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title: L'architetto come intellettuale
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author: Marco Biraghi
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date: 2019
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lang: it
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...
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> Ma ciò che ci appare necessario è sempre anche altamente improbabile.
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>
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> *Massimo Cacciari*
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# Introduzione
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La constatazione della crisi dell'intellettuale nell'epoca contemporanea
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è ormai talmente diffusa e generalizzata da essere divenuta un luogo
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comune; un argomento oggetto di facili ironie[^1] e oggi quasi "di
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moda", non fosse che l'intellettuale in quanto tale raramente si lascia
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rapportare alla moda.
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In realtà, la crisi dell'intellettuale ha origini ben più lontane e
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profonde, tanto da aver generato, a partire dalla seconda metà del
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Novecento, una lunga serie di diagnosi al capezzale del malato, vuoi per
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prescrivergli possibili rimedi, vuoi per preconizzarne il decesso ormai
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prossimo[^2].
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Come tutto ciò che viene insistentemente osservato o ripetuto, anche la
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categoria di "intellettuale" ha perduto, nel corso del tempo, il suo
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contenuto, o piuttosto ha visto progressivamente venir meno il suo
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senso, finendo per apparire un corpo svuotato. Lasciando da parte
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antichi e nuovi pregiudizi, per cercare di comprendere che cosa sia
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l'intellettuale, e quale possa essere il suo eventuale ruolo -- e, più
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nello specifico, quale possa essere il ruolo dell'architetto inteso come
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intellettuale -- nel mondo attuale, è opportuno ripartire dalla
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"classica" analisi fatta da Antonio Gramsci[^3]. Per questi,
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innanzitutto, "tutti gli uomini sono intellettuali", anche se "non tutti
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gli uomini hanno nella società la funzione di intellettuali"[^4]. Da
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ciò deriva che "non si può parlare di non-intellettuali, perché
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non-intellettuali non esistono. (...) Non c'è attività umana da cui si
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possa escludere ogni intervento intellettuale, non si può separare
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l'*homo faber* dall'*homo sapiens*"[^5].
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Questa precisazione (o questa non-distinzione) risulta fondamentale per
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non confinare la categoria dell'"intellettuale" all'interno di una
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gabbia separata, dorata o meno che sia.
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> Ogni uomo (...), all'infuori della sua professione esplica una qualche
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> attività intellettuale, è cioè un "filosofo", un artista, un uomo di
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> gusto, partecipa di una concezione del mondo, ha una consapevole linea
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> di condotta morale, quindi contribuisce a sostenere o a modificare una
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> concezione del mondo, cioè a suscitare nuovi modi di pensare[^6].
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Il problema semmai per Gramsci consiste nella "creazione di un nuovo
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ceto intellettuale" che sia capace di
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> ... elaborare criticamente l'attività intellettuale che in ognuno
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> esiste in un certo grado di sviluppo, modificando il suo rapporto con
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> lo sforzo muscolare-nervoso verso un nuovo equilibrio e ottenendo che
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> lo stesso sforzo muscolare-nervoso, in quanto elemento di un'attività
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> pratica generale, che innova perpetuamente il mondo fisico e sociale,
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> diventi il fondamento di una nuova e integrale concezione del
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> mondo[^7].
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In questo senso Gramsci, al di là della figura dell'intellettuale
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"tradizionale", appartenente a una "categoria sociale
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cristallizzata"[^8] e legato alle funzioni culturali più consuete, vede
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un terreno d'azione più fertile per l'intellettuale nell'applicazione
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diretta di questi allo "sviluppo delle forme reali di vita"[^9]:
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> Nel mondo moderno l'educazione tecnica, strettamente legata al lavoro
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> industriale anche il più primitivo o squalificato, deve formare la
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> base del nuovo tipo di intellettuale.
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Di conseguenza,
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> ... il modo di essere del nuovo intellettuale non può più consistere
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> nell'eloquenza, motrice esteriore e momentanea degli affetti e delle
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> passioni, ma nel mescolarsi attivamente alla vita pratica, come
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> costruttore, organizzatore, "persuasore permanentemente".
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Con l'ulteriore avvertenza che tale tipo di intellettuale deve altresí
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oltrepassare la "tecnica-lavoro" per giungere "alla tecnica-scienza e
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alla concezione umanistica storica, senza la quale si rimane
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"specialista"".
