo il Barbaro ha colto il contributo originale offerto dallo scrittore antico con l'enunciazione teorica dell''analemma', vale a dire - semplificando — del metodo di proiezione del moto del sole sul piano del meridiano.' Il valore della gnomonica è precisato dallo stesso Barbaro, scrivendo che grazie ad essa "si vede gli effetti, che fanno i lucenti corpi del Cielo con i raggi loro nel mondo": ne deriva la possibilità di trascendere la condizione mondana, per contemplare la divinità del cielo.? C°è qualcosa di particolare nella dedizione del Barbaro a tali studi. Il modello supremo cui attinge la res aedificatoria nel suo tentativo di imporre consonantia al reale — l'armonia universale — è reso rappresentabile, sottoposto a regole di costruzione geometrica, captato dal soggetto che riduce a immagine gli enti, tramite la tecnica di costruzione dell'analemma. È poiché l'analemma stesso è al fondamento della realizzazione degli gnomoni, quell'imago della "gran macchina" dell'universo capta lo scorrere del tempo universale riducendolo a successione numerica, a diacronia calcolabile. La gnomonica legittima la concezione 'sferica' che fa dell'architectura un'immagine del vero universale: in essa, 'rappresentare' e 'costruire' coincidono, in una virtuosa geometrizzazione proiettiva del 'libro dell'universo'. L'impegno di Barbaro è al proposito testimoniato dal manoscritto inedito De horologiis describendis libellus,° che sembra formato da appunti per la redazione dei commenti al libro IX vitruviano, ma anche per la rielaborazione del testo in occasione dell'edizione del 1567. Era infatti accaduto qualcosa, nel frattempo, e di non poca importanza. Nel 1562, Federico Commandino aveva pubblicato, con dedica al cardinale Ranuccio Farnese e con un impegnativo commento, il libro di Tolomeo sull'analemma: un'opera scritta prima dell'Almagesto e in cui Tolomeo - un secolo circa dopo il testo di Vitruvio — aveva posto le basi della trigonometria sferica.” Commandino aveva unito a quell'opera un Liber de Horologiorum, dove aveva affrontato il tema - non esplicitato da Tolomeo dell'applicazione dell'analemma ai quadranti solari. Barbaro recepisce immediatamente l'importanza dell'opera e se ne serve nella rielaborazione del commento al libro IX, rendendo omaggio sia al Commandino che a Francesco Maurolico per i loro apporti innovatori.” Di nuovo, si potrebbe osservare, un'operazione di aggiornamento culturale, non una ricerca originale. Barbaro non ha certo fondato nuovi metodi di indagine e l'orizzonte epistemologico cui si riferisce è tradizionale, anche se la coloritura platonica della filosofia aristotelica lo conduce a risultati non trascurabili. E anche nel campo delle scelte formali il suo gusto non appare del tutto coerente, almeno a giudicare dalle due opere in cul egli sembra implicato, il palazzo del giurista Camillo Trevisan - membro dell' Accademia Veneziana — e la villa di Maser. Ma l'opera del patriarca eletto di Aquileia va considerata sotto altra luce: come 'programma' relativo alla diffusione di nuovi atteggiamenti mentali, in sintonia con gli apporti delle nuove scoperte scientifiche. Il continuo aggiornamento e le fitte relazioni intessute da Daniele con il mondo scientifico italiano sono rivelatori al proposito. Da quanto emerge dagli epistolari, dai manoscritti, dalle opere a stampa, è possibile parlare di un vero e proprio ambiente scientista che lega fra loro Barbaro, Nicolò Zen, Matteo Macigni, Giuseppe Moleto, Francesco Barozzi, Jacopo Contarini, Gian Vincenzo Pinelli, proiettandosi nel tempo verso esiti niente affatto scontati. Matteo Macigni e Giuseppe Moleto, anzitutto. Al primo, collega di Barbaro negli anni di studio patavini, Daniele dedicherà la Pratica della perspettiva.”? Il secondo — in amicizia con Nicolò Zen, Jacopo Contarini e Pinelli — è il predecessore di Galileo alla cattedra dell'Università di Padova, autore di una notevole quantità di manoscritti dedicati all'uso civile e militare delle matematiche, già membro dell'Accademia della Fama e inquisito, nel 1562, dal Tribunale del Sant'Uffizio. Moleto - allievo di Francesco Maurolico e autore di un Discorso universale pubblicato in appendice alla Geografia di Tolomeo edita nel 1561 — collabora con Matteo Macigni per il De corrigendo ecclesiastico calendario, pubblicato a Venezia. Una collaborazione non priva di tensioni, tuttavia, per un'opera che lo stesso Moleto — da quanto si arguisce da alcune lettere a Gian Vincenzo Pinelli do gludica innovativa, tanto da temere le reazioni del pubblico. Da notare, al proposito, che, per l'elaborazione delle Tabulae Gregorianae contenute nel volume, Moleto sì basa sui sistemi di calcolo introdotti da Copernico, ma modifica il sistema di quest'ultimo, facendo riassumere alla terra, prudenzialmente, il ruolo di centro fisso. Gli scritti del Barbaro e di Gioseffo Zarlino vengono spesso citati nelle opere del Moleto, che — come s'è detto — sarà in relazione con Jacopo Contarini: un patrizio che seguirà le tracce del patriarca eletto di Aquileia nella Venezia del secondo Cinquecento.®' Non mancano tuttavia critiche rivolte dal Contarini al Moleto, che appare estraneo al culto della teoria privilegiato dal Barbaro. Tracce di una nuova epistemologia sono invece rinvenibili in Francesco Barozzi, uno dei più interessanti matematici del XVI secolo, nativo di Candia, studioso di testi greci — principalmente Proclo, Pappo ed Erone bizantino —, amico di Ulisse Aldovrandi, di Federico Commandino, di Jacopo Contarini, di Gabriele Paleotti, del Moleto e, più tardi, di Paolo Sarpi. Barozzi pubblica nel 1560 un Opusculum, che comprende due Quaestiones relative all'applicazione delle matematiche alla conoscenza della natura.