--- title: L'architetto come intellettuale author: Marco Biraghi date: 2019 lang: it ... > Ma ciò che ci appare necessario è sempre anche altamente improbabile. > > *Massimo Cacciari* # Introduzione La constatazione della crisi dell'intellettuale nell'epoca contemporanea è ormai talmente diffusa e generalizzata da essere divenuta un luogo comune; un argomento oggetto di facili ironie[^1] e oggi quasi "di moda", non fosse che l'intellettuale in quanto tale raramente si lascia rapportare alla moda. In realtà, la crisi dell'intellettuale ha origini ben più lontane e profonde, tanto da aver generato, a partire dalla seconda metà del Novecento, una lunga serie di diagnosi al capezzale del malato, vuoi per prescrivergli possibili rimedi, vuoi per preconizzarne il decesso ormai prossimo[^2]. Come tutto ciò che viene insistentemente osservato o ripetuto, anche la categoria di "intellettuale" ha perduto, nel corso del tempo, il suo contenuto, o piuttosto ha visto progressivamente venir meno il suo senso, finendo per apparire un corpo svuotato. Lasciando da parte antichi e nuovi pregiudizi, per cercare di comprendere che cosa sia l'intellettuale, e quale possa essere il suo eventuale ruolo -- e, più nello specifico, quale possa essere il ruolo dell'architetto inteso come intellettuale -- nel mondo attuale, è opportuno ripartire dalla "classica" analisi fatta da Antonio Gramsci[^3]. Per questi, innanzitutto, "tutti gli uomini sono intellettuali", anche se "non tutti gli uomini hanno nella società la funzione di intellettuali"[^4]. Da ciò deriva che "non si può parlare di non-intellettuali, perché non-intellettuali non esistono. (...) Non c'è attività umana da cui si possa escludere ogni intervento intellettuale, non si può separare l'*homo faber* dall'*homo sapiens*"[^5]. Questa precisazione (o questa non-distinzione) risulta fondamentale per non confinare la categoria dell'"intellettuale" all'interno di una gabbia separata, dorata o meno che sia. > Ogni uomo (...), all'infuori della sua professione esplica una qualche > attività intellettuale, è cioè un "filosofo", un artista, un uomo di > gusto, partecipa di una concezione del mondo, ha una consapevole linea > di condotta morale, quindi contribuisce a sostenere o a modificare una > concezione del mondo, cioè a suscitare nuovi modi di pensare[^6]. Il problema semmai per Gramsci consiste nella "creazione di un nuovo ceto intellettuale" che sia capace di > ... elaborare criticamente l'attività intellettuale che in ognuno > esiste in un certo grado di sviluppo, modificando il suo rapporto con > lo sforzo muscolare-nervoso verso un nuovo equilibrio e ottenendo che > lo stesso sforzo muscolare-nervoso, in quanto elemento di un'attività > pratica generale, che innova perpetuamente il mondo fisico e sociale, > diventi il fondamento di una nuova e integrale concezione del > mondo[^7]. In questo senso Gramsci, al di là della figura dell'intellettuale "tradizionale", appartenente a una "categoria sociale cristallizzata"[^8] e legato alle funzioni culturali più consuete, vede un terreno d'azione più fertile per l'intellettuale nell'applicazione diretta di questi allo "sviluppo delle forme reali di vita"[^9]: > Nel mondo moderno l'educazione tecnica, strettamente legata al lavoro > industriale anche il più primitivo o squalificato, deve formare la > base del nuovo tipo di intellettuale. Di conseguenza, > ... il modo di essere del nuovo intellettuale non può più consistere > nell'eloquenza, motrice esteriore e momentanea degli affetti e delle > passioni, ma nel mescolarsi attivamente alla vita pratica, come > costruttore, organizzatore, "persuasore permanentemente". Con l'ulteriore avvertenza che tale tipo di intellettuale deve altresí oltrepassare la "tecnica-lavoro" per giungere "alla tecnica-scienza e alla concezione umanistica storica, senza la quale si rimane "specialista"". Non è un caso che per Gramsci l'effetto più immediato di tale ingresso nel mondo tecnico-scientifico (ma anche storico-umanistico) da parte degli intellettuali sia la relazione che questi istituiscono con la politica. Politica da intendersi nel senso più originario, come *technē politikē*, come arte-tecnica di indirizzo e gestione della *polis*, e più in generale della cosa pubblica. Se ciò dapprima produce una classe di "intellettuali di partito" "pronti a piegarsi in caso di necessità all'ineludibile disciplina richiesta dalla tattica e dall'organizzazione", come rileva Habermas[^10], in seguito -- e in particolare dopo il termine del secondo conflitto mondiale -- le cose cambieranno: > Gli intellettuali che si imposero dopo il 1945 -- come Camus e Sartre, > Adorno e Marcuse, Max Frisch e Heinrich Böll -- assomigliavano ai > modelli più antichi di scrittori e professori che assumevano sí > posizioni di parte, ma non erano politicamente legati a nessun > partito. Cogliendo una data occasione, senza essere stati richiesti o > averlo concordato con qualcuno, essi si inducevano, al di là della > loro professione, a fare un uso pubblico del loro sapere > professionale. Senza pretendere alcuno *status* elitario, non si > richiamavano ad altra legittimazione che non fosse il loro ruolo di > cittadino di uno Stato democratico[^11]. All'interno dei rapporti tra intellettuali e politica -- cosí come ovviamente di quelli tra intellettuali e mondo della tecnica -- rientra a pieno titolo anche la figura dell'architetto. Vale la pena forse citare a questo proposito quanto scriveva Manfredo Tafuri nelle pagine finali di *Progetto e utopia*: > La riflessione sull'architettura, in quanto critica dell'ideologia > concreta, "realizzata" dall'architettura stessa, non può che (...) > raggiungere una dimensione specificamente politica. È solo a questo > punto -- dopo, cioè, aver fatto ragione di ogni ideologia disciplinare > -- che è lecito riproporre il tema dei ruoli nuovi del tecnico, > dell'organizzatore dell'edilizia, del *planner*, nell'ambito delle > nuove forme dello sviluppo capitalistico. E quindi, delle tangenze > possibili o delle inevitabili contraddittorietà fra tale tipo di > lavoro tecnico-intellettuale e le condizioni materiali della lotta di > classe[^12]. Quest'ultimo accenno non deve far perdere di vista l'attualità della notazione tafuriana. Il fatto che oggi la "lotta di classe" possa apparire un reperto archeologico (questione che verrà ridiscussa più oltre) non deve indurre l'idea che la relazione tra architetti e politica sia venuta meno; e lo stesso vale per quella tra architetti e sfera intellettuale. Che l'architetto sia un intellettuale è cosa evidente non soltanto nell'ottica della distinzione gramsciana tra "sforzo di elaborazione intellettuale-cerebrale e sforzo muscolare-nervoso"[^13]: lo è anche in un senso immediatamente intuitivo, almeno per "noi moderni". Ed è probabilmente inutile rispolverare le vecchie analisi marxiste sulla separazione tra lavoro intellettuale e lavoro manuale[^14] per affermare qualcosa che risulta di per sé sufficientemente chiaro. Del resto, già la celeberrima definizione datane da Vitruvio ("Et ut litteratus sit, peritus graphidos, eruditus geometria, historias complures noverit, philosophos diligenter audierit, musicam scierit, medicinae non sit ignarus, responsa iurisconsultorum noverit, astrologiam caelique rationes cognitas habeat")[^15] fa emergere il carattere iperintellettuale della preparazione dell'architetto, una somma di conoscenze "tecnico-scientifiche" e "storico-umanistiche", per dirla con le parole di Gramsci. > Il sapere dell'architetto è ricco degli apporti di numerosi ambiti > disciplinari \[o "specialismi", come li si denominerebbe oggi\] e di > conoscenze relative a vari campi, e al suo giudizio vengono sottoposti > i risultati prodotti dalle altre tecniche[^16]. Proprio quest'ultima considerazione vitruviana illumina il senso che ha per lui tale accumulazione di saperi, e di conseguenza il ruolo rivestito dall'architetto: non tanto quello dell'erudito, del multi-*connoisseur* fine a se stesso, quanto piuttosto quello del coordinatore, del supervisore, del regista (dal latino *regere*, dirigere); tutte attività per le quali necessita -- al di là delle singole competenze -- il possesso di uno sguardo ampio e di una visione sintetica. Una comprensione e un'organizzazione di molti elementi contemporaneamente, per le quali sono appunto richieste spiccate capacità intellettuali. E tuttavia, se l'architetto possiede storicamente una vocazione intellettuale, ciò non significa che il suo non sia anche -- e molto -- un lavoro manuale. Basti solo pensare al disegno, o a tutte le attività che stanno dietro, e *dentro*, il compimento di un'opera di architettura, e che prevedono per l'appunto l'erogazione di un lavoro ri-produttivo, vale a dire non squisitamente produttivo o "creativo"[^17]. All'interno di questa pluralità di attività svolte dall'architetto, l'attività intellettuale non è distinguibile come una dimensione isolata e specifica: piuttosto, si tratta della modalità generale entro cui questi *comprende* tutte le proprie attività, incluse quelle manuali come, appunto, il disegno (per Filarete "fondamento e via d'ogni arte che di mano si faccia"[^18], vale a dire strumento per comunicare l'"idea"). Una modalità di *comprehendere* (letteralmente, di mettere insieme i particolari aspetti sensibili che una molteplicità di entità hanno tra loro in comune) che definisce in quanto tale il suo operare da architetto, ma che alcuni tra loro dimostrano di possedere in maniera più accentuata di altri. E lo stesso vale anche per alcune epoche. Ad esempio, in Italia -- dalla metà degli anni cinquanta fino all'incirca alla metà degli anni settanta, come si vedrà meglio più oltre -- la spiccata attitudine degli architetti a pensare e ad agire come intellettuali ha fortemente influenzato, nel bene e nel male, il quadro complessivo dell'epoca: da un lato concorrendo a dar vita a uno dei momenti più fecondi della recente storia disciplinare italiana, mediante la produzione di alcuni edifici di altissima qualità, cosí come con l'elaborazione di altrettanto fondamentali contributi teorici; dall'altro facendo fin troppo spesso astrazione dal campo di applicazione concreto dell'architettura, e dando cosí spazio al fiorire -- avvenuto precisamente in quel periodo -- della speculazione edilizia[^19] e al compiersi di un vero assalto ai territori italiani, di cui proprio la parte migliore dell'architettura italiana, arroccata in una posizione di aristocratica "separatezza", ha finito per rendersi involontariamente complice. Sono probabilmente i cascami di questa stagione della cultura architettonica italiana, intensa ma contraddittoria, ad aver lasciato in eredità alle fasi storiche successive -- in particolar modo nel nostro paese -- un'idea di architetto come prototipo per eccellenza dell'intellettuale fumoso e inconcludente: una sorta di Fuffas *ante litteram*, una figura un po' ridicola e un po' patetica, autoreferenziale e incapace di rapportarsi alla realtà. Questo modello pur parodistico dell'architetto intellettuale ha però sicuramente giocato un ruolo nella scarsa considerazione di cui la categoria nel suo complesso ha goduto in Italia nello scorso cinquantennio, e fors'anche nella collettiva "ritirata" degli architetti da posizioni di impegno politico e sociale, vale a dire, in una parola sola, intellettuale. D'altronde, la crisi dell'architetto intellettuale (cosí come quella dell'intellettuale *tout court*) va di pari passo con la crisi più generale -- ed epocale -- di un sistema di valori a cui tradizionalmente il mondo degli intellettuali si rifaceva. E ciò su scala planetaria, non certo solo locale. Ed è sintomatico che sia proprio un architetto intellettuale -- Tomás Maldonado, d'origini argentine ma con lunghe frequentazioni europee e italiane -- a tornare a interrogarsi, nel 1995, sul mutevole significato della figura dell'intellettuale nel corso del tempo e sul suo incerto destino in quello attuale[^20]. Un'incertezza (o una "crisi d'identità")[^21] che troverebbe una sua spiegazione, tra le altre possibili, nella "democratizzazione del sapere" e nella diffusione generalizzata del lavoro intellettuale (e -- andrebbe aggiunto -- nell'elevata taylorizzazione e proletarizzazione subita dai lavoratori di tali settori), che avrebbe come effetto la crescita smisurata di un "pensiero operante", vale a dire direttamente applicato ai contesti produttivi e comunicativi. Ciò che non impedisce tuttavia a Maldonado di chiudere la sua analisi sulle note di una "sorprendente" speranza in merito alla possibilità di una futura rinascita di un "pensiero discorrente", dialogico, capace in ultima analisi di tornare a "scompaginare (...) l'appiattimento della nostra visione del mondo"[^22]. Gli eventi, almeno per il momento, non sembrano aver dato ragione alle attese di Maldonado. Il generalizzato ritorno in auge, in tempi più recenti, dell'architetto come professionista, ovvero come figura "semplicemente" dotata di capacità tecniche e di competenze specifiche, e disinteressata invece allo sviluppo di un proprio pensiero teorico, sembra segnare un cambio di tendenza dal significato apparentemente inequivocabile e forse irrevocabile. Di ciò potrebbe costituire un'ulteriore conferma, da vent'anni circa a questa parte, l'imporsi del fenomeno dell'*archistar* (o *star architect*, o *starchitect*)[^23]: una nuova forma di celebrità fortemente mediatizzata che non ha paragoni con quella sperimentata da architetti di epoche precedenti, e che assimila invece l'architetto contemporaneo ad altri protagonisti dello *show business* globale (attori, personaggi televisivi, sportivi, ecc.). Una notorietà originata assai più dall'aspetto spettacolare e sorprendente dei loro edifici che non dalla comprensione (ma in fondo si potrebbe anche dire: dalla sussistenza stessa) del loro "messaggio". Le conseguenze di questo fenomeno, anche dopo che esso pare avere ormai superato la sua fase più acuta, non hanno tardato a farsi sentire: l'architettura, nel corso degli ultimi due decenni, sembra avere accresciuto la propria popolarità presso un pubblico sempre più allargato. Non che ovviamente l'architettura di oggi sia più conosciuta o studiata di quella delle epoche precedenti: piuttosto, essa pare essere entrata nell'orizzonte percettivo di persone che per il resto continuano a non occuparsene affatto, almeno in maniera diretta e cosciente. Se tale impressione corrisponde effettivamente alla realtà, ciò è da far risalire, oltreché alla sporadica capacità dell'architettura attuale di "scandalizzare" i ben (poco) pensanti, a quella di dare forma e sostanza -- almeno in apparenza -- ai "desideri" della società contemporanea, vale a dire di rispondere soddisfacentemente alle sue "attese". Il discorso in realtà è un po' più complicato. Affermare che nel corso della sua storia l'architettura sia sempre stata espressione delle società in cui si è sviluppata è una verità tanto ovvia da rischiare di essere confutabile. Nella *polis* greca, il tempio, il teatro, persino gli edifici sportivi (si pensi a Olimpia, a Nemea o a Epidauro), ben al di là dall'essere semplici contenitori di funzioni sociali, svolgevano il ruolo di riattivatori rituali di un fondamento rimosso da cui l'intera comunità originava. Nella città romana (soprattutto con l'espansione imperiale), gli edifici e gli spazi pubblici si facevano portatori di un messaggio politico che non era affatto espressione della realtà in cui si inserivano. Nella città rinascimentale, gli edifici rappresentavano frammenti di un ordine dotato di una ben precisa funzione ideologica, che spesso però è entrato in conflitto con la città precedente. E altrettanto si potrebbe dire delle altre epoche. Rispetto alle attese cui architettura e città hanno saputo rispondere nel corso del Novecento (per la gran parte attese di tipo sociale: richieste di abitazioni per tutti, di servizi sociali, di spazi pubblici), quelle odierne possiedono un carattere ben diverso. In realtà non tanto diverso da risultare imprevedibile. Lo spazio della città, nella storia, è stato teatro di una continua "contesa" tra idee di suo uso addirittura opposte: > Da un lato la città come un luogo di *otium*, luogo di scambio umano, > sicuramente fattivo, attivo, intelligente, una dimora insomma, e da un > altro il luogo dove poter sviluppare nel modo più efficace i > *nec-otia*[^24]. Oggi all'architettura (e alla città) sembra non si chieda nulla di più che dar forma visibile e tangibile ai *negotia*, agli affari, vale a dire a quello "spirito commerciale" cui sono improntate nel modo più profondo e completo le società -- e all'interno di esse, le *vite* -- occidentali[^25]. Ciò non va inteso in un senso ristretto, limitatamente a quegli spazi destinati alla vendita di cui pure gli architetti nell'ultimo secolo si sono intensamente occupati[^26]. Piuttosto, svettanti grattacieli e sfavillanti shopping center -- ma anche edifici per l'intrattenimento e il tempo libero variamente concepiti -- paiono rispondere perfettamente "a tono" alle più o meno esplicite richieste dei cittadini-consumatori che non soltanto li utilizzano, ma che addirittura sembrano aderire totalmente al programma "ideologico" di cui questi edifici costituiscono l'oggettivazione. Un programma "ideologico" -- quello disposto dal sistema capitalistico -- che si lascia assumere senza troppi pensieri, con leggerezza, e nel quale i cittadini-consumatori paiono felici di rispecchiarsi. Si potrebbe obiettare che tali domande "collettive" sono probabilmente assai poco spontanee, poco realistiche, e che addirittura esse sono del tutto irreali, nel senso che non sono formulate affatto dalla maggioranza di coloro che usufruiscono delle città e dei suoi edifici; e che piuttosto sono il prodotto della *simulazione di un desiderio* che le forze economiche oggi dominanti nelle nostre società proiettano sull'inconscio collettivo dei cittadini-consumatori, con un'intensità tanto maggiore al crescere delle dimensioni dei contesti urbani[^27]. Ma, quale che sia la verità, questa "illusione di soddisfazione sociale" nei confronti dell'architettura urbana per il momento funziona, e trova una piena rispondenza negli architetti incaricati di realizzarla. L'architetto -- oggi come nei momenti storici precedenti -- mette la propria opera a disposizione della società in cui vive. Lo faceva Filippo Brunelleschi con la Repubblica di Firenze, lo facevano Gian Lorenzo Bernini e Francesco Borromini con il Papato di Roma, e lo fanno gli architetti attuali con i loro committenti. In apparenza, non vi è nessuna differenza; in realtà, i modi in cui gli architetti si sono messi al servizio della società nel corso del tempo presentano tra di loro difformità consistenti[^28]. L'architetto ha spesso rivestito un ruolo di consigliere e di propositore, oltreché di realizzatore. E in non poche occasioni è arrivato anche a calarsi -- in passato -- nei panni del pensatore, dell'utopista, del sognatore, declinando l'etimologia del progetto nel suo senso più diretto e immediato: quello di un'evocazione -- qui e ora -- del futuro (*proiectus* in latino è propriamente l'azione del gettare in avanti, e dunque del proiettare). Oggi invece, almeno in una gran parte dei casi, l'architetto appare preda di intricate dinamiche che, se da un lato le/gli vietano di porsi in una posizione di "ingenua" neutralità, dall'altro la/lo portano a vedere in maniera quasi "connaturata" ("naturalizzata", si potrebbe dire in termini marxisti) il proprio ruolo di "operatore specializzato" all'interno di un processo ben più vasto e composito di cui il proprio progetto rappresenta con tutta evidenza soltanto un "momento". Ed è degno di nota che, proprio in questo ambito, all'architetto sia richiesto non soltanto di svolgere ruoli esecutivi, ma anche -- in alcuni casi particolarmente complessi -- di fornire contributi "ideativi", spingendosi al di là delle proprie "tradizionali competenze disciplinari"[^29], in qualità di "suggeritore" di possibili funzioni e utilizzi, sempre comunque inseriti in una logica complessiva che non le/gli è dato in alcun modo di mettere in discussione, per non parlare poi di criticarla apertamente. Ciò, ben lungi dal conferire all'architetto un ruolo "decisionale" autonomo, finisce per attestarne la posizione ancillare, riducendo il suo contributo a uno "scandaglio preliminare di ipotesi formalizzate"[^30]. Ed è dunque palese come, stando le cose in questo modo, la sua "massima aspirazione" possa essere quella di limitarsi a farsi interprete di "programmi ideologici" già stabiliti da altri, aggiungendovi al più il valore di un'effettiva o presunta "originalità" della forma. Quale sia il messaggio in questione, potrebbe risultare a questo punto quasi enigmatico, se non fosse invece sin troppo evidente, trattandosi dell'"eterna" (nella logica capitalistica) esortazione al consumo di cui il sistema ha endemicamente bisogno; un consumo che non va inteso esclusivamente nel senso dell'acquisizione di merci, di beni materiali, ma anche in quello più astratto e generale dell'assunzione del sistema in quanto tale come *valore*. In questo senso, l'esortazione al consumo capitalistico -- consumo di sé, oltreché di ogni singola merce -- si traduce immediatamente nell'*affermazione* (niente affatto nella semplice "richiesta") di un *consenso* nei propri stessi confronti[^31]: nei confronti delle proprie "regole", dei propri "valori". In quest'opera cosí importante di persuasione, che il capitalismo conduce in quel modo seduttivo e apparentemente non coercitivo che gli è proprio, l'architettura ha l'incombenza fondamentale di tradurre tutto ciò in oggetti, spazi e luoghi concreti. A cinquant'anni di distanza dal saggio *Per una critica dell'ideologia architettonica*[^32], e a poco meno dalla sua già citata rielaborazione in forma di libro, in cui Tafuri stilava una lucida diagnosi in merito ai "compiti che lo sviluppo capitalistico ha tolto all'architettura" -- primo e fondamentale fra questi, la dimensione utopica -- lasciando ad essa soltanto il "dramma" di "vedersi obbligata a tornare *pura architettura*, istanza di forma priva di utopia, nei casi migliori, sublime inutilità"[^33], l'architetto si ritrova a fare i conti con una condizione nella quale davvero la possibilità dell'utopia sembra essere ormai tramontata, e in cui non rimane null'altro che la dimensione della realtà (sublimemente inutile, o piuttosto pragmaticamente utilissima) quale suo campo d'azione. Una realtà niente affatto neutrale, e che anzi il suo stesso apporto -- insieme a quello di altre forze[^34] -- contribuisce a configurare nella sua forma consensuale. Individuare le condizioni in cui l'architetto odierno si trova, riconoscerne i limiti, cercare di comprendere i modi di un loro possibile superamento, è quanto si prefigge il presente libro. A partire dalla chiara consapevolezza che non è in ogni caso proponibile alcuna inversione di rotta, alcun semplicistico e nostalgico "ritorno alle origini". I percorsi della storia, per quanto tortuosi e apparentemente (o effettivamente) poco logici, sono sempre e comunque incontrovertibili. Ciò su cui dunque è necessario interrogarsi, dopo avere debitamente esplorato il profilo e il campo d'azione degli architetti di un passato lontano o recente che hanno esercitato il proprio ruolo di intellettuali, è quale sia il senso oggi -- e, ancora di più, quale potrà essere il senso *in futuro* -- di un architetto capace di andare oltre l'esecuzione di incarichi assegnati, un architetto che sappia farsi interprete *attivo* della realtà, prefigurando per essa possibilità alternative, o quantomeno cercando di metterla in crisi. [^1]: Vedi ad esempio *Intello Academy* dell'economista e psicanalista Corinne Maier, tradotto in italiano con l'imbarazzante titolo *Intellettualoidi di tutto il mondo, unitevi!*, Bompiani, Milano 2007. [^2]: Vedi, tra i molti altri, Elémire Zolla, *L'eclissi dell'intellettuale*, Bompiani, Milano 1959; Zygmunt Bauman, *La decadenza degli intellettuali. Da legislatori a interpreti*, Bollati Boringhieri, Torino 2007; Frank Furedi, *Che fine hanno fatto gli intellettuali?*, Cortina, Milano 2007. [^3]: Antonio Gramsci, *Quaderni del carcere* (1929-35), 4 voll., a cura di Valentino Gerratana, Einaudi, Torino 2014. [^4]: Gramsci, *Quaderni del carcere* cit., vol. III, Quaderno 12 (XXIX), § 1, p. 1516. [^5]: *Ibid.*, § 3, p. 1550. [^6]: *Ibid.*, pp. 1550-51. [^7]: *Ibid.*, p. 1551. [^8]: *Ibid.*, Quaderno 11 (XVIII), § 16, p. 1406. [^9]: *Ibid.*, vol III, Quaderno 12 (XXIX), § 3, p. 1551. [^10]: Jürgen Habermas, *Il ruolo dell'intellettuale e la causa dell'Europa*, Laterza, Roma-Bari 2011, p. 7. [^11]: *Ibid*. Su ciò vedi anche Michael Walzer, *L'intellettuale militante. Critica sociale e impegno politico nel Novecento*, il Mulino, Bologna 1991. [^12]: Manfredo Tafuri, *Progetto e utopia. Architettura e sviluppo capitalistico*, Laterza, Roma-Bari 1973, pp. 169-70. [^13]: Gramsci, *Quaderni del carcere* cit., vol. III, Quaderno 12 (XXIX), § 3, p. 1550. [^14]: Oltre a Karl Marx e Friedrich Engels, *L'ideologia tedesca* (1845), Editori Riuniti, Roma 1971, p. 21 e *passim*, vedi, tra gli altri, Alfred Sohn-Rethel, *Lavoro intellettuale e lavoro manuale. Per la teoria della sintesi sociale*, Feltrinelli, Milano 1977. [^15]: "... e che tu abbia una istruzione letteraria, che sia esperto nel disegno, preparato in geometria, che conosca un buon numero di racconti storici, che abbia seguito con attenzione lezioni di filosofia, che conosca la musica, che abbia qualche nozione di medicina, che conosca i pareri dei giuristi, che abbia acquisito le leggi dell'astronomia": Vitruvio, *De Architectura*, 2 voll., Einaudi, Torino 1997, libro I.3, p. 14. [^16]: *Ibid.*, libro I.1, p. 13. [^17]: Per la distinzione tra "lavoro" e "opera" vedi Hannah Arendt, *Vita activa. La condizione umana* (1958), Bompiani, Milano 2011, pp. 58 sgg. Per un'applicazione di questa distinzione all'architettura, vedi Pier Vittorio Aureli, *Labor and Work in Architecture*, in "Harvard Design Magazine", n. 46, 2018, pp. 71-81. [^18]: Antonio Averlino detto il Filarete, *Trattato di architettura* (1464 circa), 2 voll., a cura di Anna Maria Finoli e Liliana Grassi, Il Polifilo, Milano 1972, libro I, pp. 10-11. [^19]: Emblematico al proposito è il racconto di Italo Calvino, *La speculazione edilizia*, Einaudi, Torino 1963 (ma finito di scrivere nel 1957), il cui protagonista è un giovane intellettuale che, trascinato dallo "spirito dell'epoca", si imbarca in un'operazione immobiliare sulla Riviera ligure affiancato a un equivoco imprenditore edile. [^20]: Tomás Maldonado, *Che cos'è un intellettuale? Avventure e disavventure di un ruolo*, Feltrinelli, Milano 1995. Altrettanto sintomatico, comunque, è il fatto che, tra tutti i nomi citati nel libro, non ve ne sia neppure uno d'un architetto. [^21]: *Ibid.*, p. 95. [^22]: *Ibid.*, p. 94. [^23]: Gabriella Lo Ricco e Silvia Micheli, *Lo spettacolo dell'architettura. Profilo dell'archistar*^©^, Bruno Mondadori, Milano 2003. [^24]: Massimo Cacciari, *La città*, Pazzini Editore, Rimini 2009, p. 23. [^25]: *The Harvard Design School Guide to Shopping*, a cura di Chuihua Judy Chung, Jeffrey Inaba, Rem Koolhaas e Sze Tsung Leong, Taschen, Köln 2001. [^26]: Vedi, ad esempio, Dario Scodeller, *Negozi. L'architetto nello spazio della merce*, Electa, Milano 2007. [^27]: Su ciò vedi Jean Baudrillard, *La società dei consumi. I suoi miti e le sue strutture*, il Mulino, Bologna 2010. Al proposito vedi anche le ricerche condotte da Vanni Codeluppi, *Lo spettacolo della merce. I luoghi del consumo dai 'passages' a 'Disney World'*, Bompiani, Milano 2000; Id., *La vetrinizzazione sociale. Il processo di spettacolarizzazione degli individui e della società*, Bollati Boringhieri, Torino 2007; Id., *Metropoli e luoghi del consumo*, Mimesis, Milano 2014. [^28]: Spiro Kostof (a cura di), *The Architect. Chapters in the History of the Profession*, University of California Press, Berkeley 2000, che tuttavia -- per quanto riguarda i periodi dal 1700 in avanti -- si limita ad analizzare il contesto anglosassone e nordamericano. [^29]: Manfredo Tafuri, *Storia dell'architettura italiana 1944-1985*, Einaudi, Torino 1986, p. 206. Il "caso" in questione è quello del Lingotto di Torino. [^30]: *Ibid.*, p. 207. più in generale vedi anche -- per limitarsi alla sola Italia -- il capitolo *"Reconversio urbis I": Venezia, Milano, Torino, Firenze*, in Marco Biraghi e Silvia Micheli, *Storia dell'architettura italiana 1985-2015*, Einaudi, Torino 2013, pp. 38-59. [^31]: Interessante a questo proposito constatare come la società capitalistica abbia il proprio modello nella fabbrica. E non a caso proprio qui mutano -- con il passare del tempo -- i rapporti sociali, indirizzandosi progressivamente verso l'ottenimento di un consenso. Sull'argomento vedi il fondamentale Michael Burawoy, *Manufacturing Consent: Changes in the Labor Process under Monopoly Capitalism*, University of Chicago Press, Chicago 1979. "Per comprendere le dinamiche sociali che avvengono nelle fabbriche a capitalismo sviluppato occorre riconoscere che le politiche di produzione un tempo fondate unicamente su metodi coercitivi si modificano e si ampliano in modo da rendere possibile un progressivo coinvolgimento consensuale della manodopera nel proprio lavoro. In altri termini, con l'evoluzione storica del capitalismo, le politiche di produzione passano gradualmente dal dispotismo all'egemonia. Con questa espressione, tratta da Gramsci, Burawoy intende una politica che combina organicamente forza e persuasione, coercizione e consenso, e che fornisce una base ideologica di legittimazione al proprio esercizio che è accettata anche da coloro su cui il potere è esercitato": Giuseppe Bonazzi, *Storia del pensiero organizzativo*, Franco Angeli, Milano 2008, p. 145. [^32]: Manfredo Tafuri, *Per una critica dell'ideologia architettonica*, in "Contropiano", n. 1, 1969, pp. 31-79. [^33]: Tafuri, *Progetto e utopia* cit., p. 3. [^34]: Edward S. Herman e Noam Chomsky, *La fabbrica del consenso. La politica e i mass media*, Il Saggiatore, Milano 2014. # L'architettura come merce e l'architetto come "rifornitore" Una trasformazione profonda, lenta e apparentemente inesorabile ha avuto luogo con particolare intensità nel corso degli ultimi cento anni: la trasformazione dell'architettura (intesa come fatto concreto, materiale, tridimensionale) da "oggetto d'uso" a merce. Questo fenomeno non costituisce nulla di sorprendente, o di anormale, considerato il contesto generale nel quale si svolge. Ciò nondimeno, per chi se ne occupa da un punto di vista "interno" (disciplinare o "scientifico" che dir si voglia), cosí come per chi la osserva distrattamente da lontano, da "fuori", l'architettura può risultare "strana" in queste vesti. Perciò, provare a fissare brevemente tale fenomeno può valere a intenderlo nell'ottica della disciplina e a cercare di comprendere le sue conseguenze in un senso più generale. Tale trasformazione in realtà ha avuto inizio ben da prima: in quanto oggetto d'uso, l'architettura ha da gran tempo cessato di essere prodotta da colei/colui cui era destinata, proprietario o fruitore che fosse, e dunque il suo valore d'uso si è presto tramutato in valore d'uso sociale; e in qualità di valore d'uso sociale è divenuto un oggetto di scambio e ha acquisito un valore di scambio[^1]. Con ciò l'architettura, come qualsiasi altro oggetto nelle società nelle quali predomina il modo di produzione capitalistico, ha già virtualmente compiuto la sua trasmutazione in merce: arrivando anzi a costituire -- come a tutti ben noto -- uno dei fondamenti stessi della ricchezza pubblica e privata, e rappresentando valori economici spesso assai cospicui, nella forma di proprietà immobiliari dotate di un proprio specifico mercato. Ma pur se tecnicamente avvenuto ormai da lungo tempo, il passaggio dell'architettura da oggetto d'uso a merce è privo fino al principio del XX secolo di un elemento fondamentale al suo definitivo compimento: il trapassare del carattere di merce dal livello del puro valore di scambio alla totalità dei suoi aspetti. Progettazione, rappresentazione, costruzione, commercializzazione, sono tutti momenti del processo produttivo dell'architettura che a vario titolo vengono sottoposti a una più o meno palese e intensa mercificazione. La storia dell'architettura del Novecento è, sotto molti riguardi, la storia del progressivo cammino di questa, non tanto o soltanto verso una "modernità" genericamente o stilisticamente intesa, quanto piuttosto verso il suo divenire *prodotto di consumo*[^2]. L'abitazione, di questo processo, rappresenta il caso forse maggiormente emblematico. Se si pone mente allo sviluppo della residenza, in tutte le sue forme e a tutti i suoi livelli, nel corso dell'ultimo secolo[^3], ad esempio, non si può che constatare il suo completo coinvolgimento in questo processo: l'industrializzazione dei metodi costruttivi, la standardizzazione e la prefabbricazione dei componenti edilizi e degli elementi d'arredo, la serializzazione dei "modelli" abitativi, le stesse tecniche di pubblicizzazione e di vendita: non c'è campo in cui la residenza non abbia adottato le medesime strategie utilizzate per gli altri prodotti di consumo. Ciò -- si badi bene -- ha avuto conseguenze tanto positive quanto negative. Cosí, dagli inizi del Novecento in avanti, la residenza è stata spesso oggetto di ricerche e di sperimentazioni tecnicamente e socialmente all'avanguardia, volte a migliorarne le "prestazioni", e non di rado anche a diminuirne i costi; ma è stata pure oggetto di sfruttamenti intensivi e di operazioni a carattere puramente speculativo, oltreché funzionali a precise politiche di ghettizzazione sociale, come risulta evidente osservando quanto è accaduto nelle periferie delle città di molti paesi occidentali, in particolare negli anni cinquanta e sessanta. Non sono qui in discussione gli esiti di queste operazioni. E il problema non è neppure quello di distribuire "promozioni e bocciature" ai rispettivi architetti. La funzione dell'architettura rimane comunque strutturale al sistema; e neppure il "mito riformista", che ha lungamente attraversato l'Europa nel corso del Novecento, è riuscito ad avere ragione delle sue contraddizioni. A questa vicenda appartengono alcune delle migliori idee e realizzazioni -- in termini di impegno politico sul piano urbano e di studio di soluzioni innovative alla scala architettonica -- che si possano annoverare nell'ambito del XX secolo. Si pensi ad esempio al caso della Francoforte di Ernst May. Il lavoro svolto in qualità di assessore all'edilizia, con la collaborazione di un ingente numero di architetti che formeranno la cosiddetta "brigata May", rivela in pieno lo sforzo per riscattare le condizioni di partenza -- in termini di possibilità economiche e di standard dimensionali -- delle numerose *Siedlungen* (per un ammontare totale di circa 12 000 appartamenti) progettate tra il 1926 e il 1930, mediante l'impiego di equipaggiamenti tecnologici e di dispositivi di altra natura del tutto inusitato per quelle che sono e rimangono a tutti gli effetti case popolari. Dovendo sottostare a vincoli dimensionali alquanto esigui (40-45 mq per un alloggio per quattro persone), May e i suoi collaboratori riservano una particolare attenzione ai servizi (tra essi la famosa *Frankfurter Küche*, la cucina-laboratorio ultra-efficente di Margarete Schütte-Lihotzky)[^4], agli impianti, agli spazi comuni, agli edifici pubblici e alle attrezzature collettive. In questo senso, la dotazione di impianti di riscaldamento e di lavanderie centralizzati, di asili infantili, di campi da gioco e di ricreazione, di centri sociali, e persino l'installazione in ciascun complesso residenziale di impianti-radio centrali per offrire "la possibilità di promuovere in futuro lo spirito comunitario attraverso trasmissioni radiofoniche interne che abbracciano la sfera di una *Siedlung*"[^5], pongono in evidenza l'importanza che May assegna a tutto ciò che può fungere da fattore di connessione sociale. Si tratta di una complessa operazione culturale e organizzativa condotta sia con strumenti specificamente architettonici (la standardizzazione delle componenti edilizie e l'utilizzo per la costruzione di pannelli prefabbricati) sia con altri mezzi, tra cui -- oltre a quelli già citati -- la pubblicazione di una rivista mensile, "Das neue Frankfurt", che tra il 1926 e il 1931 affronta una serie di questioni cruciali come l'*Existenzminimum*, l'istruzione e l'igiene, ma anche questioni a prima vista estranee alla cultura architettonica, come la fotografia sperimentale, il teatro, il film documentario, l'automobile utilitaria. Nonostante la molteplicità degli approcci, ogni elemento messo in campo da May risulta riconducibile a una concezione unitaria che pone al suo centro -- come ha scritto Giorgio Grassi -- uno "stile di vita" ispirato "a una disciplina rigorosa, a una norma morale"[^6]. È significativo che tutti questi accorgimenti si connettano tra loro secondo una metodologia che attinge dal repertorio della tecnica avanguardistica del "montaggio" (non a caso Tafuri, a proposito della nuova Francoforte di May, evoca la "catena di montaggio")[^7]. E tuttavia, questo "sogno di un "socialismo dal volto umano" (...) mistifica il proprio essere tutto rivolto a stimolare i processi produttivi"[^8]: un'anticipazione della "meccanizzazione" della casa borghese. Diverso il caso -- ma non diversi gli effetti -- delle proposte residenziali avanzate da Le Corbusier a partire dai primi anni venti. La *machine-à-habiter* è per lui lo strumento sociale per "evitare la rivoluzione"[^9], ovvero per attuarla in termini architettonici, in modo pacifico. Come l'automobile utilitaria (la stessa di cui si occupava "Das neue Frankfurt"), l'architettura prodotta in serie gli appare destinata a cambiare la vita dei suoi utenti, e non semplicemente a mettere loro a disposizione le proprie prestazioni in una versione più aggiornata. Quale diretta conseguenza di ciò, i tradizionali elementi dell'edificio (pareti, finestre, coperture, ecc.) risultano profondamente aggiornati, come lo sarebbero i pezzi di un meccanismo per effetto di un'innovazione tecnologica, di un ruolo e di un funzionamento differenti, e non per ragioni estetiche o di "gusto". Montandoli uno a uno secondo un "sistema logico" che dalla cellula elementare della Maison Dom-Ino giunge fino al complesso macchinario urbano della Ville Radieuse, Le Corbusier pone in evidenza il necessario legame tra tutte le parti -- o i "pezzi" -- della costruzione dello spazio sociale, da quello privato a quello pubblico, e ne mostra la riducibilità a un unico "discorso". Che la "rivoluzione" architettonica attuata (o quantomeno, attuabile) in questo modo sia concepita da Le Corbusier in termini del tutto antirivoluzionari da un punto di vista politico -- com'è reso esplicito dall'aut aut che egli stesso insistentemente propone: "Architettura o rivoluzione" --, non la priva affatto di un carattere a propria volta politico: infatti > ... la strategia politica dietro questo progetto è chiara: la Maison > Dom-Ino doveva risolvere la penuria di abitazioni per lavoratori, e i > lavoratori erano intesi come i potenziali proprietari delle proprie > abitazioni. Il modello Dom-Ino inscriveva la proprietà privata -- > ovvero il miglior modo, per il capitale, per controllare i lavoratori > -- direttamente nel processo costruttivo della casa. Qui il legame > tra forma urbana e investimento economico già stabilito dalla > trasformazione di Parigi di Haussmann è perfezionato alla scala della > singola abitazione[^10]. L'intento politico del ciclo che connette la cellula alla città va dunque valutato nella sua interezza come espressione della volontà di costruire un mondo nuovo per l'"uomo nuovo" prodotto dal capitalismo (vale a dire per "l'uomo contemporaneo" di cui lo stesso Le Corbusier parla, il quale "avverte (...) l'esistenza di un mondo che si va elaborando regolarmente, logicamente, chiaramente, che produce con purezza cose utili e utilizzabili")[^11]. E se le condizioni di esistenza capitalistiche non risultano in alcun modo sovvertite bensì casomai potenziate dal programma lecorbusieriano, è in ogni caso una mutazione fondamentale quella di cui esso si fa interprete, come riconosce anche Benjamin: "La *ville contemporaine* di Le Corbusier è pur sempre un complesso edilizio lungo una strada maestra. Senonché, col fatto che questa strada è ora percorsa da automobili e che nel centro del complesso atterrano gli aerei, tutto si è trasformato"[^12]. Inoltre, in quanto "regolabile e movibile" e priva di "aura"[^13], la *machine-à-habiter* costituisce "l'epilogo della "casa" come figurazione mitologica"[^14]. Essa è pronta per diventare un prodotto di serie, un dispositivo, vale a dire un prodotto dell'industria: > La grande industria deve occuparsi della costruzione e produrre in > serie gli elementi della casa. (...) Se si sradicano dal proprio cuore > e dalla propria mente i concetti sorpassati della casa e si esamina la > questione da un punto di vista critico e oggettivo, si arriverà alla > casa-strumento, casa in serie, sana (anche moralmente) e bella > dell'estetica degli strumenti di lavoro che accompagnano la nostra > esistenza[^15]. Da qui alla casa-merce il passo è breve. Tuttavia, nonostante i fervidi auspici di Le Corbusier, è soprattutto sotto un profilo formale e figurativo che l'architettura mostra -- soprattutto a partire dal secondo dopoguerra, e in modo ancora più evidente negli ultimi trent'anni -- la sua integrale assimilazione a una merce. È stato nel corso di questo periodo, infatti, che si è verificato un sempre più rilevante processo di identificazione dell'architettura con l'immagine. Facendo ricorso a diversi "espedienti", essa ha fatto gradualmente registrare lo spostamento del proprio "baricentro" dalla mitologia centrale del moderno, consistente essenzialmente nella rappresentazione delle funzioni, a quella -- precipuamente postmoderna -- della comunicazione e della mediatizzazione di se stessa. Nel compiere questa "evoluzione" l'architettura si dichiara idonea, prima che a ogni altra cosa, alla propria diffusione e circolazione. Ed è precisamente in quest'ottica che va intesa la sua trasformazione in immagine. Già nel 1967, con sorprendente lucidità, Guy Debord aveva diagnosticato il destino che attendeva "tutta la vita delle società nelle quali predominano condizioni moderne di produzione"[^16], vale a dire il modo di produzione capitalistico: trasformarsi in "un'immensa accumulazione di spettacoli". Per Debord, nell'epoca del capitalismo avanzato, tutto ciò che in precedenza "era direttamente vissuto si è allontanato in una rappresentazione". In essa l'accumulazione del capitale è giunta a un tale grado da farsi spettacolo, "da divenire immagine"[^17]. E se "lo spettacolo (...) è l'equivalente generale astratto di tutte le merci"[^18], nella proliferazione delle immagini dobbiamo riconoscere null'altro che la proliferazione totale della merce. Anche il rovesciamento dell'affermazione di Debord proposto più recentemente da Matteo Pasquinelli ("Il capitale è spettacolo ad un tale grado di accumulazione da trasformarsi in una skyline di cemento")[^19] non sposta -- e anzi conferma -- la propensione del capitale a investire in merce-architettura. Ed è proprio in quanto merce che essa persegue l'obiettivo che accomuna tutte le merci nell'epoca moderna e contemporanea: presentarsi come perenne novità. "La novità è una qualità indipendente dal valore d'uso della merce"[^20]: non si potrebbe esprimere in maniera più sintetica la relazione che interconnette merce, nuovo e apparenza. Essa appartiene al regno dell'immaginario, non a quello dell'utile. Nonostante l'affermazione di Alois Riegl che il "valore di novità" sia il *beatus possidens* di "un luogo occupato per millenni", esso ha fatto il suo ingresso nell'ambito architettonico relativamente di recente[^21]. L'apposizione del prefisso neo- di fronte alla parata degli stili del passato, lungo tutto l'Ottocento, costituisce la prima avvisaglia di un fenomeno in precedenza del tutto sconosciuto, almeno in quei termini; mentre la denominazione di Art Nouveau, utilizzata tra fine Ottocento e primo Novecento per indicare il complesso di manifestazioni artistiche tese a segnare una svolta rispetto al passato, da un lato, e a dare un volto alla classe borghese divenuta soggetto ormai dominante sulla scena della storia, dall'altro, parla chiaramente dell'ansia di arte e architettura di quel periodo di caratterizzarsi in senso innovativo; anzi, di identificarsi *tout court* con il nuovo. Cosí come -- in maniera se possibile ancora più esplicita -- è significativo che negli anni venti e trenta, soprattutto in ambito tedesco e olandese, vengano impiegate formule come "Neues Bauen", "Neue Baukunst" o "Nieuwbouw" per riferirsi all'insieme delle esperienze relative all'architettura moderna[^22]. Soltanto in seguito il termine "nuovo" scomparirà dal lessico ufficiale dell'architettura, per penetrare in compenso sempre più nel profondo della sua ideologia. "Nuovo" a questo punto non è più l'attributo di una determinata "famiglia" architettonica, comprendente edifici e progetti contraddistinti da caratteri comuni e riconoscibili, riconducibili nel loro complesso alla categoria di "moderno", quanto piuttosto quello di ogni architettura dotata di una propria spiccata individualità, ovvero -- per dirlo in modo più preciso -- di una propria *singolarità*; un'architettura la cui "novità" è dunque fondamentalmente rappresentata dalla propensione per una "differenza" che è spesso sinonimo di stravaganza. Il "nuovo", in quest'ottica, serve all'architettura soprattutto per distinguersi, per attrarre l'attenzione: un accorgimento che essa ha evidentemente assimilato dalla pubblicità, e che, nel rimarcare la sua riduzione a immagine, ne conferma in pieno il carattere di merce. Cosí come, secondo Tafuri, per converso, "non è un caso che il destino dei formalismi si concluda sempre nell'utilizzazione "pubblicitaria" del *lavoro sulla forma*"[^23]. In realtà il potere delle immagini *sub specie architecturae* ha una storia ben più lunga e prestigiosa. Anche volendo limitarsi al XX secolo, si potrebbero ricordare i grandi edifici del potere politico nei regimi totalitari, cosí come quelli del potere economico nelle democrazie: edifici che, nell'adempimento delle proprie funzioni, trasmettono un fascio di idee che comprendono variamente -- e spesso contemporaneamente -- ufficialità, autorità, eternità, inattaccabilità, solidità, stabilità. Del tutto diverso è invece il discorso per quanto riguarda quegli edifici il cui "scopo" precipuo è rivestire il ruolo di *icone*[^24]. Gli "edifici iconici", nella definizione che ne dà Pier Vittorio Aureli, > ... sono tipicamente landmarks singolari il cui scopo è interamente > iscritto all'interno della logica dell'urbanizzazione. E infatti, > l'obiettivo dell'edificio iconico è un'architettura post-politica > spogliata da qualsiasi significato che non sia la celebrazione della > performance economica aziendale[^25]. Prima di questa fase, l'iconicità ha rappresentato la caratteristica distintiva di alcuni edifici eccezionali, nel senso che -- letteralmente -- costituivano delle eccezioni. Nel corso del XX secolo edifici iconici in un modo del tutto diverso da quelli successivi sono stati ad esempio il Salomon R. Guggenheim Museum (1943-59) a New York di Frank Lloyd Wright e l'Opera House (1957-73) di Sydney, di Jørn Utzon. In entrambi i casi i loro autori hanno fatto ricorso a soluzioni formali che sembrano aver tenuto conto della singolarità di cui essi ritenevano fossero portatori i loro edifici. In realtà, nel caso del Guggenheim, ciò che viene progressivamente emergendo dalla lunghissima gestazione dell'edificio è -- più di ogni altra cosa -- una volontà "iconoclasta"[^26], anziché iconica, e di conseguenza un autoritratto della personalità del suo autore, di cui esso ha finito per diventare il massimo emblema; mentre nel caso dell'Opera House -- pur tra le enormi difficoltà progettuali e realizzative che hanno portato il suo autore a disconoscerne la paternità[^27] -- è non soltanto Sydney ma addirittura l'Australia intera a essere "condensata" nella sua celebre immagine. Ma è forse con il Centre Georges Pompidou (1971-77) che architettura e immagine sembrano arrivare a identificarsi perfettamente. E tuttavia, ancora una volta, con molte radicali differenze rispetto non solo ai suoi successori, ma anche a ogni banale pretesa simbolica. Per quanto assai rilevante sotto molteplici punti di vista, infatti, il Centre Pompidou non può certo ambire a rappresentare, come parte per il tutto, il luogo in cui sorge -- Parigi o la Francia --, e neppure l'intera opera dei suoi autori: Renzo Piano, Richard Rogers o Peter Rice. Esso piuttosto rappresenta nella maniera più compiuta il tentativo delle autorità francesi -- e del presidente Pompidou in primo luogo -- di dare vita a un edificio che rispondesse, incorporandole, alle istanze del Maggio '68 francese. Ciò di cui la grande "macchina per comunicare"[^28] è la rappresentazione è la totale *autonomia* della sua immagine rispetto a qualsiasi suo "contenuto". Come ha rilevato Jean Baudrillard, > ... con il suo intreccio di tubi (...) con la sua fragilità > (calcolata?), che dissuade da ogni mentalità o monumentalità > tradizionale, la macchina Beaubourg > ... proclama apertamente che il nostro tempo non sarà mai più quello > della durata, che la nostra sola temporalità è quella del ciclo > accelerato e del riciclaggio, quella del circuito e del transito di > fluidi[^29]. In questo processo di trasmutazione il Centre Pompidou si afferma come immagine, non certo dell'istituzione museale che nega di essere, bensì della "rottura delle molecole culturali e \[del\] loro ricombinarsi in prodotti di sintesi". Immagine dunque della frantumazione di un'immagine, sostituita da un festoso apparato di strutture metalliche, tubi colorati e spazi liberi (almeno nelle intenzioni) per usi diversi. È interessante notare al proposito come -- attraverso un'operazione di grande complessità, condotta in tempi rapidissimi (il bando di concorso è messo a punto già nel 1970, ad appena due anni di distanza dall'acme del movimento) e in cui sono coinvolti numerosissimi soggetti con svariate competenze -- la "controcultura" del '68, ovvero la cultura "alternativa" sviluppatasi in Francia e non solo in quell'intorno di anni, venga fatta propria, integrata in un edificio sorto per volontà di un potere destinato comunque ad affermare (e a confermare) la propria indiscussa centralità. E non è meno sorprendente il fatto che il potere compia un cosí vistoso "spostamento" dalla propria auto-rappresentazione tradizionale di quanto lo sia il fatto che per farlo utilizzi le medesime "armi" del nemico (tra essi, gli echi del progetto del Fun Palace di Cedric Price per Joan Littlewood e dei disegni "tecno-utopici" di Archigram). Ed è altresí interessante che le istanze di rinnovamento e le aspirazioni di egemonia culturale dello Stato francese vengano incanalate in una forma corrispondente a ciò che nuovamente Baudrillard definirà un "ipermercato della cultura", ovvero "un oggetto da consumare, (...) un edificio da manipolare"[^30]: dove i processi di reificazione e di mercificazione sono ormai trasparenti. Pur radicandosi sul medesimo "ceppo", la ramificazione del discorso relativa agli *iconic buildings* si sviluppa in un modo differente, a partire proprio dal ruolo da essi occupato all'interno dei rispettivi contesti urbani. Il Guggenheim Museum di Bilbao (1991-97) di Frank O. Gehry si è guadagnato il titolo di capostipite della famiglia degli *iconic buildings* non soltanto per le sue forme vistose e sorprendenti ma anche per lo studiato posizionamento in un punto strategico della città, sulla riva del fiume Nervión[^31]. L'intera vicenda del Guggenheim -- compresi gli articolati rapporti tra il governo dei Paesi Baschi, il direttore della Solomon R. Guggenheim Foundation, Thomas Krens, e l'architetto Gehry -- costituisce in questo senso un esempio da manuale, che in molte altre occasioni in seguito si è cercato di replicare[^32]. È soprattutto in queste ultime, tuttavia, che in modo sempre più lampante emerge come le presunte "eccezioni" siano in realtà funzionali a confermare la regola. Eccentricità formali e appariscenze cromatiche propagano ai quattro venti il roboante annuncio che "tutto rimarrà come prima", ovvero che non è in corso alcuna "rivoluzione", o meglio ancora che l'"ordine costituito" non verrà minimamente smentito o scalfito dal nuovo inserimento. "Piuttosto che essere forme agonistiche, le "icone" contemporanee sono la manifestazione finale e celebrativa della *Grundnorm* dell'urbanizzazione: la vittoria dell'ottimizzazione economica sul giudizio politico"[^33]. Nell'estensione sconfinata delle città contemporanee, gli edifici iconici assumono il valore di un "richiamo" (da intendersi nel senso in cui la medicina utilizza il termine: la re-inoculazione di una sostanza per consolidare uno stato d'immunità. Dove l'immunità in questione è riferita a qualsiasi cambiamento sostanziale da parte dell'"organismo" complessivo). Ma che cosa ne è dell'architetto allorché l'architettura abbia fatto il suo ingresso nel "circuito" della spettacolarizzazione capitalistica? Da quel momento in avanti -- e poi con sempre maggiore frequenza -- si trova a rivestire il ruolo del "creatore di spettacoli". Non si tratta ovviamente di un ruolo inedito per lui: in svariati momenti della storia agli architetti è spettato il compito di allestire feste, di mettere in scena rappresentazioni e di progettare edifici effimeri di vario genere[^34]; e la "festa del capitale", da questo punto di vista, non pare discostarsi troppo dalla festa barocca. Ma anche nel vero e proprio esercizio della loro professione gli architetti hanno avuto spesso modo di conferire ai propri edifici caratteri