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Non è un caso che per Gramsci l'effetto più immediato di tale ingresso
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nel mondo tecnico-scientifico (ma anche storico-umanistico) da parte
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degli intellettuali sia la relazione che questi istituiscono con la
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politica. Politica da intendersi nel senso più originario, come *technē
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politikē*, come arte-tecnica di indirizzo e gestione della *polis*, e
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più in generale della cosa pubblica. Se ciò dapprima produce una classe
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di "intellettuali di partito" "pronti a piegarsi in caso di necessità
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all'ineludibile disciplina richiesta dalla tattica e
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dall'organizzazione", come rileva Habermas[^10], in seguito -- e in
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particolare dopo il termine del secondo conflitto mondiale -- le cose
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cambieranno:
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> Gli intellettuali che si imposero dopo il 1945 -- come Camus e Sartre,
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> Adorno e Marcuse, Max Frisch e Heinrich Böll -- assomigliavano ai
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> modelli più antichi di scrittori e professori che assumevano sí
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> posizioni di parte, ma non erano politicamente legati a nessun
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> partito. Cogliendo una data occasione, senza essere stati richiesti o
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> averlo concordato con qualcuno, essi si inducevano, al di là della
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> loro professione, a fare un uso pubblico del loro sapere
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> professionale. Senza pretendere alcuno *status* elitario, non si
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> richiamavano ad altra legittimazione che non fosse il loro ruolo di
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> cittadino di uno Stato democratico[^11].
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All'interno dei rapporti tra intellettuali e politica -- cosí come
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ovviamente di quelli tra intellettuali e mondo della tecnica -- rientra
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a pieno titolo anche la figura dell'architetto. Vale la pena forse
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citare a questo proposito quanto scriveva Manfredo Tafuri nelle pagine
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finali di *Progetto e utopia*:
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> La riflessione sull'architettura, in quanto critica dell'ideologia
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> concreta, "realizzata" dall'architettura stessa, non può che (...)
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> raggiungere una dimensione specificamente politica. È solo a questo
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> punto -- dopo, cioè, aver fatto ragione di ogni ideologia disciplinare
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> -- che è lecito riproporre il tema dei ruoli nuovi del tecnico,
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> dell'organizzatore dell'edilizia, del *planner*, nell'ambito delle
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> nuove forme dello sviluppo capitalistico. E quindi, delle tangenze
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> possibili o delle inevitabili contraddittorietà fra tale tipo di
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> lavoro tecnico-intellettuale e le condizioni materiali della lotta di
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> classe[^12].
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Quest'ultimo accenno non deve far perdere di vista l'attualità della
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notazione tafuriana. Il fatto che oggi la "lotta di classe" possa
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apparire un reperto archeologico (questione che verrà ridiscussa più
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oltre) non deve indurre l'idea che la relazione tra architetti e
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politica sia venuta meno; e lo stesso vale per quella tra architetti e
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sfera intellettuale.
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Che l'architetto sia un intellettuale è cosa evidente non soltanto
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nell'ottica della distinzione gramsciana tra "sforzo di elaborazione
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intellettuale-cerebrale e sforzo muscolare-nervoso"[^13]: lo è anche in
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un senso immediatamente intuitivo, almeno per "noi moderni". Ed è
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probabilmente inutile rispolverare le vecchie analisi marxiste sulla
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separazione tra lavoro intellettuale e lavoro manuale[^14] per affermare
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qualcosa che risulta di per sé sufficientemente chiaro. Del resto, già
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la celeberrima definizione datane da Vitruvio ("Et ut litteratus sit,
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peritus graphidos, eruditus geometria, historias complures noverit,
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philosophos diligenter audierit, musicam scierit, medicinae non sit
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ignarus, responsa iurisconsultorum noverit, astrologiam caelique
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rationes cognitas habeat")[^15] fa emergere il carattere
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iperintellettuale della preparazione dell'architetto, una somma di
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conoscenze "tecnico-scientifiche" e "storico-umanistiche", per dirla con
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le parole di Gramsci.
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> Il sapere dell'architetto è ricco degli apporti di numerosi ambiti
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> disciplinari \[o "specialismi", come li si denominerebbe oggi\] e di
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> conoscenze relative a vari campi, e al suo giudizio vengono sottoposti
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> i risultati prodotti dalle altre tecniche[^16].
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Proprio quest'ultima considerazione vitruviana illumina il senso che ha
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per lui tale accumulazione di saperi, e di conseguenza il ruolo
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rivestito dall'architetto: non tanto quello dell'erudito, del
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multi-*connoisseur* fine a se stesso, quanto piuttosto quello del
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coordinatore, del supervisore, del regista (dal latino *regere*,
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dirigere); tutte attività per le quali necessita -- al di là delle
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singole competenze -- il possesso di uno sguardo ampio e di una visione
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sintetica. Una comprensione e un'organizzazione di molti elementi
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contemporaneamente, per le quali sono appunto richieste spiccate
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capacità intellettuali.