* L'Opusculum — si noti - è dedicato a Daniele Barbaro, il quale, di rimando, invierà a Francesco Barozzi la seconda edizione del suo Vitruvio, pregando l'amico di segnalargli sviste ed errori; il matematico risponderà con entusiastiche parole di encomio.* Più tardi, Barozzi citerà senza commento la gnomonica del Barbaro, nella prefazione della sua Cosmographia, dopo riconoscimenti a Commandino e a Guidobaldo del Monte e un attacco a Copernico, "il qual segue la falsa opinione di Aristarcho".* L'anticopernicanesimo non impedisce tuttavia al Barozzi di raggiungere risultati degni di nota. L'interesse per Pappo Alessandrino non è dovuto soltanto all'esposizione del metodo analitico di Archimede, ma anche alla trattazione del problema del centro di gravità, fondamentale — come osserverà lo stesso Barozzi ® — per la costruzione delle macchine di uso civile e militare. La machinatio, ancora legata, nella prima metà del XVI secolo, ai modelli del Taccola e di Francesco di Giorgio, passa così a una nuova fase. Non a caso, Guidobaldo del Monte rende omaggio a Pappo nel Mechanicorum liber. Per il Barozzi la verità delle matematiche è fondata metafisicamente. Ciò appare esplicito nel Commentarium in locum Platonis obscurissimum, dedicato, nel 1566, a Gabriele Paleotti, mentre nel suo commento a Proclo egli riconosce un'essenza matematica all'anima umana. Nel suo pensiero si fa strada l'idea di una logica matematica dotata di autonomia rispetto alla logica aristotelica. Il che è evidente nella polemica sostenuta contro le tesi di Alessandro Piccolomini, che nel Commentarium de certitudine mathematicarum disciplinarum (1547) aveva escluso che le matematiche potessero dischiudere l'accesso alla conoscenza del mondo sensibile. La certitudo della matematica, dunque, veniva fatta dipendere unicamente dall'astrattezza dei suoi oggetti. L'autonomia acquisita nei confronti della sillogistica veniva pagata da una perdita di 'potenza' logica. Esattamente contro tale concezione reagisce il Barozzi, affermando l'inerenza della certitudo al rigore delle dimostrazioni matematiche e soprattutto riconoscendo agli oggetti matematici — nel De medietate, compreso anch'esso nell'Opusculum dedicato al Barbaro — una posizione intermedia fra enti divini ed enti naturali. In definitiva, nella concezione di Francesco Barozzi gli strumenti matematici divengono attrezzature logiche capaci di permettere la decifrazione del 'gran libro dell'universo”, formando l'humus per la rifondazione metodologica operata da Galileo. E assai significativo che Daniele Barbaro, dopo aver preso visione di tali opere del Barozzi, scriva all'amico parole di incondizionata adesione all'attacco sferrato contro le tesi di Alessandro Piccolomini. L'aristotelismo del patriarca eletto di Aquileia è tutt'altro che dogmatico e l'apertura verso le teorie del Barozzi rientra nel programma esplicitato nei commentari. La mentalità nuova auspicata dal Barbaro si specifica, dunque, e si ramifica, trovando punti di coagulo e di scambio nel circolo pinelliano a Padova e nell'azione di Jacopo Contarini a Venezia: principalmente al di fuori dello Studio patavino si consolida il clima scientista sotto il cui segno Daniele aveva iniziato lo studio di Vitruvio. Le meccaniche, la nautica, l'architettura militare sono privilegiate da Jacopo Contarini, che è in stretta relazione con Guidobaldo del Monte e Francesco Barozzi, ma anche con un innovatore nel settore della scienza delle fortificazioni come Giulio Savorgnan, e che sarà tra i fautori dell'assegnazione a Galileo della cattedra patavina. Né è certo un caso se il Contarini - mostrandosi fedele alla linea culturale battuta da Daniele e Marcantonio Barbaro — proteggerà prima il Palladio, poi Vincenzo Scamozzi, nelle loro attività veneziane. Con il Contarini ci troviamo in una Venezia diversa da quella vissuta dal Barbaro: principalmente, in.una diversa storia, in cui molti dei nodi politici prima lasciati sommersi vengono al pettine, condizionando le vicende delle arti e della cultura scientifica. Al di là di tale considerazione, rimane la vicenda paradossale del paradigma epistemologico cui il Barbaro, come tanta parte della cultura rinascimentale, mostra di aderire. Fondato in modo 'forte', quel paradigma assumeva l'unicità del vero come proprio obiettivo, tentando una fusione di ragione metastorica e di ragione storica. Sottratta al divemre, la verità era anche sottratta a ogni discorrere, rimanendo ambiguamente sospesa fra l'ermeneutica e una conferma per via erudita di immutabili presupposti. Eppure, il reticolo matematico, che per via platonico-aristotelica veniva steso sul mondo, era frutto di un soggetto interpretante dotato di inedita volontà di potenza. Il fatto che si tratti di un'interpretazione che non si sappia tale, che ignori la necessità o il bisogno di autointerpretarsi, nulla toglie alle sue caratteristiche precipue. Piutto sto, l'obbligato calarsi nella storicità di quel paradigma, che si voleva al di sopra della storia, produce un paradosso: man mano che l'alleanza fra matematica, meccanica e fisica si concreta in risultati apprezzabili, il paradigma che aveva sorretto la nuova ragione si incrina o viene compromesso. La stessa idea portante dei commentari — la trasparenza del bene da un 'bello' calcolabile e legittimato per via metafisica — è esposta a critica implicita alla fine del XVI secolo, durante i dibattiti relativi al ponte di Rialto e alla nuova forma di piazza San Marco. E in entrambe le occasioni è il fratello di Daniele, Marcantonio Barbaro, a difendere l''usanza nuova' contro le opinioni di Alvise Zorzi di Benetto, di Alberto Badoer, di Andrea Dolfin e di Leonardo Donà.