altamente spettacolari. Ciò di per sé non costituisce un problema, al di fuori di quei casi in cui tale spettacolarità assume tratti del tutto gratuiti; cosí come, per converso, non per forza di cose l'elemento che accomuna tra loro gli edifici iconici contemporanei è un'esplicita spettacolarità. In fondo, lo stesso fenomeno degli *iconic buildings* costituisce soltanto il caso particolare (e forse oggi -- almeno in parte -- esaurito, o comunque "attutito" rispetto ad alcuni anni fa) di un discorso più vasto e generalizzato; la punta di un iceberg la cui "spettacolarità" consente a esso di emergere con maggiore evidenza. Sulla possibile reversibilità di questo aspetto hanno contato coloro che -- in controtendenza rispetto all'orientamento più largamente diffuso -- hanno cercato di mettere in scacco tale spettacolarizzazione. Cercare di farlo, tuttavia, può costringere a compiere "salti" singolari, apportatori di illuminanti paradossi. Nel 2006 lo studio OMA ha progettato il Dubai Renaissance, un bianco volume monolitico di 300 metri di altezza per 200 di larghezza, destinato a uffici, hotel e suite residenziali. Nel testo di presentazione dell'edificio si legge: > L'ambizione di questo progetto è di concludere la fase attuale > dell'idolatria architettonica -- l'età dell'icona -- in cui > l'ossessione del genio individuale supera di gran lunga l'impegno per > lo sforzo collettivo necessario a costruire la città. Invece di > un'architettura della forma e dell'immagine, abbiamo creato una > reintegrazione di architettura e ingegneria, dove l'intelligenza non è > investita in effetti, ma in una logica strutturale e concettuale, che > offre un nuovo tipo di prestazioni e funzionalità[^35]. L'edificio che ne deriva s'ispira a una nuova Simplicity^TM^ (si badi bene, affiancata dal *trademark*) che tra i suoi attributi enumera qualità come *pure*, *straight*, *substantial*, *objective*, *predictable*, *original*, *honest* e *fair*. Nonostante le sue "buone" intenzioni, tuttavia, il Dubai Renaissance risulta soltanto una falsa reazione all'"idolatria architettonica": come appare evidente dalla tavola elaborata dallo stesso OMA, dove esso è messo a confronto con una parata di "vanità" architettoniche (dalle Petronas Towers di César Pelli a Kuala Lumpur, al Burj al-'Arab di Tom Wright nella stessa Dubai), dalle quali in realtà si distingue soltanto per le sembianze candide e per i lineamenti uniformi. Pur rinunciando all'espressività delle forme e all'impatto dei colori, il Dubai Renaissance è animato dalla medesima volontà di stupire presente negli altri edifici iconici che insieme a esso compongono una surreale "città analoga" nel deserto arabico. Affermare una "iconoclastia" in luogo di una "iconolatria", cosí come vagheggiare una città post-iconica[^36] in un mondo post-iconico, da questo punto di vista, appaiono tentativi ineffettuali destinati al fallimento, o a essere rapidamente assorbiti nelle capaci fauci di un onnivoro capitalismo. Come già detto, comunque, il nocciolo della questione non sta nell'"originalità" del ruolo degli architetti odierni rispetto a quello rivestito da essi in passato; né nell'eccentricità dei loro progetti rispetto alla "canonicità" (vera o presunta) di quelli di altre epoche storiche. E non consiste neppure nella posizione oggi assunta dagli architetti nei confronti della società in cui operano. Il vero problema è piuttosto quale posizione occupino gli architetti nei processi produttivi attuali. Non si tratta dunque di un problema soggettivo, bensì di un problema -- come già ben compreso da Walter Benjamin negli anni trenta[^37] -- *tecnico*. Detto in altri termini, il problema è se -- e in quale misura -- gli architetti odierni, esercitando il loro ruolo di "creatori di spettacoli", oppure piuttosto rivestendone un altro, riescano a operare una *trasformazione* dell'apparato produttivo, e se -- e quanto -- invece compiano nei confronti di questo un "semplice rifornimento"[^38]. Come chiarisce lo stesso Benjamin, > ... rifornire un apparato produttivo senza trasformarlo (nella misura > del possibile) rappresenta un procedimento estremamente oppugnabile > persino quando i contenuti di cui è rifornito questo apparato sembrano > di natura rivoluzionaria. In questa prospettiva, il "rifornitore" di un apparato produttivo è colui che si limita a perpetuarlo, o che al più lo rinnova "dall'interno (...) secondo la moda", di conseguenza "lasciandolo cosí com'è"[^39]. Significativamente, per indicare i "rifornitori", Benjamin fa ricorso anche al termine francese *routiniers* (coloro che si conformano all'abitudine, che ripetono stancamente il già noto), intendendo con esso coloro che rinunciano ad apportare correzioni al sistema di produzione[^40]. A ciò egli contrappone il *Produzent* (produttore): non semplicemente colui che produce (o piuttosto, che banalmente ri-produce), quanto piuttosto colui che trasforma in senso tecnico l'apparato produttivo. La domanda da porsi a questo punto è: sono in grado gli architetti attuali, con il loro intervento, di trasformare l'apparato produttivo nel quale sono inseriti? Le trasformazioni verificatasi nell'architettura nel corso dell'ultimo secolo -- e poi, in modo sempre più rapido, nel corso degli ultimi decenni (trasformazioni che, al di là degli aspetti strutturali e di quelli estetico-formali, hanno contrassegnato il suo progressivo *divenir-merce*) -- hanno inesorabilmente modificato anche la posizione occupata dagli architetti all'interno dell'apparato produttivo. Non che in precedenza questi godessero di una maggiore indipendenza, ma ancora nel corso degli anni venti e nei primi anni trenta, e successivamente tra gli anni cinquanta e sessanta, vi sono stati tentativi -- pur spesso conclusisi in delusioni, sconfitte, o in strategici ripiegamenti -- di *spostare* sostanzialmente il senso del lavoro dell'architetto, a volte anche a costo di scontri o di rinunce: si pensi ad esempio all'impostazione della didattica del Bauhaus di Dessau da parte di Hannes Meyer, tutta improntata a una "scientificizzazione spinta dei processi architettonici"[^41]; o ai progetti radicali -- architettonici e urbani -- di Ludwig Hilberseimer, rigorosi al punto da superare ogni ipotesi funzionalista o formalista, e rivolgersi piuttosto a un soggetto post-umanista[^42]; o al ripensamento profondo della stessa idea di progetto -- e conseguentemente di oggetto -- architettonico da parte di Cedric Price[^43]; o ancora, alla monumentale opera "minimale" compiuta da Aldo van Eyck con la realizzazione di oltre settecento *playgrounds* nell'ambito dell'intervento per la municipalità di Amsterdam[^44]. In seguito, invece, una stessa "sorte" epocale sembra aver coinvolto molti architetti, più ancora che a compiere una consapevole o prudente ritirata verso posizioni più riparate, ad "accomodarsi" semplicemente nei ruoli loro offerti da un intendimento sociale. Al punto che oggi una delle loro funzioni preminenti, per dirla ancora una volta con le parole di Benjamin, "è quella di rinnovare il mondo dall'interno -- in altre parole: secondo la moda --, lasciandolo cosí com'è". Ma se, come si è visto, la trasformazione dell'architettura in merce ha quale suo necessario corollario la trasformazione dell'architetto in "rifornitore" (*rifornitore di merci*), vi è però un'ulteriore ed estrema trasformazione che questi subisce nel corso di tale processo, e in diretta conseguenza di esso: la trasformazione dell'architetto stesso in merce. Ciò può essere inteso in due accezioni diverse, corrispondenti a due "profili" di architetti ritenuti -- nella gran parte dei casi, a torto -- altrettanto diversi tra loro. La prima accezione è quella che tende a identificare l'architetto contemporaneo con un moderno demiurgo, dotato di spiccate doti autoriali e di una forte riconoscibilità stilistica. Questa figura si confonde con il mito dell'architetto-*archistar*. In qualità di merce -- e merce di "lusso" -- l'architetto-*archistar* ha fama di essere molto prezioso, e perciò anche altrettanto desiderato e "corteggiato"; inoltre, lo si ritiene capace di disporre pienamente dei propri strumenti, delle proprie tecniche, dei propri linguaggi, e ancora di più, di disporre di sé nel senso più generale, di autodeterminarsi, ma al tempo stesso pure di essere libero d'imporre le proprie scelte. Per tutte queste ragioni, *in quanto merce*, l'architetto-*archistar* induce l'idea di non essere "soggetto" al mercato, bensì piuttosto di occuparvi una posizione privilegiata, se non addirittura di dominarlo. Questa prima accezione -- che è la più largamente diffusa -- è al tempo stesso anche la più facilmente falsificabile. La seconda accezione è legata a una situazione come quella attuale, in cui una grandissima sovrabbondanza di architetti disponibili sul mercato fa aumentare a dismisura la concorrenza tra loro, costringendo molti ad accettare condizioni di pesante deprezzamento del proprio lavoro. L'architetto in questo modo finisce per vendere se stesso come una merce svalutata. È il caso di moltissimi giovani architetti che lavorano gratis, o sottopagati, senza contratto, senza orari, senza riposi settimanali, senza ferie pagate, senza pensione. Di questi architetti-lavoratori sfruttati e delle condizioni di produzione del progetto negli studi contemporanei bisognerà tornare a parlare più oltre. In questo caso come nell'altro, comunque, al di là delle differenze più o meno apparenti, la mercificazione investe direttamente l'architetto, il quale in tal modo -- oltre che delle proprie "merci" -- rifornisce il mercato anche di se stesso. [^1]: Per le nozioni di valore d'uso, valore d'uso sociale, valore di scambio, il riferimento è ovviamente Karl Marx, *Il Capitale*, Editori Riuniti, Roma 1980, vol. I, pp. 67 e sgg. [^2]: Per un'utile (per quanto episodica) lettura in tal senso vedi *Architecture and Capitalism. 1845 to the Present*, a cura di Peggy Deamer, Routledge, New York 2014. [^3]: Sul tema vedi, tra gli altri, le interessanti raccolte *Housing in Europa 1. 1900-1960* e *Housing in Europa 2. 1960-1979*, Luigi Parma, Bologna 1978 e 1979; Roger Sherwood, *Modern Housing Prototypes*, Harvard University Press, Cambridge (Mass.) 1978; e inoltre *Las formas de la residencia en la ciudad moderna*, a cura di Carlos Martí Arís, Edicions UPC, Barcelona 2000. [^4]: Vedi *Die Frankfurter Küche von Margarete Schütte-Lihotzky*, a cura di Peter Neover, Ernst & Sohn, Berlin 1991. [^5]: Ernst May, *Cinque anni di attività di edilizia residenziale a Francoforte sul Meno*, in "Das neue Frankfurt", n. 2-3, 1930, ora in G. Grassi (a cura di), *Das neue Frankfurt 1926-1931*, Edizioni Dedalo, Bari 1975, p. 208. [^6]: Giorgio Grassi, *Das neue Frankfurt e l'architettura della nuova Francoforte*, in Grassi (a cura di), *Das neue Frankfurt 1926-1931* cit., p. 9. [^7]: Tafuri, *Progetto e utopia* cit., p. 107; Manfredo Tafuri e Francesco Dal Co, *Architettura contemporanea*, Electa, Milano 1976, p. 153. [^8]: Francesco Dal Co, *Architetti e città -- Unione Sovietica 1917-1934*, in *Socialismo, città, architettura -- URSS 1917-1937. Il contributo degli architetti europei*, testi di Alberto Asor Rosa, Bruno Cassetti, Giorgio Ciucci, Francesco Dal Co, Marco De Michelis, Rita Di Leo, Kurt Junghanns, Gerritt Oorthuys, Vítězslav Procházka, Hans Schmidt, Manfredo Tafuri, Officina Edizioni, Roma 1971, p. 106. [^9]: Le Corbusier, *Verso una architettura* (1923), Longanesi, Milano 1973, p. 243. [^10]: Pier Vittorio Aureli, *Means to an End. The Rise and Fall of the Architec­tural Project of the City*, in Id. (a cura di), *The City as a Project*, Ruby Press, Berlin 2013, p. 37. [^11]: Le Corbusier, *Verso una architettura* cit., pp. 241-43. [^12]: Walter Benjamin, *Parigi capitale del* *XIX* *secolo*, Einaudi, Torino 1986, p. 533. [^13]: Vedi Walter Benjamin, *Esperienza e povertà* (1933), in Id., *Esperienza e povertà*, a cura di Massimo Palma, Castelvecchi, Roma 2018, p. 55. [^14]: Benjamin, *Parigi capitale del* *XIX* *secolo* cit. [^15]: Le Corbusier, *Verso una architettura* cit., p. 187. [^16]: Guy Debord, *La società dello spettacolo* (1967), Sugarco, Milano 1990, p. 85. [^17]: *Ibid.*, p. 97. [^18]: Debord, *La società dello spettacolo* cit., p. 108. [^19]: Matteo Pasquinelli, *Oltre le rovine della Città Creativa: la fabbrica della cultura e il sabotaggio della rendita*, in Marco Baravalle (a cura di), *L'arte della sovversione*, Manifestolibri, Roma 2009, p. 152. L'affermazione originale di Debord recita "Lo spettacolo è il capitale ad un tal grado di accumulazione da divenire immagine". [^20]: Benjamin, *Parigi capitale del* *XIX* *secolo* cit., p. 15. [^21]: Alois Riegl, *Il culto moderno dei monumenti. Il suo carattere e i suoi inizi* (1903), a cura di Sandro Scarrocchia, Abscondita, Milano 2017, p. 55. [^22]: Vedi, tra i molti altri, Ludwig Hilberseimer, *Internationale Neue Baukunst*, Julius Hoffmann, Stuttgart 1927; Bruno Taut, *Die neue Baukunst in Europa und Amerika*, Julius Hoffmann, Stuttgart 1929; Adolf Behne, *Neues Wohnen, neues Bauen*, Hesse & Becker, Leipzig 1930; Jacobus Johannes Pieter Oud, *Nieuwe bouwkunst in Holland en Europa*, De Driehoek, 's-Graveland 1935. [^23]: Manfredo Tafuri, *Lavoro intellettuale e sviluppo capitalistico*, in "Contropiano", n. 2, 1970, p. 268. [^24]: Charles Jencks, *The Iconic Building. The Power of Enigma*, Rizzoli, New York 2005. [^25]: Pier Vittorio Aureli, *The Possibility of an Absolute Architecture*, MIT Press, Cambridge (Mass.) 2011, p. XII. [^26]: Francesco Dal Co, *The Guggenheim. Frank Lloyd Wright's Iconoclastic Masterpiece*, Yale University Press, New Haven 2017. [^27]: Françoise Fromonot, *Jørn Utzon architetto della Sydney Opera House*, Electa, Milano 1998. [^28]: Francesco Dal Co, *Centre Pompidou. Renzo Piano, Richard Rogers, and the Making of a Modern Monument*, Yale University Press, New Haven 2016. [^29]: Jean Baudrillard, *L'effetto Beaubourg. Implosione e dissuasione*, in Id., *Simulacri e impostura. Bestie, Beaubourg, apparenze e altri oggetti*, a cura di Matteo G. Brega, Pgreco, Milano 2008, pp. 27-44, e in particolare p. 31. [^30]: Baudrillard, *L'effetto Beaubourg* cit., pp. 35 e 38. [^31]: Coosje Van Bruggen, *Frank O. Gehry. Guggenheim Museum Bilbao*, Guggenheim Museum Publ., New York 1999; John Rajchman, *Effetto Bilbao*, in "Casabella", n. 673-74, 1999-2000, pp. 10-11. [^32]: Vedi ad esempio Davide Ponzini e Michele Nastasi, *Starchitecture. Scene, attori e spettacoli nelle città contemporanee*, Allemandi, Torino 2011. [^33]: Aureli, *The Possibility of an Absolute Architecture* cit., p. XII. [^34]: Sul tema della festa barocca vedi, tra gli altri, Marcello Fagiolo, *La festa barocca*, De Luca, Roma 1997, nonché Id. (a cura di), *Le capitali della festa. Italia settentrionale e Italia centrale e meridionale*, 2 voll., De Luca, Roma 2007-2008. [^35]: Vedi http://www.oma.eu/projects/2006/dubai-renaissance/. [^36]: Josep Lluís Mateo e altri (a cura di), *Iconoclastia. News from a Post-Iconic World. Architectural Papers IV*, ETH -- Eidgenössische Technische Hochschule -- Ed. Actar, Zürich -- Barcelona 2009. [^37]: Walter Benjamin, *L'autore come produttore* (1934), in Id., *Avanguardia e rivoluzione. Saggi sulla letteratura*, Einaudi, Torino 1973, pp. 199-217 (ora in *Opere complete*, VI. *Scritti 1934-1937*, ivi 2004). Si tratta del medesimo saggio citato da Manfredo Tafuri in *La sfera e il labirinto. Avanguardie e architettura da Piranesi agli anni '70*, Einaudi, Torino 1980, p. 352, a proposito delle ricerche architettoniche degli anni sessanta e settanta. Sulle sue considerazioni al proposito si dovrà tornare più oltre. [^38]: Benjamin, *L'autore come produttore* cit., p. 207. [^39]: *Ibid.*, p. 209. [^40]: *Ibid.*, p. 208. [^41]: Francesco Dal Co, *Hannes Meyer e la venerabile scuola di Dessau*, in Hannes Meyer, *Scritti 1921-1942. Architettura o rivoluzione*, a cura di F. Dal Co, Marsilio, Padova 1969, p. 38. [^42]: K. Michael Hays, *Modernism and the Posthumanist Subject. The Architecture of Hannes Meyer and Ludwig Hilberseimer*, The MIT Press, Cambridge (Mass.) 1992. [^43]: Stanley Mathews, *From Agit-Prop to Free Space: The Architecture of Cedric Price*, Black Dog Publishing, London 2007. [^44]: Liane Lefaivre e Ingeborg de Roode (a cura di), *Aldo van Eyck. Playgrounds*, NAi Publishers, Rotterdam 2002. # Il ruolo dell'architetto intellettuale L'esordio della storia dell'architettura moderna viene fatto coincidere, secondo il parere di molti studiosi, con la concezione della cupola di Santa Maria del Fiore da parte di Filippo Brunelleschi[^1]. La nota vicenda legata al completamento del Duomo di Firenze, risolvibile tradizionalmente facendo ricorso all'impiego di armature (centine) di legno, nella circostanza non applicabili a causa delle grandi dimensioni dello spazio da voltare, diviene l'occasione per Brunelleschi non soltanto per applicare il proprio sapere costruttivo, frutto dello studio diretto dell'antico, ma anche per affermare e difendere, "per la prima volta, (...) la "professionalità" dell'architetto contro il vago "magistero" dell'artefice, la priorità dell'invenzione tecnica sulla perizia del mestiere"[^2]. Non si tratta soltanto di una "rivendicazione di categoria": nella distinzione tra il momento del progetto e quello dell'esecuzione è in gioco anche la distinzione tra un'attività "liberale" e un'attività "meccanica", e dunque l'assunzione da parte dell'individuo colto del compito di organizzare e guidare la società. È la nascita dell'intellettuale come soggetto attivo, oltreché come figura speculativa. Significativamente, Antonio Manetti, il primo biografo di Brunelleschi, ne mette in rilievo sopra ogni altra cosa il grande e meraviglioso "intelletto"[^3]. Un intelletto che non agisce certo nell'isolamento e che necessita degli altri per poter compiere la propria "azione"[^4], ma che al tempo medesimo pone se stesso e il proprio operare su un piano completamente diverso rispetto a quello occupato dai suoi interlocutori. Non a caso, tutte le sue biografie non mancano di riportare -- sia pure in versioni differenti -- un episodio emblematico: nel 1430, in seguito alle proteste dei "maestri di cazzuola" per le fatiche e i pericoli del lavoro sulla cupola, egli decide di licenziarli e di sostituirli con maestranze lombarde, salvo in seguito riassumerli tutti (tranne uno) a un salario più basso[^5]. Si tratta della dimostrazione più evidente del fatto che la supremazia dell'uomo d'intelletto si esercita in termini di potere di comando e di controllo, ma assume anche connotazioni che ne distinguono non tanto la mansione o il ruolo quanto piuttosto l'appartenenza a una *classe*. Ciò che l'episodio fa emergere impetuosamente -- cosí come l'intero intervento di Brunelleschi a Santa Maria del Fiore -- è cioè "il tema della moderna divisione sociale del lavoro"[^6]. La coincidenza del sorgere della figura dell'architetto come intellettuale e del manifestarsi di rapporti di classe prefiguranti quelli che si instaureranno con la rivoluzione industriale tra la borghesia e il proletariato non è evidentemente casuale. Come rileva ancora Tafuri, "l'intellettuale-architetto (...) rivendicando l'autonomia del proprio ruolo, (...) si pone all'avanguardia delle nuove classi al potere". E aggiunge: "tanto da poter persino entrare in conflitto con esse là dove queste non siano disposte ad essere conseguenti fino in fondo con le proprie premesse". L'episodio a cui allude Tafuri è probabilmente quello riferito da Vasari, secondo il quale, avendo ricevuto da Cosimo de' Medici l'incarico di progettare un palazzo in piazza San Lorenzo, a Firenze, Brunelleschi ne "fece un bellissimo e gran modello"; ma poi, "parendo a Cosimo troppo sontuosa e gran fabbrica, più per fuggire l'invidia che la spesa, lasciò di metterla in opera"; al che Brunelleschi, "intendendo la resoluzione di Cosimo, che non voleva tal cosa mettere in opera, con sdegno in mille pezzi il disegno ruppe"[^7]. Non sono tuttavia numerosi i casi in cui l'architetto si ribellerà -- o addirittura, si opporrà concretamente -- al potere e ai potenti, nei secoli successivi. E semmai un indizio della sempre maggiore assimilazione degli architetti al sistema di potere di volta in volta vigente si lascia rintracciare nel loro parallelo cercare rifugio in un'attività che tende sempre meno a identificarsi -- come accadeva ancora nel caso di Brunelleschi -- con il solo progetto architettonico, e che si apre via via ad altre espressioni e linguaggi: dal disegno come tecnica (almeno potenzialmente) affrancata dalla realizzazione concreta, alla scrittura come pratica finalizzata non esclusivamente a verbalizzare le "regole" dell'architettura ma anche a produrre su di essa "discorsi" di natura diversa, spesso scopertamente soggettivi: non più trattati, insomma, quanto piuttosto "punti di vista", "opinioni" sull'architettura. Ciò che ne deriva è una forma di indipendenza dell'architetto non solo nei confronti della committenza ma anche nei confronti della propria stessa attività; sviluppando la *teoria* come una dimensione al tempo stesso organica e autonoma di questa, l'architetto porta a compimento il processo di autoaffermazione di sé come intellettuale. In questo senso, Leon Battista Alberti incarna al suo massimo grado la figura dell'intellettuale-umanista che estende *anche* all'architettura il proprio ambito d'interessi, tanto scrivendone (nella forma canonica del trattato)[^8], quanto progettandola (senza però interessarsi attivamente alle fasi costruttive)[^9]. E infatti nella definizione che egli dà dell'architetto si preoccupa prima di ogni altra cosa di sgombrare il campo dai possibili equivoci circa il ruolo di questi come artista-intellettuale, distinguendolo nettamente da quello di altre figure che si occupano in modo diverso di costruzioni, come il *faber tignarius*: > ... non prenderò certo in considerazione un carpentiere, per > paragonarlo ai più qualificati esponenti delle altre discipline: il > lavoro del carpentiere infatti non è che strumentale rispetto a quello > dell'architetto[^10]. E invece > ... architetto chiamerò colui che con metodo sicuro e perfetto sappia > progettare razionalmente e realizzare praticamente, attraverso lo > spostamento dei pesi e mediante la riunione e la congiunzione dei > corpi, opere che nel modo migliore si adattino ai più importanti > bisogni dell'uomo. Dove anche il "realizzare praticamente" va inteso piuttosto come capacità di compiere *reali* verifiche delle ipotesi progettuali formulate che non come un diretto intervento dell'architetto nelle fasi costruttive dell'edificio. Pur non essendo possibile seguire analiticamente le avventure dell'architetto intellettuale dal Rinascimento in avanti (in larga parte coincidenti, del resto -- almeno fino a tempi abbastanza recenti --, con la storia dell'architettura *tout court*), non si può mancare almeno di ricordare il ruolo occupato all'interno di esse da Andrea Palladio: non soltanto in qualità di progettista di un'imprescindibile "rete" di edifici in terra veneta, ma soprattutto in quanto autore dei *Quattro Libri dell'Architettura* (1570). Sono proprio questi ultimi a costituire il perfetto paradigma -- a ben guardare mai eguagliato da alcuno né prima né dopo di lui -- del tradursi *in atto* di un'intellettualità architettonica. Fuggendo "la lunghezza delle parole", limitandosi dunque a "quelle avvertenze, che mi parranno più necessarie"[^11], e affiancandovi "alcuni disegni" di cui fornisce le "misure, da' quali potrà ciascuno facilmente, secondo che se gli offerirà l'occasione, esercitando l'acutezza del suo ingegno, pigliar partito e far opera degna di esser lodata"[^12], Palladio consegue la più compiuta sintesi tra testi e immagini raggiunta in un trattato: dove i disegni "dicono" ciò a cui le parole alludono soltanto. La sorprendente "perspicuità" dell'*opus* palladiano, se costituisce l'irrefutabile presupposto della sua fortuna planetaria[^13], è anche lo specchio ingannevole con il quale abbagliare coloro che non sono "in tale arte istruiti". Ciò rende *I Quattro Libri*, al tempo stesso, "per tutti e per nessuno", o perlomeno per quel numero ristretto d'"intendenti" che sappia comprenderne e applicarne il codice sotteso. Ed è straordinariamente significativo che sia proprio lo strumento del disegno -- nella semplice forma della proiezione ortogonale in pianta, sezione e alzato -- a rendere pienamente effettuale l'operazione intellettuale compiuta dall'architetto. Con una notazione ulteriore: pur raccogliendo opere esemplari realizzate da autori antichi e "moderni" (tra questi ultimi, soltanto Donato Bramante, oltre a se stesso), il trattato di Palladio richiede di essere letto come una teoria generale della progettazione basata sul sistema degli ordini e delle proporzioni; una teoria capace di approssimarsi tanto all'"idea" da distanziarsi persino dalla realtà[^14]. Sarà Giovanni Battista Piranesi -- trecento anni più tardi -- a mostrare invece come l'architetto possa ormai concepire se stesso in modo quasi del tutto svincolato dalla produzione progettuale, senza con questo cessare di considerarsi architetto a tutti gli effetti. Piranesi fa del disegno qualcosa di più di un mezzo di prefigurazione o di rappresentazione della realtà: e infatti, nelle *Antichità Romane* (1756), come nelle *Vedute di Roma* (1778), esso ha il compito di dissezionare e di catalogare in ogni sua parte il "corpo" della città, al fine di farne non tanto un semplice rilievo, quanto piuttosto un approfondito studio analitico-critico[^15]; nel caso delle *Carceri d'invenzione* (1761) e del *Campo Marzio dell'Antica Roma* (1762), invece, il disegno rimane volutamente incerto tra memoria archeologica e progetto del nuovo, escludendo comunque dal proprio orizzonte qualsiasi eventualità di realizzazione. In entrambi i casi, oltrepassa il valore di strumento meramente tecnico, per divenire un vero e proprio dispositivo che permette a Piranesi di definire senza condizionamenti il proprio campo d'azione. Un'assenza di condizionamenti che si può misurare innanzitutto sul piano intellettuale. Non per nulla, il testo teorico più importante di Piranesi, il *Parere sull'Architettura* (1765), è organizzato in forma *dialogica*, vale a dire la modalità espressiva più lontana dalla prescrittività della trattatistica. Nella composizione dialettica delle opinioni sostenute da Protopiro e Didascalo è sintetizzabile il "parere" piranesiano, sostenitore del "libero gioco della creatività, che si esprime nella sede "privilegiata" dell'ornamento", ma anche della necessità di dotare quest'ultimo dei "criteri compositivi" ispirati "ai metodi con i quali la natura crea e dispone i propri fenomeni"[^16]. La libertà creativa individuale, sia pur temperata dal riferimento al piano "oggettivo" e condivisibile della natura, è dunque la manifestazione della presa di coscienza del ruolo ormai compiutamente *intellettuale* dell'architetto. Ma è anche la chiara manifestazione di una crisi. Mentre si emancipa progressivamente dalla "fisica" del potere (soltanto più tardi scoprirà di essere inesorabilmente immerso nella sua "microfisica")[^17], l'architetto intellettuale si trova sempre di più al cospetto di una frantumazione che riguarda la disciplina di cui si occupa non meno che il proprio io. Ancora una volta, Piranesi è il precoce annunciatore di entrambi i fenomeni. Ma più in generale, il fiorire -- tra XVII e XIX secolo -- di polemiche[^18], pamphlet e saggi[^19] di ogni genere relativi all'architettura è indice dell'affermarsi di certezze proclamate con tanto più vigore e animosità quanto più si rivelano il frutto di una costitutiva arbitrarietà e soggettività. Tramontata l'epoca in cui poteva esercitare le sue funzioni ricorrendo *sola mente* ai lucidi schemi desunti dagli *aeterna exempla* del classico, ora l'architetto è costretto a ripiegarsi su se stesso per trovare frammenti di "verità" individuali, ma sempre più spesso per nascondere la propria inadeguatezza e per coprire i propri dubbi. La "personalità" dell'architetto, in certi casi, inizia ad assumere maggiore importanza della sua stessa opera. L'affermarsi di una dimensione teorica ormai non più correlata con una stretta normatività comporta la necessità di connotare fortemente ciascuna teoria, al fine di differenziare l'una dall'altra, in un gioco di prese di posizione e di distanza che in molti casi ha l'effetto di radicalizzarle. Si ripensi all'*incipit* di *Architecture. Essai sur l'art* di Étienne-Louis Boullée: "Che cos'è l'architettura? La definirò forse con Vitruvio l'arte del costruire? No"[^20]. La "sacralità" degli antichi -- e di Vitruvio quale massima autorità in materia architettonica -- viene deliberatamente infranta. Per Boullée l'architettura ha piuttosto a che fare con la "poesia", ovvero con il "carattere" che ciascun tipo di costruzione deve esprimere, sulla base di un preciso rapporto *analogico* tra forma e contenuto degli edifici: "Le immagini che essi offrono ai nostri sensi dovrebbero suscitare in noi sentimenti corrispondenti all'uso al quale essi sono consacrati"[^21]. La radicalizzazione della teoria si manifesta però al suo massimo grado nell'opera di un allievo di Boullée, Jean-Nicolas-Louis Durand. Nei due libri del *Précis des leçons données à l'École Polytechnique* (1802-809), la *raison* è ormai diventata un'*ideé fixe*, una vera e propria ossessione; ed è nelle tavole che l'accompagnano (in particolar modo della seconda parte), più ancora che nel testo, che essa trova la sua più piena espressione: planimetrie e alzati le cui combinazioni e permutazioni rigorosamente geometriche lasciano pochi dubbi in merito alla "natura" della teoria sostenuta. Il cui autore, con altrettanta chiarezza, risulta tramutato in un suo "sostenitore"[^22]. Ma è proprio a fronte dell'esasperazione delle posizioni e dell'inoperatività che spesso vi si associa -- e al conseguente rischio di isolamento nel quale con sempre maggiore frequenza incorre l'architetto intellettuale -- che questi tende ad "aprire" la propria visione a una dimensione più allargata, collettiva, caratterizzata non di rado in senso spiccatamente utopico. A partire da *L'architecture considérée sous le rapport de l'art, des moeurs et de la législation* (1804) di Claude-Nicolas Ledoux, l'architetto si propone come "pensatore" -- o "ripensatore" -- della città e della società. Affiancandosi, o sostituendosi addirittura, alle tradizionali figure di riferimento (il filosofo, il politico, l'industriale, il pedagogo, il filantropo)[^23], l'architetto si appropria del mito riformista, sia pure proiettato in un mondo soltanto immaginato, in senso grafico o letterario. Gli esiti di questo passaggio si lasceranno rintracciare ancora nella *Cité industrielle* (1917) di Tony Garnier[^24] e nella *Ville contemporaine de trois millions d'habitants* (1922) di Le Corbusier[^25]. Proprio Le Corbusier può essere considerato l'architetto intellettuale più significativo e influente del XX secolo. Il suo apporto, in questo senso, non è valutabile esclusivamente in termini produttivi, cosí come non lo è neppure in chiave meramente progettuale, o almeno non nell'accezione usuale del termine, come fase preparatoria "in vista" della sua realizzazione concreta. Dalla Maison Dom-Ino alla Ville Radieuse e oltre, Le Corbusier elabora un discorso articolato in varie "puntate" ma unitario, le cui singole parti scaturiscono da un'*idea di spazio* e da un'*idea di costruzione e struttura* ben precise, declinate su scale diverse, fino a giungere a formulare una visione "totale", completamente alternativa al mondo reale; una visione che affida all'architettura il compito di ripensare radicalmente la società. Anche sotto il profilo pubblicistico, non soltanto Le Corbusier si rivela probabilmente il più prolifico scrittore di architettura del secolo[^26], ma pure quello più di ogni altro capace di funzionalizzare tale attività al ruolo autoassegnatosi di architetto intellettuale: che non consiste né nell'assolvere a compiti puramente tecnici, di semplice illustrazione e diffusione dei progetti, né nell'affermare valori esclusivamente ideologici o letterari, l'intenzione del raggiungimento dei quali potrebbe anche prescindere dallo svolgimento di un'attività progettuale. Adottando via via la forma del manifesto, del pamphlet, dello scritto polemico, i libri di Le Corbusier si presentano come vere e proprie "crociate"[^27] combattute con le armi della critica, della provocazione e dell'ironia; il tutto finalizzato a fornire ogni supporto possibile a una concezione dell'architettura che -- come poc'anzi rilevato -- è tanto ideale quanto concreta, ovvero traducibile in termini spaziali e in termini costruttivo-strutturali: perfetta sintesi del compito che per tutta la vita Le Corbusier ostinatamente persegue. È nell'Italia del secondo dopoguerra, tuttavia, che la figura dell'architetto intellettuale assume una forte connotazione sociale, e in certi casi pure politica, con il conseguente riconoscimento del suo ruolo anche al di fuori dell'ambito strettamente disciplinare. Emblematico, in questo senso, è il caso di Bruno Zevi: laureatosi nel 1942 alla Graduate School of Design di Harvard diretta da Walter Gropius, negli anni successivi Zevi torna in Italia dove lavora come architetto, ma soprattutto si fa propagatore della "buona novella" dell'architettura organica di Frank Lloyd Wright[^28]. Non meno importante è la posizione da lui assunta all'interno di svariate istituzioni, tra le quali l'Istituto Nazionale di Urbanistica (INU), di cui riveste la carica di segretario generale dal 1952 al 1968, e l'IN/ARCH (Istituto Nazionale di Architettura), da lui stesso fondato nel 1959. Un impegno civile che verrà profuso anche all'interno di movimenti e partiti politici, a partire dalla militanza in Giustizia e Libertà, negli anni della guerra e della Resistenza, per passare poi al Partito d'Azione, a Unità Popolare, al Partito socialista unificato e infine al Partito radicale, per il quale nel 1987 sarà eletto deputato al parlamento e del quale diverrà presidente tra la fine degli anni ottanta e i primi novanta[^29]. Ma è l'implicazione nel campo della produzione culturale direttamente legata all'architettura ciò che caratterizza in modo particolare l'azione di Zevi. Il forte coinvolgimento in qualità di redattore dapprima e poi di condirettore nella rivista "Metron", tra il 1946 e il 1954, e la fondazione nel 1955 e la direzione fino al 2000 di "L'architettura. Cronache e storia", insieme a una produzione libraria qualitativamente e quantitativamente ragguardevole -- in cui spiccano, tra i molti altri, titoli fondamentali quali *Saper vedere l'architettura*, *Storia dell'architettura moderna*, *Poetica dell'architettura neoplastica*, *Il linguaggio moderno dell'architettura*[^30] -- sono i segni tangibili di un coinvolgimento che va evidentemente oltre il consueto piano di lavoro dello studioso e dello storico. È proprio *Verso un'architettura organica*, del resto, che dà avvio a quello che a tutti gli effetti -- anche al di là del più immediato riferimento wrightiano -- è un tentativo di portare un contributo fattivo, da architetto e da intellettuale, alla ricostruzione italiana. In quest'ottica va letta la *Prefazione*, datata febbraio 1944, in cui sottolinea che > ... forse sarebbe stato più esatto intitolare questo libretto "verso > un'edilizia organica", stabilendo cosí dall'inizio che, invece di fare > una storia dell'arte, ci si accingeva al compito più modesto di > trovare un indirizzo comune nel lavoro contemporaneo[^31]. Un concetto su cui ritorna più oltre con chiarezza ancora maggiore: > Alla fine del conflitto mondiale, l'Italia avrà bisogno di pane e di > case. Nelle sue terre distrutte, contadini, operai, intellettuali > domanderanno case. L'opera degli architetti dovrà rispondere alle > esigenze materiali e psicologiche dell'edilizia di un paese finalmente > libero[^32]. Un'edilizia organica, nell'auspicio di Zevi: vale a dire che "ha alla sua base un'idea sociale, non un'idea figurativa; (...) che vuole essere, prima che umanistica, umana"[^33]. Nella medesima prospettiva va inscritto anche il suo coinvolgimento nella realizzazione del *Manuale dell'architetto*[^34]: una complessa operazione, a cui partecipano, tra gli altri, Gustavo Colonnetti, Mario Ridolfi, Pier Luigi Nervi e Mario Fiorentino, che ha come scopo l'"alfabetizzazione" degli architetti italiani in vista della ricostruzione. Ed è appunto questa finalità *operativa* che contraddistingue la totalità degli interventi di Zevi: dalla scrittura all'insegnamento, dalla pratica professionale alla difesa del territorio, nulla è concepito come impegno puramente "accademico"; piuttosto, come altrettante "cause" per le quali battersi con veemente passione. Una finalità che non manca di toccare anche la storia, da lui utilizzata per affermare le proprie convinzioni -- in campo progettuale come in campo politico-ideologico --, oltreché per fini conoscitivi. Tafuri, definendo tale attitudine storico-critica "operativa" come > ... un'analisi dell'architettura (o delle arti in generale), che abbia > come suo obiettivo non un astratto rilevamento, bensì la > "progettazione" di un preciso indirizzo poetico, anticipato nelle sue > strutture, e fatto scaturire da analisi storiche programmaticamente > finalizzate e deformate[^35], ha voluto criticarne gli intendimenti strumentali, non sufficientemente distaccati a suo avviso dal raggiungimento di presunti propositi esterni. Al "punto di incontro fra la storia e la progettazione, -- come scrive ancora Tafuri, -- la critica operativa *progetta* la storia passata proiettandola verso il futuro". Tra coloro che egli vede come "i più validi assertori, in Europa, di un rilancio ideologico rivolto a colmare il salto fra impegno civile e azione culturale"[^36], nel secondo dopoguerra, Tafuri cita tre soli nomi: Jean-Paul Sartre, Elio Vittorini e -- appunto -- Bruno Zevi. E se quelli dei primi due, dal punto di vista tafuriano, sembrano parlare legittimamente di un ruolo di *engagement* intellettuale che mescola fino a fonderle del tutto letteratura e politica, giungendo a un'"identificazione tra pensiero e azione", il nome di Zevi -- in quella stessa ottica -- pare stare a testimoniare piuttosto una "forzatura" di tale identificazione. Vi è insomma un intento apertamente polemico nei confronti di Zevi *in quanto* architetto intellettuale che si servirebbe della storia per affermare il proprio credo progettuale. "La storia, -- scrive Tafuri, -- per sua natura, è un gioco di equilibrio, che la critica operativa forza facendo precipitare la dimensione del presente"[^37]. In ciò dunque consisterebbe ai suoi occhi l'"errore" di Zevi: nell'"*attualizzare* la storia*"*, nel "renderla duttile strumento per l'azione*"*[^38]. Il più emblematico *casus* di attualizzazione storica zeviana (nonché flagrante ragione di "rottura" tra i due) si verificherà in occasione della Mostra critica delle opere michelangiolesche (Roma, Palazzo delle Esposizioni, 1964). L'attualità di Michelangelo verrà "dimostrata" da Zevi mediante letture volumetriche e spaziali che fanno dell'artista rinascimentale a tutti gli effetti un "moderno"[^39]; e a ciò vanno aggiunti i discussi "plastici critici" realizzati dagli studenti dello IUAV di Venezia ed esposti in mostra. La censura nei confronti di questi da parte di Tafuri non avviene però sulla base del presunto "scandalo" che essi susciterebbero, bollato invece come "ingenuo"; piuttosto sulla base di una duplice incoerenza: da una lato la mancanza di "sorveglianza" delle loro trasformazioni rispetto agli originali, e dall'altro il tentativo (fallito) di "una dilettantesca traduzione del linguaggio architettonico in astratti e astorici giochi scultorei"[^40]. La condanna tafuriana del modo di interpretare il ruolo dell'architetto intellettuale da parte di Zevi non avrebbe in fondo particolare rilevanza in questo contesto, se non fosse che lo stesso Tafuri imprimerà una svolta decisiva alla propria carriera staccandosi -- intorno alla metà degli anni sessanta -- dallo studio AUA (Architetti Urbanisti Associati)[^41], con cui aveva collaborato tanto da un punto di vista teorico che progettuale, per dedicarsi interamente alla storia. In realtà, già negli intendimenti del gruppo, composto da giovani architetti romani (tra cui Giorgio Piccinato e Vieri Quilici), vi era una presa di distanza dall'architettura come pratica professionale separata dagli altri "piani d'azione" della realtà; e infatti in AUA, nel nome e nei fatti, l'attività progettuale è affiancata da -- e integrata con -- ricerche urbane[^42] e piani urbanistici. > Il gruppo concepisce il proprio mestiere come una vera e propria > militanza etica e politica. La professione architettonica, la critica > e la storiografia, non sono intesi tanto come discipline tecniche, > come mestieri o specialismi del mercato del lavoro, bensì come > "impegno integrale", come componenti di un universo disciplinare che > agisce allo stesso tempo politicamente e tecnicamente, contribuendo in > maniera attiva alla trasformazione della città e della realtà. In tal > senso, è comprensibile la vicinanza che il gruppo esprime nei > confronti delle istanze riformatrici delle avanguardie degli anni > venti, e come sembri evidente anche il riferimento alla figura > dell'intellettuale organico nella celebre definizione di Antonio > Gramsci[^43]. La storia praticata da Tafuri, però, sarà concepita in modo affatto diverso rispetto a quella di Zevi: una storia caratterizzata dalla "più totale indifferenza nei confronti dell'*azione positiva*"[^44] (ovvero di quell'azione che cerchi di modellare l'architettura a propria immagine, sulla base dell'autorità del passato), e impegnata piuttosto in una "continua *contestazione del presente*"[^45], che si traduce in una "minaccia (...) ai tranquillizzanti miti in cui si acquietano le inquietudini e i dubbi degli architetti moderni"[^46]. Il compito dell'intellettuale impegnato nel campo della storia dell'architettura, in questo senso, diviene quello di "esasperare" la condizione di disagio in cui versano l'architetto e l'architettura "di fronte alla dinamica dello sviluppo capitalista"[^47], mostrando tutta la problematicità di una situazione "assurda eppure reale". > ... Ponendo di continuo in crisi gli obiettivi apparentemente > avanzati su cui rischiano di acquietarsi la ricerca e il dibattito, il > critico deve (...) -- con un rigore cui è obbligato dalle vicende > storiche in cui opera -- (...) stimola\[re\] dubbi sempre più > coscienti, dissensi sempre più costruttivi, disagi sempre più > generalizzati. L'attività storica diviene cosí per Tafuri ""critica delle ideologie architettoniche", e, in quanto tale, attività "politica" -- anche se mediatamente politica"[^48]; più che l'enunciazione di una vaga intenzione, la formulazione di un vero e proprio "programma" che -- con un anno di anticipo rispetto alla pubblicazione del saggio intitolato precisamente *Per una critica dell'ideologia architettonica* -- ne preannuncia a grandi linee i contenuti e, ancor di più, il disegno strategico complessivo: > La messa in luce di ciò che l'architettura è, *in quanto disciplina > storicamente condizionata e istituzionalmente funzionale al > "progresso" della borghesia precapitalistica prima, alle nuove > prospettive della "Zivilisation" capitalistica poi*, va quindi > riconosciuto come l'unico scopo rivestito di senso storico, da parte > di chi intenda forzare il ruolo istituzionale assegnato agli > intellettuali dall'Illuminismo in poi[^49]. Si tratta da un lato di un'opera di demistificazione, vale a dire del disvelamento delle "incrostazioni" ideologiche che rivestono (spesso arrivando a occultarla del tutto) la vicenda dell'architettura moderna, a partire da Brunelleschi in avanti; e dall'altro del tentativo di istituire rapporti positivi, costruttivi, con la funzione più intrinsecamente politica della storia. Ciò che ne deriva non è soltanto un "progetto" storico radicalmente diverso dalla "storia progettuale" zeviana[^50], ma anche una figura di storico in grado di riappropriarsi correttamente del proprio ruolo di intellettuale. Ciò nondimeno, malgrado la presenza di almeno altre due personalità di alto profilo intellettuale operanti nell'ambito degli studi storico-architettonici -- Giulio Carlo Argan e Leonardo Benevolo[^51] -- non è prevalentemente dal punto di vista storico che l'architetto intellettuale italiano giunge a occupare un posto di particolare rilievo nel panorama architettonico degli anni cinquanta, sessanta e settanta. È anzi proprio attraverso la pacifica e proficua convivenza e integrazione di attività progettuale (architettonica o urbanistica) e attività culturale (significativamente segnata, in molti casi, se non da una vera e propria militanza, da una dichiarata *appartenenza* politica) che alcuni dei principali protagonisti della scena italiana acquisiranno autorevolezza a livello nazionale e internazionale, e conferiranno all'Italia un singolare primato nella produzione di architetti intellettuali. Nel rilevare *"*la scissione tra architetti e intellettuali"[^52], a partire dalla seconda metà del Novecento, con particolare riferimento alla Francia, Jean-Louis Cohen ha nel contempo evidenziato l'esistenza -- per converso -- di un intenso rapporto tra architetti e intellettuali in Italia, ovvero "il fatto che gli architetti italiani siano degli intellettuali"[^53]. Le ragioni individuate a supporto di questa peculiare situazione sono molteplici: > Se i rapporti tra intellettuali italiani e architetti sono cosí > particolari, è senza dubbio prima di tutto perché gli architetti > stessi, in linea con i pionieri dell'architettura razionale del > periodo fascista, sono capaci di scrivere e di chiarire > intellettualmente i loro punti di riferimento e il loro approccio > progettuale[^54]. A ciò va aggiunta la specificità delle scuole di architettura italiane in cui la gran parte di tali architetti sono inseriti, che reclutano i propri insegnanti "sulla base della loro produzione culturale (articoli, libri) tanto quanto su quella delle loro opere architettoniche"[^55]. Inoltre -- nota Cohen -- in assenza di un forte controllo statale delle commesse pubbliche, come accade in Francia, il sistema politico e amministrativo frammentato e spesso clientelare italiano favorisce lo sviluppo di competenze da parte dell'architetto che esulano da quelle puramente progettuali, ivi compresa una certa *"*aura culturale". Infine in Italia, tra gli anni cinquanta e settanta, si riscontra una vera e propria esplosione nel campo della produzione editoriale di architettura, riguardante tanto i libri che le riviste[^56], cui si aggiunge il contributo critico apportato da associazioni quali il Movimento di Studi per l'Architettura (MSA), composto, tra gli altri, da Franco Albini, Lodovico Belgiojoso, Piero Bottoni, Giancarlo De Carlo, Ignazio Gardella, Marco Zanuso, o il Movimento Comunità di Adriano Olivetti[^57], oltreché il citato APAO; senza dimenticare ambiti culturali più ampi, qual è il Gruppo 63, con le riviste a esso correlate come "Marcatré" e "Quindici"[^58]; o ancora, riviste apertamente politiche come "Contropiano*",* diretta da Alberto Asor Rosa e Massimo Cacciari (dopo l'abbandono di Antonio Negri all'indomani dell'uscita del primo numero, a causa di insanabili dissidi sulla linea politica da conferire alla rivista), espressione della corrente operaista nel periodo a cavallo tra anni sessanta e settanta, cui collaborano, tra gli altri, Manfredo Tafuri, Francesco Dal Co e Marco De Michelis. Tutto ciò -- conclude Cohen -- rende la "qualità intellettuale del dibattito italiano il frutto meno di un caso che di una necessità"[^59]. Dalla ricchezza complessiva di questo quadro si stagliano un ristretto numero di individualità di grande rilevanza e influenza: Giuseppe Samonà, Ludovico Quaroni, Ernesto Nathan Rogers, Vittorio Gregotti, Carlo Aymonino, Aldo Rossi, per nominarne solo qualcuna. Significativo è che per tutti costoro non soltanto la dimensione operativa si intrecci costantemente con quella teorica, ma che per lo più la questione architettonica sia affiancata dalla questione urbana. *L'urbanistica e l'avvenire delle città*[^60], *La Torre di Babele*[^61], *Il problema del costruire nelle preesistenze ambientali*[^62], *Il territorio dell'architettura*[^63], *Origini e sviluppo della città moderna*[^64], *L'architettura della città*[^65] sono soltanto una piccola rappresentanza dei titoli di scritti che testimoniano l'interesse degli architetti appena citati per la disciplina intesa in un senso che non è mai restrittivamente localistico o settoriale, cosí come l'urbanistica non vi è mai intesa come questione puramente tecnica o gestionale. Persino nel caso di studi pubblicati in quegli anni, sotto la guida di alcuni dei medesimi autori, dedicati all'analisi di luoghi o casi specifici[^66], la circoscrizione e precisione del campo di ricerca non vanno mai disgiunte dall'intenzione di dare a tali studi un carattere emblematico e generalizzabile, in particolar modo da un punto di vista metodologico. Con tutto ciò, diversi rimangono gli approcci alla figura dell'architetto *sub specie intellectualis*. Per Samonà è soprattutto la direzione dell'Istituto Universitario di Architettura di Venezia (IUAV) a divenire l'occasione per compiere una grande operazione culturale, oltreché didattica: chiamando a raccolta, a partire dal secondo dopoguerra, un corpo docente altamente qualificato -- comprendente personaggi del calibro di Franco Albini, Ignazio Gardella, Saverio Muratori, Lodovico Belgiojoso, Giancarlo De Carlo, Luigi Piccinato, Giovanni Astengo e Bruno Zevi, rinnovato poi nel corso degli anni sessanta con l'immissione, tra gli altri, di Carlo Aymonino, Guido Canella, Gino Valle, Gianugo Polesello, Luciano Semerani, Costantino Dardi, Leonardo Benevolo, Manfredo Tafuri e Mario Manieri Elia -- egli ha posto le fondamenta di quella che assumerà vasta notorietà internazionale sotto il nome di "Scuola di Venezia"[^67]. Per Ludovico Quaroni i campi d'applicazione della particolare modalità con cui egli declina il ruolo di architetto intellettuale sono molteplici: quello di un impegno politico che incrocia, tra gli altri, il Movimento Comunità di Adriano Olivetti, e che si connette fattivamente ai numerosi piani urbanistici e ai progetti di quartieri popolari da lui elaborati nel corso della sua carriera; quella di una produzione saggistica che testimonia -- più che di una propensione "teorica" nei confronti dell'architettura e della città -- di un'assidua presenza nel dibattito vivo e attuale del suo tempo, spesso attuata per mezzo di apparizioni su testate secondarie o comunque defilate rispetto ai più consueti luoghi di elaborazione culturale[^68]; e infine quello dell'insegnamento universitario (a Firenze, Napoli e Roma), vero e proprio fronte di affermazione e verifica d'un atteggiamento dialettico di cui beneficeranno intere generazioni di allievi (molti dei quali destinati a loro volta a un illustre futuro)[^69], anziché luogo di semplice esposizione di "certezze" disciplinari[^70]. Per Ernesto Nathan Rogers, invece, lo strumento principale della propria azione culturale sono le riviste: dapprima "Domus", di cui diviene direttore subito dopo la guerra, e poi "Casabella", da lui diretta dal 1953 al 1964. È in special modo nella redazione di "Casabella-Continuità" (secondo la nuova denominazione da lui data alla testata) e attraverso i suoi editoriali che Rogers svolge un'opera di "educazione" all'architettura moderna, rivista alla luce del rapporto con la città storica e intesa come paradigma non soltanto estetico ma anche *etico* per la ricostruzione dell'Italia dopo il secondo conflitto mondiale e il ventennio fascista. In questo senso vanno intesi i numeri di "Casabella-Continuità" che inquadrano tematiche più generali, spesso relative a problematiche urbane e territoriali, all'interno delle quali i singoli progetti di architettura si inseriscono non come semplice vetrina per la vanità dell'architetto di turno[^71]. Ma è soprattutto grazie a Rogers che ha luogo il decisivo incontro tra la cultura architettonica del periodo e la corrente più avanzata della filosofia italiana, rappresentata in quel momento da Antonio Banfi e da Enzo Paci. Con quest'ultimo in particolare il dialogo tra architettura e filosofia si fa serrato, apportando tangibili conseguenze sull'uno e sull'altro fronte[^72]. Dal punto di vista dell'architettura, Rogers coglie dalla lezione di Paci elementi che gli consentono di mettere a fuoco più compiutamente un pensiero che già aveva sviluppato in modo embrionale fin dal primo editoriale di "Casabella-Continuità": > Noi crediamo nel fecondo ciclo *uomo-architettura-uomo* e vogliamo > rappresentarne il drammatico svolgimento: le crisi; le poche, > indispensabili certezze e i molti dubbi, ancor più necessari; siccome > pensiamo che essere vivi significhi, soprattutto, accettare la fatica > del quotidiano rinnovamento, col rifiuto delle posizioni acquisite, > nell'ansia fino all'angoscia, nel perpetuarsi dell'agone, > nell'allargare il campo dell'umana "simpatia"[^73]. Dall'acquisizione di una maggior consapevolezza filosofica derivano le evoluzioni di tale pensiero, come dimostra l'utilizzo di concetti come "esperienza"[^74] o di coppie di termini come "continuità-crisi", o "discontinuità-continuità" al di fuori di una dimensione puramente esistenziale e intuitiva. Cosí è, ad esempio, nella valutazione del contributo dato dall'architettura moderna, non riducibile per Rogers a semplici "apparenze figurative", e da ricondurre invece alle > ... espressioni di un metodo che ha tentato di stabilire nuove e più > chiare relazioni tra i contenuti e le forme, entro la fenomenologia di > un processo storico-pragmatico, sempre aperto, che, come esclude ogni > apriorismo nella determinazione di quelle relazioni, cosí non può > essere giudicato per schemi[^75]. Nella prospettiva filosofica di Paci, d'altronde, la