® Nello stesso tempo, anche la "virtù Heroica" attribuita all'architettura inizia a perdere la sua vis polemica. Fra la fine del XVI secolo e gli inizi del XVII, una nuova generazione di proti — dai Contini, a Simon Sorella, a Francesco Smeraldi — inizia ad assimilare la sintassi 'alta' cul figure come Scarpagnino o Antonio da Ponte avevano voltato le spalle. Si tratta di un'assimilazione di tipo convenzionale, certo, ma che denota un mutamento di costume che avviene in assenza di consapevolezze teoriche, malgrado l'enciclopedica /dea scamozziana. Neanche 1 tentativi di ridefinizione dei vari saperi speciali compiuti a Venezia tra la fine del Cinquecento e gli inizi del secolo successivo sembrano interessati a fissare nuovi paradigmi epistemologici: non ci riferiamo qui a Galileo, quanto agli studi idraulici di Alessandro Zorzi e di Marco Antonio Cornaro, o alle sperimentazioni di Giulio Savorgnan.* In definitiva, il paradigma metafisico sembra aver fondato una piattaforma provvisoria, instabile a dispetto della sua natura, con effetti acceleratori sui singoli saperi speciali. In tal senso, le critiche di Gianni Micheli al processo di formazione delle nuove scienze nell'Italia del Rinascimento mantengono un significato.” Al di là di una lettura finalistica dei fenomeni storici, rimane da considerare iuxta propria principia lo sforzo teorico di cui il Barbaro non è che un portavoce: la fondazione di un universo che legittimi la sua propria calcolabilità invocando la metafisicità dell'erdos. Un tentativo di sintesi precario, va ribadito, ma che segna un crinale con cui le antinomie del 'moderno' hanno ancora a che fare. Manfredo Tafuri ## NOTE Abbreviazioni: ASV = Archivio di Stato di Venezia. BAM = Biblioteca Ambrosiana, Milano. BMC = Biblioteca del Museo Correr, Venezia. BMV = Biblioteca Nazionale Marciana, Venezia. 1. B. TASSO, Amadigi, Venezia 1560 (ma citiamo dall'ed. 1581), canto C, pp. 721-2. 2. Cfr. s. SPERONI, Della vita attiva e contemplativa, in Opere di M. Sperone Speroni, Venezia 1740, tomo II, pp. 1-2: "mosso dalle ragioni et autorità d'Aristotile, io vi lodava i filosofi; i quali ... allontanati dal vulgo ed in se stessi raccolti, altro quasi non sanno, che specular tuttavia con molto studio, e contemplare intentamente la cagion delle cose: ma allo 'ncontro mi si faceva quel vostro ingegno divino [Speroni si rivolge sempre a Daniele Barbaro], uso da' primi anni a spiare felicemente i secreti della natura e di Dio. Il quale ingegno oltre la sua prontezza Natia, acceso oltre modo del buono amore che voi portate alla vostra patria, solo ricetto dell'onore e libertà italiana, toglieva al cielo con somme lodi quei virtuosi, i quali vivono umanamente, cose operando, con le quali mentre onorano se medesimi, giovino altrui, e qua e là travagliando pongano in pace 1 loro cittadini". Cfr. inoltre P. PARUTA, Della perfettione della vita politica, Venezia 1579. In tale dialogo, Francesco Molin, nipote del Barbaro, si rivolge all'ambasciatore Michele Surian, sollecitandolo a dimostrare "che la vera felicità umana da noi conseguir si possa, non nelle solitudini vivendo né dando opera alle speculationi; ma ben usando nelle Città, e in esse virtuosamente operando; la qual maniera di vita voi, con nome assai conveniente, Politica chiamar solete. E tanto più ci sarà questo caro d'intendere partitamente — continua Molin — quanto mi pare che un tal conclusione molto nuova sia, e molto da quella diversa che i nostri maestri di filosofia nello Studio di Padova difender sogliono". (/bidem, p. 22). Su tali argomenti e sulle amicizie giovanili di Daniele Barbaro, che Tequenta, fra l'altro, il circolo esclusivo di Pier Francesco Contarini, cfr. P.J. LAVEN, Daniele Barbaro, Patriarch Elect of Aquileia, with Special Reference to his Circle of Scholars and to his Literary Achievement, Thesis for Ph.D., University of London, 1957, vol. 1, pp. 47 sgg., 164 sgg. Su Daniele Barbaro, cfr. la bibliografia citata in M. TAFURI, Venezia e il Rinascimento, Torino 1985), 1986°, pp. 180-1 nota 92, cui vanno aggiunti i saggi di G. SANTINELLO, Filosofia e architettura in Daniele Barbaro patrizio veneto, in "Quaderni della Biblioteca Filosofica di Torino", Torino s.d. [1981]; V. FONTANA, /l 'Vitruvio' del 1556: Barbaro, Palladio, Marcolini, in AA.VV. Trattati scientifici nel Veneto fra il XV e il XVI secolo, Vicenza 1985, pp. 39-72; H.-W. KRUFT, Geschichte der Architekturtheorie, Minchen 1986, pp. 95-7. Cfr. anche l'ottimo saggio di P.N. PAGLIARA, Vitruvio da testo a canone, in AA.VV., Memoria dell'antico nell'arte italiana, a cura di S. Settis, 11, Dalla tradizione al'archeologia, Torino 1986, pp. 5-85, e la tesi di laurea inedita di M. LOSITO, Il JX tbro dei Commentari vitruviani di Daniele Barbaro, Istituto Univ. di Arch. di Venezia, Dipartimento di Storia, luglio 1986, relatore M. Tafuri. Su Daniele Barbaro storiografo della Repubblica, cfr. G. COZZI, Cultura politica e religione nella “pubblica storiografia' veneziana del '500, in "Bollettino dell'Istituto di Storia della Società e dello Stato Veneziano", v-vI (1963-64), pp. 215-94. 3. Su tali temi cfr. G. COZZI, Il doge Nicolò Contarini. Ricerche sul patriziato veneziano agli inizi del ficento, Venezia-Roma 1958; W.J. BOUWSMA, Venice and the Defense of Republican Liberty. Renaissance Values in the Age of Counter-Reformation, Berkeley-Los Angeles 1968, trad. it. Bologna 1977; P.F. GRENDLER, The Roman Inquisition and the Venetian Press, 1540-1605, Princeton, NJ. 1977, trad. it. Roma 1983 (ma vedi anche la recensione di G. COZZI, Books and Society, in "Journal of Modern History", 1979, n. 51, pp. 86-98); R. FINLAY, Politics in Renaissance Venice, ew Brunswick 1980, trad. it. Milano 1982; G. COZZI, Repubblica di Venezia e stati italiani, Torino 1982; M. TAFURI, Venezia e il Rinascimento cit. Sulle origini del 'papalismo' a Venezia cfr. il fondamentale volume di G. COZZI e M. KNAPTON, Storia della Repubblica di Venezia. Dalla guerra di Chioggia alla riconquista della Terraferma, Torino 1986. 