crisi dell'architettura moderna è > ... da addebitare a una troppo rigida e dogmatica interpretazione del > razionalismo del Movimento Moderno che, saldandosi all'istanza > tecnicista del processo di industrializzazione edilizia in atto, ha > finito per produrre il declassamento dell'architettura da Arte ad un > "insieme coerente e strumentale di operazioni tecniche"[^76]. Ma va inscritta anche in un discorso molto più ampio che riguarda la "storicità" della crisi e la sua necessità per "prospettare un nuovo orizzonte"[^77] nel quale il passato possa rivivere in forma trasformata. Questa prospettiva induce Rogers a una profonda revisione del senso dell'architettura. Logica e ragione (ovvero le categorie che l'avevano innervata ancora negli anni tra le due guerre) non sono più sufficienti per lui a definire -- ma soprattutto a *incarnare* nella maniera più compiuta -- un'architettura che, pur senza rinunciare alla sua "missione" di modernità, debba però farsi carico di tutte le contraddizioni che lo stesso sviluppo moderno ha incontrato sul suo cammino. Ciò rende niente affatto semplice, e anzi del tutto *drammatico*, il compito dell'architetto: "Fra gli altri uomini, l'architetto rappresenta questa personalità singolare cui è devoluto il compito di tentare la sintesi tra gli opposti poli"[^78]. Si tratta di quella che Rogers concepisce come una vera e propria "lotta tra utilità e bellezza". "Dobbiamo sentire in ogni momento creativo il dramma fondamentale dell'esistenza perché la vita pone continuamente in contraddizione i bisogni pratici e le aspirazioni spirituali"[^79]; un dramma che l'architetto deve affrontare *operativamente*, lasciando che le contraddizioni convivano "traducendole" in opera. Ma anche: "Dobbiamo aspirare all'universale dando valore alle energie latenti nella contingenza"[^80]. Ciò comporta una diversa concezione della temporalità e della spazialità (intesa anche in senso allargato, come ambiente o contesto) del progetto, portatrici entrambe di "occasioni" che l'architetto non deve mancare di cogliere[^81]. Frutto non secondario dell'intenso lavoro svolto da Rogers in vista della costruzione di un agire progettuale "in relazione", sarà uno stuolo di seguaci cresciuti all'interno della stessa redazione di "Casabella-Continuità", la cui precipua caratteristica è la libertà intellettuale e la capacità di esercitarla in modi che non ricalcano però quasi per nulla quelli del "maestro". Cosí Vittorio Gregotti ha ereditato da Rogers la vocazione per la conduzione di riviste ("Edilizia moderna", "Casabella", "Rassegna") come forma di militanza che trova espressione nella scelta delle tematiche da affrontare e delle opere da presentare, oltreché -- in maniera ancora più diretta ed esplicita -- attraverso gli editoriali da lui pubblicati mensilmente. A tale cospicuo lavoro svolto nell'ambito dei periodici (cosí come pure dei quotidiani) Gregotti ha affiancato nel corso degli anni una altrettanto considerevole produzione libraria che, con ritmo cadenzato, ha accompagnato il trascorrere delle diverse stagioni dell'architettura[^82]. Senza dimenticare il suo ruolo di direttore della sezione Arti visive e Architettura della Biennale di Venezia del 1976, preludio alle successive Biennali Internazionali di Architettura. Tutti questi fattori hanno determinato l'indiscussa centralità di Gregotti all'interno del panorama architettonico italiano e internazionale, una centralità ribadita anche sotto il profilo progettuale e costruttivo[^83]. Nel caso di Carlo Aymonino e Aldo Rossi -- a loro volta membri della redazione della "Casabella-Continuità" rogersiana -- il modello cui entrambi si ispirano è l'intellettuale culturalmente e politicamente impegnato che domina la scena nell'Italia degli anni cinquanta, discendente a sua volta dalla concezione gramsciana dell'"intellettuale organico" inteso come "costruttore", e non come semplice "oratore", disponibile a confrontarsi con la realtà, a "mescolarsi attivamente alla vita pratica"[^84]; un intellettuale che però, proprio nel dopoguerra, conosce una profonda crisi d'identità e di coscienza che lo porta spesso a entrare in rotta di collisione con la linea dettata dal Partito comunista italiano, che pure in questo campo costituisce per molti di loro un punto di riferimento imprescindibile. Strettamente legate al Pci sono le riviste "Critica marxista", "Il Contemporaneo", "Società", "Voce comunista", su cui scrivono -- in particolar modo nel periodo giovanile -- Aymonino e Rossi[^85]. Ma è soprattutto con la produzione di ricerche all'interno dell'università, che non di rado troveranno la via della pubblicazione come semplici dispense[^86], che Aymonino e Rossi (ma con loro anche altri giovani architetti e professori come Costantino Dardi, Luciano Semerani, Gianugo Polesello, Guido Canella, Giorgio Grassi) giungono a definire l'esatta "funzione" dell'architetto intellettuale italiano degli anni sessanta e settanta: quella di mettere a punto un apparato teorico utilizzabile in vista di un agire pratico, al di fuori però di qualsiasi prospettiva "personale", soggettiva, e in grado piuttosto -- stante la "natura collettiva dell'architettura"[^87] -- di essere condivisa dal maggior numero di persone possibile, e dunque socializzabile. A questo fine sono indispensabili una metodologia rigorosa, una strumentazione chiara e obiettivi altrettanto riconoscibili. Si legga ad esempio quanto scrive Rossi a introduzione del volume che raccoglie i contributi al dibattito svoltosi all'interno del gruppo di ricerca da lui diretto alla Facoltà di architettura del Politecnico di Milano nell'anno accademico 1968-69: > La nostra ricerca si propone principalmente la costruzione di una > teoria razionale dell'architettura. Tale costruzione è principalmente > fondata sullo studio dei rapporti esistenti tra l'analisi urbana e la > progettazione architettonica[^88]. Un metodo, appunto, il più possibile oggettivo e condivisibile. E tuttavia, dietro la "scientificità" dell'approccio alla ricerca emerge la determinazione da parte del giovane Rossi a ridare *necessità* al processo progettuale, prendendo le distanze dall'empirismo "professionalistico" imperante nell'Italia degli anni cinquanta e sessanta, e al tempo stesso a riconquistare per l'architetto una *libertà intellettuale* che la stretta osservanza dell'"ortodossia" moderna non riusciva (più) a garantire. Per Rossi, come per gli altri architetti animati da un'ideologia comunista, ciò che è in gioco è una "visione del mondo"[^89] di cui l'architetto e l'architettura devono farsi portatori, *oltre* le pratiche del mestiere e l'adempimento delle funzioni. È un'impostazione condivisa anche da Antonio Monestiroli (non a caso tra i membri del gruppo di ricerca diretto da Rossi alla fine degli anni sessanta): un architetto che alla costruzione di una "visione del mondo" oggettiva e condivisa dedicherà il suo costante e coerente impegno intellettuale. > Questo legame stretto (...) fra il progetto e la collettività, fa sí > che il progetto acquisti un senso compiuto quando è determinato > esplicitamente da una volontà collettiva, quando cioè si manifesta > generalmente la volontà di definizione da parte della collettività > della città sua propria e dell'architettura. Questo è il motivo per > cui, solo quando si verificano queste condizioni, l'architettura > raggiunge il suo massimo sviluppo. Questo è anche il motivo per cui > quando l'impegno della collettività nei confronti dell'architettura > viene meno, questa o si riduce al suo aspetto tecnico-costruttivo, o > ricerca nostalgicamente se stessa, o si deforma a criticare la realtà > che la nega[^90]. Da ciò discende quasi logicamente la definizione che egli dà del progetto di architettura, "che consiste nello *svelamento della sua ragione collettiva*, del senso della sua appartenenza alla collettività*"*[^91]. Ed è proprio la coscienza del valore e della necessità di una *visione collettiva* che contraddistingue la stagione degli architetti intellettuali italiani da quella immediatamente successiva, che annovera, tra gli altri, teorici come Peter Eisenman e Rem Koolhaas. La distanza che separa questi ultimi da una concezione *politica* del ruolo dell'architetto è del tutto evidente, distanza non colmata neppure dal fatto che loro "incubatore" sia stato l'Institute for Architecture and Urban Studies di New York, strettamente legato all'Italia, e in particolar modo allo IUAV, a partire dai primi anni settanta[^92]. Se la "traduzione americana" della teoria si configura come un tentativo di riscatto dell'architettura dal dominio dei grandi studi commerciali (il cui unico "impegno" consiste nell'eterna ripetizione delle soluzioni elaborate dal *Functionalist style*) e da una classe di architetti più colti ma sin troppo compiacenti nel fornire risposte alle eterogenee richieste del mercato attraverso il nuovo eclettismo *post-modern*, ciò non può avvenire che a costo di uno "svuotamento" di senso: la riduzione al "grado zero" di "ogni ideologia, ogni sogno di funzione sociale, ogni residuo utopico", come ha lucidamente scritto Tafuri[^93]. È l'avvio di una trasformazione radicale dell'architetto intellettuale che, anche allorché sopravvive in quanto tale -- e ancor di più, proprio *per* sopravvivere in quanto tale --, deve rinunciare a ogni possibilità di connotare politicamente e socialmente il suo agire, ponendosi al centro di un universo di discorso interamente autoriferito[^94]. Non a caso le speculazioni eisenmaniane tendono verso la concettualizzazione e l'astrazione[^95], tanto quanto -- simmetricamente -- le analisi di Koolhaas provengono direttamente dalla realtà[^96]. Ma prima di analizzare quali siano gli apporti derivanti all'architetto intellettuale da questi due autori, vale la pena ricordare come siano Robert Venturi e Denise Scott Brown -- prima dello stesso Koolhaas -- a spalancare allo sguardo degli architetti (e non solo, ovviamente) le porte di una realtà che non è niente affatto "possibile" (e quindi ancora potenziale) e "diversa dalla realtà che ci circonda"[^97], ma è invece del tutto tangibile e verificabile. In qualità di esploratore urbano armato di macchina fotografica, l'intellettuale scende letteralmente in strada e si dispone a imparare da essa, senza più la mediazione di quegli "apparati" che l'avevano tradizionalmente supportato fin lí: i libri e -- si potrebbe dire, in una certa misura -- la stessa cultura. *Complexity and Contradiction in Architecture* (1966) ma soprattutto *Learning from Las Vegas* (1972)[^98] si propongono come nuovi canoni per letture degli edifici e della città che a questo punto si aprono a una molteplicità di fenomeni, di stimolazioni, di interferenze. Per parafrasare l'*incipit* di *Delirious New York* di Rem Koolhaas, "una montagna di realtà priva di qualsiasi teoria"; e nel momento in cui è la realtà a parlare, le teorie che se ne lasciano dedurre si trovano inscritte direttamente nella materia. Dalle intelligenti analisi di Venturi e Scott Brown nascerà un'intera generazione di "detective dello spazio"[^99]. Per Koolhaas la realtà -- anche grazie allo studio OMA ("an international practice operating within the traditional boundaries of architecture and urbanism")[^100] e alla sua "costola" culturale AMO ("a research and design studio, applies architectural thinking to domains beyond ... AMO often works in parallel with OMA's clients to fertilize architecture with intelligence from this array of disciplines") -- è la base d'appoggio per costruire un'idea di architettura che si spinge spesso assai oltre il semplice edificio, per divenire interpretazione di singoli fenomeni, di complessi urbani o di interi territori[^101]. Lo sguardo sfaccettato e disincantato adottato in queste letture -- che intrecciano sociologia, economia, politica e arti -- è divenuto una modalità di osservazione che ha rapidamente fatto scuola, pur con rivisitazioni, deformazioni ed eccessi[^102]. Nonostante le evidenti difformità -- "stilistiche" non meno che sostanziali --, Koolhaas risulta ancor oggi, all'interno del panorama internazionale e in un'epoca qual è quella odierna inequivocabilmente postmoderna, l'unico erede (non è dato sapere quanto volontario o inconsapevole) di una tradizione intellettuale che affonda le sue radici nel moderno; una tradizione fondamentalmente *critica*, che sottopone la realtà al vaglio delle contraddizioni che essa stessa genera, senza con questo ridurle all'unità. È in questa accettazione -- e utilizzazione -- della funzione produttiva della contraddizione che Koolhaas appare finalmente libero dalla nostalgia per il feticcio della "coerenza"; anche se questo implica al tempo medesimo aver fatto piazza pulita di ogni "ideologia", con tutte le distorsioni ma pure con le possibilità di ancorarsi a un "cielo delle stelle fisse" dal punto di vista valoriale che questa portava con sé. E anche se questo comporta -- per usare le parole che Tafuri riserva a Venturi -- una "disincantata accettazione della realtà fino al cinismo"[^103]. Indiscutibilmente moderno, almeno nei suoi presupposti, è altresí il "progetto" eisenmaniano di fornire un contrappeso alla "insostenibile leggerezza" di un'epoca in cui sembra essersi dissolta ogni necessità di conferire "significato" alle cose. Finendo con l'incorrere, tuttavia, nel problema opposto. L'intero operare di Eisenman, tanto progettuale che teorico, pare irretito in un *entretien infini* con un inesauribile numero di interpretazioni e di significati, in qualche modo tutti equivalenti, tutti possibili[^104]. Ciò genera un gioco di specchi tanto affascinante (si pensi al proposito all'intenso dialogo da lui intrattenuto con Jacques Derrida)[^105] quanto sospetto di essere, alla lunga, sterile. E dove quanto si afferma non è più una visione complessiva -- o quantomeno estesa -- del mondo, oppure è una *Weltanschauung sub specie architecturae*, e dunque esposta al rischio di essere autoreferenziale. Dalla frammentazione di cui Eisenman si fa portatore emerge però anche una straordinaria ricchezza interpretativa, a testimonianza del fatto che la pluralità dei punti di vista costituisce ormai uno strumento intellettuale imprescindibile in una prospettiva postmoderna. La stessa pluralità di punti di vista e ricchezza interpretativa che si può rintracciare nelle pagine della rivista "Oppositions" che lo stesso Eisenman -- affiancato dallo storico dell'architettura inglese Kenneth Frampton e dal critico d'origini argentine Mario Gandelsonas -- dirige dal 1973 al 1984[^106]. Fin dal nome, "Oppositions" preannuncia una conflittualità che rimane tuttavia interamente confinata al piano della teoria. Ma proprio su questo terreno si registrano contributi significativi da parte di autori dagli sguardi molti diversi. Tra loro, oltre a nomi già segnalati, si possono menzionare Rafael Moneo e Bernard Tschumi, due autori che incarnano in senso diametralmente opposto la figura dell'architetto intellettuale. Il primo, concentrando la propria attenzione sulla materialità degli edifici, sul loro essere portatori di una vita che eccede tanto quella di chi li frequenta e abita, quanto quella di chi li ha progettati; ma anche interrogandosi -- da architetto -- sulle opere e sul mestiere di altri architetti, animato dalla volontà di andare al di là di quanto a loro riguardo potrebbe apparire scontato[^107]. Il secondo, cercando di spostare l'architettura sul piano dell'evento, e più in generale di spostarla rispetto ai piani sui quali di consueto "riposa" da un punto di vista critico; una "messa in allarme" della disciplina, che utilizza gli strumenti della "disgiunzione", della "disgregazione" e della "violenza" per farla reagire[^108]. Da questi affondi sia pure molto parziali si evidenzia una condizione di crescente criticità -- con l'avvicinarsi al tempo presente -- nell'interpretare il ruolo dell'intellettuale da parte degli architetti; criticità che trova conferma negli anni novanta del secolo scorso e nei primi anni del Duemila, improntati a un generale ripiegamento verso posizioni più pragmatiche, spesso coincidenti con un "isolamento" dentro gli studi professionali. Se questo mutamento ha almeno in parte carattere congiunturale (essendo cioè legato alla favorevole contingenza economica di quel periodo), il riapparire -- in anni più recenti -- di timidi segnali di inversione di tendenza si lascia forse interpretare come una conseguenza del proliferare della crisi; una crisi (economica e sociale) che in molte parti del mondo ha assunto una natura pressoché endemica. È in ogni caso all'interno di condizioni di crisi evidente -- in cui il mercato del lavoro (anche nel settore dell'architettura) subisce una significativa contrazione, e soprattutto risente degli effetti dell'ingresso della produzione economica nella fase post-fordista[^109] -- che una giovane generazione di architetti sviluppa un rinnovato interesse per il pensiero radicale degli anni sessanta e settanta, nelle sue diverse forme: da quello più latamente politico, a quello dei *Radicals* italiani (Superstudio, Archizoom)[^110] e di alcuni degli interpreti del neo-razionalismo, in special modo l'Aldo Rossi dell'*Architettura della città* e il Giorgio Grassi della *Costruzione logica dell'architettura* (ma anche Guido Canella, Gianugo Polesello e altri)[^111]. Un *repêchage* che prende le mosse da presupposti molto distanti da quelli originari, e che in larga parte è anche estraneo alla cultura e all'ambito di appartenenza dei "discendenti" più diretti di quei protagonisti. Nel fatale incontro tra scarse opportunità lavorative e fascinazione per i "maestri" di un'età precedente si compie il riavvicinamento alla scrittura critica di molti architetti in quel momento spesso soltanto ipotetici: se non già una vera e propria riattivazione della coscienza e del ruolo dell'intellettuale, perlomeno il riaffiorare di questi alla percezione di un'epoca che aveva finito per dimenticarli. Emblematica di questo momento è una rivista come "San Rocco", ideata, tra gli altri, da membri dei gruppi italiani 2A+P/A (Matteo Costanzo, Gianfranco Bombaci) e baukuh (Pier Paolo Tamburelli, Vittorio Pizzigoni, Andrea Zanderigo e altri) e del belga Office Kersten Geers David Van Severen, e diretta da Matteo Ghidoni. Ad essa collaborano autori di generazioni e di provenienze diverse (tra i quali architetti del calibro di Oliver Thill, Mark Lee, Freek Persyn, Harry Gugger, Pascal Flammer, Job Floris). Nel tempo per eccellenza della tirannia delle immagini, "San Rocco" decide programmaticamente di limitare l'uso di queste (pur enfatizzandole mediante uno studiatissimo impiego dell'assonometria), dando spazio ai testi (ma omettendo dalla copertina il nome della rivista). Inoltre opta per "non durare per sempre", predeterminando in tal modo il proprio decesso. Da tutti questi indizi è lecito desumere qualche considerazione: per gli architetti nati nell'ultimo quarto del secolo scorso la riscoperta della cultura degli anni sessanta e settanta -- e con essa degli architetti intellettuali che vi fiorivano -- equivale a un ideale ritorno alle origini; se non il recupero di un "rimosso", di certo un percorso a ritroso per cercare di ritrovare un filo perduto. È poi significativo che tale iniziativa abbia come "centro operativo" l'Italia. È proprio in Italia infatti, più che in ogni altro luogo, che si è mantenuto uno stretto legame, un dialogo, tra architettura, storia e teoria. Ed è proprio l'Italia che può forse vantare la maggior concentrazione di architetti intellettuali nel corso della sua storia. Pur discontinua, tale presenza si lascia riscontrare anche in momenti difficili (si pensi ad esempio a Edoardo Persico e a Giuseppe Pagano durante il fascismo). Infine, le modalità secondo cui ciò avviene sono integralmente figlie dell'epoca attuale, e non esistono vie rapide e agevoli per mettere in connessione forme e contenuti di ora con forme e contenuti di allora. Vi sono infatti alcune caratteristiche peculiari dell'architetto intellettuale -- e dell'intellettuale *in generale* -- italiano degli anni sessanta e settanta che difficilmente possono essere fatte oggetto di illusorie rinascite, e che non casualmente sono scomparse nelle epoche successive e in altri contesti: tra queste, la consapevolezza non soltanto del proprio compito ma anche delle condizioni del proprio operare, ovvero dei propri *limiti storici*. Per Franco Fortini, scrittore, poeta, critico e saggista, fortemente impegnato in quegli anni in una lucida analisi delle condizioni di lavoro all'interno dell'"industria culturale", il ruolo da assegnare all'intellettuale parte dalla constatazione che lo sviluppo capitalistico realizza la progressiva distruzione della coscienza degli individui, ovvero -- come è stato scritto -- la "trasformazione antropologica dell'uomo da soggetto volitivo a merce, da essere dotato di pensiero, volontà, desiderio e coscienza a precipitato inerte di tempo ed energia inintenzionale"[^112]. In questa prospettiva, la trasformazione della società in senso comunista da lui vagheggiata poteva avvenire soltanto con il contributo di un lavoro intellettuale capace di concorrere alla creazione di una coscienza del presente comune e condivisa. E tuttavia, questo compito non potrebbe essere concepito per Fortini al di fuori di una verifica attenta e continua dei "criteri di valore" adottati per leggere la realtà. Cosí, ad esempio, l'"ordine storico, ideologico, estetico" di un libro e di un autore deve essere continuamente verificato "sul contesto sociale, produttivo, culturale, che quel libro, quegli autori, producono e ricevono"[^113]; ciò che implica la necessità -- come già Benjamin aveva compreso -- di non limitarsi a "schierarsi" politicamente ma di cercare di modificare *dall'interno* le condizioni politiche, ovvero i rapporti di produzione dell'epoca[^114]. Ma non potrebbe essere concepito neppure al di fuori delle condizioni effettive cui soggiace lo stesso lavoro intellettuale all'interno della società, e della società capitalista nello specifico: condizioni che sono per molti versi analoghe a quelle imposte al lavoro operaio. A partire dal fatto che il lavoro intellettuale diventa sempre più dipendente dall'industria culturale privata[^115], per giungere a quello -- diretta conseguenza della "riduzione di ogni forma di lavoro a lavoro industriale"[^116] -- che anche il lavoro intellettuale, all'interno dello sviluppo capitalistico, tende a divenire lavoro astratto, parcellizzandosi in mansioni sempre più indifferenziate ed equivalenti tra di loro. Qualche anno più tardi Tafuri dedicherà un saggio al lavoro intellettuale che prende le mosse precisamente da questi presupposti: > ... siamo in presenza di un costante aumento dell'estraneità > dell'intellettuale al contenuto del proprio lavoro, che si realizza > tanto più concretamente tanto più quest'ultimo si caratterizza > esattamente come "lavoro": più esattamente, anzi, come lavoro > salariato[^117]. Nel solco della linea "operaista" perseguita da Mario Tronti e dalla rivista "Contropiano" su cui Tafuri scrive, tale tendenza non va tuttavia rifiutata quanto piuttosto assecondata, portandola fino alle sue conseguenze ultime: > Leggere nelle condizioni attuali del lavoro intellettuale una concreta > tendenza verso un'omogeneizzazione materiale, che passa attraverso i > processi di ristrutturazione sociale e produttiva capitalistici, > significa riconoscere nella massificazione e nella mobilità dei ruoli, > nella perdita dei privilegi tradizionali riservati al lavoro > intellettuale, nel distacco -- che avviene già nella fase di > preparazione scolastica e universitaria -- dai contenuti del proprio > lavoro, nell'estraneità che finalmente anche l'intellettuale è > *obbligato* a sperimentare nei confronti dell'organizzazione > capitalistica del lavoro, alcune delle condizioni *positive* da cui > ripartire, per elaborare un programma di attacco al piano complessivo. E ancora, più oltre: > Non crediamo alle ripetute invenzioni di nuovi *alleati* della classe > operaia. Ma sarebbe suicida non riconoscere che sono le stesse linee > dello sviluppo capitalista a ricomporre, ai propri fini, una forza > lavoro tendenzialmente omogenea, che è possibile far funzionare sotto > il segno degli interessi diretti della classe operaia. Rovesciare > quello che è stato, per troppo tempo, il disegno capitalista, quello > che vede come proprio fine *una classe operaia organizzata dal > capitale*: questo è l'obiettivo da raggiungere ponendosi come compito > la gestione operaia delle rivendicazioni soggettive dei nuovi strati > di lavoro intellettuale salariato. > > Ma ciò non è possibile se non battendo ogni illusione reazionaria, > ogni proposta tesa a restituire *dignità* professionale a quegli > intellettuali "degradati". Mostrare in concreto la reazionarietà di > ogni discorso che voglia offrire prospettive "alternative" al lavoro > intellettuale, significa quindi riconoscere che solo *all'interno* del > ruolo oggettivo imposto dal dominio dello sviluppo è la condizione per > utilizzare la lotta dei ceti intellettuali assorbiti direttamente > nella produzione, in un attacco complessivo al piano del capitale: il > che significa, essenzialmente, estendere l'uso politico della lotta > *sul* salario a strati sociali sempre più ampi[^118]. L'intellettuale impegnato nella costruzione di un radicale ripensamento della società a partire dalle condizioni esistenti, ma al tempo stesso alla ricerca di un orizzonte di senso *autonomo* per il proprio operare in quanto intellettuale, non può dunque che porsi nella posizione che Tronti sintetizza nell'espressione "dentro e contro": "*dentro* la società e *contro* di essa nello stesso tempo"[^119]. Le vicende storiche occorse dopo i primi anni settanta nella società italiana, cosí come in quelle di molti altri paesi occidentali industrializzati, porteranno a evoluzioni del tutto distanti da quelle prefigurate, tra gli altri, da Tronti, Fortini e Tafuri e -- per quanto riguarda il più specifico campo dell'architettura -- da Aymonino e Rossi. Proprio quest'ultimo, forse più di ogni altro, diverrà l'emblematico protagonista del brusco cambio di direzione impresso al lavoro intellettuale nel corso di meno di un decennio: dalla ricerca di un piano di lavoro condiviso come fondamento di un'alternativa alla realtà capitalistico-borghese, alla conquista di una "scrittura" privata, individuale, autobiografica. E non è probabilmente un caso che questo passaggio coincida con la "scoperta" dell'America da parte di Rossi[^120]. A partire da quel momento l'attitudine a essere "dentro e contro" declinerà vistosamente, fino a scomparire del tutto; una sparizione cui corrisponde un'altrettanto lunga eclissi della figura dell'architetto come intellettuale. Le ragioni di questa duplice sparizione (o forse sarebbe meglio dire "oscuramento") solo apparentemente sono riconducibili *in toto* alle condizioni politiche e sociali verificatesi in Italia e in buona parte del mondo dagli anni ottanta in avanti. In realtà, proprio quelle condizioni costituiscono il compimento e la conferma di quanto i migliori intellettuali dei decenni precedenti avevano lucidamente preconizzato[^121]. Non deve quindi stupire che, con il crescente imporsi di tali condizioni in tutte le società occidentalizzate, sottoposte agli effetti sempre più penetranti di un capitalismo al tempo stesso planetariamente esteso e minutamente pervasivo, siano tornate a emergere (specialmente in Italia)[^122], a partire dal principio del nuovo millennio, riflessioni filosofiche e politiche incentrate su temi su cui la cultura si era interrogata nei decenni precedenti[^123]. E che a fronte del "tutto dentro" del sistema globalizzato[^124], sia ritornata attuale la possibilità di porsi -- rispetto a esso -- *dentro e contro*. È alla luce di questa posizione che è forse possibile ripensare anche il ruolo dell'architetto intellettuale, *oggi*. [^1]: Su Brunelleschi vedi, tra gli altri, Piero Sanpaolesi, *Brunelleschi*, Barbera, Firenze 1962; Frank D. Prager e Giustina Scaglia, *Brunelleschi. Studies of His Technology and Inventions*, The MIT Press, Cambridge (Mass.) 1970; Eugenio Battisti, *Filippo Brunelleschi*, Electa, Milano 1976; Arnaldo Bruschi, *Filippo Brunelleschi*, ivi 2006. [^2]: Giulio Carlo Argan, *Brunelleschi*, Mondadori, Milano 1955, p. 44. [^3]: Antonio Manetti, *Vita di Filippo Brunelleschi*, Edizioni Il Polifilo, Milano 1976, pp. 44 e 88. [^4]: Arendt, *Vita activa* cit., pp. 137 sgg. [^5]: Manetti, *Vita di Filippo Brunelleschi* cit., pp. 96-97; Giorgio Vasari, *Vita di Filippo Brunelleschi*, in *Le vite de' più eccellenti pittori, scultori ed architetti*, Einaudi, Torino 1986, pp. 316-17; Cesare Guasti, *La Cupola di Santa Maria del Fiore illustrata con i documenti dell'archivio dell'Opera secolare*, Barbèra Bianchi, Firenze 1857, pp. 229-30. [^6]: Manfredo Tafuri, *L'architettura dell'Umanesimo*, Laterza, Bari 1969, p. 19. [^7]: Vasari, *Vita di Filippo Brunelleschi* cit., p. 324. [^8]: Il *De re ædificatoria* di Leon Battista Alberti, scritto intorno alla metà del XV secolo, verrà pubblicato per la prima volta nel 1485 in latino; vedi *L'architettura*, a cura di Giovanni Orlandi, Edizioni Il Polifilo, Milano 1988. [^9]: Alberto Giorgio Cassani, *La fatica del costruire. Tempo e materia nel pensiero di Leon Battista Alberti*, Edizioni Unicopli, Milano 2000; Massimo Bulgarelli, *Leon Battista Alberti 1404-1472. Architettura e storia*, Electa, Milano 2008. [^10]: Alberti, *L'architettura* cit., p. 6. [^11]: Andrea Palladio, *I Quattro Libri dell'Architettura*, Domenico de' Franceschi, Venezia 1570, vol. I, *Proemio ai lettori*, p. 6. [^12]: *Ibid.*, vol. III, cap. V, p. 12. [^13]: Vedi, tra gli altri, Rudolf Wittkower, *Palladio e il palladianesimo*, Einaudi, Torino 1984. [^14]: Sintomatico -- ma non certo unico -- il caso della Basilica di Vicenza: "La pianta della Basilica riprodotta nei *Quattro Libri* è solo un'invenzione, un singolare esempio di progetto ideale e irrealizzabile di un edificio già costruito in altro modo: in essa Palladio elimina proprio quelle difficoltà da cui era nato il proprio progetto e senza le quali il suo intervento non sarebbe stato neppure richiesto": James Ackerman, *Palladio*, Einaudi, Torino 1972, p. 45. [^15]: Su Piranesi, vedi John Wilton-Ely, *Giovanni Battista Piranesi 1720-1778*, Electa, Milano 2008. [^16]: Pierluigi Panza, *Piranesi architetto*, Guerini Studio, Milano 1998, p. 35. [^17]: Michel Foucault, *Microfisica del potere*, Einaudi, Torino 1977. [^18]: La più nota è probabilmente la "Querelle des anciens et des modernes" che, riprendendo la più nota disputa in campo letterario (vedi Marc Fumaroli, *Le api e i ragni. La disputa degli Antichi e dei Moderni*, Adelphi, Milano 2005), oppone Claude Perrault e François Blondel: cfr. Hanno-Walter Kruft, *Storia delle teorie architettoniche. Da Vitruvio al Settecento*, Laterza, Roma 1988, in particolare il cap. *La fondazione dell'Accademia di architettura e la crisi del dogmatismo accademico*, pp. 159-76; Anthony Gerbino, *François Blondel: Architecture, Erudition, and the Scientific Revolution*, Routledge, Abingdon-on-Thames 2010. [^19]: Tra i più celebri e influenti, l'*Essai sur l'architecture* (1753) di Marc-Antoine Lau­gier e il *Saggio sopra l'architettura* (1757) di Francesco Algarotti, basato sulle idee (sia pur criticate) di Carlo Lodoli, denominato il "Socrate" dell'architettura per non aver lasciato tracce scritte della sua teoria: vedi Andrea Memmo, *Elementi d'architettura lodoliana*, Pagliarini, Roma 1786. [^20]: Étienne-Louis Boullée, *Architettura. Saggio sull'arte*, a cura di Alberto Ferlenga, Einaudi, Torino 2005, p. 5. [^21]: *Ibid.*, p. 3. [^22]: Jean-Nicolas-Louis Durand, *Lezioni di architettura*, a cura di Ernesto D'Alfonso, CLUP, Milano 1986. [^23]: Tra questi vanno ricordati, tra gli altri, Charles Fourier, Robert Owen, William Morris, Étienne Cabet, Jean-Baptiste Godin; sul tema vedi Françoise Choay, *La città. Utopie e realtà*, Einaudi, Torino 1973. [^24]: Tony Garnier, *Una città industriale*, a cura di Riccardo Mariani, Jaca book, Milano 1990. [^25]: Le Corbusier, *Urbanistica* (1925), Il Saggiatore, Milano 1967. [^26]: Catherine de Smet, *Le Corbusier Architect of Books*, Lars Müller Pub­lishers, Baden 2005. [^27]: In particolare, vedi Le Corbusier, *Croisade ou le Crépuscole des Académies*, Éditions Crés, Paris 1933. [^28]: A tale azione si connettono strettamente da parte di Bruno Zevi la fondazione nel 1944 dell'APAO (Associazione per l'Architettura Organica) e la pubblicazione di *Verso un'architettura organica. Saggio sullo sviluppo del pensiero architettonico negli ultimi cinquant'anni*, Einaudi, Torino 1945. [^29]: Roberto Dulio, *Introduzione a Bruno Zevi*, Laterza, Roma-Bari 2008. [^30]: Bruno Zevi, *Saper vedere l'architettura*, Einaudi, Torino 1948; Id., *Storia dell'architettura moderna*, ivi 1950; Id., *Poetica dell'architettura neoplastica*, Tamburini, Milano 1953; Id., *Il linguaggio moderno dell'architettura*, Einaudi, Torino 1973. [^31]: Zevi, *Verso un'architettura organica* cit., p. 13. [^32]: *Ibid.*, p. 150. [^33]: *Ibid.*, p. 75. [^34]: *Manuale dell'architetto*, a cura del Consiglio Nazionale delle Ricerche (CNR) -- United States Information Service (USIS), Roma 1946. [^35]: Manfredo Tafuri, *Teorie e storia dell'architettura*, Laterza, Bari 1968, p. 161. [^36]: Tafuri, *Teorie e storia dell'architettura* cit., p. 172. [^37]: *Ibid.*, p. 176. [^38]: *Ibid.*, p. 173. [^39]: Bruno Zevi, *Introduzione: Attualità di Michelangiolo architetto*, in *Michelangiolo architetto*, a cura di Paolo Portoghesi e Bruno Zevi, Einaudi, Torino 1964, pp. 14-16. Vedi anche *Mostra critica delle opere michelangiolesche*, catalogo della mostra, Roma -- Palazzo delle Esposizioni, De Luca, Roma 1964. [^40]: Tafuri, *Teorie e storia dell'architettura* cit., p. 126. [^41]: Giorgio Ciucci, *Gli anni della formazione*, in "Casabella", n. 619-20, 1995, pp. 12-25. [^42]: Giorgio Piccinato, Vieri Quilici e Manfredo Tafuri, *La città territorio. Verso una nuova dimensione*, in "Casabella-Continuità", n. 270, 1962, pp. 6-16; Enrico Fattinnanzi e Manfredo Tafuri, *Un'ipotesi per la città-territorio di Roma*, in "Casabella-Continuità", n. 274, 1963, pp. 27-36. [^43]: Luka Skansi, *Architettura come "oggetto trascurabile". Note a margine di una discussione di Manfredo Tafuri su realismo e utopia*, in Alessandro De Magistris e Aurora Scotti (a cura di), *Utopiae finis? Percorsi tra utopismi e progetto*, Accademia University Press, Torino 2018, p. 219. [^44]: Tafuri, *Teorie e storia dell'architettura* cit., p. 270. [^45]: *Ibid.*, p. 266. [^46]: *Ibid.*, pp. 266-67. [^47]: *Ibid.*, p. 269. [^48]: *Ibid.*, p. 270. [^49]: *Ibid*. [^50]: Su ciò vedi Marco Biraghi, *Progetto di crisi. Manfredo Tafuri e l'architettura contemporanea*, Christian Marinotti Edizioni, Milano 2005. Vedi anche il fondamentale saggio di Manfredo Tafuri, *Il "progetto" storico*, in "Casabella", n. 429, 1977, pp. 11-18 (poi come *Introduzione* a Id., *La sfera e il labirinto* cit., pp. 3-30). [^51]: Su Argan, vedi Claudio Gamba (a cura di), *Giulio Carlo Argan. Intellettuale e storico dell'arte*, Electa, Milano 2012. La figura di Benevolo attende invece ancora una adeguata storicizzazione. [^52]: Jean-Louis Cohen, *La coupure entre architectes et intellectuels, ou les enseignements de l'italophilie*, Mardaga, Bruxelles 2015. [^53]: Cohen, *La coupure entre architectes et intellectuels* cit., p. 69. [^54]: *Ibid.*, p. 100. [^55]: *Ibid.*, p. 101. [^56]: Per quanto riguarda i libri vedi Fiorella Vanini, *La libreria dell'architetto. Progetti di collane editoriali 1945-1980*, Franco Angeli, Milano 2012; per le riviste vedi Marco Mulazzani, *Le riviste di architettura. Costruire con le parole*, in *Storia dell'architettura italiana. Il secondo Novecento (1945-1996)*, a cura di Giorgio Ciucci e Giorgio Muratore, Electa, Milano 1997, pp. 430-43. [^57]: Sul MSA vedi Matilde Baffa, Corinna Morandi, Sara Protasoni e Augusto Rossari, *Il Movimento di Studi per l'Architettura 1945-1961*, Laterza, Roma-Bari 1995. Sull'ideologia "comunitaria" olivettiana esistono moltissimi contributi, oltre ai libri dello stesso Olivetti; per una sua esposizione sintetica ma approfondita vedi il capitolo *Aufklärung I. Adriano Olivetti e la 'communitas' dell'intelletto*, in Tafuri, *Storia dell'architettura italiana 1944-1985* cit., pp. 47-54. [^58]: Renato Barilli, *La neoavanguardia italiana. Dalla nascita del "Verri" alla fine di "Quindici"*, il Mulino, Bologna 1995; Andrea Cortellessa, *Volevamo la Luna*, in *Quindici. Una rivista e il Sessantotto*, a cura di Nanni Balestrini, Feltrinelli, Milano 2008, pp. 451-72. [^59]: Cohen, *La coupure entre architectes et intellectuels* cit., p. 101. In merito vedi anche Cina Conforto, Gabriele De Giorgi, Alessandra Muntoni e Marcello Pazzaglini, *Il dibattito architettonico in Italia 1945-1975*, Bulzoni, Roma 1977. [^60]: Giuseppe Samonà, *L'urbanistica e l'avvenire delle città*, Laterza, Bari 1959. Dello stesso autore è essenziale pure *L'unità architettura-urbanistica. Scritti e progetti 1929-1973*, a cura di Pasquale Lovero, Franco Angeli, Milano 1975. Su Samonà vedi Carlo Aymonino, Giorgio Ciucci, Francesco Dal Co e Manfredo Tafuri, *Giuseppe Samonà 1923-1975. Cinquant'anni di architetture*, Officina, Roma 1975. [^61]: Ludovico Quaroni, *La Torre di Babele*, Marsilio, Padova 1967. Di Quaroni vedi anche *Immagine di Roma*, Laterza, Bari 1969, e *Progettare un edificio. Otto lezioni di architettura*, Mazzotta, Milano 1977. Su Quaroni vedi Manfredo Tafuri, *Ludovico Quaroni e lo sviluppo dell'architettura moderna in Italia*, Edizioni di Comunità, Milano 1964; Pippo Ciorra, *Ludovico Quaroni 1911-1987. Opere e progetti*, Electa, Milano 1989. [^62]: Ernesto Nathan Rogers, *Il problema del costruire nelle preesistenze ambientali*, in "L'Architettura", n. 22, 1957 (ora in Id., *Esperienza dell'architettura*, a cura di Luca Molinari, Skira, Milano 1997, pp. 286-91). Alle tematiche delle preesistenze ambientali -- e più in generale al rapporto architettura-città -- sono dedicati numerosi degli editoriali pubblicati da Rogers su "Casabella", raccolti, oltreché in *Esperienza dell'architettura*, in *Editoriali di architettura*, Einaudi, Torino 1968; ora a cura di Gabriella Lo Ricco e Mario Viganò, Zandonai, Rovereto 2009. [^63]: Vittorio Gregotti, *Il territorio dell'architettura*, Feltrinelli, Milano 1966. [^64]: Carlo Aymonino, *Origini e sviluppo della città moderna*, Marsilio, Padova 1965. Vedi inoltre Id., *Il significato della città*, Laterza, Bari 1975. [^65]: Aldo Rossi, *L'architettura della città*, Marsilio, Padova 1966. Sul libro e le sue implicazioni vedi *Aldo Rossi, la storia di un libro. L'architettura della città, dal 1966 ad oggi*, a cura di Fernanda De Maio, Alberto Ferlenga e Patrizia Montini Zimolo, Il Poligrafo - IUAV, Padova-Venezia 2014. [^66]: Vedi, ad esempio, *La città di Padova. Saggio di analisi urbana*, scritti di Carlo Aymonino, Manlio Brusatin, Gianni Fabbri, Mauro Lena, Pasquale Lovero, Sergio Lucianetti e Aldo Rossi, Officina, Roma 1970. [^67]: Giovanni Marras e Marco Pogacnik (a cura di), *Giuseppe Samonà e la Scuola di Architettura a Venezia*, Il Poligrafo, Padova 2006. [^68]: Ludovico Quaroni, *La città fisica*, a cura di Antonino Terranova, Laterza, Roma-Bari 1981. [^69]: Tra loro va ricordato almeno Franco Purini, il cui contributo alla definizione del profilo dell'architetto intellettuale italiano a partire dagli anni sessanta -- attraverso la sua "opera di pensiero", che contempera architettura, disegno e parola -- è fondamentale; tra gli altri suoi lavori, vedi *Comporre l'architettura*, Laterza, Roma-Bari 2000; *La misura italiana dell'architettura*, Laterza, Roma-Bari 2008. [^70]: Su ciò vedi in particolar modo Tafuri, *Ludovico Quaroni e lo sviluppo dell'architettura moderna in Italia* cit., pp. 13-14. [^71]: Fra le tematiche più generali trattate vanno ricordate, tra le altre: i Centri Direzionali Italiani (n. 264, 1962), Città e Regione (n. 270, 1962), i Problemi di Roma (n. 279, 1963), il Piano Intercomunale Milanese (n. 282, 1963), le Coste Italiane (nn. 283 e 284, 1964), il Fabbisogno del Verde in Italia (n. 286, 1964), i Problemi USA (n. 294-95, 1964-65). [^72]: Vedi, tra l'altro, *Enzo Paci. Architettura e filosofia*, in "aut aut", n. 333, 2007, numero dedicato al filosofo. Va ricordato che nel 1946, con Banfi, Vittorini, Einaudi e altri, Rogers è membro fondatore della Casa della cultura di Milano. Enzo Paci farà invece parte del comitato di redazione di "Casabella-Continuità" a partire dal numero 215 del 1957. [^73]: Ernesto N. Rogers, *Continuità*, in "Casabella-Continuità", n. 199, 1953-54, p. 2. [^74]: In particolare Rogers si rifà all'uso che John Dewey (studiato in quel periodo da Paci) ne fa in *Esperienza e educazione* (La Nuova Italia, Firenze 1949) e in *L'arte come esperienza* (ivi 1951). La prima raccolta degli editoriali di Rogers si intitola *Esperienza dell'architettura*, Einaudi, Torino 1958. [^75]: Ernesto N. Rogers, *Continuità o crisi?*, in "Casabella-Continuità", n. 215, 1957, p. 3. [^76]: Enzo Paci, *Fenomenologia e architettura contemporanea*, in Id., *Relazioni e significati. Critica e dialettica*, Lampugnani Nigri, Milano 1966, p. 175. [^77]: Enzo Paci, *La crisi della cultura e la fenomenologia dell'architettura contemporanea*, in "La Casa", n. 6, 1959, p. 356. [^78]: Ernesto N. Rogers, *Il dramma dell'architetto* (1948), in Id., *Esperienza dell'architettura* cit., p. 221. [^79]: *Ibid.*, p. 223. [^80]: *Ibid.*, p. 225. [^81]: Massimo Canzian, *Orizzonti del fare architettonico. Progetto Estetica Teoria nel dibattito italiano del dopoguerra*, Guerini e Associati, Milano 1995, nonché l'*Introduzione* di Massimo Cacciari, pp. 11-17. [^82]: Oltre al citato *Il territorio dell'architettura*, vedi, tra i molti altri, Vittorio Gregotti, *Dentro l'architettura*, Bollati Boringhieri, Torino 1991; Id., *Identità e crisi dell'architettura europea*, Einaudi, Torino 1999; Id., *L'architettura del realismo critico*, Laterza, Bari 2004; Id., *L'architettura nell'epoca dell'incessante*, ivi 2006; Id., *Contro la fine dell'architettura*, Einaudi, Torino 2008; Id., *Architettura e postmetropoli*, ivi 2011; Id., *Il sublime al tempo del contemporaneo*, ivi 2013; Id., *I racconti del progetto*, Skira, Milano 2018. [^83]: Manfredo Tafuri, *Vittorio Gregotti. Progetti e architetture*, Electa, Milano 1982; Guido Morpurgo (a cura di), *Il territorio dell'architettura. Gregotti e Associati 1953-2017*, Skira, Milano 2017. [^84]: Gramsci, *Quaderni del carcere* cit., vol. III, Quaderno 12 (XXIX), § 3, p. 1551. [^85]: Giovanni Durbiano, *I Nuovi Maestri. Architetti tra politica e cultura nel dopoguerra*, Marsilio, Venezia 2000, pp. 55-98. [^86]: Per quanto riguarda i corsi di Carlo Aymonino allo IUAV di Venezia, cui collaborano, tra gli altri, anche Aldo Rossi, Costantino Dardi e Gianni Fabbri, vedi *Aspetti e problemi della tipologia edilizia. Documenti del Corso di caratteri distributivi degli edifici. Anno accademico 1963-1964*, Libreria Cluva, Venezia 1964; *La formazione del concetto di tipologia edilizia. Atti del Corso di caratteri distributivi degli edifici. Anno accademico 1964-1965*, ivi 1965; *Rapporti tra la tipologia edilizia e la morfologia urbana. Documenti del Corso di caratteri distributivi degli edifi­ci. Anno accademico 1965-1966*, ivi 1966. [^87]: Aldo Rossi, *Tipologia, manualistica e architettura*, in *Rapporti tra la tipologia edilizia e la morfologia urbana* cit., p. 69. [^88]: Aldo Rossi, *L'obiettivo della nostra ricerca*, in *L'analisi urbana e la progettazione architettonica. Contributi al dibattito e al lavoro di gruppo nell'anno accademico 1968-69. Gruppo di ricerca diretto da Aldo Rossi*, Clup, Milano 1970, p. 13. [^89]: Durbiano, *I Nuovi Maestri* cit., p. 62. [^90]: Antonio Monestiroli, *L'architettura della realtà* (1979), Allemandi, Torino 2004, p. 21. [^91]: *Ibid.*, p. 22. [^92]: Joan Ockman, *Venice and New York*, in "Casabella", n. 619-20, 1995, pp. 56-65; Ernesto Ramon Rispoli, *Ponti sull'Atlantico. L'Institute for Architecture and Urban Studies e le relazioni Italia-America (1967-1985)*, Quodlibet, Macerata 2012. [^93]: Tafuri, *La sfera e il labirinto* cit., p. 323. [^94]: D'altronde, la tendenza a unificare azione intellettuale e attività politica sembra appartenere costitutivamente alla cultura italiana, che l'ha ereditata da Benedetto Croce. Al proposito vedi Eugenio Garin, *Intellettuali italiani del* *XX* *secolo*, Editori Riuniti, Roma 1996, in particolare il capitolo *Benedetto Croce o della "separazione impossibile" tra politica e cultura*, pp. 47-67. [^95]: Peter Eisenman, *Inside Out. Scritti 1963-1988*, Quodlibet, Macerata 2014; Id., *Written into the Void. Selected Writings 1990-2004*, Yale University Press, New Haven 2007. [^96]: Rem Koolhaas, *Delirious New York* (1978), a cura di Marco Biraghi, Electa, Milano 2001; Id., *Junkspace*, a cura di Gabriele Mastrigli, Quodlibet, Macerata 2006; Id., *Singapore Songlines*, a cura di Manfredo di Robilant, Quodlibet, Macerata 2010. [^97]: Monestiroli, *L'architettura della realtà* cit., p. 29. [^98]: Robert Venturi, *Complessità e contraddizioni nell'architettura*, Edizioni Dedalo, Bari 1993; Robert Venturi, Denise Scott Brown e Steven Izenour, *Imparare da Las Vegas. Il simbolismo dimenticato della forma architettonica*, Quodlibet, Macerata 2010. [^99]: Vedi, tra gli altri, Mirko Zardini (a cura di), *Paesaggi ibridi. Un viaggio nella città contemporanea*, Skira, Milano 1996; Stefano Boeri, *I detective dello spazio*, in "Il Sole -- 24 Ore", supplemento, 16 marzo 1997; Id., *Atlanti eclettici*, in Multiplicity, *USE-Uncertain States of Europe -- Viaggio nell'Europa che cambia*, Skira, Milano 2003, pp. 425-45. [^100]: Vedi http://oma.eu/office. [^101]: Vedi, tra gli altri, AMO, *History of Europe and The European Union*, Archis, rivista a unico numero, Amsterdam 2005; Rem Koolhaas, Ole Bouman e Mitra Khoubrou (a cura di), *Al Manakh: Dubai Guide, Gulf Survey, Global Agenda*, Archis, Amsterdam 2007; Todd Reisz (a cura di), *Al Manakh: Gulf Continued*, ivi 2010; *Roadmap 2050. A practical Guide to a Prosperous, Low-carbon Europe*, OMA, Amsterdam 2010; vedi anche www.roadmap2050.eu/project/roadmap-2050. [^102]: Vedi ad esempio MVRDV, *Farmax. Excursions on Density*, 010 Publishers, Rotterdam 1998; Id., *KM3. Excursions on Capacity*, Actar, Barcelona 2005; BIG -- Bjarke Ingels Group, *Yes Is More. An Archicomic on Architectural Evo­lution*, Taschen, Köln 2009; Id., *Hot to Cold. An Odyssey of Architectural Adaptation*, ivi 2015. [^103]: Tafuri, *La sfera e il labirinto* cit., p. 349. [^104]: Rimando a questo proposito a Marco Biraghi, *Eisenman o dell'interpretazione*, in Pier Vittorio Aureli, Marco Biraghi e Franco Purini, *Peter Eisenman. Tutte le opere*, Electa, Milano 2007, pp. 22-37. [^105]: Per le conversazioni tra Eisenman e Derrida, e per i testi di quest'ultimo su Eisenman, vedi Jacques Derrida, *Adesso l'architettura*, a cura di Francesco Vitale, Libri Scheiwiller, Milano 2008, pp. 181-238; vedi anche *Un matrimonio sfortunato. Derrida e l'architettura*, a cura di Peter Bojanić e Damiano Cantone, in "aut aut", n. 368, 2015. [^106]: K. Michael Hays (a cura di), *Oppositions Reader. Selected Readings from a Journal for Ideas and Criticism in Architecture 1973-1984*, Princeton Architec­tural Press, New York 1998. [^107]: Rafael Moneo, *La solitudine degli edifici e altri scritti*, 2 voll., I. *Questioni intorno all'architettura*; II. *Sugli architetti e il loro lavoro*, a cura di Andrea Casiraghi e Daniele Vitale, Allemandi, Torino 1999-2004; Id., *Inquietudine teorica e strategia progettuale nell'opera di otto architetti contemporanei*, Electa, Milano 2005. [^108]: "Nelle sue disgregazioni e disgiunzioni, nella sua caratteristica frammentazione e dissociazione, l'attuale situazione culturale suggerisce la necessità di abbandonare le categorie di significato e le storie contestuali stabilite. Varrebbe quindi la pena di rinunciare a qualunque nozione di architettura postmoderna in favore di una architettura "postumanista", che evidenzi non solo la dispersione del soggetto e della forza delle regole sociali, ma anche l'effetto di questo decentramento sull'intera nozione di forma architettonica unificata e coerente": Bernard Tschumi, *Disgiunzioni* (1987), in Id., *Architettura e disgiunzione*, a cura di Ruben Baiocco e Giovanni Damiani, Pendragon, Bologna 1996, p. 164. [^109]: Su ciò vedi, ad esempio, Maurizio Lazzarato, *Immaterial Labor*, in Paolo Virno e Michael Hardt (a cura di), *Radical Thought in Italy. A Potential Politics*, University of Minnesota Press, Minneapolis 2006, pp. 132-46. [^110]: Gianni Pettena (a cura di), *Radicals. Architettura e Design 1960-1975*, La Biennale di Venezia -- Il Ventilabro, Firenze 1996; Andrea Branzi, *Modernità debole e diffusa*, Skira, Milano 2006. [^111]: Giorgio Grassi, *La costruzione logica dell'architettura*, Marsilio, Venezia 1967. Per una rilettura "aggiornata" di Rossi e di Grassi, vedi baukuh, *Due saggi sull'architettura*, Sagep editori, Genova 2012. [^112]: Daniele Balicco, *Non parlo a tutti. Franco Fortini intellettuale politico*, Manifestolibri, Roma 2006, p. 43. [^113]: Franco Fortini, *Verifica dei poteri* (1960), in Id., *Verifica dei poteri*, Garzanti, Milano 1974, pp. 54-55. [^114]: Rimando a Benjamin, *L'autore come produttore* cit., p. 201. [^115]: Franco Fortini, *Astuti come colombe* (1962), in Id., *Verifica dei poteri* cit., pp. 66-87. [^116]: Mario Tronti, *La fabbrica e la società*, in "Quaderni Rossi", n. 2, 1962, p. 21. [^117]: Tafuri, *Lavoro intellettuale e sviluppo capitalistico* cit., pp. 241-81, a p. 280. [^118]: *Ibid.*, p. 281. [^119]: Mario Tronti, *Operai e capitale*, Einaudi, Torino 1966, p. 14. [^120]: Oltre al forte incremento nella produzione di quadri e di disegni rossiani in corrispondenza dei suoi viaggi negli Stati Uniti e sotto la spinta del mercato americano, nella seconda metà degli anni settanta, va ricordato che la prima edizione dell'*Autobiografia scientifica* è stata pubblicata proprio negli Stati Uniti: Aldo Rossi, *Scientific Autobiography*, The MIT Press, Cambridge (Mass.) 1981. [^121]: Su tutti va ricordato ancora il fondamentale Debord, *La società dello spettacolo* cit. [^122]: Roberto Esposito, *Pensiero vivente. Origine e attualità della filosofia italiana*, Einaudi, Torino 2010; Dario Gentili, *Italian Theory. Dall'operaismo alla biopolitica*, il Mulino, Bologna 2012; Dario Gentili e Elettra Stimilli (a cura di), *Differenze italiane*, DeriveApprodi, Roma 2015. [^123]: Vedi ad esempio Paolo Virno, *Grammatica della moltitudine. Per una analisi delle forme di vita contemporanee*, DeriveApprodi, Roma 2009; Mario Tronti, *Noi operaisti*, DeriveApprodi, Roma 2009. Un'interessante incursione nel territorio disciplinare è rappresentato da Marco Assennato, *Linee di fuga. Architettura, teoria, politica*, :duepunti edizioni, Palermo 2011. [^124]: Michael Hardt e Antonio Negri, *Impero. Il nuovo ordine della globalizzazione*, Rizzoli, Milano 2002. # Le strategie del distacco > The education of a great intellectual often includes at the moment of > its beginnings not only the seeds of that person's future development, > but also the final result[^1]. È sulla scia di questi tentativi che un architetto come Pier Vittorio Aureli ha ripreso le fila del discorso avviato ormai cinquant'anni fa da alcuni degli autori citati più sopra -- "*dentro* la società e *contro* di essa nello stesso tempo" -- con l'evidente intento di analizzarlo non tanto o soltanto da un punto di vista storico, quanto piuttosto in un'ottica odierna, e di applicarlo all'ambito dell'architettura e della città. Nel farlo, Aureli riporta l'attenzione del dibattito architettonico sul languente fronte della teoria, rendendo quest'ultima il proprio piano *operativo*. E qui bisogna subito fare attenzione: non si tratta infatti né di una teoria fine a se stessa, chiusa nel proprio universo autoreferenziale, né di una teoria dipendente dalla sua attuazione, dal suo tradursi in "pratica". Tra il piano della teoria e quello del progetto vi è un'incessante dialettica, in cui entrambe cooperano per il raggiungimento di un unico fine. Che non è in ogni caso quello della "realizzazione". Come si vedrà meglio in seguito, l'operatività del progetto si dispone per Aureli su un terreno programmaticamente diverso da quello della realtà, almeno in una prima fase del suo lavoro: una rinuncia a vederne i frutti concreti, o meglio piuttosto una sua "sottrazione" all'assoggettamento alle dinamiche del mercato che gli consente di sviluppare il progetto nella pienezza della sue capacità dimostrative, senza obbligarlo a scendere a compromessi. Fin dalla sua formazione, compiuta tra lo IUAV di Venezia e il Berlage Institute di Rotterdam[^2], Aureli dimostra il proprio grado di consapevolezza nei confronti dei limiti e delle difficoltà che si trova a dover affrontare un giovane architetto al cospetto di un panorama contemporaneo di certo non rassicurante da un punto di vista lavorativo. La sua scelta di lasciare l'Italia per completare i propri studi all'estero, in questo senso, rappresenta l'espressione di una chiarezza di idee, di un *progetto* che inizia fin da allora a delinearsi. La stessa che gli farà raggiungere, nel giro di pochi anni, prestigiose posizioni di insegnamento: tra le altre, alla Columbia University di New York, alla Yale School of Architecture di New Haven e all'Architectural Association School di Londra. Una chiarezza confermata anche dall'ampiezza di vedute con cui s'accosta alle tematiche architettoniche. I suoi interessi si appuntano dapprima sullo studio dei principî insediativi urbani, poi sul concetto di "città arcipelago", quindi sul tentativo di definizione di un'architettura *assoluta*[^3]. Fin da subito, l'architettura è concepita non come una disciplina separata bensì come un crocevia dove si incontrano questioni sociali, politiche, storiche ed estetiche. Ma soprattutto, prima ancora che nell'affermazione di un'architettura specifica, vale a dire nell'elaborazione di una *propria* architettura, l'impegno di Aureli va in direzione della comprensione delle condizioni di *pensabilità* dell'architettura in generale nel contesto della città esistente. E ciò nondimeno, nessun approccio generico all'architettura, nessun suo inquadramento all'interno di una "mitica" interezza e astoricità. Al contrario, nell'accostarsi a una sua formulazione teorica, Aureli ne compie un ripensamento analitico che si muove lungo i solchi della storia. Raccogliendo la lezione impartita da Manfredo Tafuri nei suoi corsi universitari allo IUAV e nei suoi libri, Aureli rilegge i momenti e le opere della storia dell'architettura (e non solo), dei quali si avvale con un atteggiamento che non ha nulla di vuotamente ostensivo, e neppure di semplicemente confermativo delle interpretazioni correnti. Pur non essendo la storia il suo campo d'azione, Aureli fa propria la concezione storica tafuriana (e benjaminiana) di un passato mai definitivamente passato, mai "dato per giudicato" una volta per tutte, bensì piuttosto assimilabile a un campo di forze le cui potenzialità sono riattivabili e in grado di trasformare ("inquietare", diceva Tafuri)[^4] il presente. Ma vi è un altro elemento che Aureli sembra desumere dagli insegnamenti tafuriani: la necessità di una distanza critica. "La distanza è fondamentale per la storia"[^5]: è essa che aiuta a non cadere vittime dell'immedesimazione e delle altre deformazioni derivanti dall'assenza di "mediazioni". Nel caso di Aureli non si tratta evidentemente di una distanza da mantenere o da applicare in senso storico: è invece il tempo presente quello con il quale -- nella misura del possibile -- evitare d'immedesimarsi, e rispetto al quale dunque cercare di interporre un "filtro", una forma di "mediazione". Si legga nuovamente Tafuri: > Lo storico che prende in esame un lavoro contemporaneo deve creare una > distanza *artificiale*. (...) Il modo che abbiamo di distanziarci > dalla nostra epoca, e di darci cosí una prospettiva, è quello di > confrontare le differenze che essa presenta con il passato. Rispetto all'apparentemente inevitabile immediatezza del tempo presente Aureli prova a adottare delle forme di *distacco*[^6]. Come si vedrà, nulla che abbia a che fare con un disinteresse, un disimpegno o un'estraneazione, e ancor meno con una illusoria mancanza di inerenza alle condizioni presenti, con una velleitaria "libertà" dai condizionamenti. La dimensione in cui si colloca il distacco di Aureli -- ben lungi dall'immaginare alcuna possibile "neutralità" o "alterità" rispetto alle condizioni presenti -- è quella stessa del "problematico" in cui si colloca il "progetto" storico tafuriano[^7]. E non è forse un caso che sia altrettanto in una prospettiva progettuale -- oltreché teorica -- che Aureli cerchi di declinare il proprio distacco. Anzi, è proprio in nome di un distacco che in lui trovano un punto di unificazione attività teorica e attività progettuale, quest'ultima svolta nell'ambito dello studio Dogma ("L'architettura è come un dogma, una deliberata decisione sull'indecidibile, una dottrina senza prova")[^8], fondato nel 2002 insieme a Martino Tattara; uno studio che elegge programmaticamente a propria sede Bruxelles, in quanto città "baricentrica" in Europa, oltreché sua capitale[^9]. È proprio questo impegno progettuale a rendere ancora più significativo lo sforzo di praticare un distacco; cosí come pure, per converso, è soltanto a contatto con un'attività operativa che tale distacco acquisisce pienamente il suo senso. L'attenzione di Dogma si è appuntata -- in special modo nella fase iniziale della sua attività -- su progetti a grande scala, culminati con *Stop City* (2007)[^10], proposta per un modello urbano teorico, e con *A Simple Heart* (2011)[^11], studio urbano sull'area metropolitana del nord-ovest dell'Europa. L'aspetto letteralmente sorprendente del primo progetto -- e tanto più al momento della sua pubblicazione -- consiste nel modo apparentemente lieve con cui *Stop City* torna a ragionare su ciò che l'architettura deve avere *in comune* per essere considerata parte costituente della città. Dopo decenni di architettura che si è limitata semplicemente a imporre la propria individualità alla città, o che -- in alternativa -- ha tentato disperatamente di ridarle un'identità ormai perduta, *Stop City* ha il coraggio (o la sfrontatezza) d'impostare la questione dell'architettura sul piano della città, anziché di risolvere la questione della città sul piano dell'architettura. Lo fa assumendo gli effetti sociali della città contemporanea (sradicamento, genericità) come propri "attributi politici (...) ovvero come la forma stessa del "contropiano" dentro e contro la città post-fordista"[^12]. *A Simple Heart* prende invece esplicitamente spunto dalle riflessioni sugli effetti della società post-fordista condotte da Paolo Virno e Giorgio Agamben[^13]. Nel corpo vivo di città come Amsterdam, Bruxelles, Düsseldorf, Dogma innesta un'enorme cornice quadrata di 800 × 800 m e alta 20 piani che ha lo scopo di "inquadrare" le condizioni urbane vigenti (ovvero la trasformazione della città contemporanea in una "fabbrica sociale" basata sul lavoro vivo, e dunque sui rapporti che si istituiscono al suo interno tra i lavoratori), facendone al tempo stesso il dispositivo che rende esplicite tali condizioni. Una radicalizzazione della situazione esistente, piuttosto che un tentativo di modificarla, che non si mantiene però indifferente nei suoi confronti. Ed è interessante che Dogma evochi (come peraltro già fatto a proposito di *Stop City*) il concetto di *kathecon* (letteralmente, "ciò che trattiene") desunto dal contesto teologico-politico e qui reinterpretato come una forza oscillante tra due polarità opposte che non si oppone al compimento di un processo ma che lo frena aderendo a esso, "proprio come il concavo aderisce (cosí definendolo) al convesso"[^14]. In maniera tanto chiara da risultare programmatica, in questi progetti non c'è né utopia né ironia: lungi dall'essere ipotesi di vita alternative a quella corrente sulla base di differenti presupposti sociali o architettonici, o dall'essere invece esasperazioni caricaturali delle forme di vita metropolitana attuale, essi costituiscono riflessioni per parole e immagini sul rapporto tra architettura e città, ovvero sulla possibilità che l'architettura torni ad avere senso e ruolo nella costruzione della città, e non la città a rappresentare il luogo di mera accumulazione dell'architettura. Nel fare ciò Aureli e Tattara evitano accuratamente di caricare l'architettura da loro proposta di qualsiasi "valore": nessuna ridondanza estetica, nessuna articolazione morfologica, al di fuori dell'ossessiva ripetizione di forme elementari e perentorie; e soprattutto, nessun riguardo per le circostanze effettive del progetto, nessuna analisi strutturale o distributiva, quasi nessun dettaglio. Nella misura del possibile, un'*astensione* dall'atto progettuale, o forse -- ancor meglio -- un'*astrazione* da esso (nel senso in cui si usa l'espressione "fare astrazione da qualcosa", intendendo cosí di prescindervi); astensione o astrazione che vale però al tempo stesso come precisa indicazione del problema: il quale -- con sempre maggiore frequenza e insistenza negli ultimi decenni -- può essere identificato nella tendenza a ridurre l'architettura a "oggetto" funzionale esclusivamente alla creazione -- o al consolidamento -- di un consenso intorno a operazioni di natura essenzialmente finanziaria; un oggetto la cui inconfondibile "maschera" assume di sovente le fattezze di un'iconicità del tutto autoreferenziale. Da questo punto di vista, la rinuncia a una forma "identitaria" a favore di una forma "generica" ("un'architettura senza qualità, (...) liberata dall'immagine, dallo stile, dall'obbligo della stravaganza, dall'inutile invenzione di nuove forme")[^15], assume per Dogma il valore di una presa di posizione che non ha nulla a che fare con l'estetica: piuttosto, l'esortazione a recuperare all'architettura una dimensione urbana, tornando a farne l'elemento di definizione della *forma* della città. Non a caso i due autori, a proposito di *Stop City*, parlano di "architettura non-figurativa", esattamente come faceva Archizoom a proposito di *No-Stop City* (1970-71)[^16]: non un'architettura priva di forma, o di "figura", dunque, quanto piuttosto di "figuratività", ossia di un'immagine convenzionalmente riconoscibile; in altri termini, si potrebbe dire, un'architettura non-rappresentativa, non-oggettiva, proprio come lo è l'arte astratta, che è priva di relazioni con le apparenze del mondo sensibile; ovvero, nel caso dell'architettura -- in quanto arte non mimetica -- con le apparenze del mondo architettonico. In questo duplice principio di "astrazione" è contenuto, sia pure sotto forma differente, il medesimo atteggiamento di distacco che -- come detto -- caratterizza la ricerca teorica di Aureli: anzi, si può dire che ne sia la precisa controparte "operativa". In entrambi i casi la "presa-di-distanza" che implicano equivale a una presa di coscienza dei presupposti che sono loro sottesi. Detto altrimenti, per Aureli non vi può essere progetto -- teorico cosí come architettonico -- che non soltanto non analizzi nel modo quanto più obiettivo possibile i processi sui quali esso ineluttabilmente si radica, ma che non rifletta al tempo stesso sulla propria condizione di necessario distacco/presa-di-distanza da essi. Infatti, un progetto che aderisse immediatamente (senza alcuna mediazione, ovvero senza alcuna *meditazione*) ai processi, insomma un progetto che non si ponesse in una posizione critica (letteralmente: di messa in crisi) nei confronti dei loro fondamenti, sarebbe un progetto non soltanto radicato in essi ma interamente determinato, *condizionato* da essi. A partire da questo punto si sviluppa la riflessione teorica di Aureli: affrontando anzitutto la questione dell'autonomia come prima forma di distacco. Nel primo libro da lui pubblicato, *The Project of Autonomy* (2008), il tema è sviluppato, non a caso, comprendendo in un unico abbraccio politica e architettura "Within and Against Capitalism"[^17]. L'autonomia, di questa simultanea e contraddittoria condizione, è l'incarnazione più esatta: al tempo stesso immersa dentro i processi, e tuttavia separata da essi. In quanto dotata di un suo proprio *nomos*, di una norma regolativa sua propria, l'autonomia garantisce il mantenimento di un'indipendenza, anzi, in una certa misura è la forma stessa dell'indipendenza, *dentro e contro*. Oggetto di *The Project of Autonomy* sono le modalità secondo cui si sono andate determinando posizioni o affermazioni di "autonomia", in ambito politico e architettonico, intorno agli anni sessanta e settanta. La simultaneità di tali fenomeni non riveste un ruolo secondario nell'economia dell'analisi aureliana ma l'aspetto primario è rappresentato dalle ragioni che hanno portato a fare dell'autonomia uno strumento -- o in certi casi addirittura un'"arma" -- di lotta, essenziale all'interno di un ben preciso momento storico. Per quanto riguarda l'ambito politico, la pratica dell'autonomia è strettamente conseguente al tentativo di gruppi di intellettuali -- e, in misura proporzionalmente assai minore, di lavoratori e studenti -- di conferire nuovo rigore e vigore alla lotta di classe, in un momento politicamente delicato qual è stato quello attraversato dall'Italia tra la fine degli anni cinquanta e i primi sessanta, incertamente teso tra boom economico e apertura di un lungo ciclo di crisi. I luoghi in cui tale dibattito si sviluppa sono in special modo le riviste dell'operaismo "classico": in primo luogo "Quaderni Rossi", nata all'inizio degli anni sessanta e segnata nella sua breve vita dalla precoce scomparsa del suo fondatore e direttore, Raniero Panzieri[^18]; quindi "Classe operaia", uscita a partire dal gennaio 1964, in seguito alla scissione da "Quaderni Rossi" da parte di Mario Tronti, cui si affiancano Alberto Asor Rosa, Sergio Bologna, Massimo Cacciari, Rita Di Leo e Antonio Negri; infine "Contropiano", diretta (come già detto) da Asor Rosa e Cacciari tra il 1968 e il 1971. In questo frangente storico-politico, l'autonomia si presenta innanzitutto come tattica presa di distanza dalle organizzazioni ufficiali del movimento operaio: il Partito comunista italiano e i sindacati, sopra tutti gli altri. Facendo proprio "il punto di vista operaio"[^19], gli operaisti (cui si è già fatto cenno nel capitolo precedente) intendevano prendere e dare coscienza della condizione di sfruttamento della forza lavoro all'interno del sistema capitalistico, non limitata però soltanto alla classe operaia ma estesa anche alla borghesia e allo stesso lavoro intellettuale. Al fine di raggiungere tale obiettivo, se la riappropriazione dei processi produttivi da parte dei lavoratori -- in termini di auto-organizzazione della cooperazione del lavoro e di controllo operaio dell'uso delle macchine[^20] -- inquadra ancora i rapporti tra capitale e forza lavoro entro il recinto chiuso della fabbrica, la "strategia del rifiuto"[^21] del lavoro -- e dunque l'*autonomia* rispetto a esso -- estende la lotta alla dimensione sociale e *totale* che è propria del capitalismo compiuto, e al tempo stesso vale come strumento di riconoscimento da parte della forza lavoro della propria vera natura. È la separazione della classe lavoratrice (non della sola classe operaia) dal lavoro, e quindi dal capitale. Ovvero, come afferma Tronti, "è la separazione della forza politica dalla categoria economica"[^22]. E non è un caso che, nel processo di estensione delle dinamiche originariamente interne alla fabbrica all'intera società, si passi dall'*autonomia operaia* (intesa tanto come esito di tale separazione quanto come vero e proprio movimento politico sorto dalle ceneri dell'operaismo) all'*autonomia del politico*[^23], elaborata dallo stesso Tronti "come possibilità di concepire la storia della classe operaia (e dunque del Capitale) non solo dal punto di vista dell'economia politica, ma anche da quello della politica *tout court*"[^24]. A tale piano di applicazione del concetto e della pratica dell'autonomia corrispondono secondo Aureli altri piani, non tutti direttamente collegati all'ambito politico, e ciò nondimeno in un modo o nell'altro a esso relazionabili. In tal senso in *The Project of Autonomy* egli riconsidera il modo in cui il progetto dell'autonomia ha preso forma all'interno del dibattito sull'architettura e sulla città negli anni sessanta e settanta attraverso il lavoro teorico di Manfredo Tafuri, Aldo Rossi e Archizoom. > Per quanto radicalmente differenti, le posizioni di queste tre figure > centrali dell'architettura italiana degli ultimi cinquant'anni hanno > condiviso alcuni punti essenziali spesso dimenticati nelle trattazioni > storiche che hanno affrontato il loro lavoro. Tra i punti che intendo > mettere in evidenza c'è soprattutto la critica alla > *professionalizzazione* dell'architettura e al suo ruolo politicamente > e culturalmente passivo nei confronti delle dinamiche urbane che > allora segnavano l'impetuoso sviluppo economico italiano ed europeo. > Inoltre, in modi assai diversi e arrivando a conclusioni opposte tra > loro, le teorie di Rossi, Tafuri e Archizoom misero in discussione, in > modi più o meno espliciti, l'orizzonte riformista delle politiche > urbane del welfare-state, nonché i miti tecnocratici della > "programmazione economica" e della città-territorio[^25]. In modo particolare, il contributo di Tafuri a un "progetto dell'autonomia" può essere fatto risalire al periodo in cui "Contropiano" s'impegna in una vasta e approfondita analisi critica dei riflessi dello sviluppo capitalistico su diversi contesti e settori sociali, inserita all'interno di una prospettiva di classe[^26]. In questo quadro s'inscrive il lungo saggio tafuriano *Per una critica dell'ideologia architettonica* (1969). "Critica dell'ideologia", in questo contesto, significa disvelamento dei meccanismi di assimilazione dell'architettura e della città alle leggi della produzione capitalistica, ma anche -- e soprattutto -- critica dell'"architetto moderno *progressista*, ovvero colui che in buona fede credeva fosse possibile riformare la città capitalista senza fare i conti fino in fondo con le condizioni in cui essa stessa viene prodotta"[^27]. Alla constatazione che "la cultura architettonica ha funzionato consapevolmente o inconsapevolmente come forma di sublimazione delle sempre più pressanti contraddizioni dello sviluppo urbano"[^28], si accompagna dunque per Tafuri la presa di coscienza della necessità di rendere la ricerca storica "autonoma dai condizionamenti ideologici della professione, soprattutto da quella politicamente "impegnata""[^29]. Non a caso, in *Per una critica dell'ideologia architettonica* (e poi nel successivo *Progetto e utopia* che ne costituisce l'evoluzione in volume), Tafuri riserva una particolare attenzione alla figura e all'opera di Ludwig Hilberseimer, fino a quel momento marginalizzate dalla storiografia architettonica. È in esse infatti che egli scorge il superamento delle "illusioni" legate alla produzione di edifici come "oggetti" isolati e il riconoscimento della città quale "unità reale del ciclo di produzione"[^30]: a fronte della quale, per Hilberseimer, "unico compito adeguato per l'architetto è quello dell'*organizzatore* di quel ciclo". Alla luce di ciò, "autonomia" giunge a significare capacità di affrontare radicalmente le condizioni in cui il capitalismo produce se stesso, senza pensare di poterle eludere. Differente la concezione dell'autonomia per Aldo Rossi. Nel 1966, con *L'architettura della città*, egli propone "una teoria della città dal punto di vista dell'architettura"[^31], secondo l'interpretazione di Aureli. Non si tratta di una semplice rivendicazione disciplinare, quanto piuttosto del tentativo di rileggere la realtà della città attraverso un'"evidenza" storica apparentemente venuta meno agli occhi dei suoi contemporanei: l'evidenza dei "fatti urbani" come insieme di oggetti concreti, finiti, definiti, costituiti in ultima analisi di "materia" architettonica. Detto con le parole di Rossi: "... l'architettura non rappresenta che un aspetto di una realtà più complessa, di una particolare struttura, ma nel contempo, essendo il dato ultimo verificabile di questa realtà, essa costituisce il punto di vista più concreto con cui affrontare il problema"[^32] della città. Da ciò discende un modo di intendere l'autonomia dell'architettura che Ezio Bonfanti, primo esegeta di Rossi, interpreterà correttamente non come "libertà dell'architettura" bensì come libertà *per* l'architettura, ovvero come "liberazione della città all'architettura"[^33]. Il progetto dell'autonomia rossiano, in questo senso, va considerato un progetto *politico*, che prende posizione, e perciò niente affatto neutrale; un progetto in cui decisione politica e forma urbana dovrebbero coincidere, in cui l'architettura dovrebbe entrare "come *parte* contro il *tutto* organico della città". Una "città fatta di *luoghi*, di fatti singolarmente individuati dentro il piano continuo dell'urbanizzazione"[^34]. Il concetto di luogo assume un ruolo determinante nella teoria rossiana della città proprio in virtú del suo carattere "discretizzante": il luogo si distingue sempre per la propria finitezza e parzialità, e in quanto portatore di *differenze*. Per Rossi il luogo -- il *locus* -- è il prodotto del rapporto esistente "tra una certa situazione locale e le costruzioni che stanno in quel luogo"[^35]. Tale rapporto -- definito da Rossi "singolare eppure universale" -- ha a che vedere con la memoria collettiva tanto quanto, per altri versi, ha a che vedere con il monumento. Ed è in questa chiave che Aureli rilegge il progetto *Locomotiva 2* di Rossi, Polesello e Luca Meda per il Centro direzionale di Torino (1962): un grande edificio a corte (una forma chiusa, emblematicamente contrapposta alle forme aperte cui si ispiravano le megastrutture e i progetti legati alla "grande dimensione" e alla "città-territorio" elaborati in quel periodo)[^36] che si impone all'interno della città per la sua natura di monumento, associato non a caso alla Mole Antonelliana e al Lingotto di Giacomo Mattè-Trucco. > Il colossale edificio sospeso su una grande piazza non solo > concentrava l'intero programma in una forma chiusa che non avrebbe > permesso la sua eventuale espansione, ma, attraverso le sue dimensioni > e la sua forma cosí singolarmente individuata, rendeva esplicita la > posizione e il significato del nuovo centro direzionale della > città[^37]. Per quanto non immune da nostalgie "neoclassiciste" o da tentazioni "totalitarie", il progetto *Locomotiva 2* è la dimostrazione del modo in cui, secondo Rossi, l'architettura avrebbe potuto farsi al tempo stesso luogo e monumento, tornando cosí ad assumere il valore di architettura *della* città, capace di esprimere la propria positiva autonomia[^38]. Nel caso del gruppo fiorentino Archizoom, infine, la questione dell'autonomia dell'architettura si mescola esplicitamente alla riflessione sull'autonomia politica elaborata nel corso degli anni sessanta e settanta dal pensiero operaista, che essi provano a tradurre in una proposta progettuale, sia pur estrema. Il presupposto da cui muove Archizoom è che "la città moderna "nasce nel Capitale" e si sviluppa all'interno della sua logica"[^39]. Pertanto i progetti del gruppo mostrano un'"adesione totale ed enfatica alle condizioni esistenti della città capitalista nella quale l'architettura non doveva riformare, bensì radicalizzare le condizioni esistenti"[^40]. Si tratta in una certa misura di un'attitudine *realista*, nel senso in cui lo è -- nota Aureli -- la pop art che gli stessi membri di Archizoom riprendono esplicitamente, soprattutto nei loro primi progetti: "Per Archizoom la pop art rappresentava l'emergere di una cultura estetica distruttiva dentro e contro l'estetica borghese". Ed è proprio un "realismo pop", ossessivamente ripetitivo, di stampo warholiano (in nulla imparentato, dunque, con il *neo*-realismo prevalente in Italia nel corso del ventennio precedente) quello che Archizoom utilizza per caratterizzare il Piano abitativo continuo e i Residential Parkings della *No-Stop City*: > L'estensione infinita dei "parcheggi residenziali" rappresentava il > compimento estremo dello sviluppo capitalista e, al tempo stesso, il > momento in cui lo sviluppo -- con la sua sovrabbondanza di merci e di > conoscenza connessa ai processi di produzione -- avrebbe messo in > crisi proprio la dipendenza dal lavoro salariato e dal suo apparato > sociale e politico. Per questo la *No-Stop City* era proposta da > Archizoom come l'antitesi dell'edilizia sociale che, dietro la > facciata benevola dell'assistenza sociale, manteneva un regime di > scarsità calcolata, strumentale a preservare la necessità del lavoro. > La *No-Stop City* avrebbe dovuto essere intesa non come un'utopia ma > come un esperimento nel quale tendenze già in atto venivano portate > alle estreme conseguenze per verificarne gli effetti politici. La > *No-Stop City* era dunque un progetto *propositivo* solo nella misura > in cui rendeva intelligibili le condizioni stesse della città > capitalista[^41]. La riproduzione infinita delle residenze assimilate a "parcheggi", cosí come quella degli altri spazi che compongono la *No-Stop City*, direttamente desunti dai modelli per eccellenza della società capitalista -- la fabbrica e il supermarket --, nel costituirne l'apparente affermazione, significa in realtà per Archizoom liberare la città dall'architettura (ovvero l'esatto contrario di quanto affermato da Bonfanti, citato in precedenza). Liberarsi dell'architettura equivale a rifiutarne ogni valore simbolico-rappresentativo, riportandola esclusivamente ai meccanismi della sua produzione; ciò che comporta far evolvere la città capitalista fino alle sue conseguenze ultime. "Solo in questo modo -- afferma Archizoom -- possiamo interrompere la continuità del sistema produttivo e l'insieme dei suoi collegamenti"[^42]. Al massimo di integrazione (vale a dire di alienazione) sarebbe dunque corrisposto il massimo di possibilità di libertà. Di non minore importanza, agli occhi di Aureli -- e in realtà strettamente connesso alle questioni precedenti -- è il fatto che Archizoom, come per altri versi Tafuri, > ... aprirono per l'architettura lo spazio di una critica irriducibile, > ovvero di un'autonomia della critica dall'ideologia della città che, > (...) nel caso di Archizoom, divenne autonomia del progetto dalla sua > realizzazione costruita[^43]. Ed è proprio nella "validità in sé del progetto come *teoria*"[^44] che per Aureli pare racchiudersi il senso più profondo del progetto dell'autonomia: l'autonomia stessa della teoria. Nelle pagine finali di *The Project of Autonomy*, Aureli si pone -- e pone al lettore -- una domanda: "Perché tornare a considerare *il progetto dell'autonomia*?"[^45]. La domanda apre ad alcune considerazioni che (retrospettivamente) cercano di porre la lettura del libro in una corretta prospettiva. Innanzitutto, spiega Aureli, il libro non va letto in chiave post-moderna, come celebrazione della post-politica che ha trionfato a partire dalla fine degli anni settanta. Nel prendere le distanze da questa possibile interpretazione, egli dichiara la propria affinità con le figure trattate nel libro e la propria adesione alle posizioni da loro sostenute. Tale "presa di partito" sposta completamente il significato di *The Project of Autonomy*, che altrimenti potrebbe essere letto come un saggio storico distaccato, "oggettivo", teso semplicemente a ricostruire un periodo circoscritto della recente vicenda italiana e, all'interno di esso, una specifica "attitudine" politica declinata in vari ambiti e secondo modalità differenti. E invece, a fianco di tale ricostruzione, che impegna in realtà la gran parte della trattazione, nelle righe finali del libro Aureli riconosce la *sconfitta* che il progetto dell'autonomia ha dovuto subire; una sconfitta impartitagli > ... dal capitalismo che negli ultimi anni ha costretto la sinistra ad > abbandonare tutto il suo bagaglio storico e culturale, a cominciare > dalle sue parole chiave come conflitto, classe e, appunto, > capitalismo[^46]. Non è compito né intento di Aureli analizzare le cause e le conseguenze di questa sconfitta. Ciò che si ripromette è invece qualcosa di ancora più difficile: provare a individuare una via d'uscita dall'impasse di una cultura (politica non meno che architettonica) che si trovi a fare i conti con la scomparsa di qualsiasi ideale alternativo alla realtà del capitalismo, e conseguentemente al trionfo di quest'ultimo. Per farlo, scrive, "diventa urgente e necessario cercare nuovi modi di pensare e costruire una nuova soggettività politica". Ed è alla luce di ciò che la lezione dell'operaismo (comprese le sue rielaborazioni in ambito architettonico compiute nel corso degli anni sessanta e settanta), da cui il filone principale del progetto dell'autonomia discende, torna a essere utile: > La lezione che oggi possiamo trarre dal lavoro di Tafuri, Rossi e > Archizoom va al di là di facili *repêchage* e indica che nella > *teoria* vi è qualcosa di irriducibile alla pratica dell'architettura > come professione[^47]. L'autonomia della teoria, in questo senso, non vale soltanto come un'indicazione metodologica ma assume un valore paradossalmente *operativo*. All'interno del "contesto" del capitalismo quale unico orizzonte di realtà attualmente possibile, la teoria assume la fondamentale funzione di disinnescare la "coazione ad agire" e a svilupparsi in concreto, che è propria di questo, fornendo una prospettiva diversa, quantomeno pensabile. Da questo punto di vista, l'architettura intesa in senso teorico può rappresentare una "forma di conoscenza", un "modo di comprendere le cose" in cui è in gioco la possibilità di pensare, criticare e persino "cambiare lo spazio in cui viviamo". *Dentro* la realtà del capitalismo e al tempo stesso *contro* di esso. Il secondo libro pubblicato da Aureli, *The Possibility of an Absolute Architecture*[^48], declina in una seconda accezione la tematica del distacco. Lo fa avendo il coraggio di riaccostarsi ancora una volta ai luoghi *più* comuni della disciplina architettonico-urbanistica; mantenendosi distante dall'usanza, assai diffusa negli ultimi anni, di "creare" nuovi concetti per cercare di spiegare una realtà contemporanea spesso vista come inesorabilmente "mutante" rispetto al passato, e dunque del tutto inconciliabile con questo; ma al tempo stesso senza cedere alla tentazione -- altrettanto diffusa e frequente -- di rifugiarsi nella sterile negazione della realtà, o di farsi paladino di una critica programmaticamente "contro"[^49]. Non soltanto la gran parte dei progetti e degli oggetti architettonici scelti da Aureli per sostenere il proprio discorso sono tra i più noti e citati dalla storia e dalla critica architettonica, ma anche i concetti e i termini a cui egli fa ricorso sono tra i più "basilari" e consueti in questo settore: a partire dal campo stesso d'indagine da lui preso in considerazione, il territorio che abbraccia architettura e città. È proprio su questo terreno che si lasciano misurare fin da subito il coraggio e la "portata" del libro di Aureli: esso infatti prova a ristabilire un nesso intrinseco tra architettura e città, non più però sulla scorta delle "ragioni" morfologico-tipologiche che ormai cinquant'anni fa avevano guidato le ricerche, tra gli altri, di Aldo Rossi e Carlo Aymonino. E neppure lo fa ricorrendo ad alcuna delle tante "sociologie della città" (o della metropoli) correnti ai nostri giorni. È piuttosto dalle categorie del "politico" e del "formale" -- categorie fondative e in una certa misura "preliminari" rispetto al campo considerato -- che il suo discorso prende le mosse. Nel primo capitolo, *Toward the Archipelago*, lasciando momentaneamente da parte gli "avanzamenti" e gli "aggiornamenti" disciplinari, Aureli fa ritorno ai fondamenti. E sono le parole, anzitutto, che egli interroga alla ricerca del loro senso perduto, o rimosso. A partire dall'etimologia di *ab-solutus* (sciolto da), l'aggettivo che qualifica la sua *idea* di architettura: "qualcosa che è risolutamente se stesso dopo che è stato "separato" dal suo altro"[^50]. Da ciò discende che "la condizione effettiva della forma architettonica è di separare ed essere separata". Aureli palesemente non è interessato all'aspetto formale dell'architettura in senso estetico-figurativo: ciò che vuole mettere in luce è la natura finita della *form*, non la sua *shape*. Il problema della forma è dunque quello stesso del *limite*. Come già cent'anni fa rilevava Georg Simmel: > Il segreto della forma sta nel fatto che essa è confine; essa è la > cosa stessa, e nello stesso tempo, il cessare della cosa, il > territorio circoscritto in cui l'Essere e il Non-più-essere sono una > cosa sola[^51]. Assumere come punto di partenza del discorso su architettura e città la questione della forma *in quanto limite* significa additare come fondamentale la questione delle *differenze*. I limiti infatti *sono* le differenze. "Nel suo separare ed essere separata, l'architettura rivela *in uno* l'essenza della città e la propria stessa essenza come forma politica: la città come composizione di parti (separate)"[^52]. Il legame tra architettura e città, allora, non è qualcosa che scaturisce dall'assunzione di uno specifico punto di vista interno alla disciplina, quanto piuttosto qualcosa che appartiene già da sempre -- *ontologicamente* -- alla relazione dialettica che connette tra loro le componenti che vi entrano in gioco. Questo legame si dà nella forma della "composizione delle differenze"[^53]. In ciò consiste, in definitiva, la città: architetture conviventi nel loro radicale differire. E qui le differenze non vanno intese tanto in senso tipologico o funzionale bensì in senso *formale*, come *oggettivazione di un limite*. Per Aureli l'idea di un'architettura *assoluta* si traduce "concretamente" in una serie di isole chiare e distinte, relazionate tra loro nella forma dell'*arcipelago*. La parola "arcipelago" non è certo inedita nell'ambito del discorso architettonico e urbano degli ultimi anni. Prima di lui l'avevano utilizzata tra gli altri -- a diverso titolo e con diverse accezioni -- architetti come Oswald Mathias Ungers, il giovane Koolhaas, studiosi come Colin Rowe, ma pure filosofi come Massimo Cacciari[^54]. E tuttavia, nell'impiego che egli ne fa non vi è traccia di alcuna sudditanza nei confronti di tali autori (che pure cita), né alcuna dipendenza da "ricuperi" più o meno recenti o alla moda di essi; anzi, proprio il fatto di impiegarla dimostra la sua totale indifferenza nei confronti di questi. D'altronde, per lui quella dell'arcipelago non è affatto una metafora, un'espressione figurata da lasciar cadere non appena questa abbia finito di svolgere il compito di portare là dove si voleva essere condotti. Semmai egli intende l'arcipelago come un "archetipo", un paradigma spaziale che, fin dalla Grecia antica, esprime una ben precisa (benché non aprioristicamente definita) relazione tra corpi: una pluralità di enti differenti (sia pure tra di loro congeneri), più o meno raggruppati o sparpagliati, ma in qualunque caso *discontinui*: "Il concetto dell'arcipelago descrive una condizione in cui le parti sono separate ancorché unite dal terreno comune della loro giustapposizione"[^55]. È questa condizione topologica che Aureli pensa come nesso essenziale tra architettura e città, e in ultima analisi come forma stessa della città. Ma in quale senso va inteso quest'ultimo termine? Ben lungi dall'essere utilizzato in modo casuale o generico, anche il termine "città", nel libro di Aureli, viene vagliato sotto il profilo etimologico nelle sue diverse versioni: *polis*, *civitas* e *urbs*. E se la *polis* greca raccoglie entro i suoi limiti dati i *polites* che la abitano come una comunità omogenea per *genos*, *logos* ed *ethos*; se la *civitas* romana equivale alla somma dei suoi *cives*, che hanno tra loro in comune il "diritto" di occupare lo spazio che li ospita, è invece l'*urbs* a incarnare nel modo più compiuto la costruzione materiale della città: > Mentre la *polis* greca era la città strettamente circoscritta entro > il suo perimetro murato, l'*urbs* romana non era pensata per essere > limitata, e di fatto si è espansa nella forma di un'organizzazione > territoriale, in cui le strade hanno giocato un ruolo cruciale[^56]. Sarà proprio l'*urbs*, infatti, a divenire nel corso della storia la "specie" di città planetariamente dominante, e addirittura l'unico modello di aggregazione umana apparentemente possibile. Ildefons Cerdà, l'ingegnere e urbanista iberico del XIX secolo, ha introdotto per la prima volta il termine "urbanizzazione" per esprimere la condizione di illimitatezza e la completa integrazione di movimento e comunicazione determinata dal capitalismo. È questo "vasto e turbinante oceano di persone, di cose, di interessi di ogni sorta, di migliaia di elementi diversi"[^57], secondo le sue parole, che definisce con esattezza la realtà delle città odierne, il loro *status* di metropoli *oltre* la metropoli, senza più centro o periferia. > L'essenza dell'urbanizzazione è dunque la distruzione di ogni limite, > confine o forma che non sia l'infinita, compulsiva ripetizione della > propria stessa riproduzione e il conseguente meccanismo di controllo > totalizzante che garantisce questo processo di infinitezza[^58]. È in opposizione al mare dell'urbanizzazione, dilagante a macchia d'olio e di fatto ormai sconfinata, che Aureli propone la sua idea di città: che, se non si limita a confermare le condizioni attualmente esistenti, non coltiva però neanche alcuna illusione di poter ricreare le condizioni di esistenza di una *polis* organica. La città-arcipelago non è pensata in alternativa alla realtà dell'urbanizzazione ("non c'è via di ritorno dall'urbanizzazione")[^59]: semmai come integrativa di essa. In questo senso, nella concezione di Aureli, la città-arcipelago risulta inevitabilmente immersa nel mondo dell'urbanizzazione, e affiorante da esso nella forma di un sistema discreto di architetture finite, limitate, distinte; isole, appunto, che non arrivano mai tuttavia a costituire un intero. Si tratta di un'idea di architettura che reagisce criticamente alla realtà dell'urbanizzazione, un'idea per formulare la quale Aureli arriva a equiparare le categorie -- tra di loro apparentemente estranee -- del "politico" e del "formale"[^60] quali espressioni entrambe del *limite*. > Il politico ha luogo nella decisione in merito a come articolare la > relazione, lo spazio *infra*, lo spazio *in between*. Lo spazio *in > between* è un aspetto costitutivo del concetto di forma, fondato sulla > contrapposizione delle parti. Cosí come non c'è un modo per pensare > il politico all'interno dell'uomo stesso, non c'è neppure un modo per > pensare lo spazio *in between* in se stesso. Lo spazio *in between* > può materializzarsi soltanto come uno spazio di confronto tra le > parti. La sua esistenza può essere decisa soltanto dalle parti che > formano i suoi margini[^61]. A un capitolo a carattere eminentemente teoretico e fondativo ne seguono altri quattro dedicati ad altrettanti "casi" storici: l'architettura di Palladio e il progetto di una città anti-ideale; il Campo Marzio di Piranesi *versus* la pianta di Roma del Nolli; l'architettura di Boullée come "stato di eccezione"; l'idea di *City within the City* in Ungers e Koolhaas. In questi capitoli Aureli mostra una solida conoscenza dell'architettura e della sua storia. Ma non è strettamente da questo punto di vista che vanno letti. La ragione di tali approfondimenti non è quella di presentare documenti "inediti" o di fornire nuove interpretazioni di cose già note. Essi piuttosto sono funzionali al discorso di Aureli, che in questo modo cerca nel passato gli "indizi probatori" -- o piuttosto gli adeguati "sostegni" -- della propria teoria. Non mancano, in questi capitoli, alcune forzature (basti pensare -- a titolo esemplificativo -- all'applicazione alle architetture disegnate di Boullée della categoria schmittiana-agambeniana dello "stato di eccezione")[^62]. Sarebbe tuttavia pedante, oltreché in fondo inutile, rimproverare ad Aureli un uso troppo disinvolto della storia, dal momento che è proprio un uso troppo rigido e poco interessante della storia che si può e si *deve* spesso rimproverare agli storici "di professione". Le "forzature" di Aureli vanno dunque lette come positivamente strumentali alla sua costruzione teorica, non diversamente da quanto si potrebbe fare con alcuni testi di Robert Venturi, Peter Eisenman o Rem Koolhaas, dove la storia è dichiaratamente -- e in fondo non illegittimamente -- reinterpretata in chiave contemporanea. La *finitio* classica palladiana, la sommatoria di edifici privi di "tessitura" urbana del Campo Marzio piranesiano, la sequenza di edifici pubblici monumentali di Boullée come "progetto per una metropoli", la città "fatta di isole" dei progetti di Ungers, servono tutte ad Aureli per dimostrare l'esistenza storica del rapporto tra architettura e città nel medesimo senso in cui egli stesso lo afferma. L'indicazione immediata che scaturisce da tutto ciò è la necessità di un radicale ripensamento dell'architettura rispetto alla logica che informa gli edifici "iconici" contemporanei: *landmarks* "solisti" che si inseriscono perfettamente nella trama senza fine dell'urbanizzazione. Contro tale logica, Aureli propone come modello di architettura per la città-arcipelago l'isolamento e l'innalzamento dell'edificio sopra un basamento (*plinth*), come dimostrativamente illustrato nel progetto koolhaasiano *The City of the Captive Globe* (1972), o come insistentemente ribadito nella gran parte dei progetti e degli edifici di Mies van der Rohe. È proprio da una rilettura in tal senso delle opere miesiane -- dal Padiglione di Barcellona (1929) alla Nationalgalerie di Berlino (1962-68), passando per il Seagram Building di New York (1954-58) -- che Aureli trae il miglior paradigma *realizzato* della propria teoria e che la tesi del libro trova una sua persuasiva conferma: "I basamenti di Mies reinventano lo spazio urbano come un arcipelago di artefatti urbani definiti"[^63]. E ancora: > Il basamento introduce un arresto nella fluidità dello spazio urbano, > evocando cosí la possibilità di comprendere lo spazio urbano non come > ubiquo, pervasivo e tirannico, bensì come qualcosa che può essere > inquadrato, limitato, e in tal modo potenzialmente situato come cosa > tra altre cose[^64]. La lezione di Mies viene cosí assunta per la sua capacità di definire un'architettura che è al tempo stesso "un'attitudine particolare nei confronti della città". Secondo Aureli, questa attitudine a inquadrare e a delimitare deve essere sviluppata "sia come forma materiale di architettura sia come principio politico di progettazione"[^65]. È una tale attitudine che, opponendosi alla generalizzata omogeneizzazione contemporanea, ovvero alla "confusione" delle differenze (o piuttosto, alla loro insistente e colpevole negazione), rende possibile quella *composizione delle differenze* che si è citata più sopra. In questo senso, > ... l'architettura assoluta come forma finita non è semplicemente > l'affermazione tautologica dell'oggetto in quanto tale; è anche il > paradigma per una città non più guidata da un *ethos* di espansione e > inclusione bensì dall'idea positiva di limiti e confronto[^66]. È su questo piano che architettura e città tornano a trovare un punto di incontro necessario: > La parte è *assoluta*; essa sta in solitudine, ma assume una posizione > rispetto al tutto dal quale è stata separata. L'architettura > dell'arcipelago deve essere un'architettura assoluta, un'architettura > definita dalla -- e che rende chiara la -- presenza dei *limiti* che > definiscono la città[^67]. Ed è ugualmente su questo piano che "formale" e "politico" s'incontrano e dimostrano di poter costituire una cosa sola. > Invece di sognare una società perfettamente integrata che può essere > ottenuta soltanto come supremo compimento dell'urbanizzazione e del > suo *avatar*, il capitalismo, un'architettura assoluta deve > riconoscere la separatezza politica che potenzialmente si può > manifestare, nel mare dell'urbanizzazione, attraverso i confini che > definiscono la possibilità della città. È qui -- più e meglio che altrove -- che si lascia riconoscere il già ricordato coraggio di Aureli: nell'affermare, oggi, la *separatezza* (ovvero, ancora una volta, la differenza) come un valore *politico*, non *anti*-politico: l'unico -- l'ultimo -- modo, forse, per poter stare *insieme* davvero. L'identico coraggio che lo porta a sostenere, nell'ormai completo e generalizzato asservimento delle idee alla loro "verifica" pratica, l'*autonomia della teoria*. In questo senso, se con *The Possibility of an Absolute Architecture* egli definisce con tutta evidenza il campo operativo in cui si muove come architetto, è significativo però che rinunci a presentare nel libro i propri progetti: una rinuncia che è nel contempo la miglior "dimostrazione" *in azione* del suo stesso discorso sul limite. La terza riflessione che Aureli affida a un sia pur piccolo volume ruota intorno ai medesimi concetti di distacco e rinuncia, declinati con accenti ancora una volta diversi. Rispetto ai due precedenti, *Less Is Enough* è non soltanto un libro molto più agile, ma anche assai meno focalizzato sull'architettura; questo aspetto però -- ben lungi dal rappresentare un'indebita deviazione dal "percorso principale", o addirittura una negazione di esso -- costituisce invece la riprova dell'ampiezza del discorso *intellettuale* di Aureli[^68]. "Per molti anni *less is more* è stato il tormentone del minimalismo"[^69]: l'*incipit* del libro prende le mosse dalla notissima frase citata da Ludwig Mies van der Rohe nel corso di un'intervista del 1959. La ragione per cui Aureli ritorna su un *topos* tanto frequentato e tanto citato (spesso a sproposito) dalla cultura architettonica è quella che "in anni recenti, e specialmente a partire dalla recessione economica del 2008, l'attitudine per il *less is more* è nuovamente tornata di moda". Non a caso, dopo i fasti degli anni novanta e dell'inizio del XXI secolo, segnato dalla proliferazione di edifici iconici, la riduzione delle risorse e dei budget si è tradotta per alcuni architetti nella scelta di una maggiore austerità formale, e per altri in un approccio più attento al sociale. Ciò che accomuna tali due atteggiamenti -- pur tra di loro diversi -- è l'opportunità di "fare di più con meno", ciò che rende il *less is more* un imperativo economico, più ancora che estetico. > All'interno della storia del capitalismo *less is more* definisce i > vantaggi della riduzione dei costi di produzione. I capitalisti hanno > sempre cercato di ottenere di più con meno. Il capitalismo non è > soltanto un processo di accumulazione ma anche, e specialmente, > l'incessante ottimizzazione del processo produttivo verso una > situazione in cui *meno* investimento di capitale equivale a più > accumulazione di capitale[^70]. In una situazione di crisi economica, ciò che il capitale domanda è più lavoro per meno denaro, più creatività con meno sicurezza sociale. La condizione di ristrettezza economica e la propensione estetica per il *less is more* sembrano convergere nella tradizione dell'ascetismo. Questo termine (dal greco *askein*, esercizio, auto-addestramento) indica comunemente, in ambito religioso, il ritiro dal mondo, la pratica dell'astinenza dai piaceri mondani, propria degli eremiti e dei monaci. In anni più recenti "l'ascetismo è stato invece identificato come la fonte ideologica e morale dell'idea di austerità"[^71]. In senso secolare, l'ascetismo equivale alla libertà dalle distrazioni mondane al fine di dedicarsi interamente all'etica del lavoro e della produzione. Questa seconda versione dell'ascetismo per Max Weber sta a fondamento dell'etica del capitalismo[^72]. Come egli spiega, con il calvinismo si registra l'uscita dell'ascetismo dai confini del monastero e la sua trasformazione in una mentalità diffusa nelle città. L'ascetismo si avvia in tal modo a divenire la disciplina di una razionalità etica destinata a costituire il fondamento dello stile di vita borghese, e in quanto tale a rappresentare il vero "spirito" del capitalismo. Pur considerando questa lettura dell'ascetismo, Aureli ne abbraccia una differente: "proprio perché la pratica dell'ascetismo persegue la trasformazione del sé, sostengo che esso può essere sia un mezzo di oppressione che una forma di resistenza al potere soggettivo del capitalismo"[^73]. Nell'ascetismo i soggetti si focalizzano sulla loro vita come il cuore della loro pratica, strutturandola in accordo con una forma autodeterminata fatta di specifiche abitudini e regole. Di conseguenza anche l'architettura che è connessa con questa pratica non è focalizzata sulla rappresentazione ma sulla vita stessa, sul *bios*, come il più generico substrato dell'esistenza umana. Lo stesso sviluppo dell'architettura moderna, attenta all'igiene, al comfort e al controllo sociale, è stata guidata da una logica biopolitica. Ma è soprattutto nella storia del monachesimo, dove l'architettura del monastero era espressamente progettata per definire la vita in tutti i suoi dettagli più immanenti, che l'ascetismo trova il suo più significativo compimento. Alle origini il principale proposito dell'ascetismo monastico era di ottenere "una forma di reciprocità tra soggetti liberi dal contratto sociale imposto dalle forme di potere"[^74], ed è sulla scorta di questa possibilità che Aureli si domanda se l'ascetismo possa condurci a un tipo di vita differente da quella imposta oggi dalle società dominanti. Nel prendere in considerazione questa possibilità, Aureli evidenzia come l'ascetismo sia una pratica del sé, prima ancora di essere esplicitamente rivolta al culto religioso; una pratica che in modo intrinseco mette in questione le condizioni sociali e politiche date, alla ricerca di un modo differente di vivere la propria vita. Del resto, anche la scelta della vita monacale costituiva "un modo di rifiutare l'integrazione della fede cristiana nelle istituzioni di potere"[^75]. La radicale critica del potere condotta dal monachesimo delle origini si manifestava sotto forme di opposizione non violenta: come il rifiuto della casa e di qualsiasi ruolo all'interno della società, e più in generale come un pacifico distacco. Nell'evoluzione del monachesimo si registra il passaggio dalla solitudine eremitica alla vita cenobitica (cenobio = *koinos bios*, vita comune), in cui i monaci vivono nello stesso luogo e condividono la stessa regola. Nel monastero la vita in comune non contraddice la possibilità di stare da soli. "La rigorosa organizzazione del monastero non intendeva rimpiazzare la vita con una regola, ma piuttosto rendere la regola cosí coerente con la forma di vita scelta dai monaci che la regola avrebbe potuto addirittura scomparire"[^76]. Da una tale condizione deriva una forma di reciprocità fraterna in cui nessuno tende a prevalere sugli altri; ed è proprio nell'organizzazione fisica del monastero che si lascia rintracciare una possibile traduzione spaziale della già citata *convivenza delle differenze*. Da notare la convergenza di interessi sul tema dell'organizzazione dell'architettura monastica tra Aureli e Rossi. Scrive infatti quest'ultimo in un quaderno dell'inizio degli anni settanta, rimasto inedito: > La forma tipologica del convento è importantissima perché ci offre un > tipo di abitazione dove la questione tipologica costituisce la stessa > struttura organizzativa e dove, forse per la prima volta, vediamo > sorgere un edificio collettivo potendone seguire tutta la genesi. La > tipologia conventuale è riportabile a due soluzioni fondamentali: la > prima quella benedettina e la seconda, più tarda, quella certosina. > (...) Le due concezioni entrambe di straordinario interesse permangono > vive come riferimento al mondo moderno e come da un lato accolgono > tradizioni antiche, dall'altro sono il nucleo formale per le ipotesi > moderne più avanzate nel campo della forma della città[^77]. Ma altrettanto significativo è che, approfondendo il discorso sugli ordini monastici, Aureli si soffermi piuttosto su quello francescano. Come sottolineato da Agamben[^78], i primi francescani rigettavano l'idea della proprietà privata, non soltanto nella forma del possesso individuale di beni ma anche in quanto possesso di capitale potenziale, sotto forma di terra o di strumenti per lavorarla o, ancora, di possesso del lavoro altrui. La forma di vita a cui aderivano i francescani, modellata sulla vita evangelica, prevedeva semplicità, castità e povertà; un'*altissima paupertas* che si estendeva anche a ciò che comunemente è considerato appartenente "di diritto" al soggetto individuale: la propria persona (affidata totalmente a Dio), il proprio tempo (gestito dai superiori e dai confratelli), il proprio cibo (soltanto consumato e non accumulato). In luogo della proprietà privata, dunque, i francescani delle origini si limitavano a usare, vale a dire ad appropriarsi temporaneamente di ciò che serviva loro. Ed è proprio nell'uso come condivisione di qualcosa che si dà la forma suprema del vivere in comune. Per Aureli tali pratiche possono tornare ad assumere un senso nel mondo contemporaneo, al di fuori di una prospettiva religiosa. Già negli anni trenta Walter Benjamin, a seguito di quanto descrive come un "impoverimento dell'esperienza", effetto tra i più devastanti della prima guerra mondiale, parla di una "nuova barbarie", e si domanda: "A cosa mai è indotto il barbaro dalla povertà di esperienza? È indotto a ricominciare da capo; a iniziare dal nuovo; a farcela con il poco"[^79]. Benjamin dunque identifica gli aspetti più tragici dell'esperienza moderna -- lo sradicamento culturale e territoriale e la precarietà della vita in generale -- e li trasforma in una forza emancipante che egli definisce "carattere distruttivo": "Il carattere distruttivo conosce solo una parola d'ordine: creare spazio; una sola attività: far pulizia. Il suo bisogno di aria fresca e di uno spazio libero è più forte di ogni odio"[^80]. Spinto da circostanze storiche ed esistenziali, ma anche dall'adesione a un modello di vita che Charles Baudelaire (suo beneamato e ammirato "eroe") gli aveva ispirato, Benjamin vive in prima persona la condizione di sradicamento e di precarietà. Come un monaco mendicante, Benjamin riduce al minimo i suoi beni personali per usare la città stessa come una vasta abitazione. A ideale *pendant* di questa condizione di vita, Aureli pone la Co-op Zimmer elaborata da Hannes Meyer in occasione della Mostra delle cooperative a Gent (1924): un progetto concepito nella prospettiva di una società senza classi, in cui ogni membro dovrebbe avere a disposizione la medesima dotazione economica minima. Anche l'arredamento è ridotto allo strettamente essenziale in questo perfetto esemplare di *Existenzminimum*: poche mensole, due sedie pieghevoli, un letto singolo. Soltanto la presenza di un grammofono dimostra che non si tratta di "uno spazio dettato esclusivamente dalla "necessità", ma anche predisposto per un tempo "improduttivo""[^81]. Questa stanza è realizzata da Meyer non come forma di possesso bensì come spazio minimo individuale che prevede di condividere altri spazi collettivi. "Qui la vita privata (*privacy*) non è la proprietà (*property*), bensì piuttosto la possibilità di godere di uno stato di solitudine e di concentrazione"[^82]. Diversamente da Mies van der Rohe, dunque, per Meyer "less is not more, less is just enough"[^83]. Per lui la povertà non costituisce semplicemente una