4. Cfr. al proposito M. AZZI VISENTINI, L'orto botanico di Padova e il giardino del Rinascimento, Milano 1984. 5. Azzi Visentini tende invece a sottovalutare le qualità professionali di Andrea Moroni, senza l'appoggio di verifiche circostanziate. Cfr. L'orto botanico cit., pp. 149-54. Nulla dimostra inoltre che Daniele Barbaro possegga, già nel 1545, competenze architettoniche. Il Barbaro si trova, nel 1548, a giudicare, come Provveditor di Comun, insieme a Zuan Mauro da Molin e Antonio Bernardo, una supplica di Alberto Moroni di Albino — probabilmente un parente di Andrea Moroni - per il brevetto di un "artificioso instrumento de filar con doi fusi et torzer ... di molto benefficio all'università et maxime al lanificio in questa Città nostra..." (ASV, Senato Terra, filza 7, 19 giugno 1548). Anche Andrea Moroni è fecondo nel campo della machinatio: è noto il privilegio concessogli dal senato, il 23 luglio 1545, per un artificio "con il qual facilmente si alzano, et bassano le saracinesche di Padova". In una lettera inedita inviata dai Rettori di Padova al senato, il 17 settembre 1544, è citato un "modello" del Moroni "che si può trasportar da loco a loco, molto bene inteso et facile per il levar et bassar le ditte saracinesche" (ASV, Senato Terra, filza 1, 17 settembre 1544). Egli appare particolarmente esperto di problemi idraulici, dato che è invitato a studiare la cronica questione della rosta di Limena: vedi la sua relazione, anch'essa inedita, in cui constata "la rovina de arzeni che se sta cavati da li brentani chi fu in questi zorni passati" e predice disastri futuri qualora non si prendano immediati provvedimenti (ASV, Senato Terra, filza 23, lettera di Andrea Moroni del 25 febbraio 1556). 6. I dieci libri dell'architettura di M. Vitruvio tradutti et commentati da monsignor Barbaro eletto patriarca d' Aquileggia, in Vinegia, per Francesco Marcolini, 1556, p. 274 (d'ora in avanti citati con la sola data di pubblicazione, la pagina, e dopo una virgola il rigo). Il privilegio di stampa per la prima edizione, richiesto da Francesco Marcolini, viene concesso il 30 giugno 1556 (ASV, Senato Terra, filza 23, alla data, e reg. 40, c. 120r-v). Il privilegio di stampa per la seconda edizione è concesso a Francesco Senese il 10 maggio 1567 (ibidem, filza 49, alla data, e reg. 46, c. 1317). Sulle variazioni contenute nella seconda edizione, si veda lo studio di Manuela Morresi, in questo stesso volume. 7. Cfr. W. STEDMAN SHEARD, The Tomb of Doge Andrea Vendramin in Venice by Tullio Lombardo, Ph. D., Yale University, 1971, University Microfilms, Ann Arbor, Mich., vol. I, in particolare alle pp. 91-2. Vedi anche s. ROMANO, 7ullto Lombardo, il monumento al doge Andrea Vendramin, Venezia 1985. 8. Cfr. c. GRAYSON, Un codice del De re aedificatoria posseduto da Bernardo Bembo, in AA.VV., Studi letterari, Miscellanea in onore di Emilio Santini, Padova 1956, pp. 181-8; ID., Alberti, Poliziano e Bernardo Bembo, in AA.VV., Il Poliziano e il suo tempo, Atti del IV Convegno Internazionale di Studi sul Rinascimento (Firenze 1954), Firenze 1957, pp. 111-7. Cfr. inoltre N. GIANNETTO, Bernardo Bembo umanista e politico veneziano, Firenze 1985, pp. 301-3, 328-9, e passim. Su alcuni aspetti delle élites umanistiche patrizie, nella Venezia del Quattrocento, cfr. F. GILBERT, 'Humanism in Venice, in AA.VV., Florence and Venice: Comparisons and Relations, I. Quattrocento, Firenze 1979, pp. 13-26. 9. S. SERLIO, Regole generali di architettura, Venezia 1537, f. 3r; ID., Il terzo libro di Sebastiano Serlio Bolognese, Venezia 1540, p. 155. 10. Cfr. E. CONCINA, Fra Oriente e Occidente: gli Zen, un palazzo e il mito di Trebisonda, in AA.VV., 'Renovatio urbis”. Venezia nell'età di Andrea Gritti (1523-1538), a cura di M. Tafuri, Roma 1984, pp. 265 sgg. 11. F. SANSOVINO, Venetia città nobilissima et singolare, Venezia 1581, ff. 1120 -119r. Cfr. anche ID., Delle cose notabili che sono in Venetia, Venezia 1561, f. 23r-v. 12. D. ATANAGI, Lettere di XIII Huomini illustri, Venezia 1540, pp. 396-7. Cfr. anche P.N. PAGLIARA, Vitruvio cit., p. 73 nota 34. 13. C. TOLOMEI, Delle lettere di Claudio Tolomei libri sette, Venezia 1547, ff. 81r -85r. Cfr. anche P. BAROCCHI, Scritti d'arte del Cinquecento, Milano-Napoli 1977, III, pp. 3037-46, con commento e bibliografia. 14. 1556, p. 40. 15. 1556, p. 82, 53-62. Cfr. anche / dieci libri dell'architettura di M. Vitruvio, tradotti et commentati da Mons. Daniel Barbaro eletto Patriarca d' Aquileia, da lui riveduti et ampliati; et hora în più commoda forma ridotti, in Venetia, Appresso Francesco de' Franceschi Senese, et Giovanni Chrieger Alemano Compagni, 1567, P- 133, 33-45 (d'ora in poi citati con la sola data di pubblicazione e la pagina, e dopo una virgola il rigo). È questa l'edizione qui riprodotta. 16. Cfr. c. THOENES, Vignolas 'Regola delli cinque ordini', in "Romisches Jahrbuch fir Kunstgeschichte", xX, 1983, pp. 347-76; P.N. PAGLIARA, Vitruvio cit., pp. 84-5. 17. 1556, p. 122, 61-4, corsivi nostri. Cfr. anche 1556, p. 171, 24 (1567, p. 282, 14-5), in cui fra l'altro Barbaro difende la cornice del Teatro di Marcello, criticata dal Serlio con un eccesso di rigorismo. 18. 1556, p. 82, 66. Corsivi nostri. 19. Cfr. P.N. PAGLIARA, La casa romana nella trattatistica vitruviana, in "Controspazio", IV, 1972, n. 7, pp. 22-36; ID., Vitruvio cit. 20. 1556, pp. 167-70; 1567, pp. 278-811. 21. Cfr. il saggio, ormai classico, di W. LOTZ, Das Raumbild in der italienischen Architekturzeichnung der Renaissance, in "Mitteilungen des Kunsthistorischen Institutes in Florenz", VII, 1956, PP. 193-226, ora in ID., Studies in Italian Renaissance Architecture, Cambridge, Mass., 1981°, pp. 1-41. Nuove ipotesi sulla Lettera sono nel saggio di C. THOENES, La 'lettera' a Leone X, in AA.VV, Raffaello a Roma. Il Convegno del 1983, Roma 1986, pp. 373-81. (Ma cfr. anche A. NESSELRATH, Raphaels Archaeological Method, in ibidem, PP- 357-71, con ipotesi alternative). Sulla relazione Barbaro-Palladio, cfr. E. FORSSMAN, Palladio e Daniele Barbaro, in "Bollettino del C.I.S.A. Palladio", VIII, 1966, parte Il, pp. 68-81; L. PuPPI, Andrea Palladio, Milano 1973, fassim; N. HUSE, Palladio und die Villa Barbaro in Maser: Bemerkungen zum Probleme der Authorschaft, in "Arte Veneta", XXVIII, 1974, pp. 106-22; H. BURNS (editor), The Portico and the Farmyard. Andrea Palladio 1508-1580, London 1975; R. SMITH, A Matter of Choice: Veronese, Palladio and Barbaro, in "Arte Veneta", XXXI, 1977, pp. 60-71; L. PUPPI, Per Paolo Veronese architetto. Un documento inedito, una figura e uno strano silenzio di Palladio, in "Palladio", 111, 1980, n. 1-4, pp. 53-76; D. BATTILOTTI, Villa Barbaro a Maser: un difficile cantiere, in "Storia dell'arte", 1985, n. 53, pp. 3348; M. TAFURI, Venezia e il Rinascimento cit., cap. V. 22. Vedere il commento del Barbaro al libro I: 1556, pp. 19-20; 1567, p. 30. , 23. E. FORSSMAN, Palazzo Da Porto-Festa, Corpus Palladianum 8, Vicenza 1973, pp. 23 e 25, in cui l'autore scambia per un portale a serliana, disegnato come alternativa per la facciata, la sezione dell'atrio, disegnata da Palladio in trasparenza. 24. Cfr. c. VASOLI, Profezia e ragione. Studi sulla cultura del Cinquecento e del Seicento, Napoli 1974, pp. 131-403; ID., / miti e gli astri, Napoli 1977, pp. 19! sgg.; A. ROTONDÒ, La censura ecclesiastica e la cultura, in Storia d'Italia Einaudi, V: I documenti, 2, Torino 1973, pp. 1436-8 e 1456-7; A. FOSCARI e M. TAFURI, L'armonia e i conflitti. La chiesa di San Francesco della Vigna nella 25. Su tale argomento, cfr. PH. MOREL, // funzionamento simbolico e la critica delle grottesche nella seconda metà del Cinquecento, in AA.VV., Roma e l'antico nell'arte e nella cultura del Cinquecento, a cura di Marcello Fagiolo, Roma 1985, pp. 149-78, in cui, fra l'altro, viene ricordata la critica del Lomazzo alla condanna del Barbaro. 26. PJ.LAVEN, Daniele Barbaro cit., 1, pp. 122 sgg. Cfr. inoltre le Lettere di Daniele Barbaro date in luce la prima volta..., a cura di S. Soldati, Padova 1829. 27. Cfr. P.F. GRENDLER, The Roman Inquisition cit. (trad. it.), pp. 207-8. Secondo Barbaro, tutti 1 libri "scientiarum et artium" scritti da protestanti avrebbero dovuto circolare liberamente — a meno che non contenessero passi immorali e diffamatori — senza il nome degli autori. Inoltre, non andavano condannate le poesie d'amore giovanili. 28. Predica dei sogni composta per lo reverendo padre D. Hypneo da Schio, Venezia 1542. Nella copia conservata presso la Biblioteca Marciana è segnato a mano sul verso della copertina il nome dell'autore, "Barbaro Daniel"; la notizia è confermata da un foglietto incollato fra copertina e frontespizio. Cfr. P. PASCHINI, Gli scritti religiosi di Daniele Barbaro, in "Rivista di Storia della Chiesa in Italia", 5 (1951), pp. 340-9; G. SANTINELLO, Filosofia e architettura cit., pp. 462-3, 475-6 nota 10. 20. Predica dei sogni cit., Del dubbio, IV. Sul ruolo del dubbio, cfr. 1556, p. 24, 24 sgg.; 1567, P- 33, 12 S88. 30. 1556, p. 7, 62-5. Corsivi nostri. Cfr. 1567, p. 7, 2-7. 31. J.P. LAVEN, Dantele Barbaro cit., II, p. 506. 92. BONAVENTURA DA BAGNOREGIO, Breviloquium, Il 4, 5, ora in ID., Itinerario dell'anima a Dio..., a cura di L. Mauro, Milano 1985, p. 151. 33. BONAVENTURA DA BAGNOREGIO, De reductione artium ad theologiam, 2, ora in ID, Itinerario cit., pp. 412 sgg. Cfr. inoltre UGO DA SAN VITTORE, Didascalicon, IH 1 e 20. Sul pensiero di Bonaventura, che difende la prospettiva agostiniana di un'unica sapientia, che comprenda insieme fides e ratio, cfr. l'introduzione di L. Mauro all'/tinerario, in particolare alle pp. 66-8. 34. 1550, P. 3. 35: 1556, p. 254, 5-7; cfr. 1567, p. 440, 9-13. 36. 1556, p. 15, 46 sgg.; cfr. 1567, p. 21, 22 sgg. 37. M. TAFURI, Venezia e il Rinascimento cit., pp. 187-8. 38. 1556, p. 15, 45-6; cfr. 1567, p. 21, 19-20. 39. Sull'opera di Francesco Patrizi senese in relazione ai suoi interessi vitruviani e alla sua amicizia con Fra Giocondo, cfr. F. BATTAGLIA, Enea Silvio Piccolomini e Francesco Patrizi, due politici senesi del Quattrocento, Siena 1936; L.F. SMITH, A notice of the Epigrammata of Francesco Patrizi, Bishop of Gaeta, in "Studies in the Renaissance", 15 (1986), pp. 92-143; M. TAFURI, Venezia e il Rinascimento cit., pp. 159-62; P.N. PAGLIARA, Vitruvio cit., pp. 28-30. Per la notizia data nel testo, vedi M. DYKMANS S.J., L'oeuvre de Patrizi Piccolomini ou le cérémonial papal de la première Renaissance, Studi e testi 293, tomo I, Città del Vaticano 1980, p. 3 nota 16. "Concepi iam dudum libros de re publica quos parere aliquando cupio — scrive Francesco Patrizi Attamen propter penuriam librorum cum difficultate maxima id agere possum ... Roga tamen eum ut tibi Vitruvium concedat pro aliquibus diebus quem ad me mittas et ego ad te remittam cum primo videro locos quosdam qui operi meo necessarii admodum sunt". In ottobre, inoltre, il vescovo di Gaeta invia ad Agostino Patrizi il testo di Columella da lui corretto per il papa. Cfr. ibidem, p. 4 nota 17. 40. Cfr. G. COZzI, Domenico Morosini e il 'De bene instituta republica', in "Studi veneziani", XII (1970), pp. 405-57; M. TAFURI, Venezia e il Rinascimento cit., pp. 156-8. 