privazione, ma può arrivare a rappresentare addirittura un valore, una condizione paradossalmente lussuosa, che suggerisce "un senso di calma e di edonistico godimento". Ma anche nella situazione sociale attuale, in cui da un lato per far ripartire l'economia viene "suggerito" di consumare di più ma dall'altro vengono diminuiti i salari e tagliate le forme di protezione sociali, l'ascetismo può "ridefinire ciò che è realmente necessario e cosa non lo è, al di là del regime di scarsità imposto dal mercato"[^84]. È in questo contesto che l'ascetismo può rappresentare la possibilità di riconquistare una miglior condizione di vita, vivendo con meno, senza trasformare tale "meno" in un'ideologia: "less is *not* more, less is just less". Soltanto oltrepassando la sua aura ideologica, il meno può divenire il punto di partenza per una forma di vita alternativa che superi al tempo stesso i falsi bisogni imposti dal mercato e le politiche di austerità imposte dal debito. In questa prospettiva "*less is enough* è un tentativo di definire un modo di vivere che vada oltre la promessa di crescita e la minacciosa retorica della scarsità"; un modo di vivere ascetico che pone al centro se stessi, ma che offre anche la possibilità di una condivisione di spazi con altri. Ed è forse proprio questa la condizione corrispondente a quello che Marx definisce l'"essere sociale" dell'individuo[^85]\: una condizione che questi vede insidiata dalla proprietà privata e che -- all'opposto -- può essere pienamente riattivata da una forma di reciprocità basata non sul possesso ma sulla condivisione: dove il meno che si ha in termini di possesso, diviene il più che si ha da condividere. > Dire *enough* (anziché *more*) significa ridefinire ciò di cui abbiamo > realmente bisogno al fine di vivere (...) una vita distaccata > dall'ethos sociale della proprietà, dall'ansia della produzione e del > possesso, e dove *less is just enough*[^86]. Autonomia, assolutezza, ascetismo: questi tre concetti, e i relativi riflessi che essi hanno nella vita concreta, nei rapporti sociali, nell'organizzazione spaziale, hanno tutti in comune -- come già rilevato -- una forma di *distacco*. Una simile condizione si rivela indispensabile per chi, come Aureli, intenda accostarsi alle questioni contemporanee (non soltanto quelle relative al ristretto ambito architettonico, bensì tutte quelle a cui quest'ambito sia in qualche modo rapportabile) senza farsene "assorbire"; non limitandosi semplicemente a ripetere e a far proprie opinioni diffuse e consolidate a loro riguardo, e cercando piuttosto di affrontarle *ripensandone le condizioni dall'interno*. È precisamente questa attitudine che caratterizza l'architetto intellettuale, e l'intellettuale in generale: la capacità di penetrare nelle cose mantenendosene però distaccato abbastanza da poterle *mettere in prospettiva*, come avvertiva Tafuri, ovverosia da poterle osservare da un punto di vista al tempo medesimo interno ed esterno. L'uso consapevole della tecnica della prospettiva richiede tanto una visione "da fuori" dello spazio da rappresentare, quanto un minuzioso controllo di ogni parte di esso, vale a dire della sua perfetta misurabilità; dove vedere "da fuori" non equivale in alcun modo a una possibilità di "uscita" dallo spazio; e dove renderlo misurabile non significa affatto aderire immediatamente a esso. Nell'un caso come nell'altro, interno ed esterno vanno considerati come punti di vista del tutto relativi: relativi alle possibilità di movimento di cui chi utilizza la prospettiva dispone. A questo posizionamento teorico da parte di Aureli corrisponde, sul piano dell'attività progettuale, un progressivo cambio di scala nei progetti di Dogma[^87]. Dalla genericità del *framework* che abbracciava la foresta in *Stop City*, o dallo "spazio (...) completamente sussunto dalla produzione"[^88] in *A Simple Heart*, si passa ora a un'analisi focalizzata sulla casa in quanto "apparato per la riproduzione della vita"[^89], ovvero come teatro di una vasta serie di azioni e funzioni. In progetti come *Ladders* (2011), *Frame(s)* (2011), *Every Day is Like Sunday* (2015), ma soprattutto *Communal Villa* (2015) e *Like a Rolling Stone* (2016), Dogma concentra la propria attenzione sull'abitazione come ambito in cui sempre di più vita e produzione coincidono. Affiancati da una parallela ricerca storica condotta dallo studio[^90], ma anche dagli esiti dell'attività didattica laboratoriale svolta da Aureli con i suoi studenti[^91], questi progetti si sforzano di ripensare radicalmente -- vale a dire fino ai fondamenti -- le condizioni di possibilità di un'abitazione che sia luogo di convivenza di spazi domestici e spazi lavorativi; convivenza che la contemporaneità ha in realtà ereditato ma che ha però fortemente esacerbato. *Like a Rolling Stone*, in tal senso, prende le mosse dallo studio delle *boarding houses* (case-pensione) realizzate in Inghilterra e in America tra la seconda metà del XIX secolo e la prima parte del XX, per approdare a nuovi progetti di *boarding houses* per Londra, il cui nucleo tematico ruota intorno al rapporto tra stanze destinate a singoli individui e servizi condivisi[^92]. Il medesimo tema era stato già affrontato in *Communal Villa*, proposta per uno spazio di vita e di lavoro rivolto ad artisti da collocarsi a Berlino, sviluppato in collaborazione con Realism Working Group[^93]. Nel definire con precisione le circostanze del progetto (posizionamento dell'edificio lungo assi infrastrutturali, urbani o suburbani; individuazione per esso di sistemi costruttivi prefabbricati, in acciaio o in cemento armato), gli autori non intendono sancirne la "veridicità": piuttosto s'impegnano a fissarne le condizioni di fattibilità mediante l'identificazione di soluzioni che ne consentano il massimo abbattimento dei costi. Ma è ancora una volta nell'organizzazione spaziale che il progetto prova a compiere un significativo "spostamento" delle condizioni imposte dal mercato, misurandosi con la precarietà in cui di sovente si trovano, nell'epoca contemporanea, categorie "deboli" come quelle degli artisti. Attraverso una riduzione al minimo degli spazi individuali e una dotazione di ampi spazi comuni (studi, sale riunioni, cucine, spazi di gioco per i bambini e altri servizi), la *Communal Villa* cerca di superare la consueta strutturazione abitativa basata sul nucleo familiare, integrando in una comunità individui uniti tra loro da interessi, uso di strumentazioni e modi di vita comuni. Lungi dal confermare la tradizionale articolazione della casa (fatta assurgere in questa circostanza addirittura a "villa", con tutte le risonanze simboliche che questo termine porta con sé), il progetto di Dogma e Realism Working Group è pensato per una forma di vita alternativa a quella consueta, più flessibile e fors'anche più sostenibile di quanto lo sia quest'ultima. Come nel caso del monastero, da cui palesemente discende, questa forma di vita si fonda sul presupposto che l'unico modo per vivere insieme sia avere nel contempo la possibilità di vivere da soli. Solitudine e comunità, da questo punto di vista, costituiscono due polarità non banalmente opposte bensì complementari tra loro, proprio come lo sono architettura e città. Ed è proprio nel riportare il dominio dell'economia (nel senso originario dell'*oikonomia*, l'amministrazione della casa) al dominio politico (inteso nel modo in cui lo intendeva Carl Schmitt, come dimensione di un antagonismo)[^94] che Dogma dimostra di saper ripensare il progetto nella sua prospettiva più propria. Il medesimo obiettivo che tenacemente e con lucidità persegue lo stesso Aureli in qualità di architetto intellettuale: far emergere -- attraverso le sue riletture, cosí come attraverso la sua pratica -- la *dimensione politica dell'architettura*. [^1]: Pier Vittorio Aureli, *The Difficult Whole. Typology and the Singularity of the Urban Event in Aldo Rossi's Early Theoretical Work. 1953-1964*, in "Log", n. 9 (inverno-primavera 2007), p. 42. [^2]: Aureli si laurea nel 1999 allo IUAV; nel 2001 ottiene il master in Architettura al Berlage Institute; nel 2003 consegue il dottorato di ricerca in Pianificazione urbana allo IUAV e nel 2005 il PhD in Architettura al Berlage Institute di Delft (Rotterdam). [^3]: Pier Vittorio Aureli, *Schemi di città. La costruzione del principio insediativo*, tesi di laurea, relatore Bernardo Secchi, IUAV, a.a. 1997-98; Id., *La città arcipelago e il suo progetto*, tesi di dottorato, relatori Elia Zenghelis e Bernardo Secchi, IUAV, a.a. 2001-2002; Id., *The Possibility of Absolute Architecture*, PhD Thesis, relatore Elia Zenghelis, Berlage Institute, Technische Universiteit, Delft-Rotterdam, a.a. 2004-2005. Vedi Gabriele Mastrigli, *Commanders of the Field: Notes on the Architecture of Dogma*, in *Dogma: 11 Projects*, Architectural Association Publications, London 2013, pp. 109-13. [^4]: Manfredo Tafuri, *Ricerca del Rinascimento*, Einaudi, Torino 1992, p. XXI. [^5]: Manfredo Tafuri, *Non c'è critica, solo storia*, intervista con Richard Ingersoll, in "Casabella", n. 619-20, 1995, p. 96 (intervista pubblicata per la prima volta nel 1986 su "Design Book Review"). [^6]: Di "distacco", riferito ai contenuti del lavoro intellettuale svolto all'interno dell'organizzazione capitalistica, parla anche Tafuri nel passo riportato al termine del capitolo precedente; una condizione in apparenza "negativa", che tuttavia a suo avviso -- mediante uno strategico rovesciamento -- deve essere riconosciuta come condizione *positiva* "da cui ripartire, per elaborare un programma di attacco al piano complessivo": Tafuri, *Lavoro intellettuale e sviluppo capitalistico* cit., p. 280. [^7]: Vedi al proposito, oltre ovviamente a Tafuri, *Il "progetto" storico* cit., il saggio-recensione di Cacciari (*Eupalinos o l'architettura*, in "Nuova Corrente", n. 76-77, 1978, p. 422) a Manfredo Tafuri e Francesco Dal Co, *L'architettura contemporanea*, Electa, Milano 1976. [^8]: Dogma, *Dogma*, in *Portfolio*, Heverlee 2011, p. 5. [^9]: Su ciò vedi la successiva ricerca di Pier Vittorio Aureli e Martino Tattara, *Brussels: A Manifesto. Towards the Capital of Europe*, a cura di Joachim Deklerck, Martino Tattara e Veronique Patteeuw, NAi Publishers, Rotterdam 2007. [^10]: Dogma, *Stop City* (2007), in *Dogma: 11 Projects* cit., pp. 10-19. [^11]: Dogma, *A Simple Heart* (2011), in *Dogma: 11 Projects* cit., pp. 20-31. [^12]: Dogma, *Stop City: per una architettura non-figurativa della città (dopo la città post-fordista)*, in GIZMO, *MMX. Architettura zona critica*, Zandonai, Rovereto 2011, p. 159. [^13]: Paolo Virno, *Virtuosity and Revolution: The Political Theory of Exodus*, in Virno e Hardt (a cura di), *Radical Thought in Italy* cit., pp. 189-212; Id., *Mondanità. L'idea di "mondo" tra esperienza sensibile e sfera pubblica*, Manifestolibri, Roma 1994; Giorgio Agamben, *Signatura rerum. Sul metodo*, Bollati Boringhieri, Torino 2008. [^14]: Dogma, *A Simple Heart*, in *Dogma: 11 Projects* cit., p. 22. Sul concetto di *kathecon* vedi Massimo Cacciari, *Il potere che frena*, Adelphi, Milano 2013, ma anche Giorgio Agamben, *Il mistero del male. Benedetto XVI e la fine dei tempi*, Laterza, Roma-Bari 2013. [^15]: Dogma, *Stop City*, in *Dogma: 11 Projects* cit., p. 10. [^16]: "Ipotesi di linguaggio architettonico non-figurativo": Archizoom Associati, *No-Stop City* (1970), in Roberto Gargiani, *Archizoom Associati, 1966-1974. Dall'onda pop alla superficie neutra*, Electa, Milano 2007, pp. 169-73. [^17]: Pier Vittorio Aureli, *The Project of Autonomy. Politics and Architecture Within and Against Capitalism*, Princeton Architectural Press, New York 2008; trad. it. *Il progetto dell'autonomia. Politica e architettura dentro e contro il capitalismo*, Quodlibet, Macerata 2016. [^18]: Al proposito vedi *Raniero Panzieri e i "Quaderni Rossi"*, in "aut aut", n. speciale (149-50), 1975, con contributi, tra gli altri, di Antonio Negri e Massimo Cacciari. [^19]: Questa espressione ricorre di sovente nelle pagine di "Quaderni Rossi", "Classe Operaia" e "Contropiano": vedi Steve Wright, *L'assalto al cielo. Per una storia dell'operaismo*, Edizioni Alegre, Roma 2008. [^20]: Raniero Panzieri, *Sull'uso capitalistico delle macchine nel neocapitalismo*, in "Quaderni Rossi", n. 1, 1961, pp. 53-72. [^21]: Mario Tronti, *Marx, forza-lavoro, classe operaia* (1965), in Id., *Operai e capitale* cit., pp. 259-63. [^22]: *Ibid.*, p. 260. [^23]: Mario Tronti, *Sull'autonomia del politico*, Feltrinelli, Milano 1977. [^24]: Aureli, *Il progetto dell'autonomia* cit., p. 65. [^25]: *Ibid.*, p. 25. [^26]: Tra gli altri, vedi Massimo Cacciari, *Sviluppo capitalistico e ciclo delle lotte. La Montedison di Porto Marghera 1. La "fase" 1950-1966*, in "Contropiano", n. 3, 1968, pp. 579-627; Id., *Sviluppo capitalistico e ciclo delle lotte. La Montedison di Porto Marghera. 2. La "fase" 1966 -- estate 1969*, ivi, n. 2, 1969, pp. 397-447; Umberto Coldagelli, *Forza-lavoro e sviluppo capitalistico*, ivi, n. 1, 1969, pp. 81-127; Enzo Schiavuta, *Ricerca scientifica e sviluppo capitalistico*, ivi, n. 2, 1970, pp. 285-309; Mario Tronti, *Classe operaia e sviluppo*, ivi, n. 3, 1970, p. 471. A questa analisi Tafuri dà il suo contributo con *Lavoro intellettuale e sviluppo capitalistico* cit. (1970). [^27]: Aureli, *Il progetto dell'autonomia* cit., p. 79. [^28]: *Ibid.*, p. 80. [^29]: *Ibid.*, p. 87. [^30]: Tafuri, *Per una critica dell'ideologia architettonica* cit., p. 60. [^31]: Aureli, *Il progetto dell'autonomia* cit., p. 95. [^32]: Rossi, *L'architettura della città* cit., p. 23. [^33]: Ezio Bonfanti, *Autonomia dell'architettura*, in "Controspazio", n. 1, 1969, p. 29. [^34]: Aureli, *Il progetto dell'autonomia* cit., p. 102. [^35]: Rossi, *L'architettura della città* cit., p. 117. [^36]: Reyner Banham, *Le tentazioni dell'architettura. Megastrutture*, Roma-Bari, Laterza 1980; ILSES (Istituto lombardo per gli studi economici e sociali), *Relazioni del Seminario "La nuova dimensione della città -- La città-regione"*, Atti del convegno, Stresa, 19-21 gennaio, Milano 1962; *La città territorio. Un esperimento didattico sul centro direzionale di Centocelle in Roma*, Leonardo da Vinci Editrice, Bari 1964. [^37]: Aureli, *Il progetto dell'autonomia* cit., p. 110. Vedi anche Id., *Aldo Rossi: Locomotiva 2, Competition Entry for a Directional Centre, Turin, Italy*, in Brett Steele e Francisco Gonzalez de Canales (a cura di), *First Works: Emerging Architectural Experimentation of the 1960s and 1970s*, Architectural Association Publications, London 2009, pp. 88-89. [^38]: Al progetto di Rossi, Polesello e Meda si rifà esplicitamente il progetto di Dogma, *Locomotiva 3*, una proposta per l'area denominata Spina 4 a Torino, elaborata nel 2010; vedi *Dogma: 11 Projects* cit., pp. 74-81. [^39]: Archizoom Associati, *Città catena di montaggio del sociale. Ideologia e teoria della metropoli*, in "Casabella", n. 350-51, 1970, p. 44. [^40]: Aureli, *Il progetto dell'autonomia* cit., p. 118. [^41]: *Ibid.*, pp. 115-16. [^42]: Archizoom Associati, *Città catena di montaggio del sociale* cit., p. 8. [^43]: Aureli, *Il progetto dell'autonomia* cit., p. 131. [^44]: *Ibid.*, p. 127. [^45]: *Ibid.*, pp. 139-40. [^46]: *Ibid.*, p. 140. [^47]: *Ibid.*, p. 141. [^48]: Pier Vittorio Aureli, *The Possibility of an Absolute Architecture*, The MIT Press, Cambridge (Mass.) 2011. [^49]: Vedi, ad esempio, Franco La Cecla, *Contro l'architettura*, Bollati Boringhieri, Torino 2008; Id., *Contro l'urbanistica*, Einaudi, Torino 2015. [^50]: Aureli, *The Possibility of an Absolute Architecture* cit., p. IX. [^51]: Georg Simmel, *Metafisica della morte* (1910), in Id., *Metafisica della morte e altri scritti*, a cura di Lucio Perucchi, SE, Milano 2012, pp. 9-10. [^52]: Aureli, *The Possibility of an Absolute Architecture* cit., pp. IX-X. [^53]: *Ibid.*, p. 32. [^54]: Massimo Cacciari, *L'arcipelago*, Adelphi, Milano 1997. [^55]: Aureli, *The Possibility of an Absolute Architecture* cit., p. XI. [^56]: *Ibid.*, p. 4. [^57]: Ildefons Cerdà, *Teoría general de la urbanización* (1867), citato *ibid.*, p. 9. [^58]: Aureli, *The Possibility of an Absolute Architecture* cit., p. 16. [^59]: *Ibid.*, p. 32. [^60]: Su ciò vedi anche Pier Vittorio Aureli, *City as Political Form: Four Archetypes of Urban Transformation*, in "Architectural Design", vol. 81, n. 1, 2011, pp. 32-37. [^61]: Aureli, *The Possibility of an Absolute Architecture* cit., p. 27. [^62]: Carl Schmitt, *Teologia politica: quattro capitoli sulla dottrina della sovranità* (1922), in Id., *Le categorie del "politico". Saggi di teoria politica*, a cura di Gianfranco Miglio e Pierangelo Schiera, il Mulino, Bologna 1972, pp. 27-86; Giorgio Agamben, *Lo stato di eccezione*, Bollati Boringhieri, Torino 2003. [^63]: Aureli, *The Possibility of an Absolute Architecture* cit., p. 37. [^64]: *Ibid.*, pp. 40-41. [^65]: *Ibid.*, p. 41. [^66]: *Ibid.*, p. 42. [^67]: *Ibid.*, p. 45. [^68]: Pier Vittorio Aureli, *Less Is Enough*, Strelka Press, Moscow 2013. [^69]: *Ibid.*, p. 7. [^70]: Aureli, *Less Is Enough* cit., p. 8. [^71]: *Ibid.*, p. 9. [^72]: Max Weber, *L'etica protestante e lo spirito del capitalismo* (1905), Rizzoli, Milano 1991. [^73]: Aureli, *Less Is Enough* cit., pp. 11-12. [^74]: *Ibid.*, p. 13. [^75]: *Ibid.*, p. 16. [^76]: Aureli, *Less Is Enough* cit., p. 24. [^77]: Aldo Rossi, *Quaderno inedito (Varie 1 -- Milano -- Arch. Veneta - Abitazione -- Pref. II ed. L'arch. della città -- Politecnico)*, 1969-70, citato in Gianni Braghieri, *Presentazione*, in "Soundings", n. 1, 2017, numero monografico dedicato a Aldo Rossi, a cura di Lamberto Amistadi e Ildebrando Clemente, p. 68. [^78]: Giorgio Agamben, *Altissima povertà. Regole monastiche e forme di vita*, Neri Pozza, Vicenza 2011. [^79]: Benjamin, *Esperienza e povertà* cit., p. 53. [^80]: Walter Benjamin, *Il carattere distruttivo* (1931), in Id., *Esperienza e povertà* (2018), a cura di Massimo Palma, cit., p. 41. [^81]: Aureli, *Less Is Enough* cit., p. 40. Vedi anche Id., *A Room Without Ownership*, in *Hannes Meyer: Co-op Interieur*, Spector Book, Leipzig 2015, pp. 33-39. [^82]: Aureli, *Less Is Enough* cit., pp. 40-41. [^83]: *Ibid.*, p. 41. [^84]: *Ibid.*, p. 58. [^85]: Karl Marx, *Manoscritti economici-filosofici del 1844*, a cura di Norberto Bobbio, Einaudi, Torino 2018, p. 113. [^86]: Aureli, *Less Is Enough* cit., p. 59. [^87]: Su questo passaggio di scala vedi Pier Vittorio Aureli e Martino Tattara, *A Limit to the Urban: Notes on Large-Scale Design*, in *Dogma: 11 Projects* cit., pp. 42-45, e Id., *Barbarism Begins at Home: Notes on Housing*, *ibid.*, pp. 86-90. [^88]: Dogma, *A Simple Heart*, in *Dogma: 11 Projects* cit., p. 22. [^89]: Aureli e Tattara, *Barbarism Begins at Home* cit., p. 86. [^90]: Svolta a partire dal 2013, la ricerca *Living/Working* ha avuto come esito la pubblicazione di Dogma, *The Room of One's Own*, Black Square Press, Milano 2017. [^91]: Pier Vittorio Aureli e Maria S. Giudici, *The Grand Domestic Revolution. Revisiting the Architecture of Housing*, Diploma 14, Architectural Association School, London, a.a. 2013-14; Pier Vittorio Aureli e altri, *How to Live To­gether. Homes for Houston*, Advanced Design Studio -- Yale School of Architecture, New Haven (primavera) 2014. [^92]: Dogma + Black Square, *Like a Rolling Stone. Revisiting the Architecture of the Boarding Houses*, Black Square Press, Milano 2016. [^93]: Dogma + Realism Working Group, *Communal Villa. Production and Reproduction in Artists' Housing*, Spector Books, Leipzig 2016. Realism Working Group è un collettivo di artisti che opera nella capitale tedesca. [^94]: Carl Schmitt, *Il concetto di "politico"* (1932), in Id., *Le categorie del "politico"* cit., pp. 101-65. # Architettura dentro e contro "L'arte di costruire è la volontà dell'epoca \[*Zeitwille*\] tradotta in spazio"[^1]. La nota affermazione di Ludwig Mies van der Rohe, da lui enunciata e ribadita in più circostanze[^2], potrebbe a prima vista apparire la più compiuta espressione del totale asservimento dell'architettura alle forze operanti nel tempo in cui questa nasce e si colloca. E in effetti, proprio il "servire" costituisce per Mies van der Rohe il compito essenziale dell'architettura: "L'opera degli architetti deve servire la vita \[*dem Leben dienen*\]. Soltanto la vita deve essere la loro guida"[^3]. Parrebbe cosí giustificarsi concettualmente, per voce di uno dei più lucidi e profondi architetti del secolo scorso, l'attitudine dell'architettura a "mettersi al servizio" della società e dei "soggetti" agenti al suo interno; ciò che finirebbe con il ridurre l'architettura -- almeno in una certa misura -- a un semplice "riflesso" di questi, delle loro dinamiche e "volontà", appunto. Ma come va inteso esattamente il "servire la vita" di Mies van der Rohe? In un saggio di straordinaria intensità Massimo Cacciari ha interpretato in maniera forse definitiva la connessione tra *dem Leben dienen* e *Zeitwille* nel pensiero dell'architetto tedesco: > ... si cadrebbe grossolanamente in errore ritenendo che tale servizio > si riferisca soltanto alla "vita" in quanto somma di esigenze, > domande, imperativi. Se cosí fosse, non saremmo agli antipodi, ma nel > bel mezzo dell'idea funzionalistica del progetto (...) Ben altro > timbro ha *das Leben* per Mies. Vita e Ergon, Vita *e* trascendenza > dell'idea dell'opera formano un insieme indissolubile. Si serve la > vita soltanto servendo l'opera -- si è al servizio del proprio tempo > (...) soltanto se si è capaci di "immaginare" l'opera[^4]. Il servizio alla vita, dunque, non è affatto un semplice assoggettarsi ai "doveri" quotidiani, mondani, cui l'architettura è comunque destinata, e neppure ai compiti più eccezionali, "di facciata", dei quali a volte essa è investita, tanto quanto l'essere in accordo con la volontà dell'epoca non si lascia in alcun modo ridurre a un semplice rispecchiamento di ciò che l'epoca "si aspetta" dall'opera. > Vita è sempre intesa come en-érgheia, vita nel e dell'ergon: molto più > che un mero dato di fatto, la vita, di cui Mies parla, è quella vita > in cui l'ergon si manifesta, in cui può aver luogo la verità > dell'ergon. Vita compiuta, perciò, ma compiuta nel suo essere in-atto, en-érgheia. E ancora: > Vita, per Mies, è sempre spirituale decisione nei confronti dell'opera > -- distacco (...) da ogni vita "immediata", da ogni vita > naturalisticamente-immediatamente intesa[^5]. Ancorché sancire un legame deterministico, l'affermazione miesiana che mette in correlazione volontà dell'epoca e architettura sottende la precisa condizione che le lega l'una all'altra: tradurre la volontà dell'epoca in spazio, vale a dire "immaginare" l'opera, non è mai un'operazione meccanica, meramente servile; piuttosto implica una *potenza*, una *en-*érgheia, appunto, che è quella derivante dall'opera stessa, che l'epoca non può semplicemente prevedere o prescrivere. Anzi, nel caso di un'opera come quella di Mies che ritiene decisiva l'"essenza dell'arte di costruire"[^6], questa non può derivare da una semplice "invenzione" soggettiva, e a rigore neppure da una intenzionalità progettante, bensì deve "limitarsi" a presentare-manifestare la verità che la precede e la trascende. Concepire il rapporto tra opera e epoca in termini non deterministici implica dunque da parte dell'architetto una comprensione effettiva della struttura dell'epoca in cui è immerso, comprensione da cui scaturisce quella "potenza immaginativa" che nulla ha a che vedere con la fantasia o con la creatività, e che piuttosto richiede un "ascolto" dell'opera. Quale sia la struttura della *sua* epoca -- e in quale misura essa si differenzi sostanzialmente da quella delle epoche precedenti -- appare molto chiaro agli occhi di Mies: > Da tempo la macchina è diventata padrona della produzione. Questa era > approssimativamente la situazione prebellica. Sebbene il ritmo di > questo sviluppo sia stato ridotto dallo scoppio della guerra, la sua > direzione è rimasta immutata. Anzi, la situazione si è persino > acutizzata. Se prima per mille motivi l'economia era praticata in > modo libero, attualmente altrettanti motivi costringono alle più > serrate riflessioni. Quanto già prima della guerra la vita fosse > legata all'economia, ci è apparso del tutto evidente soltanto nel > periodo post-bellico. Ora esiste "soltanto" l'economia. Essa domina > ogni cosa, la politica e la vita[^7]. Esattamente negli stessi termini, oggi si potrebbe affermare che "esiste "soltanto" l'economia". Ciò che non impedisce, a chi sia dotato di capacità di comprensione e di ascolto, di servire la vita liberando la potenza immaginativa dell'opera, proprio come fa Mies van der Rohe. In un'epoca come quella attuale, in cui sempre di più predomina l'economia e declina la politica (non tanto in termini di governo, quanto di capacità di affermazione di idee o di presa di posizione su questioni di interesse generale), diventa indubbiamente difficile distaccarsi dalla vita in senso "immediato" e servire invece la vita in un senso superiore, come quello appena indicato. Ma ancora più difficile, in una condizione del genere, risulta resistere -- o addirittura opporsi apertamente -- alla "volontà dell'epoca". E ciò tanto più poi quando si cerchi di far coincidere le forme di "resistenza" o di "opposizione" con quelle architettoniche. Per cercare almeno di nominare le condizioni che rendono possibile assumere tali posizioni può essere utile tornare a osservare in quest'ottica alcuni momenti o episodi, in certi casi anche largamente noti, di un più o meno recente passato. Quando Benjamin menziona il mutismo di coloro che ritornavano dai campi di battaglia della prima guerra mondiale come sintomo dell'inaridirsi della loro capacità di comunicare le esperienze vissute, quando sottolinea la "miseria del tutto nuova" che "ha colpito gli uomini (...) con questo immenso sviluppo della tecnica"[^8], appare del tutto chiaro come per lui una simile "povertà di esperienza" vada intesa non nel senso che manchi loro qualcosa, "come se gli uomini anelassero a una nuova esperienza"[^9], bensì piuttosto nel senso che "essi desiderano essere esonerati dalle esperienze". La "povertà di esperienza" è la reazione a un eccesso: quelle persone "hanno "divorato" tutto, la *Kultur* e l'"uomo", e ne sono divenuti più che sazi e stanchi"[^10]. La conseguenza di ciò è lo svilupparsi di quel "nuovo positivo concetto di barbarie"[^11] già citato in precedenza, da cui chi ne risulta soggetto "è indotto a ricominciare da capo; a iniziare dal nuovo; a farcela con il poco; a costruire a partire dal poco". Si potrebbe considerarla una rinuncia; ma si tratta anche di un'opportunità. "Ricominciare da capo", cosí come "far pulizia, (...) creare spazio"[^12], sono azioni che hanno tra loro in comune la liberazione da qualcosa, si tratti di oggetti oppure di forme e schemi mentali ormai invecchiati. Distaccarsene, abbandonarli, dimenticarli comporta sempre una nuova apertura. Non sarà forse casuale che, nello stesso contesto del primo dopoguerra tedesco, all'interno dell'appena nato Staatlisches Bauhaus di Weimar, il primo insegnamento cui vengono sottoposti gli studenti (il corso preparatorio, il cosiddetto *Vorkurs*), affidato da Gropius all'artista svizzero Johannes Itten, consista in una radicale rifondazione della loro grammatica percettiva e cognitiva mediante una serie di esercizi che hanno lo scopo fondamentale di cancellare quanto da essi precedentemente imparato o conosciuto, per predisporli a nuove esperienze di apprendimento. La didattica di Itten deve molto agli insegnamenti impartitigli dal pedagogo Ernst Schneider presso la Scuola di formazione per insegnanti di Berna-Hofwil. Il metodo di Schneider prevedeva tra l'altro l'impiego delle teorie psicoanalitiche junghiane e di pratiche pedagogiche progressiste che tendevano a non correggere il lavoro creativo degli studenti per non reprimerne le inclinazioni. A questi principî Itten affianca quelli appresi dalla frequentazione della scuola del pittore tedesco Adolf Hölzel a Stoccarda, negli anni precedenti la guerra, basati su accostamenti cromatici contrastanti e sulla loro applicazione a forme elementari, ma anche su attività fisiche di rilassamento da svolgere in stretta connessione con il lavoro creativo. Prendendo spunto da tutto ciò e combinando esercizi corporei e gestuali, respirazione ritmica, reinterpretazioni delle opere degli antichi maestri, indottrinamento filosofico-religioso ispirato alla religione neo-zoroastriana Mazdaznan, dieta vegetariana, rivoluzione nel vestiario e altro ancora[^13], il corso preliminare di Itten mirava a conferire una nuova "unità" allo studente, risvegliandolo al tempo stesso dal "sonno del mondo". > Fondamentale per il corso propedeutico al Bauhaus appariva l'obiettivo > di liberare le energie creative e l'autonomia degli studenti, > esaltandone capacità e soggettive predilezioni. "Si trattava -- per > Itten -- di costruire l'uomo nella sua interezza come un essere > creativo" capace di affrontare con successo la complessità di un > "progetto figurativo" che pretendeva la sinergia di forze e capacità > diverse, fisiche, morali, spirituali, intellettuali[^14]. D'altronde, pur con accenti e "stili" diversi da quelli di Itten ("Itten vuol fare del Bauhaus un monastero, con tanto di santi e di monaci", scrive Oskar Schlemmer in una lettera del 1921)[^15], anche Walter Gropius, con il corso di studi del Bauhaus, intende restituire integralità all'architetto, attraverso l'apprendimento di teorie, tecniche e materiali che soltanto in un momento finale avrebbero dovuto sintetizzarsi nella pratica progettuale vera e propria. Un architetto -- quello uscito dal Bauhaus -- il cui "obiettivo programmatico" potrebbe essere fatto coincidere esattamente con il benjaminiano "ricominciare da capo", "iniziare dal nuovo", "farcela con il poco". L'emancipazione dalle incrostazioni di una cultura sino a quel momento tramandata e passivamente accettata conduce cosí a una trasformazione radicale, e dischiude la possibilità di costruire *davvero* per la propria epoca. Tra i "costruttori" barbarici citati da Benjamin -- insieme a René Descartes, Albert Einstein, Paul Klee, Paul Scheerbart, Adolf Loos e Le Corbusier -- vi è anche il Bauhaus[^16]. Loro comune segno distintivo è "una totale mancanza d'illusioni nei confronti dell'epoca e ciò nonostante un pronunciarsi senza riserve per essa"[^17]. La stessa fusione di coinvolgimento e distacco che si lascia rilevare anche in Mies van der Rohe. Ma in quale misura -- è lecito chiedersi -- ci si potrebbe giovare oggi di questo insegnamento? Nell'"età dell'inconsistenza"[^18] in cui ci troviamo, non meno che nel primo dopoguerra tedesco, gli uomini sono vittime di un eccesso, di qualche cosa di "troppo"; non meno di allora, sentono -- *sentiamo* -- di avere "divorato" tutto, e di esserne "più che sazi e stanchi". E ancora una volta in maniera analoga a quella circostanza, ciò appare causato da un "immenso sviluppo della tecnica". Nella nostra epoca, la sensazione di sazietà e di stanchezza costituisce una reazione a un "eccesso dell'Eguale", come lo denomina Byung-Chul Han[^19], derivante da una "sovrapproduzione", da un "eccesso di prestazione o di comunicazione"[^20]. Gli eccessi dell'Eguale generano una condizione saturativa. Troppe immagini, troppi eventi, troppe possibilità. La stanchezza che ne deriva è il prodotto di un esaurimento, un'estenuazione psichica a fronte della quale non vi sono facili rimedi. Ma vi è anche un altro genere di stanchezza: quella che suggerisce di rallentare il passo, di non far seguire un'azione alle azioni già compiute in precedenza; una stanchezza che induce al riposo, al non-fare, all'ascolto, alla contemplazione. È lo stesso tipo di stato che provoca la "povertà di esperienza" di cui parla Benjamin: > ... agli occhi della gente, stancatasi delle complicazioni senza fine > della vita quotidiana e per la quale il fine della vita affiora solo > come un lontanissimo punto di fuga in un'infinita prospettiva di > mezzi, appare liberante un'esistenza che in ogni frangente basta a se > stessa nel modo più semplice e contemporaneamente più > confortevole[^21]. Per ottenerlo bisogna rinunciare a qualcosa, prendere tempo, "creare spazio", retrocedere, rilassarsi, oziare. D'altra parte, nota ancora Han, "la pura frenesia non crea nulla di nuovo, ma riproduce e accelera ciò che è già disponibile"[^22]. È interessante che il filosofo sudcoreano introduca questa considerazione in relazione a quanto affermato da Benjamin a proposito della "noia profonda" come presupposto di un'attenzione profonda, contemplativa, in un saggio di poco successivo a quello appena citato e ad esso strettamente connesso[^23]. Lo stato di distensione spirituale di cui per Benjamin la noia costituisce il culmine ("La noia è l'uccello incantato che cova l'uovo dell'esperienza"), per Han è l'esatto rovescio della forma attuale della concentrazione: l'"iper-attenzione", vale a dire un'attenzione dispersa tra troppi obiettivi simultaneamente: "un rapido cambiamento di focus tra compiti, sorgenti d'informazioni e processi diversi"[^24] che si traduce nel vano iperattivismo contemporaneo. "Farcela con il poco", "costruire a partire dal poco", cessano a questo punto di risuonare come formule vuote e si presentano invece come *soluzioni concrete* per coloro i quali -- al pari dei "costruttori" additati da Benjamin ("uomini che del radicalmente nuovo hanno fatto la loro causa e lo hanno fondato su comprensione e rinuncia")[^25] -- siano pronti a sottrarre il proprio agire agli eccessi di lavoro e produzione, all'iperattivismo frenetico contrabbandato per "dovere" sociale (e spesso giustificato ai propri stessi occhi in nome del denaro) per assumere in alternativa un comportamento ispirato a una contemplazione attiva, a una "distensione" che sia al tempo stesso operante. Potrebbe sembrare un'evenienza impossibile, oppure completamente distante da ogni applicazione architettonica. In realtà, esiste un tentativo compiuto in tal senso in un passato relativamente recente: quello dell'Internationale Situationniste, organizzazione (e rivista) attiva tra la fine degli anni cinquanta e i sessanta. Per Guy Debord, Asger Jorn, Constant Nieuwenhuys, Gilles Ivain e per gli altri componenti del gruppo, "l'architettura è il mezzo più semplice per *articolare* il tempo e lo spazio, per *modellare* la realtà, per far sognare", come si legge nel primo fascicolo della rivista. Ma con una ben precisa avvertenza: > Non si tratta solamente di articolazione e di modulazione plastica, > espressione di una bellezza passeggera. Ma di una modulazione > influenzale che si inscrive nella curva eterna dei desideri umani e > dei progressi nella realizzazione di questi desideri[^26]. Tradotto in un linguaggio meno altisonante, i situazionisti rifiutano fin da subito di intervenire in modo trasformativo nei confronti della realtà, negandosi lo strumento del progetto come mezzo attuativo concreto, ma pure come semplice ipotesi alternativa, come fuga dal reale (e infatti la fuoriuscita di Constant dall'Internationale Situationniste, nel 1960, sarà causata proprio dai dissapori legati a *New Babylon*, il suo progetto di città utopica, e in particolar modo alla contrapposizione tra la maniera in cui egli lo sviluppa, maggiormente legata alle componenti strutturali e alle forme architettoniche, e quella richiesta dagli altri situazionisti, più strettamente connessa ai contenuti)[^27]. A partire da questo presupposto le pratiche situazioniste si svilupperanno, anziché in direzione della costruzione architettonica nel senso tradizionale del termine, in quella della *costruzione di situazioni*; dove per "situazione" -- secondo la definizione che essi stessi ne danno -- va inteso un "momento della vita, concretamente e deliberatamente costruito mediante l'organizzazione collettiva di un ambiente unitario e di un gioco di avvenimenti"[^28]. La rinuncia a compiere interventi materiali e durevoli non equivale automaticamente a una riduzione al mutismo o all'inazione; piuttosto comporta uno spostamento del punto di vista sulla realtà, un "lavoro" su di essa che ne produce di fatto una *risemantizzazione*. Per i situazionisti ciò si traduce in "azioni" denominate *derive*: attraversamenti casuali dello spazio urbano finalizzati unicamente a rileggerlo in modo imprevisto, mettendone in luce aspetti alternativi, dimenticati o nascosti. Alla città borghese (o a parti -- o anche a semplici frammenti o dettagli -- di essa) vengono cosí attribuiti nuovi significati e nuovi "usi" ai margini dell'utile. Un tale genere di atteggiamento nei confronti della città e della realtà potrebbe apparire del tutto inefficace. Non producendo frutti immediati e tangibili risulta a prima vista completamente superfluo. Tuttavia, è proprio in una rimessa in discussione dei valori socialmente condivisi in quel determinato momento storico che affonda le proprie radici l'analisi -- e la critica -- situazionista. Si equivocherebbe il senso di tale operare scambiandolo (come spesso è stato fatto in periodi più recenti) per una produzione di performance artistiche. In realtà tutte le elaborazioni situazioniste -- dai rilievi psico-geografici delle città alle derive, passando per i materiali pubblicati sulla rivista -- hanno un intento profondamente e inequivocabilmente *politico*, anche dietro le mentite spoglie della leggerezza e dell'ironia. Ed è proprio a partire da una riconsiderazione politica delle categorie dell'utile e dell'inutile, cosí come del lavoro produttivo e del gioco, che i situazionisti impostano le loro esperienze. Le quali sono sí caratterizzate da una programmatica impermanenza e aleatorietà; ma al tempo stesso vengono assoggettate dai componenti del gruppo a un certo "rigore" metodologico che le rende comunicabili e scambiabili, e dunque anche condivisibili. Fondamentale per i situazionisti, da questo punto di vista, è che le derive da essi compiute non rimangano delle esperienze isolate, soggettive, ma vengano invece sempre socializzate. Soltanto cosí l'opera di risignificazione di alcuni luoghi della città può giungere a compimento; e in questo modo avviare un processo di "riqualificazione" (anche solo virtuale) dei medesimi luoghi. Il fatto che questo processo si attui in una prospettiva ludica -- ovvero nella dimensione in cui l'*homo ludens* si sostituisce all'*homo faber*[^29] -- non lo rende per questo meno pensabile: semmai meno facilmente realizzabile, vale a dire realizzabile soltanto a costo di forzare i consueti termini della realtà, infrangendo cioè il patto che questa tacitamente istituisce con un modo "serio" di intendere la società e il mondo. È verso la fine del Settecento, rileva Johan Huizinga, nel momento in cui si sviluppano simultaneamente classe borghese, rivoluzione industriale e Illuminismo, che "lavoro e produzione assurgono a ideale, anzi quasi a idolo"[^30]. Si tratta dell'infanzia dell'epoca odierna. È in quel momento infatti che, secondo lo storico olandese, sorge > ... \[l'\]equivoco secondo il quale le forze economiche e l'interesse > economico determinerebbero e dominerebbero il corso del mondo. La > sopravvalutazione del fattore economico nella società e nello spirito > umano era in certo senso il frutto naturale del razionalismo e > dell'utilitarismo. Il ritorno -- o l'approdo -- a una società ludica, per i situazionisti, corrisponde appunto alla messa in crisi del razionalismo e dell'utilitarismo, cioè a dire del capitalismo. Il rifiuto di quest'ultimo è il rifiuto innanzitutto di una logica produttiva in senso economico, non della produzione *tout court*. È in questa logica che essi pongono il "gioco" al centro del proprio interesse. Pur se improduttivo in senso economico, il gioco in compenso produce divertimento. Ed è precisamente quest'ultimo che si prefiggono di "produrre" i situazionisti. Un divertimento che non costituisce una semplice evasione dalle consuete regole sociali, una pausa dalla "serietà" altrimenti dominante, bensì il fondamento stesso di una società basata sul gioco anziché sul lavoro, sull'avventura anziché sulla noia; una società nomade anziché stanziale, proprio come la *New Babylon* di Constant immaginava di esserlo[^31]. Ma non è soltanto nel progetto di Constant che il gioco assume un ruolo centrale nella costruzione di situazioni urbane alternative a quelle esistenti. Il concetto di "urbanismo unitario" formulato dall'Internationale Situationniste, ovvero la "costruzione integrale di un ambiente in legame dinamico con esperienze di comportamento"[^32], è al tempo stesso una critica alla città del capitale e la prefigurazione di uno spazio sociale inteso nella prospettiva del ludico: > L'urbanismo unitario non è una dottrina urbanistica ma una critica > dell'urbanistica. (...) Nessuna disciplina separata può essere > accettata in sé, noi andiamo verso una creazione globale > dell'esistenza. L'urbanismo unitario è distinto dai problemi > dell'habitat e tuttavia è destinato ad inglobarli; a maggior ragione è > distinto dagli attuali scambi commerciali. In questo momento prende > in considerazione un campo di esperienza per lo *spazio sociale* delle > città future. Non è una reazione contro il funzionalismo, ma il suo > superamento: si tratta di realizzare, al di là dell'utilità immediata, > un ambiente funzionale appassionante. (...) Cosí come l'habitat, > l'urbanismo unitario è distinto dai problemi estetici. Va contro lo > spettacolo passivo, principio della nostra cultura in cui > l'organizzazione dello spettacolo si estende tanto più scandalosamente > quanto più aumentano i mezzi dell'intervento umano. Mentre oggi le > stesse città vengono offerte come un penoso spettacolo, un supplemento > ai musei, per i turisti trasportati su corriere di vetro, l'urbanismo > unitario prende in considerazione l'ambiente urbano come terreno di un > gioco di partecipazione. L'urbanismo unitario non è idealmente > separato dall'attuale terreno della città. Si è formato > dall'esperienza di questo terreno e a partire dalle costruzioni > esistenti. Noi dobbiamo sia sfruttare gli attuali scenari con > l'affermazione di uno spazio urbano ludico quale lo fa riconoscere la > deriva, sia costruirne di totalmente inediti. (...) L'urbanismo > unitario si contrappone alla fissazione delle città nel tempo. (...) > L'urbanismo unitario è contro la fissazione delle persone in dati > punti di una città. È lo zoccolo di una civiltà del tempo libero e del > gioco[^33]. Le "tecniche" situazioniste, pur in apparenza estremamente elementari, e certamente assai modeste se confrontate con quelle impiegate dalle forze loro antagoniste, si fondano tuttavia su una lucida comprensione delle dinamiche in campo; una comprensione che consente loro di "anticipare" le mosse dell'avversario, o in certi casi addirittura di appropriarsi dei meccanismi regolativi di tali dinamiche. L'esempio più emblematico è proprio quello relativo alla spettacolarizzazione della città e della società capitaliste, presagita con largo anticipo e criticata nella sua natura "passiva" dai situazionisti, prima di essere approfonditamente analizzata, anni più tardi, da Guy Debord, in *La Société du Spectacle* (1967). Lungi dall'essere semplicemente rifiutata, la nozione di spettacolo è invece assunta e direttamente (e coscientemente) impiegata anche in alcune delle pratiche situazioniste. Si pensi ad esempio all'uso delle immagini -- sorprendenti e a volte provocatorie -- nelle pagine della rivista, a corredo di ponderosi saggi con i quali esse non intrattengono palesemente alcun rapporto; o alle copertine della rivista stessa, tutte diversamente colorate e metallizzate in modo tale da renderle specchianti, una lavorazione complessa e costosa all'epoca, il cui unico scopo è evidentemente quello di rendere i fascicoli -- appunto -- più spettacolari, e dunque attraenti. D'altronde, al di là della singolarità di questi esempi, quanto si offre come lezione più generale e durevole dal caso dell'Internationale Situationniste è che per combattere efficacemente qualcosa bisogna penetrarvi in profondità e, da tale posizione interna, capirne le regole, giungendo al limite persino a impiegarle. L'essere *dentro* -- anche nella sovversiva logica situazionista -- non è dunque soltanto una condizione fattuale imposta da ostili circostanze "esterne", bensì l'irrinunciabile presupposto per poter essere *contro*. A fronte di ciò si potrebbe obiettare che le "azioni" situazioniste -- ovvero le situazioni --, essendo per loro natura impersistenti e del tutto prive di sostanzialità, non lasciano alcuna traccia dietro di sé, o perlomeno non tracce abbastanza tangibili da poter essere oggettivate, e di conseguenza disgiunte, fatte altro da chi le ha vissute. La rinuncia alla produttività delle proprie azioni parrebbe dunque lo "scotto" che l'Internationale Situationniste è costretta a pagare per mantenere dal proprio punto di vista una posizione "politicamente corretta". In realtà la prospettiva dei situazionisti è radicalmente opposta: affidare per intero il proprio operare a un "lavoro improduttivo" significa implicitamente sottrarlo alla possibilità di trasformarsi in merce. Rifiutando di farsi "opera" (la cui produttività "aggiunge nuovi oggetti al mondo umano artificiale")[^34], la situazione -- come la forza lavoro -- "non "produce" altro che vita". Una vita che non a caso i situazionisti definiscono correttamente in termini di "esperienza". L'"improduttività" situazionista non è comunque l'unico modo per liberarsi dal carico di valori sociali da lungo tempo assunti come "naturali". Non sono pochi i casi in cui gli architetti hanno cercato almeno di infrangere il "cerchio magico" che racchiude in un unico abbraccio progetto e realtà; rinunciando deliberatamente a quest'ultima ed esonerando in questo modo il progetto dal compito di dover fare i conti con essa. Ciò non spezza, sia chiaro, l'equazione architettura = merce, dal momento che ogni progetto incarna, almeno potenzialmente, entrambe. Di progetti non realizzati, ovviamente, ne esiste un numero sterminato, senza che questo comporti una altrettanto alta ricorrenza di casi in cui i progetti intendano opporsi intenzionalmente alla realtà. Anzi, si potrebbe facilmente affermare che la maggior parte dei progetti che rimangono tali anelerebbe sopra ogni altra cosa a essere realizzata. Quanto invece qui interessa sono quegli assai più rari casi -- in tutti i sensi "eccezioni" -- in cui il progetto mette in difficoltà, e addirittura impedisce, ostacola letteralmente, la possibilità della propria realizzazione, arrivando a *progettare* le condizioni della propria irrealizzabilità. Sarebbe fin troppo facile citare al proposito i molti progetti utopici prodotti dalla cultura architettonica tra la seconda metà del Settecento e gli ultimi decenni del Novecento: ai quali progetti tuttavia difetta, nella gran parte di casi, la consapevolezza (o forse sarebbe meglio dire, la disillusione) di essere inevitabilmente "dentro" per poter essere davvero contro. La vera debolezza delle utopie, in questo senso, non è tanto quella di non poter essere realizzate, quanto piuttosto d'illudersi di non essere condizionate dalla realtà, di porsi come una vera alternativa rispetto a quest'ultima. Ciò che è utopico in tali progetti è proprio questa chimerica speranza. Cosí come ciò che in essi finisce per essere davvero ineffettuale, più che il tentativo di osservare il mondo con uno sguardo diverso, è la persuasione che tale sguardo non appartenga comunque a "questo mondo", che possa esistere in esso, nonostante esso. Al di fuori delle utopie architettoniche e delle ideologie che inevitabilmente vi sono connesse[^35], è in una dimensione meno carica di "messianiche attese" che l'allontanamento del progetto dalla realtà (ovvero dal rispetto delle condizioni per una sua realizzazione almeno possibile) produce esiti più interessanti. Con intenti che si presentano comunque critici o polemici -- anche se espressi a volte in maniera silenziosa o sottile -- nei confronti del contesto economico, sociale, politico, insomma del complessivo panorama valoriale in cui si inseriscono (o che piuttosto rifiutano). Tra i tanti che si potrebbero citare, un caso estremamente affascinante da questo punto di vista è quello di John Hejduk. Dopo gli studi compiuti in diverse università americane, come la Cooper Union di New York e la Harvard University, viene chiamato a insegnare alla School of Architecture di Austin (Texas), dove -- insieme ad altri colleghi tra i quali Colin Rowe, Robert Slutzky, Werner Seligmann e Bernhard Hoesli -- dà vita al gruppo dei Texas Rangers[^36]. Anche grazie all'influenza del lavoro astratto-geometrico -- grafico e pittorico -- di Josef Albers (allievo e poi maestro del Bauhaus -- nonché insegnante del *Vorkurs*, già tenuto da Itten -- prima dell'emigrazione negli Stati Uniti, quindi direttore del Black Mountain College in North Carolina e del dipartimento di Design alla Yale University) il gruppo sviluppa un approccio al progetto architettonico tendente a marginalizzare i problemi concreti come il programma, la funzione o gli aspetti costruttivi, focalizzandosi invece su principî visuali e su un'architettura intesa come disciplina autonoma. È in questo contesto che Hejduk esplora le possibilità insite nella *nine-square grid*, la griglia di nove quadrati come matrice per infinite variazioni compositive. Su questi esercizi si basano le sette "Texas Houses", elaborate tra il 1954 il 1963[^37]. Dopo diverse esperienze lavorative presso studi di qualificati professionisti quali I. M. Pei and Partners, nel 1965 Hejduk apre un proprio studio di architettura a New York. Nei progetti che produce a cavallo di questi anni -- serie Diamond (1963-67), serie 1/4, 1/2, 3/4 (1968-74), Wall Houses (1971-73)[^38] --, il tema insistentemente affrontato è quello della casa: tema che tuttavia, contrariamente a quanto non accada di norma, esclude dal proprio orizzonte qualsiasi ipotesi di fattibilità. Facendo ricorso a diverse "strategie" compositive (rotazioni, concentrazioni, dimezzamenti, prolungamenti), Hejduk pone sul cammino del progetto differenti generi d'impedimenti, tali da mantenere quanto più lontano possibile da esso lo "spettro" della costruibilità. Si tratta con tutta evidenza di un'architettura preoccupata di rispondere a requisiti puramente teorici. Ma una "teoria" che ha ben poco di positivo da dimostrare. Al di là di elementari figure geometriche e di forme puriste di esplicita discendenza lecorbusieriana, questi progetti di case o di altri tipi di spazi non contengono altro che l'esatto contrario di quanto comunemente si potrebbe ritenere comodo, agevole, funzionale. In questo senso va inteso, ad esempio, il lunghissimo corridoio che collega-e-divide le stanze poste alle due estremità della 3/4 House; o che si "tende" all'infinito nella Gunn House; o ancora, che fa da "spina" centrale nella Extension House: vere e proprie "barriere" architettoniche che s'interpongono beffardamente all'usabilità della casa; la quale, in tal modo, più che un rifugio, appare un luogo di pena. Ed effetti analoghi si lasciano riscontrare nei progetti della serie Diamond (Diamond House A, Diamond House B, Diamond Museum C), dove lo spazio quadrato è recintato e scandito internamente da pareti ortogonali o da forme curvilinee "libere" soltanto di rendere possibile la circolazione dentro quella che si rivela essere a tutti gli effetti una prigione. Ha certamente ragione Manfredo Tafuri nel ritenere John Hejduk "il più empirico e il meno intellettualistico"[^39] dei componenti del gruppo dei New York Five, al quale aderisce in occasione dell'incontro organizzato da Kenneth Frampton nell'ambito della Conference of Architects for the Study of Environment, svoltosi al MoMA nel 1969[^40]. E tuttavia, tale empirismo dei suoi progetti teorici non si lascerebbe definire meglio che come un tentativo di minare alle basi idee e consuetudini che vogliono l'architettura (e in particolar modo quella della casa) come qualcosa di lontano dalle insidie delle vuote speculazioni, tutta assorbita dallo svolgimento di compiti utili, e la cui perfetta integrazione alle regole del mercato è garantita dal sistema stesso che la detiene e controlla. In forma essenziale, quasi elementare, i progetti impossibili di Hejduk sembrano costituire un'opposizione a tale sistema; un'opposizione niente affatto aggressiva, bensì condotta con le "armi" di una serissima ironia e di un poetico candore. Né d'altronde risulta inverosimile, nell'ottica della seconda metà degli anni sessanta, ribellarsi alle logiche del professionismo spersonalizzato dei grandi studi americani, dominati -- più che dagli *architects* -- dai *builders*, occupati perlopiù in stanche repliche degli stilemi dell'*International Style*. E farlo doveva essere tanto più significativo dalla particolare prospettiva newyorkese. Allorché Hejduk nel 1965 apre uno studio di architettura e inizia a produrre i propri progetti lo fa non già per integrarsi a tale sistema, bensì piuttosto per sottrarsi a esso. E anche in seguito -- con rare eccezioni rappresentate dai pochi progetti realizzati, tutti accomunati da un gusto per la giocosità e da un'irriverente irrisione nei confronti del "buon senso" (dai surreali interventi effettuati all'interno della Cooper Union School, a New York, alla "macchina celibe" dello Studio for a Musician, fino agli stranianti edifici costruiti a Berlino nell'ambito dell'Internationale Bauausstellung 1987)[^41] -- egli persisterà nella sua volontaria "astensione" dalla realtà e in una ricerca del senso dell'architettura al di là della sua costruzione, spostando preferenzialmente la propria attenzione sul terreno del disegno e della poesia. Rompendo i limiti dell'oggettività e fissità tradizionali, gli edifici diventano cosí personaggi, oggetti-soggetti protagonisti di un "viaggio" che da Venezia li porta via via a Praga, Berlino, Riga, Vladivostok[^42]. Negli espressivi e infantili disegni che compongono i libri-avventure di