41. Cfr. H.G. GADAMER, Die Idee des guten zwischen Plato und Aristoteles, Heidelberg 1978, trad. it. in ID., Studi platonici, 2, a cura di G. Moretto, Casale Monferrato 1984, pp. 151 sgg., in particolare alle pp. 155-71. Cfr. inoltre PLATONE, La Repubblica, VII, 525, 526, in Opere complete, vi, Roma-Bari 1983, pp. 240-1. Dopo aver stabilito che "lo studio dell'unità sarà fra quelli che conducono e rivolgono a contemplare l'essere" (525a), Socrate giunge a riconoscere che calcolo e matematica, totalmente basate sul numero, "appaiono atte a guidare la verità" e continua: "sarebbe opportuno, Glaucone, prescrivere per legge la disciplina di cui stiamo parlando, e persuadere chi dovrà svolgere nello stato le funzioni più importanti, a studiare il calcolo e a contemplare la natura dei numeri, senza usarne per comprare e vendere come fanno grossisti e mercanti, ma per ragioni belliche e per aiutare l'anima stessa a volgersi dal mondo della generazione alla verità e all'essere". Si veda più oltre, alle pp. 243-7, sul valore speculativo dell'astronomia. Le idee platoniche erano state introdotte presso il largo pubblico veneziano dalla famosa conferenza di Luca Pacioli nella chiesa di San Bartolomeo di Rialto, l'11 agosto 1508, ed erano state fuse nel pensiero sincretico di Francesco Zorzi. (Sulle relazioni fra Zorzi e la res aedificatoria, cfr. A. FOSCARI e M. TAFURI, L'armonia e i conflitti cit., passim). Sì consideri inoltre lo sviluppo dato da Plotino alla grande analogia di anima, città e mondo. È alla suprema facoltà dell'anima, al nous che coglie il razionale, che Plotino dà il compito di guida. Su ciò e sulla similitudine del pensiero razionale con la trottola, che unisce stabilità e mobilità, cfr. H.G. GADAMER, Studi platonici, 2 cit., pp. 265-90. 42. ARISTOTELE, Etica Nicomachea, V, VI, in Opere, 7, Roma-Bari 1983, pp. 105-61. Si noti che è proprio Aristotele a stabilire analogie fra politica e architettura (ibidem, 1, p. 4). "Poiché dunque l'architettura è un'arte" egli scrive nell'Etica Nicomachea (ed. cit., p. 145) "in quanto è una disposizione creativa accompagnata da ragione ... saranno dunque la stessa cosa l'arte e la disposizione creativa accompagnata da ragione verace. Ogni arte riguarda la produzione, e il cercare con l'abilità e la teoria come possa prodursi qualcuna delle cose che possono sia esserci sia non esserci e di cui il principio è in chi crea e non in ciò che ha creato; infatti l'arte non riguarda le cose che sono o che si producono necessariamente, né per natura, in quanto queste hanno il loro principio in se stesse". Più oltre, Aristotele scrive: "Sia la scienza politica che la saggezza hanno bensì la stessa definizione, però la loro essenza non è la stessa. È per quanto riguarda il governo della città, la saggezza, in quanto architettonica, è legislatrice; l'altra, in quanto riguarda i particolari, ha il nome comune di politica". Nel 1 libro, egli aveva affermato che sia l'architetto che il geometra "ricercano in maniere differenti l'angolo retto [ma] l'uno lo ricerca solo per quanto è utile al suo lavoro, l'altro invece ricerca che cosa esso sta e di quale qualità: egli è infatti un contemplatore del vero" (ibidem, pp. 15-6, corsivi nostri). Sia Il tema dell'architettura come analogon della saggezza politica, sia il tema dell'architetto distinto dal 'geometra' per via speculativa soflo colti da Daniele Barbaro e attualizzati nell'ambito del suo commento a Vitruvio. 43. 1556, p. 6, 49-53; cfr. 1567, p. 4, 17-22. 44. Cfr. AGOSTINO, De vera religione, 40, 74-6, con la considerazione delle diverse specie di numeri per mezzo dei quali ci si eleva a Dio, e De musica, VI, con la definizione delle differenti categorie numeriche che si elevano gradatamente dalla realtà sensibile al sommo Artefice; S. BOEZIO, De institutione arithmetica, 1 2: "Il numero è il principale modello nella mente del Creatore"; BONAVENTURA DA BAGNOREGIO, Breviloquium, 11 1, e Itinerarium mentis in Deum, Il 10, in /tinerario cit., rispettivamente a p. 143 e alle pp. 371-2. "Ai numeri espressi" scrive Bonaventura (p. 372) "ci eleviamo anche gradatamente, passando dai numeri sonori a quelli intesi, e poi a quelli sensibili e a quelli della memoria. Tutte le cose, quindi, sono belle e generano un qualche diletto, e poiché, inoltre, non vi può essere bellezza e diletto senza che ci sia proporzione, e la proporzione si trova prima di tutto nei numeri, è necessario che tutte le cose siano costituite secondo una proporzione numerica..." (corsivi nostri). Attraverso la numero logia mistica di Agostino, Boezio e Bonaventura, Daniele Barbaro — come buona parte della cultura neoplatonica - può coniugare il pensiero antico a quello cristiano; con spostamenti sensibili di accento, tuttavia, sul polo produttivo che la 'Sapienza', modellata sul pensiero divino, dischiude al fare mondano. 45. 1556, p. 14, 47-50 (corsivo nostro); cfr. 1567, p. 19, 13-7. 46. 1556, P. 7; 13-5; cfr. 1567, p. 5, 30-3. 47. 1556, P. 94, 28. 48. ARISTOTELE, Etica Nicomachea, 24, cit., p. 143. Cfr. anche PLATONE, La Repubblica cit., IV, 428b sgg., pp. 140 Sgg. 49. Si considerino, su tale tema, le acute osservazioni contenute nel volume di R. ESPOSITO, Ordine e conflitto. Machiavelli e la letteratura politica del Rinascimento italiano, Napoli 1984, in particolare nel cap. III, pp. 75-108. 50. Cfr. i saggi contenuti nel volume 'Renovatio urbis' cit., e i due volumi di E. CONCINA. La macchina territoriale. La progettazione della difesa nel Cinquecento veneto, Roma-Bari 1983, e L' Arsenale della Repubblica di Venezia. Tecniche e istituzioni dal medioevo all'età moderna, Milano 1984. Si noti che Giorgio Valla aveva illustrato, poco dopo il 1492, "suis figuris mathemati €ls" un perduto commentario a Vitruvio. Cfr. v. JUREN, Fra Giovanni Giocondo et le début des études vitruviennes en France, in "Rinascimento", serie II, 14, 1974, p. 102; G.B. VERMIGLIOLI, Memorie di Jacopo Antiquari, Perugia 1813, p. 419. 51. Cfr. G.G. LEONARDI, Libro delle fortificazioni dei nostri tempi, trascrizione e note di T. Scalesse, in "Quaderni dell'Istituto di Storia dell'Architettura", Facoltà di Architettura, Università di Roma, serie XX-XXI (1975), n. 115-126; E. CONCINA, La macchina territoriale cit., pp. 50-3 e passim. 52. E. CONCINA, La macchina territoriale cit., pp. 15 Sgg. 53. Ibidem, pp. 55 Sgg. 54. Cfr. 1556; p. 163, 66-8; 1567, p. 271, 8-13; cfr. anche E. CONCINA, L' Arsenale cit., pp. 135 Sgg. 55. E. CONCINA, L'Arsenale cit., p. 148. 56. 1567, p. 271, 17-8. 57. 1567, p. 271, 22 sgg. 58. 1556, p. 179, 14; cfr. 1567, p. 303, 9-10. 59. 1556, p. 179, 27-33 (corsivi nostri); cfr. 1567, p. 303, 27-37. 60. 1556, p. 180, 19-21; cfr. 1567, p. 304, 30-4. 61.C. SABBADINO, Discorsi sopra la laguna, in Antichi scrittori d'idraulica veneta, a cura di R. Cessi, vol. II, parte I, Venezia 1930, p. 48. 62. Cfr. P.F. GRENDLER, The “Tre Savi sopra Eresia” 1547-1605: a Prosopographical Study, in "Studi veneziani", n.s., III, 1979, p. 320 nota 55. 63. ASV, Atti notaio Vettor Maffei, prot. 8120, cc. 281-2; ibidem, prot. 8132, cc. 292-3 e 301-3. Cfr. M.F. TIEPOLO (a cura di), Testimonianze veneziane di interesse palladiano, Venezia 1980, pp. 39 e 37. 64. Cfr. B. BOUCHER, The last Will of Daniele Barbaro, in "Journal of the Warburg and Courtauld Institutes", XLII, 1979, pp. 277-82. 65. È assolutamente da rifiutare l'ipotesi, formulata dalla Bassi e ripresa più volte, relativa a una responsabilità palladiana per la quadrifora coperta da frontone, nella facciata di palazzo Contarini delle Figure, residenza di Jacopo Contarini. Cfr. E. BASSI, Palazzi di Venezia, Venezia 1971', 19803, pp. 382-4; M.F. TIEPOLO (a cura di), Testimonianze veneziane cit., scheda 23, p. 19; L. PUPPI, La morte e î funerali di Palladio, in AA.VV., Palladio e Venezia, Firenze 1982, pp. 160-1. E evidente che la quadrifora fa parte dell'impianto originario della facciata, databile ai primi decenni del XVI secolo: gli archi riprendono puntualmente le finestre laterali, compreso l'inquadramento da parte di allungate semicolonne con capitelli arcaici. Le basi delle colonne sono 'vitruviane' e poggiano su piedistalli cilindrici. 66. Vedi, ad esempio, H. LORENZ, // trattato come strumento di “autorappresentazione”. Palladio e 7.B. Fischer von Erlach, in "Bollettino del C.I.S.A. Palladio", XXI, 1979, p. 151; F. BARBIERI, Aspetti del Palladio 'urbanista': la 'scena' vicentina, in "Bollettino del C.I.S.A. Palladio", XXII, 1980, parte II, p. 127. 67. Cfr. G. cozzI, Politica, cultura e religione, in AA.VV., Cultura e società nel Rinascimento tra riforme e manierismi, a cura di V. Branca e C. Ossola, Firenze 1984, pp. 21-42. Discutibile il saggio, peraltro assai utile per la documentazione, di M.J. LOWRY, The Reform of the Council of Ten, 1582-83; an Unsettled Problem?, in "Studi veneziani", XIII, 1971, pp. 275-310. Vedi anche il fondamentale G. COZZI, Paolo Sarpi tra Venezia e l'Europa, Torino 1979. 68. Cfr. M. TAFURI, Venezia e il Rinascimento cit., pp. 244 Sgg. 69. G. GALILEI, Opere, a cura di A. Favaro e I. Del Lungo, xI, Firenze 1934, p. 172. Lettera da Venezia del 13 agosto 1611. 70. 1556, p. 125, 40. 71. 1556, p. 125, 54-62; cfr. 1567, p. 202, 4-16. Analoghe critiche, di esplicita intonazione erasmiana, erano state espresse in DIEGO DE SAGREDO, Las medidas del romano, Toledo 1526. 72. ASV, S. Antonio di Castello, t.x, c. 19gr. Cfr. A. FOSCARI, M. TAFURI, Sebastiano da Lugano, i Grimani e Facopo Sansovino. Artisti e committenti nella chiesa di Sant' Antonio di Castello, in "Arte Veneta", XXXVI, 1982, p. 120. Sull'azione riformatrice di G.M. Giberti a Verona, cfr. A. PROSPERI, Tra Evangelismo e Controriforma. G.M. Giberti (1495-1543), Roma 1969. 73. Cfr. A. FOSCARI, M. TAFURI, L'armonia e i conflitti cit., pp. 142-3. 74. Sull'originalità dell'enunciato teorico di Vitruvio in seno alla cosmografia antica, si veda il saggio di L. RONCA, Gnomonica sulla sfera ed analemma in Vitruvio, Accademia Nazionale dei Lincei, quaderno 224, Roma 1976, in particolare alle pp. 10-1. Cfr. anche P. PORTOGHESI, Horologiorum inventio, in ID., Infanzia delle macchine, Roma 1965, pp. 67 sgg.; J. SOUBIRAN, Vitruve: de l' Architecture, livre 1X, Paris 1969. Sul commento del Barbaro al Ix libro di Vitruvio, cfr. la dettagliata analisi di M. LOSITO, Il IX Libro dei Commentari vitruviani cit. 75. 1556, p. 201; 1567, p. 347. 76. BMV, Cod. Lat., CI. vili, 42=3097. 77. Claudii Ptolomaei liber de Analemmate a Federico Commandino urbinate instauratus ... Eiusdem Federici Commandini liber de Horologiorum descriptione, apud Paulum Manutium Aldi F., Romae 1562. Sull'importanza di tale opera di Tolomeo, cfr. L RONCA, Gnomonica sulla sfera cit. 78. 1567; pp. 372, 377, 398. Daniele Barbaro riprende, nel suo commento, la Cosmographia Francisci Maurolici messinensis, Venetiis, Apud haeredes Lucae Antonii Iuntae Florentini, 1543, dedicata a Pietro Bembo. Allo stesso Bembo, il Maurolico aveva scritto nel 1536, esponendo un piano di rinascita delle matematiche greche, e nel febbraio 1540 su altri argomenti scientifici. Cfr. G. SPEZI, Lettere inedite del cardinal Pietro Bembo e di altri scrittori del secolo XVI, Roma 1862, pp. 80, 85-04. 79. D. BARBARO, Pratica della perspettiva, Venezia 1569, dedica. Anche in tale volume il Barbaro polemizza con il fare per sola pratica, riconoscendo il suo debito nei confronti di Giovanni Zamberto, Federico Commandino e Baldassarre Lanci. Sulla Perspettiva del Barba ro, in relazione all'ottica di Alhazen, al De prospectiva pingendi di Piero della Francesca e al tema del movimento dell'occhio, cfr. TH. FRANGENBERG, The Image and the Moving Eye, Fean Pélerin ( Viator ) to Guidobaldo Del Monte, in "Journal of the Warburg and Courtauld Institutes", vol. 49, 1986, pp. 150-71, in particolare alle pp. 157-8 e 162-4. 