Hejduk rivivono lo spirito surrealista e situazionista, ma soprattutto si agita uno spirito che nel rifiuto della dimensione costruttiva-costrittiva dell'architettura non identifica la sua negazione, quanto piuttosto vede la sua libertà dal reale come un valore. Sulla medesima lunghezza d'onda dell'"esposizione lucida e perversa dell'inutilità del gioco intrapreso"[^43] dai progetti di Hejduk si pongono le speculazioni sull'architettura elaborate da Peter Eisenman. Il loro carattere è molto più intellettuale; la loro volontà dimostrativa molto più stringente, e tuttavia non dissimili sono il contesto in cui questi si muove e gli obiettivi che lo animano. In particolar modo nel noto ciclo delle Houses I-X, progettate e in parte realizzate tra il 1967 e il 1976, il tema centrale è quello delle variazioni compiute su operazioni compositive ed elementi semplici e lineari, ma via via resi sempre più complessi nelle loro relazioni: una sorta di *ars combinatoria*, o di "grammatica trasformazionale" *à la* Chomsky, alla quale peraltro Eisenman si rifà esplicitamente. Come già nel caso dei progetti di Hejduk, anche qui l'architettura vive una vita propria staccata dalla realtà: essa *parla di se stessa*, del proprio sistema di segni privati di senso, autoreferenziali, tautologici. Ma appunto, nell'affermare il linguaggio come perfettamente fine a se stesso, si sancisce la separazione della forma architettonica dalla dimensione esperienziale. Scrive Eisenman a proposito della House III (1969-71), realizzata a Lakeville (Connecticut): > Quando entra nella "propria casa", il proprietario è un intruso che > tenta di prenderne possesso e, di conseguenza, distrugge, seppur in > senso positivo, l'unità e la completezza iniziale della struttura > architettonica[^44]. E Tafuri: > La spietata operazione di Eisenman consiste nel riconoscere che non si > dà lingua architettonica se non al di fuori della prassi, che il > laboratorio sintattico evocato da oggetti perfettamente circoscritti > nel colloquio dei segni fra loro *non ammette intrusi*[^45]. "Al di fuori della prassi": ancora una volta si ripresenta la non accettazione dell'architettura come semplice "cosa pratica", come mera *machine à fonctionner*. Ma ciò a cui s'oppone Eisenman, a ben guardare, è qualcosa di più che il funzionamento o l'uso dell'architettura: piuttosto è il destino di superfluità, di "inoperatività" che ai suoi occhi l'architettura finisce per assumere nell'epoca del capitalismo maturo. Ridotta a oggetto solo-funzionale, essa rischia di diventare paradossalmente un oggetto inutile. Di tale inutilità -- o per meglio dire, di tale *intransitività* -- le stesse case di Eisenman, da lui stesso battezzate *Cardboard Architecture* (architettura di cartone)[^46], sono la pur esile prova. Nella House VI, ad esempio, realizzata con il nome di House Frank a Cornwall (Connecticut, 1972-75), l'incrocio di piani verticali perpendicolari tra loro produce una costruzione gremita di contraddizioni spaziali: passaggi interdetti, collegamenti imprevisti, scale che finiscono nel nulla. Le aporie dello spazio, concepite come parti inerenti al sistema, ridanno alla casa un imprevisto interesse "autonomo": la casa diviene interessante *in sé*, non in quanto capace di essere comoda o funzionale, o per il suo valore di mercato. Applicata al corpo concreto dell'architettura, tuttavia, la teoria eisenmaniana dello "svuotamento di senso dei segni" si espone a possibili "cadute"; o quantomeno, in certi casi risulta essere un piano pericolosamente inclinato, come lo sono le pareti della House X (1975), l'ultima della serie: una casa concepita come un'assonometria tridimensionale, in cui la realtà è virtualmente "piegata" alla sua rappresentazione e nella quale di conseguenza vivere sarebbe letteralmente impossibile (e infatti non verrà realizzata). O come lo sono -- ancora di più -- alcune sue opere degli anni ottanta e novanta (Uffici della Koizumi Sangyo Corporation, Tokyo, 1988-90; Aronoff Center for Design and Art, Cincinnati, 1988-96; Sede centrale della Nunotani Corporation, Tokyo, 1990-92, tutte realizzate), in cui singoli elementi e interi volumi si presentano storti al punto da mettere quasi a repentaglio il loro stesso utilizzo. È proprio qui che l'incursione della teoria all'interno dei territori della realtà mostra la sua debolezza. Fuori dalla zona di costitutiva ambiguità tra astrazione e realtà in cui vivevano i suoi primi progetti di case concettuali, le quali -- nonostante gli sporadici affondi nella materia -- rimangono comunque "fantasmi virtuali", corpi disincarnati fino ai limiti del possibile, le architetture successive di Eisenman riescono al più a mettere in scena una parodia del conflitto; la loro "decostruzione" del mondo è soltanto una maschera destinata a fornire a quel mondo l'ennesima copertura (*intellettuale*) con cui perpetuarsi, non certo la spia dell'aprirsi al suo interno di "crepe". Dietro la rottura dell'ordine non vi è la minaccia di alcun dissidio con il mondo bensì -- neanche troppo paradossalmente -- l'annuncio della nascita di una "nuova alleanza" con esso, come dimostra tra l'altro il consenso ricevuto dagli edifici sopra citati e da altri loro consimili da parte di diverse *corporations*. E lo stesso si può dire dell'"architettura non classica", "rappresentazione di se stessa, dei propri valori e della sua esperienza interna"[^47], che Eisenman teorizza e contestualmente realizza in quegli stessi anni; un'architettura auto-generata a partire da presupposti totalmente arbitrari, e che tuttavia -- unici -- garantirebbero a suo avviso una completa autonomia dalle tre *fictions* (rappresentazione, ragione, storia) sotto il cui giogo essa sarebbe rimasta dal Rinascimento fin quasi alla fine del XX secolo. Ma dare vita a "un'*architettura come discorso indipendente*, libero da valori esterni"[^48], esattamente come elevare l'arbitrarietà a nuovo fondamento, si dimostreranno possibilità tanto seducenti quanto in fin dei conti illusorie. Al di là comunque di tutte le possibili fughe nel "mondo dei sogni" della teoria e del progetto (e persino di quegli oggetti che -- pur materiali e tridimensionali -- si lasciano agevolmente inquadrare in una cornice di irrealtà, com'è il caso di quelli di Eisenman), a un'architettura che pretenda di posizionarsi in maniera effettivamente diversa rispetto alle logiche e all'universo valoriale dominanti si richiederà di confrontarsi con questi in modo più stringente, più sostanziale. Per spingersi oltre le facili apparenze di libertà o di insubordinazione, insomma, o meglio ancora, per evitare di accontentarsi di una semplice "*dis*simulazione" della libertà dai valori, è necessario trovare qualcosa -- e qualcuno -- che sia in grado di confrontarsi sul serio con la realtà. Con la ben precisa coscienza che, nel compiere questo passaggio, architettura e architetto si trovano a dover affrontare "appesantimenti" di vario genere assai più gravosi, quali ad esempio il rispetto delle leggi fisiche, dei regolamenti edilizi e di tutti gli altri vincoli -- espliciti o sottintesi -- che appartengono al mondo reale. Non sono numerosi -- stanti queste premesse -- i casi in cui un edificio e il suo architetto possano dirsi davvero capaci di rompere norme e convenzioni, *non* sul versante formale quanto piuttosto su quello delle regole comunemente diffuse e accettate, mostrando cosí di saperle modificare dall'interno. Tra queste rare eccezioni, vi è senza alcun dubbio John N. Habraken, architetto olandese che ha dedicato la sua intera carriera a una riconsiderazione integrale del ruolo rivestito da sé o da altri all'interno del processo di produzione edilizia, e conseguentemente a una modificazione dello stesso processo. Nel 1961 pubblica un libro, *De dragers en de mensen, het einde van de massawoningbouw* (tradotto in inglese nel 1972 con il titolo *Supports: An Alternative to Mass Housing*)[^49], che susciterà l'interesse dell'ambiente accademico e professionale olandese. In stretta connessione con ciò, nel 1964 viene fondato lo Stichting Architecten Research (SAR), un'organizzazione per la ricerca nel settore della residenza, finanziata da un gruppo di architetti olandesi e diretta dallo stesso Habraken. Pur senza impegnarsi nella diretta redazione di progetti, il SAR ha fornito la propria consulenza ad altri architetti, amministrazioni pubbliche ed enti olandesi per coadiuvarne la sperimentazione progettuale nel campo dell'edilizia residenziale. L'idea elaborata da Habraken si basa sulla distinzione, all'interno dei nuclei abitativi, tra elementi stabili, sia per la loro funzione che per il loro contenuto tecnico, denominati "supporti" (*supports*), ed elementi variabili, il cui utilizzo è più soggettivo e mutevole nel tempo, denominati "unità staccabili" (*infills*). Rispetto alle "tradizioni" precedenti (compresa quella moderna) si istituisce cosí una prima differenza: se infatti i supporti devono essere messi in opera in cantiere, le unità staccabili sono prodotte dall'industria. Ma la distinzione riguarda anche i soggetti coinvolti nel processo di definizione di ciascun nucleo residenziale: se per i *supports* è ancora indispensabile la presenza delle figure che di norma presiedono al processo costruttivo (architetto, ingegnere), i "detentori del potere" sulle *infills* sono invece gli utenti. Ed è a partire da qui che Habraken svilupperà, negli anni seguenti, un discorso relativo alla relazione esistente tra chi esercita il potere all'interno del processo progettuale e la forma che questo assume. Cosí, come in tutti gli altri casi, > ... anche nell'edilizia di massa la morfologia esprime i valori di chi > assume le decisioni: in questo caso l'élite intellettuale, > professionale, che stabilisce i giudizi di valore e ne risponde > soltanto nei confronti del suo stesso gruppo sociale. Il dibattito > sulla qualità -- su ciò che è valido o meno, su ciò che si deve o non > si deve fare -- si svolge soltanto tra i professionisti. Le regole > vengono fissate dagli stessi che le mettono in pratica. L'architetto > che sostiene una nuova forma non si preoccupa di mettersi in contatto > con i futuri utenti ma solo con le autorità. Le autorità ascoltano > solo i professionisti e gli esperti. I risultati vengono poi > confrontati sul piano internazionale attraverso riviste, congressi, > mostre, visite: il dialogo tra professionisti continua[^50], tralasciando del tutto coloro che -- in quanto direttamente implicati -- avrebbero al contrario il diritto di prendervi parte. Pur essendo uno dei massimi sostenitori di un reale coinvolgimento, ovvero di una "partecipazione", di tali soggetti, Habraken è anche molto chiaro e realistico in merito: "Una partecipazione reale (...) può essere basata soltanto su un rapporto di potere. (...) Chiedere partecipazione significa che non si ha potere nell'ambito della controparte". Il processo di partecipazione, pertanto, > ... può funzionare soltanto se il rapporto si sviluppa tra due poteri > che in qualche modo si equilibrano -- tra due poteri che operano in > una diversa direzione e devono trovare un equilibrio. È necessario che > nel processo entrambi i poteri siano identificabili e riconosciuti. > (...) Finché questo equilibrio non esiste, i cosiddetti processi > partecipatori sono soltanto un'espressione del problema, non la sua > soluzione[^51]. È muovendo da questi presupposti che si può assumere nel suo significato effettivo il "caso" del Villaggio Matteotti di Terni (1969-75), il cui "artefice" è Giancarlo De Carlo: un intervento giustamente celebre, non solo per i suoi esiti, che ne fanno un "frammento" di architettura di grande qualità del secondo dopoguerra, nonché un complesso fortemente identitario e unitario (nonostante la mancata realizzazione della parte destinata ai servizi pubblici), ma soprattutto per la ragione che -- tra i primi e i pochi casi in Italia -- il Villaggio ha visto appunto la partecipazione degli utenti al processo di progettazione. In realtà, quella della partecipazione, pur rivestendo un ruolo importante, è soltanto una delle condizioni poste da De Carlo al committente -- le Acciaierie di Terni -- per accettare l'incarico che gli era stato offerto. E qui è interessante notare come la posizione di De Carlo nei confronti della sua "controparte" sia abissalmente distante da quella assunta dalla maggior parte dei colleghi suoi contemporanei, e ancora di più dalla pressoché totalità degli architetti del giorno d'oggi. Per comprendere quale sia con esattezza la posizione di De Carlo basta leggere il testo scritto da lui stesso che ripercorre con precisione la vicenda di Terni[^52]. Durante il fascismo, all'estrema periferia sud-orientale di Terni, era stato realizzato un quartiere operaio per i dipendenti delle Acciaierie. La situazione di degrado del quartiere, l'assenza di servizi e la programmatica carenza di collegamenti con la città suggeriscono alla direzione delle Acciaierie di intervenire in qualche modo: > La direzione propendeva per vendere le case ai loro abitanti e > togliersi una volta per tutte il peso di dovere intervenire con forti > spese di manutenzione o, peggio, di risanamento. I consigli di > fabbrica invece sostenevano l'ipotesi di radere al suolo tutto e > ricostruire sulla stessa area il volume di residenza che era > consentito dal piano regolatore. Dopo lunghe discussioni, visto che > non si trovava uno sbocco tra le due inconciliabili alternative, la > direzione decideva di girare il problema a un architetto, e cioè a > qualcuno che fosse in grado di risolverlo in termini puramente > tecnici, e perciò inequivocabili[^53]. In quest'ultimo passaggio va sottolineata l'ingenua -- o piuttosto la ben calcolata -- identificazione della figura dell'architetto con quella del "tecnico": dove con questo termine la direzione delle Acciaierie intendeva evidentemente alludere a qualcuno in grado di svolgere una funzione -- e di fornire una prestazione -- oggettiva, misurabile, "scientifica"; perfetta incarnazione, secondo le attese della committenza, del "rifornitore" del sistema. E invece, l'architetto prescelto disattenderà tale aspettativa: > Ma l'architetto -- che poi ero io -- si rendeva subito conto che se > avesse tagliato il nodo, invece di tentare di scioglierlo, si sarebbe > trovato a svolgere un ruolo equivoco al servizio di un potere che non > gli piaceva. De Carlo mette a punto cinque diverse ipotesi di intervento: dal risanamento integrale del vecchio villaggio, senza variare la sua configurazione originale ma dotandolo dei servizi collettivi necessari e ristrutturando integralmente gli edifici residenziali, alla sostituzione del tessuto edilizio originale con un sistema di edifici a torri uguali a quello già utilizzato in un altro intervento dalle Acciaierie di Terni; dall'utilizzo di un sistema di edifici in linea analogo a quelli utilizzati dagli istituti di case popolari in giro per l'Italia in quegli anni, all'adozione di due possibili sistemi di edifici costituiti da tre piastre sovrapposte all'interno delle quali sono previste sequenze di edifici lineari includenti la residenza, i servizi di diretta pertinenza dell'abitazione e i canali del movimento pedonale. "Ciascuna delle cinque alternative era corredata dalla descrizione dei vantaggi e degli svantaggi che comportava, in relazione ai diversi punti di vista che era possibile considerare". Ma soprattutto: > Le cinque alternative venivano consegnate e accompagnate da una nota > nella quale si diceva che l'architetto sarebbe stato interessato a > elaborare il progetto, e quindi ad assumere l'incarico, soltanto se la > scelta fosse caduta sulla quarta o la quinta soluzione: le prime tre > le Acciaierie avrebbero potuto attuarle in proprio o rivolgendosi ad > altri che si sentissero di condividerle[^54]. Lungi dal mettersi completamente "al servizio" del suo committente, del tutto prono di fronte alle richieste di questi, come suo puro "rifornitore", De Carlo pone le condizioni in base alle quali è disponibile a farsi carico del progetto. E non si tratta affatto di richieste di ordine economico. Piuttosto, quelle alle quali egli mira sono le condizioni che ritiene migliori *per il progetto*, e di conseguenza migliori per chi dovrà usufruirne. Il concetto -- e la pratica -- della "partecipazione" discendono precisamente da questi presupposti. Nell'ottica di quest'ultima, "il compito del progettista non è più di sfornare soluzioni finite e inalterabili, ma di estrarre le soluzioni da un confronto continuo con chi utilizzerà la sua opera"[^55]. Un *processo*, non più semplicemente un progetto[^56]. Ma la questione della partecipazione apre anche ulteriori prospettive che De Carlo sviluppa solo parzialmente. Ad esempio quella relativa alla "gestione del potere" intimamente connesso all'architettura. Scrive De Carlo: > Si ha la partecipazione quando tutti intervengono in egual misura > nella gestione del potere, oppure -- forse cosí è più chiaro -- quando > non esiste più il potere perché tutti sono direttamente ed egualmente > coinvolti nel processo delle decisioni[^57]. L'idea di De Carlo, sulla scia delle tendenze del comunismo anarchico verso cui era orientato[^58], è quella di una sorta di "dissoluzione del potere" attraverso la sua condivisione. In realtà, ciò che qui egli sembra soprattutto voler mettere in discussione fino alle sue radici è il ruolo dell'architetto: "La prospettiva che mi sembra molto interessante è quella di sottrarre l'architettura agli architetti per restituirla alla gente che la usa"[^59]. È l'architetto che può e che *deve* compiere -- ai suoi occhi -- un atto di rinuncia nei confronti della propria stessa natura di *autore* (della propria *auctoritas*, dunque), per far divenire il progetto davvero utilizzabile dai suoi fruitori. Ma se l'architetto può arrivare a compiere questa rinuncia, rendendo l'architettura, attraverso la partecipazione, "sempre meno la rappresentazione di chi la progetta e sempre più la rappresentazione di chi la usa"[^60], ciò può avvenire soltanto a patto che l'architetto stesso abbia compiuto un'altra "liberazione", esattamente simmetrica alla prima, nei confronti della committenza. È infatti evidente come a quest'ultima non possa essere forzatamente richiesto di essere sensibile alle esigenze dell'utenza, né imposto un ascolto attento di essa. Quando ciò si verifica, va ritenuta più una fortunata eccezione che non un'indefettibile regola. Se l'esperienza descritta da De Carlo testimonia di una sia pur cauta apertura da parte del committente alle richieste dell'architetto, attesta altresí in maniera inequivocabile l'*autonomia* dell'architetto nei confronti della sua "controparte". Nel saper rifiutare (o quantomeno riformulare) il proprio ruolo di "tecnico", De Carlo reimposta il rapporto con la committenza in termini *politici*. E come in tutte le questioni di carattere politico, l'efficacia o meno di una data azione si misura sulla base della capacità di persuadere (o di lasciarsi persuadere) dei suoi "attori", ovvero sulla base dei rapporti di forza esistenti tra loro. Non deve stupire, in tal senso, che De Carlo non sia riuscito a vincere per intero la propria battaglia, e anzi sia stato costretto a incassare diverse sconfitte. Soltanto la sua presa di distanza dalle pretese della committenza, comunque, ovverosia la sua manifesta indipendenza da esse, ha reso possibile il Villaggio Matteotti nelle forme e nei modi attuali: un intreccio strettissimo di spazi residenziali, spazi comuni e spazi aperti; quasi un labirinto tridimensionale, o una *casbah* moderna, in cui cemento armato e natura, anziché essere posti in alternativa o in antitesi, convivono in una relazione dialettica, in condizione di confrontarsi e di fondersi. Ma soprattutto, un insediamento *umano* prima ancora che urbano, una *comunità organica* dove gli abitanti ritrovano una centralità che altrove, nell'epoca contemporanea, appare ormai inesorabilmente perduta. Pur non essendo frequenti, le "lotte" dell'architetto per ottenere condizioni migliori non sono tanto rare da potersi dire inesistenti. Anche se spesso non giungono alla notorietà del caso appena citato, consumandosi senza troppi clamori, nell'"anonimato" del rapporto tra committente e architetto, queste "lotte" hanno come obiettivo di ridefinire, almeno provvisoriamente e localmente, le modalità con cui viene prodotta l'architettura, dal progetto preliminare all'edificio finito. Si potrebbe ritenere che oggetto di simili "rivendicazioni" sia immancabilmente la richiesta di miglioramenti del trattamento economico da parte dell'architetto. In realtà, pur non escludendo certo questa possibilità, in moltissimi casi l'architetto si batte pure per un innalzamento della qualità del progetto, oppure -- ciò che non è poi tanto diverso -- per un allungamento dei tempi della sua esecuzione, con un conseguente beneficio nelle condizioni di lavoro e un aumento dell'accuratezza nella sua attuazione. Qualunque sia l'oggetto e il tenore di tali trattative (o -- in certi casi -- bracci di ferro), l'elemento costante è che da esse rimangono esclusi gli utenti dell'edificio in questione, futuri proprietari o locatari che siano. Anche quando -- assai raramente -- è prevista una loro compartecipazione alla definizione del progetto (come nel caso appena citato, ad esempio), i destinatari dell'architettura hanno scarsa o nessuna voce in capitolo, soprattutto in merito agli aspetti economici relativi al "bene" a cui intendono accedere. È proprio quello dell'accessibilità al "bene"-architettura (nella gran parte dei casi, la residenza) il problema con cui in ogni parte del mondo è costretta a confrontarsi un'enorme quantità di persone. Non c'è bisogno di rileggere i "classici" testi di Friedrich Engels[^61] per sapere quali siano i problemi che le classi economicamente più disagiate -- ancora oggi -- devono fronteggiare per potersi "permettere" la "propria" abitazione: un'abitazione il cui costo -- si tratti di affitto o di proprietà -- è spesso fonte di indebitamento. Senza dimenticare che il crollo finanziario del 2008, cui è seguito un lungo periodo di crisi economica, è stato causato dall'esplosione della "bolla" dei mutui *subprime*, concessi a persone dall'insufficiente capacità di assolvere a essi. È per questa ragione che un ulteriore modo di essere fattivamente "dentro e contro" le regole imposte dal mercato -- ma anche "dentro e contro" le condizioni che, in molti paesi del mondo, portano alla "falsa alternativa" della realizzazione di insediamenti spontanei, "informali" -- è rappresentato dalla strategia attivata da Alejandro Aravena attraverso il programma Elemental. Avviato nel 2001 in Cile, suo paese natale, insieme all'ingegner Andrés Iacobelli e all'architetto Pablo Allard, anch'essi cileni, incontrati alla Harvard University, tale programma utilizza il sussidio statale a fondo perduto di 7500 dollari americani, concesso alle fasce più povere della popolazione dal programma Vivienda Social Dinámica sin Deuda (Edilizia sociale dinamica senza debito) del ministero per la Casa e l'Urbanistica cileno, per realizzare una casa migliore -- in termini dimensionali e qualitativi -- di quanto non sia quella normalmente assegnata dallo Stato con i medesimi fondi. La somma stanziata doveva essere in grado di coprire i costi del terreno, nonché quelli della progettazione e della costruzione di ogni singola unità abitativa. L'approfondita ricerca compiuta da Aravena e da un team di altri architetti ed esperti in diverse materie porta all'individuazione dei requisiti indispensabili per rendere l'abitazione sociale un investimento e non una semplice spesa per la collettività: > Tutti noi, quando compriamo una casa, ci aspettiamo che incrementi il > suo valore. Questa è la ragione per cui una casa, quasi per > definizione, è un investimento. Sfortunatamente, non è quel che > succede con l'edilizia sociale. L'edilizia sociale è più simile > all'acquisto di un'automobile che a quello di una casa: ogni giorno > che passa, il suo valore diminuisce[^62]. Perché ciò possa avvenire, la stessa abitazione deve diventare uno strumento per il superamento della povertà, e non un semplice riparo dall'ambiente circostante. Per Elemental i requisiti fondamentali sono il posizionamento non troppo lontano dal centro delle aree sulle quali far sorgere i nuovi insediamenti, per evitare che si creino disagi nel raggiungimento del posto di lavoro e della scuola da parte degli abitanti; la possibilità che le unità abitative si espandano rispetto ai 36 m^2^ iniziali, fino a un massimo di 72 m^2^ totali; la possibilità che questa seconda metà della casa venga realizzata dagli stessi abitanti con tecniche di autocostruzione a costi molto bassi; la partecipazione dei medesimi utenti alle scelte progettuali, e in generale il loro consenso alle operazioni compiute. Al proposito scrivono gli autori del programma: > Come nel judo, intendevamo prendere la forza del nostro avversario -- > in questo caso la scarsità di mezzi -- e usarla a nostro vantaggio, > ridirigendola verso gli obiettivi del nostro progetto. Nello > specifico ci siamo concentrati sulle costituzionali capacità > organizzative delle famiglie[^63]. Il primo, storico intervento realizzato da Elemental, terminato nel 2004, si colloca a Iquique, città situata nel nord del Cile, in una zona desertica del paese. Assegnato dal programma ministeriale Chile Barrio, il sito, denominato "Quinta Monroy", è collocato in una parte centrale della città, e nei trent'anni precedenti l'intervento era stato occupato da un centinaio di famiglie che vi avevano costruito delle residenze informali. Il problema tuttavia non si presenta di facile risoluzione: > Se per rispondere alla richiesta avessimo assunto 1 casa = 1 famiglia > = 1 lotto, saremmo stati in grado di ospitare solo 30 famiglie sul > sito. (...) Se per cercare di usare il terreno in modo più efficiente, > avessimo impiegato delle case a schiera, anche riducendo la larghezza > del lotto fino a farlo coincidere con la larghezza della casa, e > ancora di più, con la larghezza di una stanza, saremmo stati in grado > di ospitare solo 60 famiglie[^64]. La soluzione trovata -- basata sull'idea di corpi edilizi disposti su tre livelli alternati a spazi vuoti utilizzabili per le possibili espansioni, consente di alloggiare tutte le 93 famiglie e al tempo stesso di effettuare gli ampliamenti delle unità abitative. Da un punto di vista architettonico, le case Elemental (replicate in seguito in diverse altre località in America Latina, anche al di fuori del Cile, per un totale di qualche migliaio di unità abitative realizzate), in perfetto accordo con il loro nome, presentano caratteristiche elementari, essenziali: parallelepipedi in pannelli di cemento prefabbricati all'interno dei quali i progettisti si limitano a disporre le componenti più complesse, che una famiglia raramente è in grado di costruire da sola: solai, muri divisori, scale, impianti, bagni e cucine. Il resto viene lasciato all'iniziativa degli abitanti, monitorata però per evitare possibili abusi o situazioni di insicurezza. Dal 2006, inoltre, con la creazione di un "Do Tank", la Elemental SA, la prosecuzione del programma è stata resa possibile grazie al supporto della Pontificia Universidad Catolica de Chile di Santiago (presso la quale lo stesso Aravena insegna), e della Empresas Copec, una società petrolifera cilena che estende i propri interessi anche ai settori dell'energia, della pesca, della silvicoltura e del *real estate*. Senza bisogno di dettagliare ulteriormente un caso di per sé già molto noto, vale la pena soffermarsi piuttosto su che cosa rende esemplare Elemental dal punto di vista della capacità di confrontarsi con un problema reale senza rimanere impigliati nei suoi meccanismi. Innanzitutto il programma Elemental non è concepito con l'obiettivo di conseguire riconoscimenti per coloro che se ne sono occupati, o risultati in qualche modo comparabili con quelli che fanno bella mostra di sé nelle monografie o nei siti dedicati ad altri architetti. L'obiettivo di Elemental è rendere economicamente sostenibile l'acquisizione di una casa per una tipologia di abitanti che nelle condizioni normali sono invece obbligati a sottostare, alternativamente, al "capestro" della contrazione di un mutuo per diventare proprietari di casa, o anche semplici affittuari (entrambe condizioni spesso inarrivabili per costoro), oppure al "capestro" di accettare la "logica" degli insediamenti "informali" (leggi *villas miseria*, *poblaciónes callampas* o *favelas*, a seconda delle lingue e dei luoghi), con tutti i problemi che questo comporta. Non meno rilevante è il benessere sociale degli abitanti, che implica l'inserimento delle case in contesti accettabili in termini di collocazione urbana e di sicurezza, e la creazione di spazi collettivi. Ma altrettanto prioritaria, per Elemental, è la qualità del progetto, strenuamente difesa non come un valore in sé (e per sé), bensì come condizione indispensabile all'ottenimento degli altri obiettivi. Per raggiungere tutto ciò Aravena e i suoi soci e collaboratori si servono di tutte le forze a disposizione, deboli o potenti che siano: da quelle degli abitanti, interpellati sulle scelte progettuali e resi partecipi attraverso iniziative comunitarie, fino a quelle di un soggetto potenzialmente "ostile" quale potrebbe essere considerato una compagnia petrolifera. Senza falsi moralismi o pregiudizi ideologici, con una combinazione di "realismo", "pragmatismo" e "ambizione"[^65], Elemental analizza, comprende e utilizza con la massima precisione le complesse dinamiche politiche, sociali, economiche connesse alle operazioni che compie, fino a giungere al punto di *trasformarle* in quegli aspetti essenziali che consentono di volgerle a proprio favore. Naturalmente gli esiti progettuali potrebbero apparire non appetibili -- e conseguentemente non proponibili -- per uno standard occidentale, anche nel campo dell'edilizia sociale; ma vanno tenuti presenti il contesto e le condizioni emergenziali in cui Elemental si trova a operare. E sono proprio questi fattori che rovesciano polarmente la prospettiva del discorso fatto in precedenza: è accettando il confronto con situazioni difficili, ovvero rinunciando a dedicarsi a progetti più agevoli ma potenzialmente anche più "sensazionali", che Elemental ottiene *sensazionali risultati*. Facendocela "con il poco". Dentro la realtà e contro ogni attesa. A riprova di ciò si veda la copiosa messe di premi e riconoscimenti raccolti in tutte le parti del mondo, dai primi anni Duemila in avanti, dai progetti Elemental[^66], nonché il Pritzker Prize assegnato nel 2016 ad Alejandro Aravena per lo stesso progetto[^67]. Ed è significativo -- e quasi paradossale -- che sia proprio la giuria del Pritzker Prize a riconoscere ad Aravena la capacità di "trasforma(re) il professionista in una figura universale", e a salutare con lui "la rinascita di un architetto più impegnato socialmente", capace di "lottare (...) per affrontare le crisi abitative globali (...) e trovare soluzioni veramente collettive per l'ambiente costruito"[^68]. [^1]: Ludwig Mies van der Rohe, *Edificio per uffici* (1923), in Id., *Gli scritti e le parole*, a cura di Vittorio Pizzigoni, Einaudi, Torino 2010, p. 5. [^2]: Vedi, tra gli altri, Ludwig Mies van der Rohe, *Architettura e volontà dell'epoca* (1924), *ibid.*, p. 25. [^3]: Ludwig Mies van der Rohe, *Minuta di un articolo* (1923), *ibid.*, p. 7. Nello stesso testo, poche righe più oltre, è ribadita la natura della *Baukunst* come "volontà dell'epoca tradotta in spazio". [^4]: Massimo Cacciari, *Res aedificatoria. Il "classico" di Mies van der Rohe*, in "Casabella", n. 629, dicembre 1995, p. 4. [^5]: *Ibid.* [^6]: Ludwig Mies van der Rohe, *Quello che intendiamo per formazione elementare* (1924), in Id., *Gli scritti e le parole* cit., p. 19. [^7]: Ludwig Mies van der Rohe, *Il costruire è legato alla vita* (1926), in Id., *Gli scritti e le parole* cit., p. 35. [^8]: Benjamin, *Esperienza e povertà* cit., p. 52. [^9]: *Ibid.*, p. 56. [^10]: *Ibid.*, p. 57. [^11]: *Ibid.*, p. 53. [^12]: Si riprendono qui le parole -- anch'esse già citate -- dell'altro breve saggio, "gemello" del precedente, di Benjamin, *Il carattere distruttivo* cit., p. 41. [^13]: Johannes Itten, *Design and Form. The Basic Course at the Bauhaus and later*, Thames and Hudson, London 1965. Sulle pratiche di insegnamento di Itten vedi, tra gli altri, Éva Forgács, *The Bauhaus Idea and Bauhaus Politics*, Central European University Press, London -- New York 1995. [^14]: Marco De Michelis e Agnes Kohlmeyer, *Bauhaus-Bauhaus 1919-1933*, in Id. (a cura di), *Bauhaus 1919-1933. Da Klee a Kandinsky, da Gropius a Mies van der Rohe*, Mazzotta, Milano 1996, p. 18. [^15]: Oskar Schlemmer a Otto Meyer-Amden, 14 luglio 1921, citato in Peter Hahn, *Idee e utopie degli anni della fondazione*, in De Michelis e Kohlmeyer (a cura di), *Bauhaus 1919-1933* cit., p. 48. [^16]: Benjamin, *Esperienza e povertà* cit., p. 56. [^17]: *Ibid.*, p. 53. [^18]: Roberto Calasso, *L'innominabile attuale*, Adelphi, Milano 2017, p. 14. [^19]: Byung-Chul Han, *La società della stanchezza*, Nottetempo, Roma 2012, p. 15. [^20]: *Ibid.*, p. 16. [^21]: Benjamin, *Esperienza e povertà* cit., p. 57. [^22]: Han, *La società della stanchezza* cit., p. 32. [^23]: Walter Benjamin, *Il narratore. Considerazioni sull'opera di Nicolaj Leskov* (1936), in Id., *Angelus Novus. Saggi e frammenti*, Einaudi, Torino 1962, in particolare p. 243. [^24]: Han, *La società della stanchezza* cit., p. 31. [^25]: Benjamin, *Esperienza e povertà* cit., p. 58. [^26]: Gilles Ivain, *Formulario per un nuovo urbanismo* (1953), in *Internazionale Situazionista 1958-1969*, Nautilus, Torino 1994, fasc. I, p. 16. [^27]: *Informazioni situazioniste*, *ibid.*, fasc. V, p. 10. Vedi inoltre Simon Ford, *The Situationist International. A User's Guide*, Black Dog Publishing, London 2005; Simon Sadler, *The Situationist City*, The MIT Press, Cambridge (Mass.) 1998. [^28]: *Definizioni*, in *Internazionale Situazionista 1958-1969* cit., fasc. I, p. 13. [^29]: Johan Huizinga, *Homo ludens* (1939), Einaudi, Torino 2002. [^30]: *Ibid.*, p. 225. [^31]: Francesco Careri, *Constant. New Babylon, una città nomade*, Testo & Immagine, Torino 2001. Vedi anche Constant, *Un'altra città per un'altra vita*, in *Internazionale Situazionista 1958-1969* cit., fasc. III, pp. 37-40. [^32]: *Definizioni*, in *Internazionale Situazionista 1958-1969* cit., fasc. I, p. 13. [^33]: *L'urbanismo unitario alla fine degli anni '50*, in *Internazionale Situazionista 1958-1969* cit., fasc. III, pp. 12-14. [^34]: Arendt, *Vita activa* cit., p. 63. [^35]: Su ciò vedi Karl Mannheim, *Ideologia e utopia* (1929), il Mulino, Bologna 1999. [^36]: Alexander Caragonne, *The Texas Rangers. Notes from the Architectural Underground*, The MIT Press, Cambridge (Mass.) 1995. [^37]: Kenneth Frampton, *John Hejduk: 7 Houses*, The Institute for Architecture and Urban Studies, New York 1980. Scrive Hejduk a proposito di questi progetti: "Speravo di stabilire un punto di vista, con la convinzione che attraverso una disciplina autoimposta, uno studio intenso e circoscritto e un'estetica, sarebbe stata possibile una liberazione della mente e della mano che conducesse a visioni e trasformazioni della forma spaziale. (...) Se l'evoluzione della forma prosegue o si ferma dipende dall'uso dell'intelletto non come uno strumento accademico, ma come un elemento di vita passionale": John Hejduk, *Statement 1964*, *ibid.*, p. 116. [^38]: John Hejduk, *Mask of Medusa. Works 1947-1983*, a cura di Kim Shkapich, Rizzoli, New York 1985, pp. 241-309. [^39]: Manfredo Tafuri, *"Les bijoux indiscrets"*, in *Five architects N.Y.*, a cura di Camillo Gubitosi e Alberto Izzo, Officina, Roma 1977, p. 17. [^40]: Su ciò, vedi *Five architects: Eisenman, Graves, Gwathmey, Hejduk, Meier*, Museum of Modern Art, Wittenborn (New York) 1972. [^41]: Hejduk, *Mask of Medusa* cit., pp. 310-25; K. Michael Hays, *Sanctuaries. The last works of John Hejduk*, Canadian Centre for architecture, Montreal and the Menil collection, Houston 2002. [^42]: Vedi, tra gli altri, John Hejduk, *Vladivostok*, Rizzoli International, New York 1989; Id., *Soundings*, Rizzoli International, New York 1993. [^43]: Tafuri, *"Les bijoux indiscrets"* cit., p. 18. [^44]: Peter Eisenman, *House III*, in Aureli, Biraghi e Purini, *Peter Eisenman. Tutte le opere* cit., p. 68. [^45]: Tafuri, *"Les bijoux indiscrets"* cit., p. 16. [^46]: Peter Eisenman, *Architettura di cartone. House I and House II* (1972), in Id., *Inside out. Scritti 1963-1988* cit., pp. 57-74. [^47]: Peter Eisenman, *La fine del Classico. La fine dell'Inizio, la fine della Fine* (1984), in Id., *Inside out. Scritti 1963-1988* cit., p. 264. [^48]: *Ibid.*, p. 263. [^49]: John N. Habraken, *Strutture per una residenza alternativa*, Il Saggiatore, Milano 1974. [^50]: John N. Habraken, *L'ambiente costruito e i limiti della pratica professionale*, in "Spazio e Società", n. 1, 1978, p. 80. [^51]: *Ibid.*, p. 81. Sulla percezione e sul ruolo reale dell'architetto odierno vedi anche il più recente John N. Habraken, *Palladio's Children*, a cura di Jonathan Teicher, Taylor & Francis, Oxon 2005. [^52]: Vedi Giancarlo De Carlo, *Il Villaggio Matteotti a Terni*, in Id., *L'architettura della partecipazione*, a cura di Sara Marini, Quodlibet, Macerata 2013, pp. 97-112. [^53]: *Ibid.*, p. 103. [^54]: De Carlo, *Il Villaggio Matteotti a Terni* cit., p. 104. [^55]: Giancarlo De Carlo, *L'architettura della partecipazione* (1973), in Id., *L'architettura della partecipazione* cit., p. 70. [^56]: *Ibid.*, p. 71. [^57]: *Ibid.*, p. 61. [^58]: Francesco Samassa, *"Un edificio non è un edificio non è un edificio". L'anarchitettura di Giancarlo De Carlo*, in Id. (a cura di), *Giancarlo De Carlo. Percorsi*, Il Poligrafo, Padova, pp. 125-61. [^59]: *Ibid.*, p. 60. [^60]: *Ibid.*, p. 78. [^61]: Friedrich Engels, *La situazione della classe operaia in Inghilterra* (1845), in Karl Marx e Friedrich Engels, *Opere complete*, Editori Riuniti, Roma 1972, vol. IV, pp. 235-514; Friedrich Engels, *La questione delle abitazioni* (1872), Editori Riuniti, Roma 1971. [^62]: Alejandro Aravena e Andrés Iacobelli, *Elemental. Manual de vivienda incremental y diseño participativo / Incremental Housing and Participatory Design Manual*, Hatje Cantz Verlag, Ostfildern 2012, p. 18; più in generale vedi anche Id., *Elemental Chile. A Handbook on Progressive Housing*, Actarbirkhauser, Barcelona 2010. [^63]: Aravena e Iacobelli, *Elemental. Manual* cit., p. 107. [^64]: Aravena e Iacobelli, *Elemental. Manual* cit., pp. 92-94. [^65]: *Ibid.*, p. 503. [^66]: Tra essi, il Premio Bicentenario del governo del Cile nel 2004; il Gran Premio Biennale alla XV Biennale di Architettura di Santiago del Cile nel 2006; il Leone d'argento alla Biennale internazionale di Architettura di Venezia nel 2008; il Brit Insurance Design Award a Londra nel 2010; il primo premio INDEX a Copenhagen nel 2010; la medaglia d'argento al premio HOLCIM a Basilea nel 2011; il primo premio ZUMTOBEL a Vienna nel 2014. [^67]: Nello stesso 2016 ad Aravena viene affidata la direzione della Biennale internazionale di Architettura di Venezia. La mostra da lui curata, "Reporting From the Front", intendeva scrutare l'orizzonte dell'architettura attuale "alla ricerca di nuovi campi di azione, offrendo esempi in cui più dimensioni vengono sintetizzate, integrando il pragmatico con l'esistenziale, la pertinenza con l'audacia, la creatività con il buonsenso": dall'*Intervento* di Alejandro Aravena, in *Reporting From the Front*, 2 voll., catalogo della XV Mostra internazionale di Architettura -- Biennale di Venezia, Studio Elemental, Santiago del Cile, Marsilio Editori, Venezia 2016. [^68]: Motivazioni del premio in *Alejandro Aravena of Chile receives the 2016 Pritzker Architecture Prize*, in . La giuria era composta da Lord Peter Palumbo, Stephen Breyer, Yung Ho Chang, Kristin Feireiss, Glenn Murcutt, Richard Rogers, Benedetta Tagliabue, Ratan N. Tata e Martha Thorne. # Libertà e architettura > ... leggere l'ideologia architettonica come elemento -- secondario, > forse, ma pur sempre tale -- di un ciclo di produzione ha come > conseguenza il ribaltamento della piramide di valori comunemente > accettata. Diventerà del tutto ridicolo, infatti, una volta adottato > tale metro di giudizio, chiedersi quanto una scelta linguistica o > un'organizzazione strutturale esprima o tenti di anticipare modi "più" > liberi di esistenza[^1]. Yvonne Farrell e Shelley McNamara, curatrici della XVI Mostra Internazionale di Architettura alla Biennale di Venezia 2018, hanno scelto come titolo della manifestazione la parola *FREESPACE*. Lungo le Corderie dell'Arsenale, nel padiglione centrale e nei numerosi padiglioni nazionali sparsi per i Giardini, gli architetti invitati hanno variamente interpretato lo "spazio libero" in questione: chi -- come Caruso St John, in collaborazione con l'artista Marcus Taylor -- lasciando interamente vuoto il Padiglione Britannico, e montando al di sopra di esso una terrazza di legno sostenuta da un ponteggio metallico, accedendo alla quale si poteva osservare la laguna dall'alto, accomodarsi sulle sedie che vi erano disposte, prendere il sole o sorseggiare il tè puntualmente servito alle 16; chi invece -- come l'architetto portoghese Álvaro Siza -- disponendo all'interno dell'Arsenale una panchina di marmo di forma semicircolare, fronteggiata da un muro bianco altrettanto curvo, per offrire uno spazio di raccoglimento e riposo agli stanchi visitatori; o chi ancora -- come lo svizzero Valerio Olgiati -- collocando al termine della lunghissima navata delle medesime Corderie una piccola selva di colonne, candide e prive di ornamenti o di ordine. Non è chiaro, in quest'ultimo caso, a quale libertà si volesse fare allusione. Lo si potrebbe ritenere uno spazio evocativo, simbolico, anche se di che cosa precisamente non è dato saperlo; o forse -- meglio ancora -- a ciascuno è lasciata la libertà di attribuirvi il significato che gli pare. Ma è soprattutto all'interno del progetto curatoriale di Farrell e McNamara (architette irlandesi che a partire dal 1978 hanno dato vita allo studio Grafton Architects), che lo "spazio libero" occupa un posto centrale; un posto che le due curatrici hanno significativamente pensato di segnare scrivendo un vero e proprio "manifesto". In esso si legge tra l'altro: > FREESPACE rappresenta la generosità di spirito e il senso di umanità > che l'architettura pone al centro della propria agenda, concentrando > l'attenzione sulla qualità stessa dello spazio. > > FREESPACE si concentra sulla capacità dell'architettura di offrire in > dono nuovi spazi liberi a coloro che la utilizzano, nonché sulla sua > capacità di soddisfare i desideri inespressi. > > FREESPACE celebra la capacità dell'architettura di trovare in ogni > progetto una nuova e inattesa generosità, anche nelle condizioni più > private, difensive, esclusive o commercialmente limitate. > > FREESPACE invita a riesaminare il nostro modo di pensare, stimolando > nuovi modi di vedere il mondo, di inventare soluzioni in cui > l'architettura provvede al benessere e alla dignità di ogni abitante > di questo fragile pianeta. > > ...[^2]. Da questo "manifesto" promana un'idea ottimistica e umanistica dell'architettura, un'idea che pecca indubbiamente di vaghezza e astrattezza ma che altrettanto sicuramente prende le distanze dal modo in cui l'architettura è generalmente intesa nell'epoca attuale: un'architettura non soltanto finalizzata nella gran parte dei casi a scopi commerciali ma anche del tutto immersa in una prospettiva esclusivamente economica. Il "manifesto" di Farrell e McNamara, da questo punto di vista, risuona più come un appello che come una dichiarazione di poetica o la presa d'atto d'una condizione corrente. E per quanto possa risultare ingenuo e sotto molti aspetti inattuale, tale appello si presenta come la "novità" più interessante della Biennale 2018. Pur con tutti i suoi limiti, l'appello lanciato dalle Grafton Architects ha il merito -- se non di offrire soluzioni per esso -- almeno di indicare il problema: quella libertà (dello spazio: ma il discorso si lascia applicare anche a un contesto più generale) che a una prima apparenza si direbbe a disposizione di tutti nelle società occidentali, in realtà è proprio ciò che maggiormente si rivela sfuggente; non forse assente del tutto, ma quantomeno *ambiguamente* presente. Sarebbe però semplicistico illudersi di poterla afferrare esclusivamente evocandola. Anzi, è proprio nelle sue troppo ripetute ostensioni che la libertà dimostra attualmente di appartenere assai più al mondo delle apparenze che non a quello della sostanza. Senza peccare di eccessivo allarmismo, si può paradossalmente affermare che oggi l'esercizio della "libertà" passa attraverso una miriade di condizionamenti. E lo stesso vale anche per l'architettura. D'altronde, sono proprio i condizionamenti (visibili e invisibili) a rendere avvertito e reattivo chi cerca di svolgere il proprio lavoro *dentro* e *contro* le circostanze assegnate. Ed è soltanto nella piena coscienza dei *limiti* del proprio operare che diviene possibile ritrovare forme effettive di libertà. È a partire da qui che dev'essere reimpostato qualsiasi discorso sull'architetto intellettuale. Ben lungi dall'identificarsi con una vaga propensione culturale, o con un'inclinazione per sterili speculazioni filosofiche o elucubrazioni mentali, il suo segno distintivo sta nella capacità di appropriarsi di quei margini di libertà che ogni società non per forza "offre" spontaneamente ma che tuttavia, almeno a volte, consente. In un mondo dominato da una relativistica pluralità di valori (abissalmente distante da ciò che Max Weber definiva un "Polytheismus der Werte")[^3], quello della libertà è uno dei pochi -- l'unico, forse -- sul possesso del quale siamo assolutamente sicuri di non volere o potere recedere. In altre parole, tra molti valori su cui si è disposti a trattare -- e tra altrettanti ormai "fuori uso", avendo perduto la loro importanza --, il valore della libertà resiste pressoché ovunque nel mondo come una pietra di fondamento non alienabile. E ciò, tanto per chi già ne usufruisce quanto per chi la deve ancora conquistare. Ma la libertà ha un'altra caratteristica peculiare: è uno dei pochi valori di cui si può ritenere di disporre anche quando in realtà non se ne gode. È esattamente questa la condizione in cui si trova al giorno d'oggi una buona parte delle società occidentali: una condizione che, proprio per la varietà delle scelte che in apparenza vi si possono compiere, e per la molteplicità e relatività dei valori che vi sono presenti, conferisce a chi vi è introdotto una perfetta "sensazione di libertà". Michel Foucault negli anni sessanta parlava di "società disciplinari"[^4], cioè di quelle società in cui ogni individuo è incasellato dentro a un preciso spazio fisico. Le ricerche di Foucault si riferivano a quella che egli stesso chiama l'"epoca classica"[^5], vale a dire l'epoca moderna, storicamente intesa, e avevano come fondamento un'idea molto esatta, e cioè che il potere si spazializza: il potere non è mai assoluto, non è mai astratto, è sempre esercitato qui e ora, all'interno di spazi fisici precisi. Gli spazi sono quelli che Foucault analizza nei suoi libri, vale a dire il manicomio, l'ospedale, la prigione, ma anche la caserma, la scuola, la fabbrica. Questi spazi, pur diversi tra loro, hanno però tutti un elemento in comune: in tutti è inscritto un "esercizio del controllo" che nel *Panopticon* (1787) di Jeremy Bentham era espresso fisicamente, quasi geometricamente[^6], ma che negli altri spazi ugualmente sussiste. Si tratta in tutti i casi di spazi del controllo, organizzati precisamente a questo fine. E tuttavia, nell'epoca moderna, mentre lo spazio viene organizzato in termini di controllo, concresce anche l'idea di libertà[^7]. I due fenomeni sono tutt'uno, come le due facce di una stessa medaglia. Non per nulla lo stesso Bentham è uno dei padri del liberalismo, ovvero di quella dottrina che al proprio centro pone i diritti individuali, all'interno dei quali campeggia la libertà. Certo, quella delle società disciplinari è una libertà in larga parte "vigilata"; e ciò nondimeno, nell'accezione moderna del termine, vale a dire illuminista, in quanto valore individuale assunto a fondamento sociale, la libertà nasce lí: nel momento in cui ciascun individuo è inquadrato dentro lo spazio fisico delle diverse "macchine" del controllo[^8]. Oggi, invece, la società disciplinare sembra essere stata soppiantata da una società "trasparente". La "società della trasparenza", come la chiama Han[^9], è la società digitale neoliberalista, dove la libertà si è trasformata in un'occasione di sfruttamento: > Il neoliberalismo è un sistema molto efficace nello sfruttare la > libertà, intelligente perfino: viene sfruttato tutto ciò che rientra > nelle pratiche e nelle forme espressive della libertà, come > l'emozione, il gioco e la comunicazione. Sfruttare qualcuno contro la > sua volontà non è efficace: nel caso dello sfruttamento da parte di > altri il rendimento è assai basso. Soltanto lo sfruttamento della > libertà raggiunge il massimo rendimento[^10]. più ancora che il lavoro, lo scontro tra classi o l'organizzazione spaziale delle città, la vera frontiera critica odierna è divenuta la libertà dell'individuo, sottoposto alla costante "attenzione" della rete e di tutti gli altri invisibili sistemi di sorveglianza che ne rilevano gli spostamenti, ne registrano gli acquisti, ne monitorano i desideri[^11]; il tutto, con l'esplicito consenso -- o quantomeno, con la muta "complicità" -- dell'individuo stesso. E ancora di più, senza la minima parvenza di alcuna privazione della libertà individuale, e anzi con quel senso di onnipotenza e di indipendenza che la società digitale riesce a trasmettere, come ogni utente di Google, di Wikipedia o di un qualsiasi social network ben sa: le cui possibilità, in termini di relazioni e di informazioni, inducono spesso a credere di possedere un'infinità di conoscenze, un'istantanea rapidità d'azione e un'incondizionata fluidità di movimenti. Una somma di elementi che si traducono appunto in una totale *illusione di libertà*. Tanto più credibile e ingannevole è questa illusione, quanto meno risulta coercitiva, ovvero quanto meno è -- almeno in apparenza -- coartata e vincolante. E proprio qui sta l'astuzia suprema di una società "trasparente": all'interno di essa l'individuo non viene ordinatamente disposto e inquadrato come nelle società disciplinari, bensì -- proprio al contrario -- egli stesso vi aderisce spontaneamente e quasi con entusiasmo. Ciascuno collabora alla sua costruzione, al suo rafforzamento, al suo perpetuamento. La sensazione che ne deriva è di essere "soggetti" perfettamente svincolati, perfettamente liberi; ma è proprio in quanto tale, ovvero in quanto *subiectum* (letteralmente, sottomesso, assoggettato)[^12] che l'individuo dimostra di essere assai meno padrone del proprio destino di quanto comunemente non ritenga. In tal modo si disvela tutta l'intrinseca *potenza* di una società della trasparenza: in essa, infatti, non soltanto la libertà diviene il nuovo, fertile terreno di uno sfruttamento, ma -- come sostiene Han -- tale sfruttamento è opera del "soggetto" stesso, il quale cosí realizza un *autosfruttamento* vero e proprio, divenendo schiavo di se stesso: > L'io come progetto, che crede di essersi liberato da obblighi esterni > e costrizioni imposte da altri, si sottomette ora a obblighi interiori > e a costrizioni autoimposte, forzandosi alla prestazione e > all'ottimizzazione[^13]. E ancora: > I detenuti del panottico benthamiano venivano isolati l'uno dall'altro > allo scopo di imporre una disciplina e non potevano parlare tra loro. > Gli abitanti del panottico digitale, al contrario, comunicano > intensamente l'uno con l'altro e si denudano volontariamente. > *Con*tribuiscono cosí, in modo attivo, alla costruzione del panottico > digitale. La società del controllo digitale fa un uso massiccio della > libertà: essa è possibile soltanto grazie all'autoesposizione, > all'autodenudamento volontari[^14]. E in effetti, nei contesti digitali, *noi, utenti*, consegniamo quotidianamente, senza alcuna coercizione, i nostri dati, le nostre vite, la nostra intimità, i nostri affetti, tutto quello che siamo (pensieri, gusti, esperienze, ricordi) ai grandi motori di ricerca, ai grandi social network. Liberi di essere-in-rete (ovvero, letteralmente, *irretiti*), e dunque in condizione di spontanea schiavitú. Si tratta di quello che Byung-Chul Han definisce un "capitalismo del like", che "si distingue nella sostanza dal capitalismo del XIX secolo, che operava mediante obblighi e divieti disciplinari"[^15]. *Mi piace*, *ci piace*: è questa la frontiera di una libertà percepita come "naturale" da un lato, e sfruttata dall'altro, e per questo doppiamente insidiosa. Come si rapporta a tutto ciò l'architettura? Quali trasformazioni subisce -- o piuttosto, mette in atto -- nell'epoca della libertà autoimposta? In una prospettiva moderna, l'architettura che si fregiava orgogliosamente di questo aggettivo faceva della libertà il proprio vessillo: libertà assunta come un affrancamento dell'uomo dai vincoli a cui aveva dovuto sottostare fino ad allora, e che si traduceva tutta in termini spaziali. *Plan libre*, *façade libre*, risuonano cosí -- non a caso -- due dei "comandamenti" lecorbusieriani per "un'architettura assolutamente nuova, dalla casa d'abitazione fino al palazzo"[^16]. Ma se per l'ideologia dell'architettura moderna la libertà è una conquista, per la postmodernità libertà e architettura sembrano ormai coincidenti. A dire il vero, più che di libertà, si dovrebbe parlare di "liberazione"[^17]. A questa si possono riferire alcune delle pratiche o tendenze postmoderniste, quali "un certo carattere ludico della forma, la produzione aleatoria di nuove forme o l'allegra cannibalizzazione di quelle vecchie"[^18]. Sono tutte modalità relative a -- e sotto diversi aspetti "reattive" nei confronti di -- quanto le ha precedute, espressamente finalizzate, non per nulla, a una sovversione totale dei "vari rituali" e dei "valori formali" modernisti. Al giorno d'oggi l'opera di liberazione postmodernista dagli "spettri" modernisti può dirsi pienamente compiuta nella misura in cui, abbandonata l'esclusiva tattica del rovesciamento, l'architettura odierna utilizza *qualunque mezzo* a sua disposizione per ottenere "ciò che vuole", ivi *comprese* le forme e i linguaggi moderni. Ripuliti dei loro retaggi ideologici, spogliati ormai di qualsiasi "messaggio", tali forme e linguaggi possono cosí tornare a essere usati (insieme, potenzialmente, a tutti gli altri). Ciò nondimeno, non si tratta affatto di un uso neutrale, meramente "tecnico". Il ritorno a forme e linguaggi moderni -- se possibile, sottoposti a depurazioni ulteriori -- ha il ben preciso obiettivo di fare dell'architettura attuale un emblema della libertà in una misura in cui forse neppure alle origini, nell'epoca moderna, era immaginabile farlo. Campioni assoluti di questa aspirazione a incarnare la "filosofia" (ma al tempo stesso anche l'economia, il *lifestyle*) della società della "trasparenza" contemporanea sono proprio gli edifici che rappresentano le grandi aziende produttrici, promotrici e diffonditrici dei prodotti digitali. Loro modello è con piena evidenza la leggerezza, la flessibilità, l'ingegnosità propria dei dispositivi elettronici contemporanei. Cosí gli Apple Store sparsi per il mondo, ad esempio (si pensi soltanto a quello sulla Fifth Avenue a Manhattan, di Bohlin Cywinski Jackson, 2006, e a quello più recente in piazza Liberty a Milano, di Norman Foster + Partners, 2018) si fanno portatori di un'estetica che è la precisa traduzione dell'immaterialità e della virtualità dell'universo informatico e del web: pareti vetrate, interamente trasparenti; superfici lisce e candide; una luce uniforme, diffusa. Immagini di uno spazio tridimensionale, per quanto possibile privo di "corpo", che infonde in chi lo attraversa e vi sosta la sensazione di una completa assenza di gravità: spazio al di sopra di ogni pensiero, di ogni "affanno", dove l'essere-liberi coincide semplicemente con l'essere. Uno spazio dunque dove tutto è possibile, in cui nulla pesa, neppure l'acquisto di uno smartphone o di un laptop. Nella storia -- si usa dire -- i fatti si presentano sempre due volte: "la prima volta come tragedia, la seconda volta come farsa"[^19]. Verso la metà degli anni sessanta, a fronte del progressivo esaurirsi della "funzione storica" dell'architettura moderna, gli architetti si sono trovati a un bivio: abbandonarla a favore di un suo superamento, oppure conservarla radicalizzandone (ovvero depurandone e stilizzandone al massimo) gli aspetti formali. Da questa seconda possibilità nasce il "minimalismo", l'*ultimo* degli stili, non in senso cronologico ma logico; lo stile che -- shakerando estetica giapponese e Mies van der Rohe, più un'abbondante aggiunta di ghiaccio -- ottiene il brillante risultato di far passare per sobri ambienti nella gran parte dei casi lussuosi[^20]. Quarant'anni più tardi, il minimalismo ritorna come "risposta" alla crisi economica mondiale, ma anche come stile di un capitalismo che preferisce pur sempre ottenere "migliori risultati con meno mezzi"[^21]. Non è dunque un caso che, nei luoghi di massima "intensificazione" della società "trasparente", tali caratteri si presentino al massimo livello di concentrazione. Né deve stupire che questi stessi caratteri, gradatamente, fuoriescano dall'invisibile "recinto" dei *flagship stores*, arrivando a conformare anche altri spazi commerciali. Il Westfield World Trade Center Mall (noto anche come Oculus), progettato da Santiago Calatrava e inaugurato a Manhattan nel 2016, ne costituisce un esempio emblematico. Costruito accanto al luogo in cui sorgevano le Twin Towers, con le sue candide ali distese pronte per spiccare il volo, l'edificio dall'esterno sembrerebbe voler rinverdire la tradizione dei *landmarks*. Ma la sua vera natura si rivela non appena varcato l'ingresso, accedendo alla grande piazza ellissoidale che ospita lo shopping center. Qui, sotto la muscolare copertura, caratteristica anche di altri edifici dell'architetto e ingegnere spagnolo, lo spazio sembra perdere i propri contorni, smaterializzarsi, svanire. Nell'epoca delle "piazze virtuali", la piazza reale dell'Oculus pare faccia un passo indietro rispetto alla realtà, per "virtualizzarsi" a sua volta. Condizione apparentemente imprescindibile, questa, per infondere quel "senso di libertà" che avvince i consumatori con il potere del *like*. In altre occasioni l'architettura della società della trasparenza assume toni esplicitamente ludici. È il caso del Googleplex a Mountain View (Silicon Valley -- California), quartier generale di Google, terminato nel 2004 ma negli anni seguenti continuamente rinnovato, soprattutto per quanto riguarda gli spazi interni. Dall'esterno gli edifici del Googleplex presentano un aspetto riconducibile -- con poche e in fondo marginali correzioni -- a quell'"efficientismo internazionale" che è lo stile dominante delle sedi delle grandi compagnie in tutto il mondo. Ma è dentro gli edifici che accadono le cose più interessanti. Il brillante e spiritoso "stile della casa", impresso come un saluto di benvenuto nel logo multicolore dell'azienda, e riassumibile nella parola d'ordine "smart", produce ambienti che sono interamente penetrati dalla "filosofia" Google: gli uffici (o quelli che dovrebbero essere tali) e gli altri spazi di lavoro sono concepiti con l'esplicito intento di comunicare l'idea che "qui non si lavora": ci si diverte. *Smart working*. E in effetti, all'interno di questi spazi si può giocare davvero. Il carattere ludico si incorpora in essi come una componente essenziale. *Google Play*. E non certo come induzione all'ozio, bensì per ottenere una maggiore produttività, una maggiore efficienza, una maggiore creatività[^22]. Lavoro e divertimento finiscono per diventare una cosa sola, un'unica e indissolubile condizione. L'*homo ludens* situazionista viene cosí recuperato al sistema, "messo al lavoro" senza quasi che se ne accorga. Non è un caso che nel vocabolario dell'architettura attuale siano prepotentemente entrati -- ormai anche a grande distanza dalla Silicon Valley, e con specifico riferimento agli spazi del lavoro e del commercio -- termini come "intelligente", "flessibile", "ibrido"; e che gli ultimi miti dell'agenda contemporanea siano "stare insieme", "condividere", "interagire". In modo lampante, Google *docet*. Gli spazi fisici in cui si svolgono queste azioni al giorno d'oggi vengono diffusamente pensati ed offerti come luoghi capaci di infondere in chi li utilizza felicità e benessere, prima e più ancora che idee di sobrietà ed efficienza. Per suscitare queste sensazioni gli spazi lavorativi sempre più di frequente si travestono da luoghi d'abitazione (fenomeno esattamente speculare a quello dell'*home working*). Familiarità, informalità, *libertà* della casa diventano i nuovi *idola* del "lavoro intelligente". Forse non abbastanza però da non far sorgere il dubbio che sia proprio *questo* il luogo di attuazione della minacciosa promessa di Auschwitz: "Arbeit Macht Frei". Intanto, a poche miglia dal Googleplex, a Cupertino, sorge l'Apple Park, realizzato da Norman Foster + Partners e aperto nel 2017. Si tratta di un edificio a forma di anello interamente vetrato, di oltre 450 m di diametro e di 1,6 km di circonferenza, cui si va ad affiancare lo Steve Jobs Theater, di dimensioni molto più ridotte ma anch'esso circolare e completamente vetrato nella parte emergente. Nell'epoca del panottico digitale -- senza forma, immateriale, ubiquo -- ritorna imprevedibilmente in scena il panottico benthamiano: lo spazio di un controllo fisico, che nel caso dell'Apple Park però è da intendersi in senso soltanto metaforico. Anzi, a ben guardare, in un senso esattamente rovesciato rispetto a quello originario: la forma del controllo disciplinare come "dimostrazione" della libertà digitale. A immagini come queste, di una sin troppo *ambigua* libertà, il panorama architettonico contemporaneo -- sovraffollato di molteplici offerte e all'apparenza assai variegato -- sembra poter agevolmente fornire la *chance* di contrapporne altre più autentiche, e al tempo stesso più "esterne al sistema". Gli esempi potrebbero essere tanti, quanto soggettive le scelte. Meglio rivolgersi allora a chi ha affrontato il tema in maniera cosciente. In una serie di conferenze organizzate da Owen Hopkins alla Royal Academy of Arts di Londra nel 2015 su *Architecture and Freedom* ("L'architettura è in balia degli interessi privati e dei bisogni del capitale come mai prima d'ora")[^23], Reinier de Graaf (OMA), J.MAYER.H, Farshid Moussavi (FMA, già FOA) e Patrik Schumacher (Zaha Hadid Architects) hanno presentato i loro punti di vista sul tema. Quattro architetti diversi, per provenienze ed esperienze, che hanno però tutti in comune un'attività all'interno di grandi studi internazionali operanti su scala globale, ma anche un'attenzione per la speculazione teorica, secondo un intreccio di piani che appartiene di diritto all'eredità degli architetti intellettuali. Pur non essendoci la possibilità di analizzare nei dettagli le argomentazioni dibattute da ciascun relatore, è interessante notare come gli architetti in questione -- con la sola eccezione di Reinier de Graaf, impegnato a dimostrare come il mondo in cui si trova a operare OMA dopo il 1991, in seguito alla dissoluzione dell'Unione Sovietica, non sia affatto unito nell'abbraccio delle democrazie liberali occidentali, come sentenziato da Fukuyama[^24]; e come ciò, dal punto di vista di uno studio di architettura, non rappresenti un dramma --, più che compiere una critica della condizione attuale, prendano casomai lo spunto da questa per inserire la propria architettura nei processi in atto, cercando di leggerli nella maniera il più possibile coerente con essa. Cosí per Schumacher soltanto il parametricismo può farsi interprete delle dinamiche urbane di un libero mercato "sfrenato" in una società post-fordista, riuscendo ad accordare -- in maniera analoga al complesso e variegato ordine degli ambienti naturali -- le molteplici forze che vi con-fluiscono[^25]. Per Jürgen Hermann Mayer la libertà sembra più che altro consistere in un carico di potenzialità -- tecnologiche e comunicative -- per le attività umane che la sua architettura cerca di tradurre facendosi generatrice e luogo d'incontro di interazioni sociali, come nella copertura -- terrazza -- spazio urbano *Metropol Parasol* in Plaza de la Encarnación a Siviglia (2004-11)[^26]. Farshid Moussavi infine, pur con abbondanza di citazioni e definizioni filosofiche del concetto di libertà, riconduce la questione a una sorta di *aut aut* tra "stile" come affermazione di identità (dell'architetto) e stile come performance dell'edificio e dei suoi singoli elementi, analizzati minuziosamente e progettati sforzandosi di avvicinarli al massimo grado a un loro uso "partecipato" [^27]. In conclusione, chi nelle parole degli architetti citati cercasse una bussola per orientarsi nella ricerca di una "rappresentanza" in un mondo in profondo mutamento rischierebbe di rimanere deluso. Per molti di loro, a quanto sembra, quello della libertà non costituisce affatto un problema, al contrario di quanto è accaduto in altri momenti ad altri architetti[^28]. Tra gli ultimi tentativi in ordine di tempo di affrontare il tema del rapporto tra libertà e architettura va citata la mostra dedicata dalla Fondation Cartier pour l'art contemporain di Parigi, tra marzo e giugno 2018, all'opera del giovane architetto giapponese Junya Ishigami. Ospitata nei diafani spazi pensati da Jean Nouvel (a loro volta un'ipotesi di libertà costruita)[^29], la mostra *Freeing Architecture* presentava 17 progetti elaborati da Ishigami tra il 2004 e il 2018. Che cosa egli intenda con "liberazione dell'architettura" si lascia intuire osservando i grandi modelli e gli altri materiali in esposizione: espressione di un'architettura a volte essenziale, strutturalmente ardita ma figurativamente esile, al limite dell'anoressia, altre volte ottenuta scavando, per sottrazione di materia, altre ancora mediante il processo esattamente opposto, di accumulazione di quelle che potrebbero apparire masse glaciali che danno luogo a corpi globosi e cavernosi. Un'architettura al tempo stesso "minimale" e desiderosa di sorprendere, ma anche perennemente tesa nella ricerca di un'integrazione con la natura. Ciò di cui sembra volersi liberare l'architettura di Ishigami sono dunque i legami con quei retaggi disciplinari che provino a irreggimentare l'edificio da un punto di vista tipologico, funzionale, spaziale, strutturale. La riscrittura da lui proposta in tal senso vale come tentativo di sottrazione dell'architettura dai *nomoi* che di consueto la regolano, per (ri)condurla a una sorta di "età dell'innocenza", dove essa possa continuare a sussistere in una dimensione "sospesa". E ancora di più, questo "disegno" risulta palese esaminando il catalogo, un libro di grande formato, illustrato con immagini a metà strada tra l'infantile e il pittorico, inframezzate da brevi testi dal tono quasi poetico[^30]. L'ingenuità di tali intendimenti è però almeno in parte contraddetta dall'efficacia dei risultati ottenuti dalle opere realizzate da Junya Ishigami. È il caso del KAIT Workshop, un edificio concepito come spazio per gli studenti del Kanagawa Institute of Technology, in Giappone (2004-2008). In questo spazio essi possono progettare, scrivere ma anche chiacchierare e oziare. Le immagini cui Ishigami fa ricorso per spiegarlo sono quelle delle costellazioni e degli alberi di una foresta: > Per migliaia di anni noi umani abbiamo osservato il cielo notturno, > evocando immagini e storie dalla disposizione casuale delle stelle. > > La natura ha leggi severe. Sebbene queste possano essere al di là > della nostra comprensione, le aggiriamo abitualmente, decifrandole > soggettivamente, a nostro piacimento. > > Può l'architettura essere liberata nello stesso modo? > > Data la libertà, nonostante sia rigorosa nella sua destinazione d'uso, > e progettando di conseguenza, trascendere tutto ciò e vedere lo spazio > in modo soggettivo, consentendone usi diversi. Una libertà aperta a > molteplici interpretazioni. > > Un laboratorio per studenti. > > Questo edificio non ha pareti. Tutte le strutture sono rette > esclusivamente da pilastri. Tutti i pilastri hanno proporzioni > diverse, sono orientati in modi diversi, posizionati a intervalli > diversi. > > Ogni pilastro è progettato individualmente, meticolosamente. Allo > stesso tempo, un piano meticoloso è reso trasparente. > > Pianificare mentre l'intento del piano non è più visibile, diventa > l'intento di questo piano. > > Una disposizione casuale. Un pianterreno di alberi in una foresta. La > disposizione delle stelle assomiglia a quella degli alberi in una > foresta. Il fatto che percepiamo una casualità condivisa in queste > due cose che sembrano non correlate può essere dovuto alla casualità > che appartiene all'essenza della natura[^31]. Nonostante gli accenti con cui è presentato, il KAIT sotto molti aspetti potrebbe essere assimilato ai *flagship stores* visti più sopra: identico il candore della pavimentazione e delle 305 colonne di dimensioni variabili, disposte irregolarmente a sostegno della copertura piana -- anch'essa bianca -- solcata da lucernari; identiche le pareti perimetrali interamente vetrate; identica l'assenza di peso che promana dall'insieme. E identiche -- si può pure presumere -- le dotazioni tecnologiche a disposizione degli studenti che rendono lo spazio perfettamente connesso con il mondo. E tuttavia, predisponendo un layout massimamente flessibile, in grado di includere le esigenze mutevoli degli studenti, suggerendo usi senza imporli, Ishigami sembrerebbe alludere a un altro genere di libertà: più che una "messa a disposizione" di possibilità senza limiti, una capacità di *accogliere* possibilità illimitate. Un'*apertura* dello spazio a interazioni spontanee che potrebbe essere intesa come una condizione di *non* sfruttamento di esso. Scrive ancora Ishigami: > La nostra vita quotidiana si svolge tra la manifestazione di risultati > attentamente calcolati, e la libera interpretazione. > > Pensare alla progettazione di un'architettura che, anziché postulare > ordine e disordine come valori opposti, li tratta allo stesso modo. > > Scoprire spazi liberamente, assegnando loro ogni volta una funzione. > > Ogni volta che un pezzo di architettura è completato, si rivela > attraente in tutti i modi possibili, al di là delle stesse intenzioni > dell'architetto[^32]. Che l'architettura di Ishigami sia profondamente immersa nel mondo contemporaneo, che precisamente a esso si rivolga ("Un'architettura per l'era del libero accesso all'informazione. Un'architettura per l'era della libera connessione. Un'architettura per l'era della libertà dei valori")[^33], risulta evidente. E però è altrettanto evidente come essa non si "accontenti" di ciò che la realtà in quanto tale propone. In questo senso, la flessibilità degli spazi del KAIT -- almeno nelle intenzioni del loro autore -- vorrebbe dimostrare di essere l'esatto opposto della "flessibilità" come "libera imposizione" che le società odierne assegnano ai loro "soggetti": là dove infatti a questi ultimi viene richiesta una capacità di adattamento, nel suo caso è lo spazio che sembra adattarsi alle svariate esigenze di chi lo utilizza. Si potrebbe denominare questa architettura -- riprendendo una discussa espressione di Colin Rowe -- "delle buone intenzioni"[^34]. Intenzioni "preterintenzionali", verrebbe da aggiungere, sulla base delle parole appena citate dello stesso Ishigami; il quale tuttavia, subito dopo, richiama la necessità "di essere maggiormente coscienti (...) fin dalla fase della progettazione"[^35] dei possibili gradi di libertà che l'architettura *autonomamente* può assumere. Ma la conclusione potrebbe essere anche diversa: che per Ishigami -- al pari degli altri architetti di cui si è discusso in precedenza -- la suadente libertà "obbligatoria" della società della trasparenza sia soltanto un'allettante occasione per scatenare le proprie "fantasie creative", e dunque per cogliere nuove, fruttuose opportunità di lavoro; mentre per tutto ciò una libertà "vera", una libertà incondizionata -- come sembra suggerire Reinier de Graaf -- sarebbe più che altro di ostacolo. [^1]: Tafuri, *La sfera e il labirinto* cit., p. 315. [^2]: Yvonne Farrell e Shelley McNamara, *Freespace-Manifesto*, in *Freespace*, catalogo della XVI Mostra Internazionale di Architettura - Biennale di Venezia, Venezia 2018, p. 51. [^3]: Max Weber, *Il senso dell'"avalutatività" delle scienze sociologiche ed economiche* (1917), in Id., *Il metodo delle scienze storico-sociali*, Einaudi, Torino 2012, p. 265. Prosegue Weber: "Tra i valori si tratta ovunque e sempre, in ultima analisi, non già di semplici alternative, ma di una lotta mortale senza possibilità di conciliazione, come tra "dio" e il "demonio". Tra di essi non è possibile nessuna relativizzazione e nessun compromesso". [^4]: Oltre ai "classici" testi citati alla nota seguente, vedi Foucault, *La società disciplinare*, a cura di Salvo Vaccaro, Mimesis, Sesto San Giovanni 2010, e Id., *La società punitiva. Corso al Collège de France (1972-1973)*, Feltrinelli, Milano 2016. [^5]: Michel Foucault, *Storia della follia nell'età classica*, Rizzoli, Milano 1963; vedi anche Id., *Nascita della clinica. Una archeologia dello sguardo medico*, Einaudi, Torino 1969; Id., *Sorvegliare e punire. Nascita della prigione*, ivi 1976. [^6]: Jeremy Bentham, *Panopticon ovvero la casa d'ispezione*, a cura di M. Foucault e M. Perrot, Marsilio, Venezia 2002. [^7]: Jean Starobinski, *L'invenzione della libertà 1700-1789*, Abscondita, Milano 2008. [^8]: È quanto rileva lo stesso Foucault, *Disciplina e democrazia. Intervista di J.-L. Ezine* (1975), in Id., *La società disciplinare* cit., p. 87: "La disciplina è l'altra faccia della democrazia". [^9]: Byung-Chul Han, *La società della trasparenza*, Nottetempo, Roma 2014. [^10]: Byung-Chul Han, *Psicopolitica. Il neoliberalismo e le nuove tecniche del potere*, Nottetempo, Roma 2016, p. 11. [^11]: Lo aveva intuito già Foucault, *Disciplina e democrazia. Intervista di J.-L. Ezine* cit., p. 87 (nel 1975!): "Si vedono apparire ora sorveglianze di altro tipo, ottenute senza che quasi la gente se ne renda conto, attraverso la pressione del consumo". [^12]: Questo il significato che Aristotele attribuiva a ὑποκείμενον, tradotto con il latino *subiectum*; per una discussione di questo termine prima e dopo Cartesio, e dunque con l'imporsi del Mondo Moderno, vedi Martin Heidegger, *L'epoca dell'immagine del mondo*, in Id., *Sentieri interrotti*, La Nuova Italia, Firenze 1984, pp. 71-101. [^13]: Han, *Psicopolitica* cit., p. 9. [^14]: *Ibid.*, p. 18. [^15]: *Ibid.*, p. 25. [^16]: Le Corbusier, *Cinque punti per una nuova architettura* (1927), in Mara De Benedetti e Attilio Pracchi, *Antologia dell'architettura moderna. Testi, manifesti, utopie*, Zanichelli, Bologna 1988, p. 381. Continua Le Corbusier a proposito della pianta libera: "Non esistono più pareti portanti, ma soltanto membrane dello spessore desiderato. Conseguenza di ciò l'assoluta libertà nella progettazione della pianta, cioè la libera disposizione delle risorse esistenti". [^17]: Fredric Jameson, *Postmodernismo ovvero la logica culturale del tardo capitalismo*, Fazi Editore, Roma 2007, pp. 315-20. [^18]: *Ibid.*, pp. 319-20. [^19]: Karl Marx, *Il 18 brumaio di Luigi Napoleone* (1852), in Marx e Engels, *Opere complete* cit., vol. XI, p. 107. [^20]: Vittorio Savi e Josep Maria Montaner, *Less is more. Minimalisme en arquitectura i d'altres arts*, Col•legi d'Arquitectes de Catalunya - editorial Actar, Barcelona 1996. [^21]: Aureli, *Less Is Enough* cit., p. 8. [^22]: Han, *Psicopolitica* cit., p. 46. [^23]: Owen Hopkins, *Architecture and Freedom: a changing connection*, in , 2 settembre 2015. Vedi anche "Architectural Design", vol. 88, n. 3, maggio-giugno 2018, fascicolo curato dallo stesso Hopkins e interamente dedicato a *Architecture and Freedom. Searching for Agency in a Changing World*. [^24]: Francis Fukuyama, *La fine della storia e l'ultimo uomo*, Rizzoli, Milano 1992. [^25]: Su ciò vedi Patrik Schumacher (a cura di), *Parametricism 2.0. Rethinking Architecture's Agenda for the 21st Century*, Academy Editions, London 2016. [^26]: Jürgen Mayer H., *Metropol Parasol*, Hatje Cantz Verlag, Ostfildern 2011; vedi inoltre Id., *Could Should Would*, scritti di Georges Teyssot, Ana Miljacki e John Paul Ricco, ivi 2015. [^27]: Farshid Moussavi, *The Function of Style*, Actar, New York 2014, ma anche Id., *The Function of Form*, Actar, Barcelona 2009. [^28]: Vedi ad esempio Giancarlo De Carlo e Franco Bunčuga, *Conversazioni su architettura e libertà* (2000), Elèuthera, Milano 2018. [^29]: Scrive lo stesso Jean Nouvel, *Real/Virtual* ([www.jeannouvel.com/en/projects/fondation-cartier-2/](http://www.jeannouvel.com/en/projects/fondation-cartier-2/)), a proposito di quello che significativamente chiama "il fantasma nel parco": "L'architettura riguarda la leggerezza, con una raffinata struttura di acciaio e vetro. Architettura in cui il gioco consiste nel confondere i confini tangibili dell'edificio e rendere superflua la lettura di un volume solido tra la poetica della sfocatura e dell'effervescenza. Quando la virtualità è attaccata dalla realtà, l'architettura deve avere più che mai il coraggio di assumere l'immagine della contraddizione". La Fondation Cartier pour l'art contemporain è del 1991-94. [^30]: Junya Ishigami, *Freeing Architecture*, catalogo della mostra, Fondation Cartier pour l'art contemporain -- LIXIL Publishing, Paris-Tokyo 2018. [^31]: Ishigami, *Freeing Architecture* cit., pp. 180-89. [^32]: *Ibid.*, pp. 190-94. [^33]: *Ibid.*, p. 309. [^34]: Colin Rowe, *L'architettura delle buone intenzioni. Verso una visione retrospettiva possibile* (1994), Pendragon, Bologna 2005. [^35]: Ishigami, *Freeing Architecture* cit., p. 309. # L'architetto come "produttore" e l'architettura come progetto > Per gli architetti, la scoperta del loro declino come ideologhi > attivi, la constatazione delle enormi possibilità tecnologiche > utilizzabili per razionalizzare le città e i territori, unita alla > quotidiana constatazione del loro spreco, l'invecchiamento dei metodi > specifici di progettazione, prima ancora di poterne verificare nella > realtà le ipotesi, generano un clima ansioso, che lascia intravvedere > all'orizzonte uno sfondo molto concreto e temuto come il peggiore dei > mali: il declino della "professionalità" dell'architetto e > l'inserimento di questi, senza più remore tardoumanistiche, in > programmi in cui il ruolo ideologico dell'architettura sia minimo[^1]. Per comprendere quanto si sia trasformata la condizione dell'architetto dal momento in cui Manfredo Tafuri ha formulato la sua analisi -- ma al tempo stesso quanto di quest'ultima si sia nel frattempo avverato --, è necessario ripartire proprio dal punto in cui tale analisi è stata giudicata eccessivamente "drammatica", e dunque nella sostanza è stata del tutto fraintesa. Si tratta della famosa (e presunta) "profezia" della "morte dell'architettura". Lo stesso Tafuri vi allude, facendo riferimento alle reazioni a *Per una critica dell'ideologia architettonica*, da molti letto come un "omaggio a un atteggiamento apocalittico, come "poetica della rinuncia", come estrema denuncia di una "morte dell'architettura""[^2]. Tale lettura distorta, sorprendentemente diffusa[^3], ha finito per distorcere a sua volta il quadro critico successivo. Non soltanto quindi l'analisi tafuriana, cosí travisata, è stata bollata come "oscura profezia", del tutto priva di "valore scientifico"[^4], ma ha spinto anche molti (architetti non meno che storici e critici) a diffidare a priori di ciò che in essa era contenuto; mancando in questo modo di scorgervi quanto per loro -- e per le generazioni che sarebbero venute dopo di loro -- poteva invece essere utile. Quando Tafuri parla di "estinguersi (...) del ruolo di una disciplina"[^5], di "crisi della funzione ideologica dell'architettura"[^6], intende riferirsi all'esaurirsi di un compito storico, non certo formulare catastrofistici pronostici in merito al futuro di entrambe. In questo senso, se proprio di "morte" si dovesse parlare, ciò non riguarderebbe per nulla l'architettura intesa come fatto materiale (costruito o anche solo progettato): piuttosto l'architettura come sistema di pratiche, come professione che tradizionalmente al proprio centro custodisce l'idea di disegnare (ossia progettare)[^7] e organizzare lo spazio, da quello domestico a quello urbano (e volendo anche oltre), e che in quanto tale comporta sempre, necessariamente, anche aspetti relazionali, sociali, etici e politici[^8]. Se "morte" (o forse meglio, eclissi) vi è, ciò che viene meno è un certo modo di concepire alcune parti (o addirittura l'intero *corpus*) dell'architettura intesa in questo senso. Come l'architettura nella sua dimensione materiale, cosí anche l'architettura come processo è soggetta alle dinamiche storiche; e dunque, cosí come cambiano gli edifici nel corso della storia, cambia anche il modo in cui la disciplina architettonica viene intesa da un punto di vista concettuale. In *Per una critica dell'ideologia architettonica* e *Progetto e utopia*, Tafuri ha cercato di articolare storicamente le cause (e in misura minore, gli effetti) di questi cambiamenti. Dall'Illuminismo alle avanguardie del Novecento, dall'utopia come progetto ideologico alla depurazione dell'ideologia da ogni tratto utopistico, il ciclo storico da lui individuato mostra una traiettoria ben precisa per quanto riguarda la concezione dell'architettura da un punto di vista disciplinare: l'assunzione su di sé di compiti di gestione dei grandi mutamenti produttivi e sociali che hanno avuto luogo a partire dalla Rivoluzione industriale, e che si prolungheranno fino ai primi tre decenni del XX secolo, per essere riattivati ancora dopo la guerra. Per la cultura disciplinare, faro di questo vorticoso e spesso contraddittorio sviluppo sono i miti della razionalizzazione e della pianificazione, declinati a vario titolo e in diversi contesti, fino al momento in cui -- come rileva Tafuri -- le verranno sottratti dalle politiche dei "paesi a capitalismo avanzato come gli Usa o a capitale socializzato come l'Urss"[^9]. Cosicché, > ... dopo aver anticipato ideologicamente la ferrea legge del piano, > gli architetti, incapaci di leggere storicamente il percorso compiuto, > si ribellano alle estreme conseguenze dei processi che essi hanno > contribuito a innescare[^10]. La comprensione di tali mutamenti -- oggi come allora -- si rivela un elemento fondamentale. Rimanerne all'oscuro, o addirittura negarli, equivale a rimanere del tutto estranei alla propria epoca, e di conseguenza essere esclusi dalla possibilità di leggerla criticamente. Per utilizzare la già richiamata distinzione proposta da Benjamin, in una misura non trascurabile questo tipo di condizione costituisce il presupposto "migliore" per mettere chi vi si dispone nella posizione del "rifornitore", vale a dire in uno stato di muta e cieca acquiescenza nei confronti della società per cui opera. Ma prima di passare ad analizzare quali siano gli effetti del cambio di statuto dell'architettura attuale rispetto a quello di precedenti epoche storiche, bisogna sgombrare il campo dalla possibile "impressione" che la supposta eclissi di una certa idea di architettura, verificatasi a partire dagli anni sessanta e settanta, possa essere il frutto esclusivo di una "deformazione" tafuriana. A corroborare l'ipotesi relativa alla "crisi della funzione ideologica" dell'architettura, con particolare riferimento a quel periodo, può quindi essere utile la coeva testimonianza di De Carlo: > Guardando con freddezza quel che accade, si può dire che > l'architettura non interessa più nessuno. Non interessa i clienti > tradizionali perché non risolve in modo efficiente e rapido i loro > problemi di investimento e di potere; non interessa le istituzioni > perché produce simboli troppo flebili e sbiaditi in confronto a quelli > che producono altri settori di attività più potenti e aggressivi; non > interessa la gente comune perché non propone nulla che corrisponda > alle sue aspettative. Perciò, dal momento che non interessa più > nessuno, l'architettura è condannata a una rapida estinzione[^11]. La fosca premonizione di Giancarlo De Carlo, formulata quasi mezzo secolo fa, sembrerebbe a prima vista sconfessata dall'evidenza dei fatti: l'architettura -- nonostante tutto -- esiste, continua a esistere. Tuttavia, a un'analisi più attenta, le parole di De Carlo non sono poi cosí lontane dal vero: l'architettura, intesa nel senso in cui la intende l'architetto genovese -- qualcosa che sia il frutto di un vero *interesse*, ovvero di un effettivo *essere-tra*, un intreccio di relazioni tra *esseri* diversi, ciascuno dotato di un proprio status di correlazione ma al tempo stesso d'indipendenza dagli altri --, non soltanto è destinata a sparire ma probabilmente non esiste già più (ammesso poi che, in una forma più "piena", sia mai esistita). E qui, ancora una volta, bisogna fare chiarezza: l'architettura esiste, certo, nella sua concretezza, in forma di edifici per la "gente comune", rispetto alle cui "aspettative" però risulta spesso deludente. Ed esiste in forma di sedi di rappresentanza di quelle "istituzioni" (pubbliche o private) che tuttavia in effetti, nella gran parte dei casi, cercano e trovano altrove i propri simboli, in settori "più potenti e aggressivi" -- primi fra tutti il marketing e la pubblicità -- cui la stessa architettura è subordinata e spesso assimilata. Per quanto riguarda i "clienti tradizionali", invece -- appartenenti, lungo tutto il corso del Novecento, in modo preponderante al mondo imprenditoriale e politico --, sono proprio questi a essere scomparsi, soppiantati da nuovi committenti desiderosi assai meno di radicare i loro "interessi" in oggetti stabili e materiali, per investirli di preferenza in entità immateriali e "volatili". Con significative differenze, comunque, tra nuova committenza politica -- strenuamente impegnata a ostentare il massimo distacco (apparente) del potere dal "palazzo", e dunque poco interessata a farsene emblema --, e nuova committenza imprenditoriale. In quest'ultimo caso, il problema non è tanto la differente accezione del termine "interesse", la sua declinazione in senso prettamente economico anziché relazionale. Che gli interessi degli investitori siano di tipo economico è qualcosa che non riesce a sconvolgere neanche i più incalliti idealisti. La metamorfosi decisiva in questo campo è piuttosto quella relativa al passaggio da un capitalismo "padronale", ancora radicato in territori e culture, a un capitalismo finanziario, senza volto e senza "testa", e dunque impersonale e invisibile; un capitalismo per il quale sono assai poco importanti le appartenenze, le vicende, i linguaggi e le problematiche locali. Ed è proprio questo sradicamento, con tutte le sue conseguenze, di cui De Carlo "pre-sente" minacciosamente l'arrivo. Non è dunque tanto sul piano dell'architettura realizzata (o anche solo pensata) che oggi sembra avverarsi la "prognosi" di De Carlo, quanto piuttosto sul piano concettuale e simbolico. Sul piano -- si potrebbe dire -- del *senso*. Nella società odierna l'architettura non "conta", o lo fa molto meno di un tempo. Si legga ancora De Carlo: > Per convincersi che non è una battuta terroristica, e neanche una > semplice battuta, basta scorrere le diagnosi degli esperti che > confortano le decisioni dei politici ai quali sono affidate le sorti > del mondo. Queste diagnosi concordano nel dichiarare che la questione > dell'organizzazione dello spazio fisico è molto grave, ma anche molto > semplice. Per risolverla basta identificare i problemi più salienti > che sono quelli della residenza e del trasporto -- e affidarli a chi è > in grado di affrontarli con la massima rapidità e col minimo > sforzo[^12]. Massima rapidità e minimo sforzo: sono le modalità con cui agisce preferenzialmente la logica capitalista, anzi -- per l'esattezza -- sono i suoi obiettivi primari. D'altronde, dalle parole di De Carlo risulta evidente come, in *questa* logica, "chi è in grado di affrontare" tali problemi non sia niente affatto l'architetto cosí come egli stesso lo intende, capace di organizzare lo spazio nella sua complessità, fisica e concettuale; non certo l'architetto per il quale tempo e lavoro costituiscono quantità spesso non precisate, sulle quali comunque non lesinare. Piuttosto, il pericolo che egli vede incombente è che, per la risoluzione di questioni spaziali, in un futuro ormai prossimo, si faccia ricorso "agli strumenti più efficaci utilizzandoli per quel che possono dare, senza pretendere prestazioni qualitative che sono estranee alla loro natura". Difficile dire con esattezza che cosa abbia qui in mente De Carlo; l'utilizzo della parola "strumenti" lascia però evidentemente intuire il carattere "strumentale" di tali interventi. Mentre la via d'uscita che per parte sua ritiene possibile -- e che di fatto in diverse circostanze nel corso della sua carriera ha proposto -- è quella dell'architettura "dalla parte della gente"[^13], l'architettura della partecipazione. La natura dell'architettura, intesa come somma dei compiti in carico all'architetto è, fin dalle sue origini, essenzialmente organizzativa, *gestionale*[^14]. Si tratta in sostanza dell'espletamento di alcune mansioni specifiche (progettazione, disegno, estimo, scelta dei materiali, ecc.) che tuttavia in larga parte sono assorbite nella capacità più complessiva dell'architetto medesimo di sovrintendere, coordinare e soprattutto *comprendere* le condizioni di possibilità del progetto, quand'anche questo venga realizzato da altri. Pur essendo parte costitutiva del suo profilo tradizionale, questa attività di gestione si è accresciuta nel tempo in tale misura da divenire la parte preponderante del suo lavoro. Ma c'è di più: l'estensione dei mercati potenziali in seguito alla globalizzazione, la conseguente crescita quantitativa e dimensionale degli edifici, la loro sempre maggiore complessità tecnologica, la richiesta di competenze sempre più specialistiche e diversificate, sono alcuni dei fattori che hanno contribuito a togliere all'architetto quella centralità nella produzione del progetto che in precedenza deteneva. Ed è qui che l'analisi storica di Tafuri "incontra" le considerazioni sulla professione di De Carlo. Se infatti la ricognizione genealogica compiuta dal primo individua le cause scatenanti della crisi dell'architettura come disciplina, la "fenomenologia" del secondo ne nomina lucidamente gli effetti. Che sono appunto alla base delle evoluzioni che stiamo vivendo attualmente. Il formidabile sviluppo degli studi di architettura, in particolar modo dalla seconda metà del XIX secolo in avanti, non soltanto in termini di numero di persone impiegate ma anche di articolazione interna, di complessificazione organizzativa (basti pensare agli *architectural firms* sorti a Chicago dopo l'incendio del 1871, vere e proprie aziende di progettazione impegnate a fronteggiare l'enorme richiesta di *commercial buildings* e *tall buildings*[^15]; o all'*Architekturbüro* scientificamente impostato da Otto Wagner per realizzare le stazioni della metropolitana e le chiuse del canale del Danubio, affidategli nel 1894 dalla municipalità di Vienna in qualità di consigliere superiore all'edilizia)[^16], corrisponde in epoche più recenti a un altrettanto imponente incremento degli apparati gestionali presenti in tali studi, perfettamente espresso dal dispiegamento di computer al posto di quelli che un tempo erano i tavoli da disegno. È questa la plastica dimostrazione del fatto che oggi i sistemi di elaborazione e di controllo del progetto sono diventati pressoché interamente *strumentali*, come aveva preconizzato De Carlo. E tuttavia, pur trattandosi di un mutamento importante, addirittura epocale, non è in fondo cosí rilevante da provocare un vero sovvertimento nel modo di mettere in rapporto architettura e architetto. Certamente, crescendo dimensionalmente, ma soprattutto facendo proprio il modello della taylorizzazione del lavoro, gli studi di architettura hanno visto nel tempo accrescersi pure la divisione e la specializzazione delle mansioni al loro interno; cosicché, negli studi più grandi, accanto agli architetti variamente aggettivati (partner, senior, junior, ecc.), si trovano oggi frequentemente caddisti, renderisti, specialisti di progettazione computazionale, BIM manager, architetti Revit, modellisti, archivisti, responsabili dello sviluppo aziendale, esperti in *public relations*, addetti ufficio stampa, per nominare solo alcune delle posizioni possibili. Ed è altrettanto innegabile che il lavoro di architettura, negli studi maggiori per mole e produttività, possa essere assimilato a quello svolto in una fabbrica, con tutti gli effetti di sfruttamento e alienazione che ne conseguono[^17]. In questa condizione, con l'ampliarsi a dismisura della divaricazione tra chi occupa posizioni di vertice, di norma in grado di abbracciare la complessità -- e in qualche caso anche il senso -- delle operazioni eseguite, e chi invece è relegato nelle zone inferiori della scala gerarchica, costretto a produrre semplici "spezzoni" di tali operazioni[^18], diventa pressoché impossibile parlare di "lavoro dell'architetto" in maniera generalizzata e univoca. Aspetto, questo, confermato anche dai diversi "nomi" con cui si suole spesso indicare il contributo degli uni e degli altri: "opera", nel caso dei primi, semplice "lavoro", in quello dei secondi: > La parola "opera" evoca la dimensione autoriale di un prodotto, ovvero > l'idea che il prodotto, progetto o edificio, sia il frutto > dell'architetto. Al contrario, il lavoro (...) in architettura, > supera i risultati architettonici tradizionali e comprende l'intero > sforzo -- la fatica -- necessario per sostenere la produzione > dell'"opera", dal mantenimento personale agli umili lavori che un > architetto deve compiere per eseguire un incarico[^19]. Benché ovviamente "l'idea stessa di *opera* come qualcosa che possa essere limitato alla creazione di un oggetto -- come è ancora preteso nella nostra professione -- sia un'insostenibile farsa"[^20]. Ma il vero nodo della questione consiste nella profonda modificazione che ha subito l'intero processo produttivo dell'architettura, sottoposto alle tensioni delle trasformazioni epocali citate più sopra; una modificazione che "scavalca" la stessa organizzazione del lavoro dentro gli studi (ormai raggiunti dal "modello" post-fordista, con modalità di lavoro più "libere" rispetto a quelle precedenti e con un controllo delle conoscenze disponibili al suo interno che porta a intenderle ora come un "capitale cognitivo")[^21] e che pone urgentemente l'architetto di fronte alla necessità di riflettere in merito al proprio ruolo. Se da un lato infatti questo è radicalmente cambiato, dall'altro in molti casi gli architetti si ostinano a vederlo immutato, se non nei suoi aspetti pratici, nel suo significato intrinseco, nel suo valore simbolico. A partire da quell'"immagine ideologicamente costruita dell'architetto come indiscutibile creatore"[^22] che ancora resiste, non soltanto presso un pubblico distratto e poco informato ma anche nell'autorappresentazione di molti architetti. Nell'odierna realtà progettuale, invece, non muta soltanto l'"identità" dei protagonisti, ma anche -- e radicalmente -- il "punto di vista" secondo cui questi vanno osservati: in essa, infatti, non più l'architetto, bensì "il progetto, suddiviso in parti condotte separatamente, individua diversi ruoli di responsabilità e capacità dispiegati lungo il suo processo"[^23]. È il *progetto stesso* a "scrivere il proprio destino", cioè a dettare le regole, a imporre la propria agenda a tutte le figure professionali che incontra sul suo cammino. Se un tempo "ruotava" intorno allo studio di architettura (fatta eccezione per gli indispensabili interventi ingegneristici, finalizzati all'elaborazione dei calcoli strutturali e all'inserimento dei sistemi impiantistici, nonché -- in casi più rari -- di progettisti d'interni), oggi si potrebbe dire che il progetto ha il proprio "centro" in se stesso: dopo essere stato ideato e sviluppato in uno studio di architettura nelle fasi preliminare e definitiva, non è infrequente che passi di mano e che venga integralmente trasferito a società di ingegneria che lo porteranno in modo del tutto autonomo alla fase esecutiva, ottimizzandolo (in linguaggio tecnico, "ingegnerizzandolo") in vista della realizzazione. Ma spesso i passaggi non sono cosí definiti, perché può capitare che il progetto venga rielaborato e modificato, anche radicalmente, sotto un profilo strutturale, estetico o dei materiali, da altri operatori, prima di arrivare alla fase costruttiva; la quale, anch'essa, è di sovente frazionata dalla società capo-commessa in molteplici porzioni, ciascuna delle quali eseguita da altre imprese mediante appalti separati. Un complesso iter nello svolgersi del quale il progetto (o "servizio di progettazione", come lo denomina ora il linguaggio burocratico italiano) viene variamente -- e da svariati soggetti -- "processato"; termine, questo, che lascia involontariamente intendere come il progetto venga sottoposto a revisioni nel corso delle quali -- di passaggio in passaggio -- perde via via ogni traccia di una paternità (o maternità)[^24] che in altre epoche l'affiancarsi di altri nomi e competenze a quelli dell'architetto poteva contribuire semmai a precisare, ma in nessun modo mettere in dubbio. Si tratta dunque di un "processo" -- frutto di una competizione più che di una cooperazione -- che può portare anche alla completa alienazione dei "diritti" sul progetto da parte del suo ideatore originario; sempre ammesso poi che abbia ancora senso definire "autore" di un progetto chi, come accade in molte circostanze, ne cede di fatto la proprietà materiale e intellettuale nel momento stesso in cui questo passa di mano. Il fatto che nell'epoca contemporanea il progetto -- dietro apparenze spesso ingannevoli -- sia costitutivamente "in cerca di autore", dimostra quanto esso sia indipendente dallo stesso architetto. Ma si tratta soltanto di una "spia" che segnala una situazione di allarme più generale. È la prova che l'architettura, ben lungi dall'essere il punto focale del progetto, è ormai soltanto una "tappa" -- e a volte neppure la più rilevante -- di un percorso ben più lungo e intricato. Ma proprio qui sta il problema: nell'accettare il lavoro di architettura come mansione limitata, parziale, scorporabile da una lettura e da un'interpretazione più complessiva e allargata della città e della società, ovvero della politica e dell'economia -- nell'accettare l'architettura come *mestiere specializzato*, come "comparto" operativo del capitale --, l'architetto definisce la propria posizione rispetto a esso prima ancora di aver compiuto qualsiasi "gesto" progettuale. Certo, si è detto, l'architettura intesa come edificio materiale continua -- nonostante tutto -- a sussistere. E, a dispetto delle insidie di cui si fa portatore ogni giorno il mondo virtuale, non è stato ancora trovato un valido sostituto per gli edifici reali, in "carne e ossa". Pur attraversando fasi altalenanti, dunque, il settore delle costruzioni rimane sempre uno dei comparti migliori a cui affidare capitali in cerca di collocazioni sicure. Di conseguenza, architetti e studi di architettura, nella misura in cui riescono a sconfiggere una concorrenza che si presenta sempre più numerosa e agguerrita, sembrano avere lavoro assicurato. Non tutti naturalmente se la cavano bene, ma l'obiettivo comune alla gran parte di essi risulta ben chiaro: concorrere ciascuno alla costruzione di un pezzo del mondo come lo conosciamo, *lasciandolo cosí com'è* (con soltanto marginali aggiustamenti, nella maggioranza dei casi di carattere estetico). Sono gli architetti "rifornitori". Ma che cosa ne è degli architetti "produttori"? È cosí che Benjamin chiama coloro che trasformano *in senso tecnico* l'apparato produttivo[^25]. Va chiarito immediatamente che non esistono architetti "rifornitori" e architetti "produttori" *a priori*. È soltanto in relazione alla posizione che ciascuno di essi assume nella realtà concreta dei processi produttivi dell'architettura -- se li accetta passivamente facendosene semplice tramite o se invece piuttosto li reinterpreta criticamente al punto da riuscire a *trasformarli* sotto qualche profilo dall'interno[^26] -- che si determinerà il loro essere "rifornitori" o "produttori". Esattamente la stessa posizione sulla base della quale, nota ancora Benjamin, "può essere stabilito o meglio *scelto* (...) il posto dell'intellettuale nella lotta di classe"[^27]. E qui è necessario affrontare una questione essenziale: ha ancora senso questo discorso *al di fuori* della prospettiva della "lotta di classe"? Vale a dire, al di fuori di una prospettiva *rivoluzionaria* quale sussisteva per Benjamin? Non è forse proprio la mancanza di questa -- o quantomeno di un'ideologia o di una finalità condivisa, sia pur meno radicale -- a rendere difficile, se non addirittura impossibile, attualizzare il discorso di Benjamin? Alla risposta più apparentemente ovvia e immediata -- in assenza di una "lotta di classe" tale discorso è *ipso facto* destituito di senso -- bisogna opporre una risposta più meditata. L'attuale mancanza di un'alternativa politica al capitalismo è un fatto assodato. Se mai ce ne fosse bisogno, sotto un profilo disciplinare questo è "provato" dall'odierna rilettura in senso puramente "scientifico" (con Carl Schmitt si potrebbe dire "neutralizzazione", ovvero *de-politicizzazione*)[^28] dell'architettura, i cui obiettivi -- dall'edificio alla città, per giungere ad *habitat* ancora più allargati -- sono umani e sociali, e dunque eminentemente politici. Oggi, al posto degli obiettivi collettivi politicamente condivisi il cui raggiungimento Benjamin poteva quantomeno indicare, si impongono interessi individuali in cui, al di là di una pur significativa ma nella maggior parte dei casi generica vocazione a "cambiare il mondo" con il proprio intervento, prevalgono "obiettivi" come l'affermazione personale e l'ottenimento di maggiori guadagni. E tuttavia, a ben guardare, esiste un più che diffuso malessere nei confronti di condizioni di vita e di lavoro che tocca punti di vista non soltanto individuali. Si tratta di un disagio che trascende, in larga misura, la singolarità di una visione soggettiva, limitata e parziale, e che coinvolge ormai quella che Paolo Virno chiama una "moltitudine"[^29]. Pur essendo priva di una prospettiva unitaria, la moltitudine ha in comune "il linguaggio, l'intelletto, le comuni facoltà del genere umano"[^30]. I tanti soggetti individuali che la compongono condividono tra loro aspirazioni e bisogni. E ciò tanto più in un comparto ben definito qual è quello che ruota intorno al mondo dell'architettura. All'interno di questo, da alcuni anni a questa parte, si sono individuati non soltanto motivi d'insoddisfazione comuni (primo fra tutti, condizioni di sfruttamento selvaggio dei lavoratori che spesso non hanno paragoni nel panorama del lavoro intellettuale, e neppure di quello manuale)[^31], ma anche forme di relazioni intersoggettive che, se non arrivano certo a definire un vero e proprio soggetto politico, hanno però almeno la capacità di inquadrare i problemi in modo analitico[^32], e istituire reti di comunicazione e di scambio tra i soggetti coinvolti. Sono ancora lontani dall'essere messi a fuoco, in tutto ciò, comportamenti solidali e rivendicazioni condivise; ma soprattutto manca una vera e propria "coscienza di classe", sostituita al momento da una più generica consapevolezza di appartenenza, di compartecipazione a una medesima condizione o "destino". Al tempo stesso, però, vi sono diffusi e ricorrenti segnali di un risveglio di attenzione e di interesse nei confronti di una lettura politica della disciplina architettonica nel suo complesso, in netta controtendenza rispetto all'orientamento ancora dominante che vede in essa l'esclusiva espressione di una cultura scientifico-tecnologica, cui corrispondere in termini "prestazionali" e professionalistici. Ed è sulla strada -- pur lunga e difficoltosa -- dell'individuazione di strategie e dell'adozione di tattiche finalizzate all'organizzazione di una maggior "resistenza" e di una lotta più efficace e consapevole, che i testi di Benjamin -- e in particolare quello citato -- hanno spesso rappresentato un fondamentale viatico per la cultura architettonica[^33]. Benché naturalmente al di fuori di qualsiasi realistica prospettiva di rivoluzione, la *prospettiva rivoluzionaria* proposta da Benjamin -- specificamente rivolta al lavoro intellettuale -- ha fornito e continua a fornire un impulso e una possibile "linea di condotta" per i soggetti coinvolti a vario titolo nel processo produttivo dell'architettura. Distogliendo lo sguardo dagli scenari più "eroici" della lotta di classe, per fissarlo sull'obiettivo più circoscritto delle dinamiche interne ai rapporti di produzione, il testo di Benjamin apre uno squarcio in un momento storico quasi senza speranze. L'alternativa tra farsi "rifornitori" o "produttori" di tali rapporti mantiene infatti la propria validità anche al di fuori di prospettive politiche più radicali, offrendosi come opportunità per chi, pur essendo *dentro* di essi, intenda porsi *contro* le logiche che li informano. E proprio dal testo di Benjamin emerge un dato importante: le posizioni occupate nel processo produttivo sono frutto di una *scelta*. Nessun ostacolo logico esiste, di ordine trascendentale, che impedisca di posizionarsi nell'una o nell'altra. Ciò non significa che sia una "libera" scelta: essa dipende comunque da condizionamenti e congiunture, cosí come dipende dal punto a partire dal quale viene compiuta. Vi sono fattori economici in gioco, ma anche culturali e sociali, che vincolano tale scelta, orientandola in un senso o nell'altro. Ma pur con tutti i limiti ipotizzabili ed entro condizioni storicamente determinate, la scelta della propria posizione nel processo produttivo da parte dell'architetto si presenta -- se non certo libera in assoluto -- quantomeno *possibile*. Come in altre contingenze della vita individuale e sociale, è il risultato della composizione, in positivo o in negativo, di convenzioni e convenienze che possono influenzarla, quando non addirittura determinarla del tutto. Ma ciò nondimeno è e rimane anche una *decisione*: un "taglio" netto, deliberato, che risolve la *quaestio* in un modo o nell'altro. Come tutte le decisioni, comporta un'assunzione di responsabilità e l'esercizio di una convinzione[^34]. Non è insomma possibile -- di fronte all'occupazione dell'una o dell'altra posizione -- invocare l'ineluttabilità delle circostanze o del "fato", non comunque in una misura determinante. Ma, come non esistono architetti "rifornitori" e architetti "produttori" *a priori*, neppure esistono architetti "rifornitori" e architetti "produttori" una volta per tutte. Ciascun architetto compie la propria scelta ogni giorno, in ogni momento, spesso inconsapevolmente, e altrettanto di frequente in modo inapparente, non dichiarato. Lo fa nell'ambito del proprio lavoro, accogliendo o meno offerte che le/gli vengono fatte, soddisfacendo o meno condizioni che le/gli vengono imposte, ridiscutendo progetti che le/gli vengono commissionati, ponendosi o meno a disposizione nell'accettare compromessi o imposizioni. Insomma, si tratta di casi molto frequenti