80. La corrispondenza Moleto-Pinelli conservata presso la Biblioteca Ambrosiana di Milano è molto ricca e comprende notizie relative al comune amico Jacopo Contarini. "Ho dato ad intendere a M. Gerardo l'instrumento del Contarini", scrive il Moleto al Pinelli da Venezia "il dì di S. Caterina 1 579", "mi dice che non solo ne farà che mostrino minuti, ma anco secondi, et in diversi modi ... ma aspetto che possi havere uno che lavori di ottone a farci l''instrumento da poterci metter dentro le rotule..." (BAM, S 105 Sup., c. 38r). Nel 1571 (20 giugno), Moleto scrive al Pinelli interpretando alcune definizioni di Tolomeo e soffermandosi sul termine chorographia (S 105 Sup., c. 2770). In una lettera in cui confronta la propria edizione di Tolomeo con quella del Ruscelli, pesantemente criticata (A_71 Inf., c. 2r2), il Moleto scrive anche sugli gnomoni, criticando le tesi a lui esposte per lettera dal Sepulveda (lettera al Pinelli del 5 febbraio 1566; A 71 Inf., c. 1r0). Un gruppo di lettere al Pinelli si riferisce al De corrigendo ecclesiastico calendaric: "Ho inteso" egli scrive "quanto V.S. mi discorre, et prudentemente, intorno allo stampare il libro costi [in Alemagna], ma non si può ritornare indietro, quello ch'è stato fatto per consiglio di diece. Hanno determinato che si stampi qui, et ch'io sia qui insino alla fine". Nel contesto della lettera, il Moleto ricorda la coHaborazione del Macigni, ma il 14 gennaio 1580 egli scrive: "Intorno al mio libro sarebbe a quest'ora finito se non fosse cresciuto alquanti fogli, spero però che con due dì dell'altra settimana si finirà. Ho pensato di non voler valermi dell'opera del Signor Macigni, ben dimane o l'altro scriverò a Sua Signoria con dirle che hoggimai è finito il libro, ma non altro ... intorno al libro non voglio per hora da lui altro" (BAM, S 105 Sup., c.5170). Sul Moleto cfr. A. FAVARO, Amici e corrispondenti di Galileo Galilei. XL. Giuseppe Moletti, in "Atti del R. Ist. Veneto di Scienze, Lettere ed Arti", 77 (1917-18), parte H1, pp. 47-118; A. CARUGO, L'insegnamento della matematica all'Università di Padova prima e dopo Galileo, in AA.VV. Storia della cultura veneta. Il Seicento, 4/11, Vicenza 1984, pp. 151 sgg., in particolare alle pp. 170-86. 81. Cfr. PL. ROSE, /acopo Contarini (1536-1595). A Venetian Patron and Collector of Mathematical Instruments and Books, in "Physis", XVIII (1976), n. 2, pp. 117-30. 82. Cfr. P.L. ROSE, A Venetian Patron and Mathematician of the Sixteenth Century: Francesco Barozzi (1537-1604), in "Studi Veneziani", n.s. (1977), pp. 119-78. 83. Cfr. il testo della lettera al Barbaro, da Rethimo, datata 22 agosto 1567, in P.L. ROSE, 4 Venetian Patron cit., p. 162. 84. F. BAROZZI, Cosmographia, Venezia 1585 (ma citiamo dall'edizione del 1607, in volgare): nella dedica a Francesco Maria II di Urbino sono gli omaggi a Guidobaldo del Monte e a Federico Commandino; a c. 4r è l'attacco a Copernico; a c. 40 la citazione del Barbaro. 85. F. BAROZZI, Admirandum illud geometricum problema. Tredecim modis demonstratum, Venezia 1586, dedica, p. 10. 86. Cfr., al proposito, G.C. GIACOBBE, Francesco Barozzi e la “Quaestio de certitudine mathematicarum”, in "Physis", XIV (1972), n. 4, pp. 357-74; A. CARUGO, L'insegnamento della matematica cit., PP. 153 S88. 87. Cfr. P.L. ROSE, A Venetian Patron cit., pp. 122-3, in cui è trascritta la lettera di Daniele Barbaro conservata presso la Bibliothèque Nationale di Parigi. 88. Cfr. al proposito M. TAFURI, Venezia e il Rinascimento cit., cap. VII, pp. 244-97. Si noti che fra 1 corrispondenti del matematico Giovanni Battista Benedetti è il figlio di Marcantonio Barbaro, Francesco (1546-1616), ambasciatore a Torino presso Emanuele Filiberto — cui il Palladio dedica il suo Quarto libro — e, poi, presso Carlo Emanuele I. Nel 1593 Francesco Barbaro diverrà patriarca di Aquileia e sosterrà la supremazia temporale e spirituale della Santa Sede nei confronti della Serenissima. Francesco Barbaro contesterà inoltre la sovranità della Repubblica sui territori friulano e cadorino del Patriarcato. Il Benedetti dedica a Francesco una lettera sulla "lucerna spirituale", ispirata all'opera di Erone. Il figlio di Marcantonio lascia manoscritti di argomento militare, fra cui un trattato sulla guerra di Cipro (BMC, ms. Cicogna 3186, cc. 43r-169v). Cfr. La scienza a Venezia tra Quattrocento e Cinquecento. Opere manoscritte e a stampa, Venezia 1985, scheda XVI.II, p. 110. 89. Cfr. BMv, Cod. It., IV, 349=5118, cc.1r-74v (Alessandro Zorzi), e Cod. It. Iv, 691=5583, cc. 1r7-72r (Dialogo della Laguna, con quello che si ricerca per la sua lunga conservatione, composto da s.M. Antonio Cornaro quondam s. Zuanne, ecc.). Cfr. La scienza a Venezia cit., schede XV, 4 € XV, 5, pp. 105-6. Cfr. inoltre G. SAVORGNAN, Discorso sopra le lagune di Venezia (ASV, Secreta, Materie miste notabili, reg. 16, cc.360-377, parzialmente trascritto in Ambiente Scientifico veneziano tra Cinquecento e Seicento. Testimonianze d'archivio, a cura di M.F. Tiepolo, Venezia 1985, pp. 378. Sulle tematiche che dominano il dibattito veneziano sull'idraulica nel XVI secolo, cfr. S. ESCOBAR, // controllo delle acque: problemi tecnici e interessi economici, in Storia d' Italia Einaudi. Annali 3, Scienza e tecnica nella cultura e nella società dal Rinascimento a oggi, a cura di G. Micheli, Torino 1980, pp. 85-153; S. CIRIACONO, Scrittori d'idraulica e politica delle acque, in Storia della cultura veneta. Dal primo Quattrocento al Concilio di Trento, a cura di G. Arnaldi e M. Pastore Stocchi, 3/11, Vicenza 1980, pp. 491-512. Cfr. inoltre A. MANNO, Politica e architettura militare: le difese di Venezia (1557-1573), in "Studi veneziani", n.s., XI (1986), pp. 91-137, con un'analisi dell'opera dei Savorgnan e cenni sulle posizioni del Barbaro e di Palladio in merito all'arte militare. 90. Cfr. G. MICHELI, L'assimilazione della scienza greca, in Storia d'Italia Einaudi, Annali 3, Scienza e tecnica cit., pp. 201-57.