e di scelte molto concrete, che portano l'architetto a posizionarsi come "rifornitore" dell'apparato di produzione, oppure piuttosto come "produttore". Ma produttore di che cosa? Come va inteso esattamente questo termine? Non è forse anche l'architetto "rifornitore" un produttore, nella misura in cui realizza per l'appunto "prodotti"? Innanzitutto si può dire -- anzi ribadire -- che tutta l'architettura è un prodotto, vale a dire una merce. La natura di merce dell'architettura non è minimamente revocata, e neppure insidiata, dall'intervento dell'architetto "produttore" invece che da quello dell'architetto "rifornitore", o viceversa. Ma se l'architettura è senza dubbio un prodotto nel caso di entrambi, in quello dell'architetto "produttore" si può dire che essa è *anche* un prodotto, ma non solo: ovvero non è un prodotto-e-basta. Essa è anche -- ed essenzialmente -- un *progetto*. Non però quel "progetto" che l'architetto in quanto architetto produce (o meglio, dovrebbe produrre, se altri operatori, altri "attori" -- come si è visto -- non ne insidiassero il compito) in vista di una possibile realizzazione. Piuttosto un progetto da intendersi come *idea*, come *finalità* (e non come semplice presupposto) dell'architettura medesima. L'avvicinamento di prodotto e progetto non è affatto inedito o sorprendente. > Pro-durre e pro-getto sono termini solidali, rappresentano, nel nostro > linguaggio, un'unica "famiglia". Il progetto è inteso come > intrinsecamente produttivo: esso elabora modelli di produzione. Il > pro-durre è compreso nel pro-getto che ne illumina il senso e il > fine[^35]. In realtà, molto più di quanto si possa pensare, il progetto è distante da una dimensione semplicemente produttiva-predittiva (idea che linearmente anticipa la propria realizzazione), per aprirsi invece alla "massima (...) irruzione dell'imprevedibile"[^36]. È questa idea di progetto che s'affaccia nella produzione dell'architetto "produttore": dove dunque l'architettura *come progetto* non indica il mero svolgimento di un'intenzione iniziale, l'attuazione di qualcosa di interamente presente in essa, e perciò di perfettamente aderente a un programma "dato" (e "dato" appunto dal processo produttivo come tale), bensì qualcosa che "eccede" da esso, che si apre a possibilità ulteriori, non previste, azzardate, che mettono in crisi il processo produttivo medesimo. Architettura come progetto significa che l'architettura *nel suo complesso*, come disciplina pratica *e* concettuale, in tutti i suoi aspetti e passaggi -- dall'elaborazione teorica all'organizzazione produttiva, passando naturalmente anche per il progetto architettonico inteso in senso tradizionale, con tutti i processi che ne rendono possibile la realizzazione -- è ripensata in una prospettiva progettuale, nell'accezione "aperta", arrischiata al futuro, enunciata poc'anzi. Per rendere più facilmente comprensibile come ciò vada inteso (e per dissolvere il possibile equivoco ingenerato dalla somiglianza formale delle espressioni "architettura come progetto" e progetto architettonico, cui corrisponde nei fatti un'abissale distanza), si potrebbe richiamare il senso che il termine "progetto" assume allorché ci si riferisce a un progetto letterario o artistico o, ancora, a un progetto politico, o a un progetto di vita; dove il "progetto" in questione non ha palesemente nulla a che fare con pratiche relative a quegli ambiti, come accade invece nel caso dell'architettura. Oppure, più propriamente, si potrebbe richiamare l'uso che ne ha fatto Tafuri a proposito del "progetto" storico[^37]; appare chiaro, infatti, in questo caso, come non soltanto il lavoro storico in generale venga assimilato a un "progetto" ma come tale "progetto" sia per molti versi assimilabile a quello aperto, arrischiato e capace di mettere in crisi il proprio stesso processo produttivo descritto in precedenza[^38]: un "progetto" che non a caso egli definisce "progetto di crisi"[^39]. È lo stesso orizzonte a cui si riferisce Cacciari parlando della tecnica in relazione al noto saggio di Benjamin: "Non si dà discorso autentico sulle tecniche, finché non se ne *teorizza* la struttura di *crisi*: esse non avvengono che in base a crisi -- a causa del trasformarsi degli assetti culturali precedenti"[^40]. E ancora: "La crisi non è un momento che lo sviluppo delle tecniche attraversa, ma la loro immanente struttura". Una "coincidenza" niente affatto casuale, dal momento che è l'analisi dello stesso Cacciari a "finire" per occuparsi proprio dell'*Autore come produttore*. Qui, quanto precedentemente affermato in merito alla capacità del progetto di mettere in crisi -- *trasformandoli* -- i processi produttivi, viene ulteriormente illuminato: infatti > \[La\] crisi non può essere operata speculativamente -- riflettendo > *dall'esterno* sul processo di trasformazione. Essa deve essere > *prodotta*. (...) Qualsiasi posizione intellettuale che non si ponga > come *produttiva* è reazionaria. Ma *produttiva* significa: non > soltanto integrata nel rapporto di produzione -- ma in grado di > trasformarne-metterne in crisi l'apparato tecnico-linguistico[^41]. L'architettura come progetto non indica dunque un "progetto" *per* essa o *con* essa: piuttosto indica l'essere progetto *essa stessa*. E un progetto non semplicemente confermativo bensì effettivamente *trasformativo* degli apparati produttivi; un progetto di crisi. Soggetto di tale progetto di crisi è l'architetto come produttore, o per dir meglio, l'architetto che accetti di calarsi *dentro* tali apparati, confrontandosi con essi, con le loro forme, i loro linguaggi, e al tempo stesso scelga di criticarli, andando *contro* una loro riproposizione immutata. Non si tratta affatto -- si badi bene -- di mere "astrazioni". Piuttosto di ben precise *relazioni* sviluppabili all'interno della catena di produzione attraverso i diversi anelli della quale il progetto architettonico man mano transita: relazioni con gli altri soggetti e le altre competenze della catena di produzione; relazioni con le amministrazioni pubbliche, con le istituzioni e con i committenti privati; relazioni con le imprese di costruzioni e con le maestranze; relazioni con i fornitori; relazioni con l'utenza di un edificio e più in generale con la cittadinanza e con il pubblico; relazioni con gli altri componenti dello studio; relazioni con gli altri studi; relazioni con il mondo della comunicazione dell'architettura (editoria, riviste, giornali, internet); relazioni infragenerazionali e con gli studenti. Tali relazioni risultano naturalmente tanto più significative quanto più i soggetti implicati sono disponibili a lasciarsi coinvolgere e a farsi mutare, ma non escludono neppure il ricorso a modalità conflittuali[^42]; anzi, spesso ciò è inevitabile. A questo elenco si possono aggiungere l'organizzazione del lavoro interna allo studio; il quadro legislativo entro il quale l'architetto si muove; il corpus teorico disciplinare; le possibili analisi storiche, sociologiche, economiche, politiche compiute su architettura e città; e ovviamente il progetto vero e proprio, alle sue possibili scale diverse, architettonica e urbana, visto sotto *tutti* i suoi aspetti, e in particolare sotto il profilo delle modalità alternative di concepire e organizzare lo spazio, unico terreno di applicazione e verifica della politica all'architettura. Si tratta di una molteplicità di campi diversi, con cui -- in differenti modi e in vari momenti nel corso del suo lavoro -- l'architetto viene a contatto. Agendo su uno o più di questi ambiti, vale a dire mettendoli in crisi, modificandoli, per innovarli -- ma soprattutto per *migliorarli* nella misura del possibile[^43] --, l'architetto propone se stesso come intellettuale. Nella condizione attuale, in modo nettamente contrastante rispetto ad altre epoche storiche precedenti, la figura dell'intellettuale appare fortemente screditata. In realtà, pur non risalendo a tempi troppo recenti, la condizione di crisi non sembra affatto essere endemica per l'intellettuale: il quale, in un passato più o meno distante, ha rivestito posizioni centrali non solo al fianco di regnanti o potenti, né solo in qualità di membro della *respublica litterarum*, ma anche in settori vitali e operanti della società[^44]. Non è dunque qui il caso di ritornare sulla questione già accennata della sua (presunta) "crisi", se non per far notare che curiosamente l'intellettuale, stante quanto detto sin qui, sembrerebbe porsi in un duplice rapporto con la crisi: da un lato come colei/colui che la patisce, dall'altro come colei/colui che la impartisce. Al punto da far sorgere il dubbio che la crisi dell'intellettuale, in ultima istanza, non sia nient'altro che il rovesciamento su di sé della propria stessa attitudine a mettere in crisi. Ormai da tempo affermatisi come ceto separato, con un'espressa funzione "contemplativa" -- di osservatori privilegiati -- della società[^45], gli intellettuali sconterebbero in tal modo la propria crescita ipertrofica, o sarebbero vittime di un "delirio di onnipotenza", giungendo a rivolgere le proprie armi contro se stessi. O forse piuttosto, agendo e "abitando" costantemente la crisi, la loro esistenza non è contraddetta dalla presenza di questa. Di certo comunque si può dire che il ruolo dell'intellettuale, oltre a quello più ovvio di istruire la società propagandovi la cultura sotto varie forme, consista nel "rompere" costellazioni di saperi consolidate, riconfigurandole secondo altre strutture di senso[^46]. Quest'opera di "rottura" è sempre stata fondamentale per l'intellettuale produttivo e progressivo. Ben lungi dal confermare condizioni e opinioni già note e diffuse, questi si presenta come un "quieto agitatore", il portatore di un conflitto che non è tuttavia frutto di una "visione personale", bensì appartiene alle *cose stesse*. "Per "ritornare alla cosa" occorre (...) saperla porre nel suo dissidio rispetto alle altre"[^47]. L'intellettuale weberiano, da questo punto di vista, costituisce forse il culmine della capacità di rendere continuamente presente il conflitto che è nelle cose, con *disincanto*; una forma di distacco, quest'ultima, che non può essere adottata però come un semplice "atteggiamento" e che è invece il motore stesso del suo agire. Per quanto concerne l'architettura, le figure analizzate in precedenza rispondono perfettamente a questi caratteri: sia che -- come fa Aldo Rossi -- si ridisegni a livello teorico il nesso tra architettura e città, facendo ampio ricorso ad altre culture disciplinari[^48]; sia che -- come fa Aldo van Eyck -- si intervenga a livello urbano escogitando un intelligente riuso di un ingente numero di spazi pubblici residuali e istituendo al tempo stesso una proficua collaborazione con una municipalità[^49]; oppure, sfidando convenzioni sociali e tipologiche, si offrano spazi di relazione davvero capaci di commisurarsi agli utenti[^50], è sempre e comunque l'impronta di un architetto intellettuale quella che qui si lascia riconoscere. Come da questi due esempi risulta evidente, nell'entrare in rapporto con singoli ambiti o temi, i diversi architetti citati utilizzano metodi e strumentazioni differenti: dalla ricerca più tradizionale, svolta individualmente, a quella che prevede una pluralità di contributi, che vanno dunque selezionati e coordinati tra loro, fino al diretto intervento sulla città o su un edificio. E molti altri ancora sono e potrebbero essere i mezzi impiegati. Con ciò si dimostra l'ampiezza dello spettro d'azione dell'architetto intellettuale, ma anche la sua completa libertà da qualsiasi "obbligo" culturalistico. Come avverte Gramsci nel Quaderno già ricordato[^51], del resto, per il costruttore, per l'organizzatore -- e dunque anche per l'architetto --, l'attività intellettuale si estrinseca non più nell'"eloquenza (...) ma nel mescolarsi attivamente alla vita pratica". Nessun vuoto "intellettualismo" è pertanto richiesto (e concesso) all'architetto che agisca *sub specie intellectualis*. Semmai, a questo punto, ostentazioni di cultura e fumose "astrattezze" divengono i migliori indici della presenza di ormai intollerabili pseudo-intellettuali (architetti o altro che siano)! E come l'architetto intellettuale non deve per forza disporre di capacità oratorie o retoriche, cosí non per forza deve profondere il suo impegno su un terreno diverso da quello dell'architettura. Riletti in questa chiave, i "casi" più interessanti che emergono dalla storia dell'architettura sono proprio quelli *produttori di crisi*, più che quelli portatori di ordine (oppure quelli portatori di un ordine che mette in crisi a sua volta). Sono i momenti di "rottura", più che i momenti di continuità. Sono le opere che tolgono certezze, più che le opere che le confermano. Ovviamente nella misura in cui ciò sia fondato. Da questo punto di vista, persino una nozione pur pesantemente gravata da una matrice idealistica qual è quella di "capolavoro" potrebbe essere recuperata a una critica produttiva. Idealistica, nella categoria di "capolavoro", è la maniera di concepire l'opera d'arte (o di architettura) come un prodotto eccezionale, isolato, frutto dell'intuizione sublime di un genio; e idealistica è parimenti la presunzione dell'esistenza di un rapporto di "continuità" tra il presunto "capolavoro" e la sua epoca, di cui esso rappresenterebbe semplicemente il "culmine". In realtà, volendosi servire ancora di questa vecchia categoria degradata, bisognerebbe riconoscere nel "capolavoro" da un lato la piena implicazione nelle vicissitudini produttive del proprio autore, e dall'altro una capacità -- questa sí davvero straordinaria -- di rompere con il proprio tempo, di mettere in crisi l'ordine precedente, e di istituirne al suo posto uno nuovo. Da questo punto di vista, lungi dall'esserne estraneo, il capolavoro ha a che fare con l'epoca nel preciso senso che esso *fa epoca*, vale a dire che provoca un arresto del corso del tempo (*epoché*, sospensione). Ma, nel "far epoca", il capolavoro mostra la propria attitudine rivoluzionaria, non certamente l'opposta tendenza a occupare un posto centrale all'interno d'un quadro lasciato però sostanzialmente immutato. Per l'architetto come intellettuale, inoltre, al pari dell'autore come produttore di Benjamin, "il progresso tecnico è la base del suo progresso politico"[^52]. Tale discorso non va assolutamente confuso con un progresso tecnologico. Per quanto rivesta un ruolo fondamentale per gli apporti che dà al processo produttivo dell'architettura, la tecnologia non ha nulla a che fare con la tecnica nel modo in cui Benjamin la intende in questo contesto. Parlando di "progresso tecnico", egli si riferisce piuttosto al padroneggiamento di competenze specifiche, nonché ai possibili avanzamenti rappresentati dall'ulteriore acquisizione di esse. Ma soprattutto, per Benjamin il vero "progresso tecnico" non consiste affatto nell'incremento delle potenzialità degli strumenti che l'uomo ha a disposizione; esso piuttosto va inteso come qualcosa di cui l'uomo di per sé dispone, ovvero -- ancora una volta -- la capacità di intervenire sui processi produttivi in maniera tale da modificarli. A questo fine -- in qualità di architetto -- può anche servirsi di dispositivi informatici e digitali, ma non solo: oltre alle tecniche tradizionali di rappresentazione legate al progetto e alla pianificazione (dallo schizzo al disegno, fino alla fotografia e al video), un "buon" architetto sa -- o dovrebbe sapere -- impiegare, almeno entro certi limiti, competenze strutturali, estimative, giuridiche, sociologiche, psicologiche, politiche e di altre discipline ancora. Nel fare tutto ciò egli si avvale della parola (in forma scritta o verbale), strumento massimamente duttile e diversificato che offre a chi la usa coscientemente la possibilità di fare ricorso a un vasto numero di "tecniche". Ed è su questo terreno che si lasciano misurare le capacità *produttive* dell'architetto intellettuale. Al di là del suo essere mezzo di comunicazione oggi eccessivamente abusato, infatti, la parola è -- o dovrebbe essere -- anche e soprattutto suprema "innescatrice" di relazioni e impareggiabile apportatrice di potenzialità inventive e trasformative. Non "vuote" parole, destinate di conseguenza a cadere nel vuoto, dunque, bensì parole corpose, precise, circostanziate, la cui fondamentale missione si presenta quella di ridefinire ogni volta il senso della disciplina nei suoi diversi aspetti, ma anche quella di renderne partecipi gli altri ambiti, il "resto del mondo", che troppo spesso ne rimane all'oscuro. Rispetto al lavoro di *routine* svolto dal semplice "rifornitore", a quello dell'architetto intellettuale è richiesto qualcosa di più: a esso non è sufficiente ripetere soluzioni già note; piuttosto deve sperimentare soluzioni inventive, conquistando cosí nuovi territori e nuovi rapporti da esplorare. In questo senso, "contro" può significare anche contro il lavoro assegnato, prestabilito, contro le convenzioni, contro le abitudini non più verificate. Nell'ottica del lavoro intellettuale, del resto, proprio il tema della "verifica" è fondamentale, come già ricordato in precedenza con parole di Franco Fortini che presentano forse inconsapevoli risonanze benjaminiane[^53]. Non si dà lavoro autenticamente produttivo senza un'attenta verifica delle sue implicazioni e ricadute. E come esso non può "confidare" su un atto puramente ri-produttivo, cosí il suo autore non può "pretendersi" libero dalla necessità di dare continuità al proprio operato: soltanto cosí si comprova il suo ruolo. La sua attendibilità di "produttore" dipende da essa e va parimenti sottoposta a verifica. E in ogni caso, nulla vieta che l'architetto "produttore" torni nuovamente a "rifornire". Alla libertà della sua scelta è data anche la possibilità dell'incoerenza. Può questo *idealtypus* dell'architetto intellettuale -- portatore di inquietudine e di "sconvolgimenti" (*produttore di crisi*) nel cuore stesso del proprio lavoro, destinato per sua essenza a "edificare" (*ædes facere*), o quantomeno a occuparsi di *rerum ædificatoriarum*[^54] -- aderire all'architetto attuale? Ovvero, corrispondono gli architetti *reali* a questa figura ideale? Si potrebbe rispondere che è certamente possibile, come lo è stato in momenti e in epoche precedenti, a patto naturalmente di non idealizzare la realtà in modo eccessivo. Ma la vera questione qui non è dare volti e nomi reali a un profilo ideale; né compilare liste di eletti e di proscritti, che per di più sarebbero comunque soggettive e parziali. Alla "famiglia" degli architetti infatti appartengono non soltanto i "grandi" nomi ma anche i nomi "normali", e le miriadi di "anonimi" che compiono il loro lavoro quotidiano negli studi, coloro che svolgono le stesse mansioni in altre posizioni, coloro che insegnano, coloro che per perversione o passione si dedicano alla storia e alla critica...[^55]. Insomma, una "famiglia" molto vasta e complessa, tutta impegnata nel suo insieme in un'attività intellettuale, ma all'interno della quale non tutti i suoi membri risultano *produttivi* nel senso indicato. La vera questione insomma non è individuale ("non esistono più gli architetti intellettuali di una volta...") bensì collettiva. Detto in altri termini, la vera questione su cui interrogarsi è la funzione storica dell'architetto intellettuale *nel momento attuale*. Se un tratto specifico sembra contrassegnare il momento attuale (vale a dire una società neoliberalista), esso potrebbe essere identificato con un'assoluta "refrattarietà" da parte di questa per qualsiasi tipo di critica. La mentalità dominante pare costitutivamente lontana da uno spirito critico, cosí come lo è dall'elaborazione di un pensiero critico (un pensiero *di crisi*). Lungi dall'essere una caratteristica accidentale o neutrale, tale mancanza risponde invece -- almeno in prima istanza -- a una precisa volontà di autoaffermazione apodittica. La stessa spasmodica ricerca del consenso va letta precisamente in questa ottica: come massima avversità per la crisi (il fatto poi che la crisi si ripresenti ciclicamente sotto forma "economica", non diminuisce di certo -- e semmai anzi aumenta -- tale avversità). Ma al tempo stesso, è proprio in quest'epoca apparentemente priva di spirito critico che si può sviluppare uno spirito critico, sia pure sporadico e disorganizzato, e complessivamente estraneo alle logiche dominanti. Si tratta di uno sviluppo *non imprevisto*; esso cioè non soltanto è tollerato ma in qualche modo finisce anche per essere funzionale al sistema. In una società come quella attuale, infatti, > ... la tensione antagonistica tra diversi punti di vista è appiattita > nella pluralità dei punti di vista indifferenti. "Contraddizione" > perde cosí il proprio significato sovversivo: in uno spazio di > permissivismo globalizzato, punti di vista incoerenti coesistono > cinicamente[^56]. Inoltre, essendo il capitalismo in quanto tale *sviluppo*[^57], esso ingloba al suo interno e *sfrutta* in una certa misura le critiche avanzate nei suoi stessi confronti; al punto che -- come è stato affermato -- il fattore principale di trasformazione del capitalismo sarebbe la critica stessa[^58]. Con tutto ciò -- che piaccia o meno -- questo è il momento attuale. E se all'interno di esso l'intellettuale (e l'architetto intellettuale) può avere un suo ruolo, per quanto esposto a rischi di fraintendimenti e di strumentalizzazioni, è questa la partita che è chiamato a giocare: senza alcun vano "principio speranza" ma anche senza alcuna preventiva disillusione. Semmai con il disincanto -- e/o il distacco -- più sopra evocati. Tentativi in tal senso ci sono, e alcuni di essi sono stati oggetto di analisi nelle pagine precedenti. In linea generale, comunque -- si potrebbe affermare --, tali tentativi appaiono oggi meno strutturati, e fors'anche meno "impegnati", rispetto a quelli compiuti in altre epoche. Sicuramente minore appare la loro efficacia, se l'architetto come intellettuale può risultare pressoché del tutto sparito dall'orizzonte attuale, e neppure entrare a far parte -- stando a "impressioni" potenzialmente anche ingannevoli -- dell'agenda dei maggiori esponenti della disciplina. Ma forse non è lí che bisogna cercare. In una situazione come quella attuale, difficoltosamente costretta tra crisi e sviluppo, il mondo dell'architettura sembra per una parte accontentarsi di quello che ha, e per la parte restante aspirare a ciò che non ha, mostrando segni di sfiducia e stanchezza nei confronti della possibilità di cambiare qualcosa. Si tratta certo di una situazione difficile, magari persino *più* difficile di quelle storicamente attraversate sinora. Ma -- come scrive Hölderlin citato da Heidegger -- "là dove c'è il pericolo, cresce anche ciò che salva"[^59]. E proprio la storia dimostra come, in condizioni e momenti cruciali, non soltanto le difficoltà non si presentino affatto come un impedimento al raggiungimento dei risultati auspicati, ma come a volte questi stessi possano essere ottenuti proprio grazie alla presenza di esse. Un caso emblematico in tal senso -- vale a dire una lampante dimostrazione di come ogni occasione possa essere "buona" per chi operi come "produttore", anziché accontentarsi di essere un "rifornitore" -- è rappresentata dal complesso realizzato per "The Economist Group" (1959-64) a Londra dai coniugi Alison e Peter Smithson. Ottenuto grazie alla vittoria di un concorso a inviti, l'incarico prevedeva la realizzazione della sede dell'importante settimanale economico inglese, fondato nel 1843 dal banchiere e uomo d'affari James Wilson. Da quel momento in avanti la testata ha sempre sostenuto una posizione liberalista, avente come propri fondamenti la proprietà privata e l'economia di mercato. Dovendo inserirsi in un lotto non distante dalla City, prospiciente St James Street, ma confinante anche con un club preesistente costruito alla metà del XVIII secolo, gli Smithson hanno disposto i tre edifici (la sede di "The Economist", una banca e un edificio residenziale, rispettivamente di 15, 4 e 8 piani) su un plateau quadrato sopraelevato rispetto alla quota della città circostante. Pur richiamandosi a strutture presenti nella zona (dai vicoli alle *arcades* e ai cortili che penetrano negli edifici), la soluzione trovata dai due architetti rappresenta una vera e propria "rottura" rispetto agli interventi urbani precedenti: la *plaza* pedonale, rivestita di pietra arenaria, si offre come un'isola di tranquillità all'interno della densa e caotica rete di strade della capitale britannica. Né l'intervento manca pure di una lucida coscienza del proprio significato strategico e del ruolo che potrebbe assumere in una prospettiva urbana più allargata. Nelle parole dei suoi stessi autori, esso > ... offre uno spazio di "pre-ingresso", in cui c'è il tempo di > riordinare la propria sensibilità, preparandosi a entrare negli uffici > per una visita o per lavoro. La città è lasciata al di fuori dei > limiti dell'area e le si aggiunge un altro tipo di spazio > "intermedio"; se, come nel passato, più proprietari contribuissero a > realizzare queste "pause", allora altri modelli di movimento sarebbero > possibili; l'uomo per strada potrebbe scegliere di cercare il proprio > percorso "segreto" attraverso la città, potrebbe ulteriormente > sviluppare una sensibilità urbana, elaborando il proprio contributo > alla qualità d'uso[^60]. E ancora: > The Economist costituisce un insieme "didattico", volutamente > asciutto, di edifici. E questo, fra duecento anni, potrà sembrare un > errore; ma nella nostra situazione non c'è altra strada se non quella > di "costruire" e di "dimostrare". La lezione non sta solo in ciò che > abbiamo fatto, ma in ciò che non abbiamo fatto[^61]. Nel sottolineare il significato "pedagogico" del loro intervento (a proposito dei "produttori", Benjamin ne rimarca proprio il "comportamento didattico")[^62], gli Smithson rivelano in pieno la sua natura *politica*: un frammento di "arcipelago" urbano *dentro e contro* nel cuore del maggior centro finanziario internazionale. E infatti, in perfetto accordo con ciò, il *corretto uso* di questo spazio è indicato dalla scena iniziale del film *Blow up* (1966) di Michelangelo Antonioni: una jeep carica di una compagnia di mimi mascherati fa improvvisamente irruzione nella *plaza*; dopo un breve giro dello spazio deserto tra gli edifici, la jeep viene abbandonata e la compagnia di giovani festanti si sparge a piedi per le vie di Londra. La città del capitale è cosí riletta come palcoscenico di un gran teatro dell'assurdo; il seme a "reazione ludica" che vi viene impiantato diviene generatore di comportamenti "eversivi" in cui si colgono echi surrealisti e situazionisti. A fronte di un "caso" come questo viene da chiedersi se ci troviamo in un'epoca in cui una simile "immagine del mondo" è ancora possibile. Non è forse un caso che oggi gli incarichi più allettanti, in termini economici e di prestigio, finiscano in larga parte nelle mani degli architetti più propensi a "rifornire" (o per dir meglio, trovino adeguati studi e progetti a cui affidare il proprio sicuro "rifornimento"). Di questo "materiale" sono fatte in prevalenza le città contemporanee: gigantesche confezioni regalo senza sorprese. E qui non bisogna lasciarsi ingannare dai facili effetti di carattere estetico: la *sostanza* rimane quella di una spesso elegante salvaguardia dell'ordine costituito. Ma non sono solo gli incarichi importanti quelli con cui un architetto "produttore" deve misurarsi per potersi mostrare all'altezza del compito: il ruolo di intellettuale pubblico e mediatizzato, con tutte le responsabilità che ne conseguono. Né è in questa chiave soltanto che va valutato il suo possibile ruolo di intellettuale. Esistono -- per limitarsi all'esclusivo piano progettuale -- operazioni di dimensioni assai più misurate, a volte persino di dimensioni modeste, che costituiscono però un valido banco di prova per effettuare sperimentazioni e innovazioni capaci di originare trasformazioni produttive. Si tratta di operazioni in cui l'architetto è spesso chiamato a ruoli di "supplenza" che lo impegnano nell'elaborazione di programmi che devono variamente tener conto di condizioni locali particolari, di fruizioni insolite, di soggetti deboli, di situazioni economiche d'emergenza. Ma soprattutto si tratta di una questione di "mentalità". Si pensi ai molti interventi compiuti negli ultimi vent'anni da Lacaton & Vassal (Anne Lacaton e Jean Philippe Vassal), dal Palais de Tokyo di Parigi (2001-14) al FRAC (Fond régional d'art contemporain) Nord-Pas de Calais a Dunkerque (2009-15), differenti tra loro per genere e dimensioni, ma tutti ugualmente improntati alla medesima volontà di offrire qualcosa di più e di diverso rispetto alle attese. Arrivando anche a "forzare" le richieste poste dai bandi[^63], i progetti degli architetti francesi si segnalano per la "generosità" dei loro spazi, spesso quantitativamente maggiori di quelli previsti, e per la contemporanea rinuncia ad assumere un ruolo da protagonisti, per lasciare piuttosto la scena alle azioni destinate a installarvisi[^64]. O ancora, ai pochi interventi di Maria Giuseppina Grasso Cannizzo, tanto misurati quanto attenti a ogni minimo dettaglio: con ammirevole caparbietà e semplicità l'architetta siciliana produce le proprie opere -- la Torre di controllo nel porto turistico di Marina di Ragusa (2008-2009) e un esiguo numero di case private in Sicilia[^65] -- controllandone per intero il processo progettuale ed esecutivo secondo una modalità "artigianale" apparentemente appartenente ad altri tempi. Denominare questo tipo di interventi "architettura responsabile"[^66] significa mettere in evidenza la loro capacità di rispondere a domande socialmente complesse, ma anche singolarmente essenziali, anziché perdersi in vaniloqui o in narcisistici rispecchiamenti. E non meno rilevante, sotto il profilo della dimostrazione di "responsabilità", è il fatto che per conquistare il "diritto a esistere" a questi interventi, l'architetto -- in ciò "produttore" davvero straordinario di conflitti per buone cause -- sia non di rado costretto a ingaggiare vere e proprie battaglie *contro* tutte le circostanze che dovrebbero invece renderli attuabili. In altri casi -- e per altri livelli e posizioni -- sono sufficienti gesti invisibili, dal basso, destinati a non passare alla Storia. "Aggiustamenti", "riconfigurazioni", "rimodulazioni", che possono riguardare i rapporti interni a determinate condizioni lavorative od organizzative. Modalità silenziose di agire in senso migliorativo, uguali e contrarie a quelle solitamente adottate dagli apparati produttivi, che cambiano nel concreto il modo di operare al suo interno, predisponendo a un *minor* sfruttamento e a una *maggior* condivisione di saperi. Anche queste ultime modalità d'intervento, cosí come le prime -- per non dire poi di quelle di carattere più direttamente culturale --, prevedono sempre, al fine di poter essere produttive, uno studio, una conoscenza, un'applicazione, un *impegno* che, se non può propriamente essere definito politico, si connota però di sovente in un senso civile. Tutto ciò deve avvenire -- quando avviene -- senza dar luogo a illusioni di false liberazioni o rivoluzioni; spesso piuttosto come un'ardua e oscura "opera di resistenza" all'interno delle condizioni date e nei confronti di esse. E non deve stupire che questo terreno, alla fine, possa essere non soltanto parimenti difficile ma addirittura *più* difficile ancora per *star architects* e altri cacciatori di esposizione mediatica che non per gli architetti "normali", animati da una reale voglia di cambiare e dal coraggio e dalla pazienza di farlo. Per chiunque intraprenda questo cammino, comunque, il percorso non manca di rivelarsi accidentato e irto di pericoli: innanzitutto quello di "perdersi" nella propria stessa immagine di "architetto intellettuale"; inoltre, di tradire il proprio "mandato", ritenendolo erroneamente una "delega" conferita e ricevuta in modo permanente, e non invece da riguadagnare ogni volta da capo, con la credibilità delle proprie "azioni"; e ancora, di incorrere in vuote e sterili ripetizioni di se stesso, nell'affermazione -- e più di frequente nella difesa -- di posizioni (professionali, culturali) ormai superate ed esaurite. Da questo punto di vista, sono sempre esistite forme di lotta "intestina" fra intellettuali per la conquista dell'egemonia in un determinato ambiente e in un certo periodo; e queste, per quanto siano il segnale di una "volontà di potere" più e oltre ogni legittima "volontà di sapere", possono costituire a loro volta un auspicabile fattore di rinnovamento. Ciò, nello specifico ambito architettonico, riguarda gli spesso difficoltosi ricambi generazionali, e dunque l'inevitabile scontro tra vecchi e nuovi baricentri intellettuali[^67]: dove i primi tendono a perpetuare se stessi sulla base delle posizioni acquisite, dell'autorità guadagnata, cosí come pure di sterili arroccamenti a protezione del proprio universo di riferimenti, concepito come l'unico e il solo possibile; mentre i secondi si propongono come nuova "intelligenza" del mondo, incardinata su altri "punti archimedici", portatori non soltanto di punti di vista ma anche di saperi diversi, alla ricerca del riconoscimento di una piena dignità culturale. A ben guardare, allorché esuli da contrapposizioni puramente personali, questo scontro costituisce a sua volta un elemento capace di far avanzare il dibattito, sottoponendo a critica antiche tesi "incrostate" e passando al vaglio ipotesi inedite. Per entrambi -- anziani e giovani rappresentanti dell'ambizione a detenere l'egemonia intellettuale --, comunque, rimane da esercitare una sorveglianza reciproca a fronte del pericolo ulteriore di vecchi e nuovi accademismi. Non soltanto quello che si verifica all'interno delle scuole, dove gli architetti insegnanti -- già in un non lontano passato ma nuovamente anche oggi -- rischiano sempre di risultare "scollati" dalle problematiche attuali[^68]; ma pure il pericolo di una "stilizzazione" dei propri prodotti, di qualunque tipo essi siano; pericolo che si concretizza ad esempio nella consueta tendenza, da parte degli uni, a "sterilizzare" la propria grammatica e sintassi progettuale, e nell'insorgente (ma già sufficientemente affermato) orientamento, da parte degli altri, verso l'esercizio di un disegno completamente scollegato dalla prassi, nonché soprattutto da qualsiasi fondamento teorico. Nella scelta che l'architetto *può* sempre compiere -- va rammentato ancora una volta -- vi sono in gioco obiettivi e azioni *reali*, non utopie o chimere. Ciò a patto naturalmente che dimostri di possedere alcune capacità basilari: tra queste, innanzitutto la capacità di pensare e fare *insieme*, in modo coerente, come differenti espressioni di un'*unica* intenzione; poi la capacità di compiere ricerche, di cui i propri progetti siano la conseguenza, e non già il presupposto; la capacità di usare la storia con piena consapevolezza, perché possiede un'idea, sa a che cosa questa le/gli serve, ancora una volta in vista dei propri progetti; la capacità di interrogare parole, concetti, forme, figure, anche basilari, che l'architettura utilizza, per riverificarne il senso in vista di un loro possibile uso; la capacità di incrociare saperi diversi, tutti indispensabili a una comprensione del quadro complesso in cui il proprio lavoro si colloca; la capacità di pensare la relazione concreta tra lo *spazio* e la *vita*, che in ultima analisi è l'oggetto e lo scopo del suo intero lavoro; infine la capacità di tradurre tutto ciò in spazio. Quanto più l'architetto intellettuale è padrone dei mezzi che ha -- o che dovrebbe avere -- a propria disposizione, tanto più "tecnicamente" sa intervenire sui processi produttivi. Per fare che cosa? Da un lato, si potrebbe rispondere, per produrre grandi o piccoli mutamenti nel mondo che lo circonda. E non è tanto importante che si tratti di grandi o di piccole visioni; non è la dimensione che conta. Ovvero (si potrebbe anche dire), obiettivo dell'architetto come intellettuale dovrebbe essere di avere grandi visioni anche in piccole dimensioni. Se non è più tempo per le utopie, lo è però sempre ancora per i *progetti*; progetti mirati, circoscritti, anche minimi, ma in ogni caso progetti nel senso più sopra indicato, aventi per *soggetto* l'architettura nella sua accezione più onnicomprensiva. Dall'altro, per far diventare quegli stessi processi e il mondo in cui si collocano più comprensibili; non per rivoluzionarli, forse, ma almeno per portarli alla luce, per renderli riconoscibili. In questa prospettiva, l'opera dell'architetto intellettuale si presenta (o dovrebbe presentarsi) anche sempre come un "disvelamento", un lavoro di scavo all'interno delle condizioni date per recuperare da esse qualcosa di sottratto a un sapere collettivo. Perché quella che persegue è una causa collettiva, non individuale. Conoscere, far conoscere, demistificare, progettare, condividere. Espresso in questo modo il programma di un architetto che voglia produrre se stesso come un intellettuale apparirà più che improbo: una molteplicità di prospettive, anche contraddittorie tra loro, troppo gravose per un singolo individuo. Ma è qui che gli effetti della condivisione, "spezzando" la falsa naturalità della divisione del lavoro e dei processi produttivi, possono farsi sentire. > L'unico modo per riguadagnare una propensione ad agire è quello di > trovare nuove forme di cooperazione nella progettazione architettonica > che metterebbero allo stesso livello tutte le professioni che fanno > parte del progetto e del processo di costruzione: architetti, > costruttori e ingegneri, cosí come educatori, storici, critici, > grafici, editori, fotografi e tecnici. Coinvolgendo conoscenze > condivise, anziché specializzate, questo approccio collaborativo > all'architettura potrebbe portare a una maggiore forza professionale e > una maggior equità economica, in cui i compiti lavorativi potrebbero > essere ugualmente e non più gerarchicamente distribuiti. Ciò > porterebbe con sé una nuova definizione istituzionale di architettura > che non sarebbe più basata su relazioni gerarchiche e di sfruttamento > e su autorialità singole ma sulla cooperazione dei lavoratori come > co-produttori di architettura[^69]. Potrebbe essere questa *trasformazione* (non morte!) il futuro dell'architettura? Oppure il futuro dell'architettura (come le condizioni attuali sembrerebbero far presagire) sarà più spettrale? Un'architettura non solo prefabbricata ma addirittura preconfezionata? Un'architettura *prêt-à-porter*? La semplice risultante della complicata equazione "problema = soluzione"? Un vero paradiso per i "rifornitori" a venire... La risposta però potrebbe non essere già scritta, potrebbe passare anche attraverso una decisione, una *scelta*, pur nei limiti delle comuni "alienazioni". La scelta di scacciare i fantasmi affrontando le questioni. Potrà essere l'architetto intellettuale a farsene carico? O forse piuttosto qualcuno che -- come Foucault -- avrà il coraggio e la lucidità di riferirsi a se stesso come "un mercante di strumenti, un fabbricante di ricette, un suggeritore di obiettivi, un cartografo, un rilevatore di piani, un armaiolo..."[^70]. [^1]: Tafuri, *Progetto e utopia* cit., pp. 166-67. [^2]: *Ibid.*, p. 2. Vedi anche R. Amirante, F. Dumontet, M. Perriccioli e S. Pone, *Fortuna critica della "Tendenza"*, in "Op.cit.", n. 50, 1981, pp. 5-20, in cui gli autori accennano alla "nota tesi tafuriana della "morte dell'architettura"", cui Tafuri replica con una lettera ("Op. cit.", n. 51, 1981, p. 83) in cui definisce la frase citata "una vulgata da cui mi è persino superfluo prendere le distanze". Aggiungendo subito dopo: "Non ricordo (\...) di aver mai cantato su tombe inesistenti. (\...) Ma di estinzione di ruoli per vecchie discipline ho certo parlato". [^3]: Vedi ad esempio l'intervista di Hans van Dijk a Rem Koolhaas, in cui si legge tra l'altro: "Ho la netta impressione che Tafuri e i suoi amici abbiano in odio l'architettura. Costoro dichiarano morta l'architettura. Per lui l'architettura è una schiera di cadaveri all'obitorio": Hans van Dijk, *Rem Koolhaas Interview*, in "Wonen-TA/BK", n. 11, 1978, p. 18. [^4]: Paolo Portoghesi, *Autopsia o vivisezione dell'architettura?*, in "Controspazio", n. 6, 1969, p. 7. La lunga recensione di Portoghesi è comunque la più lucida nel criticare e -- in parte -- nel decostruire le posizioni tafuriane. [^5]: Tafuri, *Progetto e utopia* cit., p. 3. [^6]: *Ibid.*, p. 169. [^7]: Come noto, Leon Battista Alberti nel *De re ædificatoria* definisce *lineamenta* quello che potrebbe essere definito altrettanto "disegno" che "progetto"; vedi Alberti, *L'architettura* cit., vol. I, pp. 18-19. [^8]: "Il ruolo dell'architetto è quello di mediatore tra il cliente o committente, cioè la persona che decide di costruire, e la forza lavoro con i suoi supervisori, che potremmo chiamare collettivamente i costruttori": Spiro Kostof, *Preface*, in Id. (a cura di), *The Architect* cit., p. XVII. [^9]: Tafuri, *Per una critica dell'ideologia architettonica* cit., p. 77. [^10]: Tafuri, *Progetto e utopia* cit., p. 167. [^11]: De Carlo, *L'architettura della partecipazione* (1973) cit., pp. 76-77. La sezione a cui appartiene il brano citato s'intitola significativamente *È morta l'architettura: Viva l'architettura!* [^12]: *Ibid.*, p. 77. [^13]: De Carlo, *L'architettura della partecipazione* cit., p. 78. più in generale va ricordato l'impegno di De Carlo in questa direzione attraverso la rivista "Spazio e Società", da lui fondata e diretta dal 1978 al 2000: vedi Isabella Daidone, *Giancarlo De Carlo. Gli editoriali di Spazio e Società*, Gangemi, Roma 2018. [^14]: Si rammenti la già citata definizione vitruviana. Interessante tuttavia notare come il ruolo di "controllore" delle forze produttive impegnate sul cantiere assegnato all'architetto, affermato nel 1567 da Philibert Delorme nel suo *Premier tome de l'architecture* (e, un secolo prima prima di lui, da Leon Battista Alberti), appaia ancora "sorprendente" nella Francia del XVI secolo: vedi il bel saggio di Catherine Wilkinson, *The New Professionalism in the Renaissance*, in Kostof (a cura di), *The Architect* cit., pp. 124-60, in particolare p. 131. [^15]: Carl W. Condit, *The Chicago School of Architecture. A History of Commercial and Public Building in the Chicago Area, 1875-1925*, The University of Chicago Press, Chicago 1964. [^16]: Otto Antonia Graf, *Otto Wagner: Das Werk des Architekten 1860-1918*, 2 voll., Bölhau, Wien 1994; Robert Trevisiol, *Otto Wagner*, Laterza, Roma-Bari 2006. [^17]: Su ciò vedi Riccardo M. Villa, *L'architetto e la fabbrica*, in GIZMO, *Backstage. L'architettura come lavoro concreto*, a cura di Florencia Andreola, Mauro Sullam, Riccardo M. Villa, Franco Angeli, Milano 2016, pp. 17-27. più in generale, sul tema dell'evoluzione del lavoro di architettura nell'epoca della digitalizzazione, vedi Peggy Deamer e Phillip G. Bernstein (a cura di), *Building (in) the Future. Recasting Labor in Architecture*, Yale School of Architecture - Princeton Architectural Press, New Haven -- New York 2010. [^18]: A ciò per costoro si aggiungono di sovente orari molto pesanti, ben oltre le otto ore giornaliere, una "flessibilità" dell'orario che si traduce in serate e nottate occupate, un'estensione del lavoro ai sabati e alle domeniche. Il tutto all'interno di un quadro in cui le ferie sono un sogno, il trattamento di fine rapporto un miraggio e la pensione una chimera. Di questi temi mi sono occupato in *L'architettura come mestiere*, in [www.gizmoweb.org/2012/03/larchitettura-come-mestiere/](http://www.gizmoweb.org/2012/03/larchitettura-come-mestiere/), 25 marzo 2012, e *Architettura e lotta di classe*, in [www.gizmoweb.org/2014/05/architettura-e-lotta-di-classe/](http://www.gizmoweb.org/2014/05/architettura-e-lotta-di-classe/), 4 maggio 2014. [^19]: Aureli, *Labor and Work in Architecture* cit., p. 72. [^20]: *Ibid.*, p. 74. [^21]: Carlo Vercellone (a cura di), *Capitalismo cognitivo. Conoscenza e finanza nell'epoca postfordista*, Manifestolibri, Roma 2006. [^22]: Pier Vittorio Aureli, *History, Architecture and Labour: A Program for Research*, in Aaron Cayer, Peggy Deamer, Sben Korsh, Eric Peterson e Manuel Shvartz­berg (a cura di), *Asymmetric Labors: The Economy of Architecture in Theory and Practice*, The Architecture Lobby, New York 2016, p. 158. [^23]: Giulio Barazzetta, *Che fare*, in GIZMO, *Backstage. L'architettura come lavoro concreto* cit., p. 50. [^24]: Filarete, *Trattato di architettura* cit., libro II, pp. 39-41. [^25]: Benjamin, *L'autore come produttore* cit., pp. 207 sgg. [^26]: In realtà, come scrive Massimo Cacciari, *Introduzione* a Max Weber, *Il lavoro intellettuale come professione*, Mondadori, Milano 2018, p. XXVII, "... per quest'epoca, non si dà (...) interpretazione che non sia trasformazione". [^27]: Benjamin, *L'autore come produttore* cit., p. 207 (il corsivo è mio). [^28]: Carl Schmitt, *L'epoca delle neutralizzazioni e delle spoliticizzazioni* (1929), in Id., *Le categorie del "politico"* cit., pp. 167-83. [^29]: Virno, *Grammatica della moltitudine* cit. [^30]: *Ibid.*, p. 14. [^31]: Su ciò rimando al mio *L'architettura come lavoro concreto*, in GIZMO, *Backstage. L'architettura come lavoro concreto* cit., pp. 7-10. [^32]: Oltre ai lavori citati in precedenza, vedi Peggy Deamer (a cura di), *The Architect as Worker. Immaterial Labor, The Creative Class and the Politics of Design*, Bloomsbury, London 2015. Sul tema, in senso più allargato, vedi anche *IWW: Immaterial Workers of the World*, in "DeriveApprodi", n. 18, numero monografico, 1999. [^33]: Non è letteralmente possibile dar conto del numero delle citazioni di *Der Autor als Produzent* nel dibattito architettonico, dapprima degli anni settanta, e poi nuovamente in quello più recente, quasi sempre però senza adeguate storicizzazioni di esso. Sulle possibili ambiguità del suo impiego, basti ricordare che i medesimi passi del saggio sono utilizzati *contra* Tafuri da Portoghesi, *Autopsia o vivisezione dell'architettura?* cit. (recensione a *Per una critica dell'ideologia architettonica*), e poi dallo stesso Tafuri con altre finalità in *L'Architecture dans le Boudoir. The language of criticism and the criticism of language*, in "Oppositions", n. 3, 1974, pp. 37-62, dove nota tra l'altro che "qui Benjamin si rivela ambiguo e può prestarsi a diverse interpretazioni" (p. 62). [^34]: Il rimando è evidentemente a Max Weber, *La politica come professione* (1919), in *Il lavoro intellettuale come professione* cit., pp. 49-130. [^35]: Massimo Cacciari, *Progetto*, in "Laboratorio Politico", n. 2, 1981, p. 88. [^36]: *Ibid.*, p. 114. [^37]: Tafuri, *Il "progetto" storico* cit., pp. 3-30. [^38]: Scrive Tafuri, *ibid.*, p. 13: "L'autentico problema è come progettare una critica capace di porre di continuo in crisi se stessa mettendo in crisi il reale". [^39]: "Il "progetto" storico è sempre "progetto di una crisi"": *ibid.*, p. 5. Su ciò vedi Biraghi, *Progetto di crisi* cit., pp. 9-53. [^40]: Massimo Cacciari, *Di alcuni motivi in Walter Benjamin*, in "Nuova Corrente", n. 67, 1975, p. 238. Il saggio di Benjamin cui si fa riferimento è *L'opera d'arte nell'epoca della sua riproducibilità tecnica* (1936). [^41]: Cacciari, *Di alcuni motivi in Walter Benjamin* cit., p. 241. [^42]: Vedi al proposito la concezione della "relazione" in Enzo Paci, *Dall'esistenzialismo al relazionismo*, D'Anna, Messina-Firenze 1957. [^43]: Sugli effetti "migliorativi" delle trasformazioni dei rapporti di produzione, vedi Benjamin, *L'autore come produttore* cit., p. 212. Ovviamente, nel suo caso, tale "miglioramento" va inteso in relazione alla funzione didattico-organizzativa della produzione in vista di una rivoluzione comunista. Nella situazione odierna ogni "miglioramento" degli apparati citati va invece valutato alla luce della sua capacità di apportare una maggiore equità al loro interno e di fornire migliori condizioni ai loro fruitori. [^44]: Per quanto limitato alla sola Italia, è interessante *Intellettuali e potere* (*Storia d'Italia Einaudi. Annali 4*, a cura di Corrado Vivanti, Torino 1981), in cui la figura dell'intellettuale si frange in molteplici soggetti che, a seconda dei contesti sociali e storici, sono impegnati in settori e a livelli tra di loro molto differenti (medicina, pedagogia, arte, religione, ecc.). Vedi inoltre Alberto Asor Rosa, *Intellettuali*, in *Enciclopedia Einaudi*, Torino 1979, vol. VII, pp. 801 sgg. [^45]: Corrado Vivanti, *Presentazione*, in *Intellettuali e potere* cit., pp. XIX-XX. [^46]: Sull'intellettuale come "destabilizzatore" e "risvegliatore di coscienze" (da Socrate a Heinrich Heine -- ma anche, si potrebbe aggiungere, a Karl Kraus e oltre), vedi Maldonado, *Che cos'è un intellettuale?* cit., pp. 92-95. Inoltre vedi Edward W. Said, *Dire la verità. Gli intellettuali e il potere*, Feltrinelli, Milano 2014. [^47]: Cacciari, *Introduzione* cit., p. XI. [^48]: Il riferimento è a Rossi, *L'architettura della città* cit. Per un'analisi delle fonti rossiane del libro, vedi Elisabetta Vasumi Roveri, *Aldo Rossi e "L'architettura della città". Genesi e fortuna di un testo*, Allemandi, Torino 2010. [^49]: Ci si riferisce ai *playgrounds* realizzati da van Eyck ad Amsterdam per conto dell'amministrazione pubblica tra il 1947 e il 1978. Oltre a Lefaivre (a cura di), *Aldo van Eyck. Playgrounds* cit., vedi anche Anna van Lingen e Denisa Kollarova, *Aldo van Eyck. Seventeen Playgrounds*, Lecturis, Eindhoven 2016, e Merijn Oudenampsen, *Aldo van Eyck and the City as Playground*, in *Urbanacción 07/09*, a cura di Ana Mendez de Andés, La Casa Encendida, Madrid 2010, pp. 25-39. [^50]: È il caso dell'Orphanage di Amsterdam (1955-60) dello stesso van Eyck, su cui vedi Francis Strauven, *Aldo Van Eyck's Orphanage. A Modern Monument*, NAi Publishers, Rotterdam 1997. [^51]: Gramsci, *Quaderni del carcere* cit., vol. III, Quaderno 12 (XXIX), § 3, p. 1551. [^52]: Benjamin, *L'autore come produttore* cit., p. 209. [^53]: Fortini, *Verifica dei poteri* cit., pp. 41-57. [^54]: Va qui rammentata l'ambiguità del titolo albertiano *De re ædificatoria*, che esclude deliberatamente l'uso dell'ovvio vocabolo vitruviano *architectura* per i suoi dieci libri, scegliendone uno più "edificante". Per un'accurata analisi di tale titolo, vedi Leon Battista Alberti, *Prologo al 'De re ædificatoria'*, a cura di Elisabetta Di Stefano, Edizioni ETS, Pisa 2012, pp. 9-17. [^55]: Tra coloro che con maggior costanza e serietà si sono impegnati in questi anni in una lettura dei ruoli rivestiti dall'architetto e dallo storico dell'architettura nel corso del Novecento vi è Carlo Olmo: vedi in particolare *Architettura e Novecento. Diritti, conflitti, valori*, Donzelli, Roma 2010, e *Architettura e storia. Paradigmi della discontinuità*, Donzelli, Roma 2013. [^56]: Slavoj Žižek, *Il parallasse architettonico. Pennacchi e altri fenomeni di lotta di classe*, in Id., *Il trash sublime*, a cura di Marco Senaldi, Mimesis, Sesto San Giovanni 2013, pp. 56-57. [^57]: Come scrive Raniero Panzieri (in *Relazione sul neocapitalismo* (1961), in Id., *La ripresa del marxismo-leninismo in Italia*, Nuove Edizioni Operaie, Roma 1977, pp. 170-71), "si potrebbe dire che i due termini capitalismo e sviluppo sono la stessa cosa". [^58]: Luc Boltanski e Ève Chiapello, *Il nuovo spirito del capitalismo*, Mimesis, Sesto San Giovanni 2014. [^59]: Martin Heidegger, *La questione della tecnica* (1953), in Id., *Saggi e discorsi*, a cura di Gianni Vattimo, Mursia, Milano 1980, p. 22. L'inno da cui è tratto il verso citato di Friedrich Hölderlin è *Patmos* (1803). [^60]: Alison Smithson e Peter Smithson, *The Charged Void: Architecture*, The Monacelli Press, New York 2001, p. 248. [^61]: Alison Smithson e Peter Smithson, in Marco Vidotto, *A + P Smithson*, Sagep Editrice, Genova 1991, p. 35. Sul carattere "didattico" del progetto per "The Economist" insiste anche Kenneth Frampton, *The Economist and the Hauptstadt*, in "Architectural Design", n. 194, 1965, p. 62. [^62]: E aggiunge: "La migliore tendenza è falsa se non insegna quale atteggiamento si deve tenere per soddisfarla": Benjamin, *L'autore come produttore* cit., p. 212. [^63]: È il caso, tra gli altri, dell'École d'Architecture di Nantes (2003-2009) dove, "come uno strumento pedagogico, il progetto mette in discussione il program­ma e le pratiche della scuola tanto quanto le norme, le tecnologie e il proprio processo di elaborazione": vedi www.lacatonvassal.com/index.php?idp=55#. [^64]: Antonio Lavarello, *Indifferenza come forma di impegno politico*, in www.gizmoweb.org/2015/12/indifferenza-come-forma-di-impegno-politico-edifici-e-spazi-pubblici-nellopera-di-lacaton-vassal/#\_ftn14, 24 dicembre 2015. [^65]: Maria Giuseppina Grasso Cannizzo, *Loose Ends*, a cura di Sara Marini, Lars Muller Publishers, Zürich 2014; Sara Marini, *Sull'autore. Maria Giuseppina Grasso Cannizzo e le sue foreste di cristallo*, Quodlibet, Macerata 2017. [^66]: Vedi il capitolo *L'architettura responsabile*, in Biraghi e Micheli, *Storia dell'architettura italiana 1985-2015* cit., pp. 329-52. [^67]: Su ciò rimando ai miei *L'ultima resistenza ovvero la lotta degli anziani contro i giovani*, in GIZMO, *MMX. Architettura zona critica* cit., pp. 15-21, e *Non si può fare meno dell'architettura*, in Chiara Baglione (a cura di), *Ernesto Nathan Rogers 1909-1969*, Franco Angeli, Milano 2012, pp. 196-98. [^68]: Vedi il capitolo *Dall'architettura disegnata all'architettura insegnata: l'accademia della composizione*, in Biraghi e Micheli, *Storia dell'architettura italiana 1985-2015* cit., pp. 183-95. Sempre valida -- pur con i necessari adeguamenti -- rimane la critica condotta da Massimo Scolari in *Una generazione senza nomi*, in "Casabella", n. 606, 1993, pp. 45-47. [^69]: Aureli, *Labor and Work in Architecture* cit., p. 81. [^70]: Foucault, *Disciplina e democrazia. Intervista di J.-L. Ezine* cit., p. 90. --- # vim: spelllang=it spell ...