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E tuttavia, se l'architetto possiede storicamente una vocazione
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intellettuale, ciò non significa che il suo non sia anche -- e molto --
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un lavoro manuale. Basti solo pensare al disegno, o a tutte le attività
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che stanno dietro, e *dentro*, il compimento di un'opera di
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architettura, e che prevedono per l'appunto l'erogazione di un lavoro
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ri-produttivo, vale a dire non squisitamente produttivo o
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"creativo"[^17]. All'interno di questa pluralità di attività svolte
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dall'architetto, l'attività intellettuale non è distinguibile come una
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dimensione isolata e specifica: piuttosto, si tratta della modalità
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generale entro cui questi *comprende* tutte le proprie attività, incluse
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quelle manuali come, appunto, il disegno (per Filarete "fondamento e via
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d'ogni arte che di mano si faccia"[^18], vale a dire strumento per
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comunicare l'"idea"). Una modalità di *comprehendere* (letteralmente,
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di mettere insieme i particolari aspetti sensibili che una molteplicità
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di entità hanno tra loro in comune) che definisce in quanto tale il suo
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operare da architetto, ma che alcuni tra loro dimostrano di possedere in
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maniera più accentuata di altri. E lo stesso vale anche per alcune
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epoche. Ad esempio, in Italia -- dalla metà degli anni cinquanta fino
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all'incirca alla metà degli anni settanta, come si vedrà meglio più
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oltre -- la spiccata attitudine degli architetti a pensare e ad agire
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come intellettuali ha fortemente influenzato, nel bene e nel male, il
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quadro complessivo dell'epoca: da un lato concorrendo a dar vita a uno
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dei momenti più fecondi della recente storia disciplinare italiana,
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mediante la produzione di alcuni edifici di altissima qualità, cosí come
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con l'elaborazione di altrettanto fondamentali contributi teorici;
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dall'altro facendo fin troppo spesso astrazione dal campo di
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applicazione concreto dell'architettura, e dando cosí spazio al fiorire
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-- avvenuto precisamente in quel periodo -- della speculazione
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edilizia[^19] e al compiersi di un vero assalto ai territori italiani,
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di cui proprio la parte migliore dell'architettura italiana, arroccata
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in una posizione di aristocratica "separatezza", ha finito per rendersi
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involontariamente complice.
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Sono probabilmente i cascami di questa stagione della cultura
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architettonica italiana, intensa ma contraddittoria, ad aver lasciato in
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eredità alle fasi storiche successive -- in particolar modo nel nostro
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paese -- un'idea di architetto come prototipo per eccellenza
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dell'intellettuale fumoso e inconcludente: una sorta di Fuffas *ante
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litteram*, una figura un po' ridicola e un po' patetica,
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autoreferenziale e incapace di rapportarsi alla realtà. Questo modello
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pur parodistico dell'architetto intellettuale ha però sicuramente
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giocato un ruolo nella scarsa considerazione di cui la categoria nel suo
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complesso ha goduto in Italia nello scorso cinquantennio, e fors'anche
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nella collettiva "ritirata" degli architetti da posizioni di impegno
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politico e sociale, vale a dire, in una parola sola, intellettuale.
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D'altronde, la crisi dell'architetto intellettuale (cosí come quella
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dell'intellettuale *tout court*) va di pari passo con la crisi più
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generale -- ed epocale -- di un sistema di valori a cui tradizionalmente
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il mondo degli intellettuali si rifaceva. E ciò su scala planetaria,
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non certo solo locale. Ed è sintomatico che sia proprio un architetto
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intellettuale -- Tomás Maldonado, d'origini argentine ma con lunghe
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frequentazioni europee e italiane -- a tornare a interrogarsi, nel 1995,
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sul mutevole significato della figura dell'intellettuale nel corso del
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tempo e sul suo incerto destino in quello attuale[^20]. Un'incertezza
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(o una "crisi d'identità")[^21] che troverebbe una sua spiegazione, tra
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le altre possibili, nella "democratizzazione del sapere" e nella
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diffusione generalizzata del lavoro intellettuale (e -- andrebbe
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aggiunto -- nell'elevata taylorizzazione e proletarizzazione subita dai
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lavoratori di tali settori), che avrebbe come effetto la crescita
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smisurata di un "pensiero operante", vale a dire direttamente applicato
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ai contesti produttivi e comunicativi. Ciò che non impedisce tuttavia a
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Maldonado di chiudere la sua analisi sulle note di una "sorprendente"
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speranza in merito alla possibilità di una futura rinascita di un
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"pensiero discorrente", dialogico, capace in ultima analisi di tornare a
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"scompaginare (...) l'appiattimento della nostra visione del
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mondo"[^22].
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Gli eventi, almeno per il momento, non sembrano aver dato ragione alle
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attese di Maldonado. Il generalizzato ritorno in auge, in tempi più
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recenti, dell'architetto come professionista, ovvero come figura
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"semplicemente" dotata di capacità tecniche e di competenze specifiche,
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e disinteressata invece allo sviluppo di un proprio pensiero teorico,
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sembra segnare un cambio di tendenza dal significato apparentemente
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inequivocabile e forse irrevocabile. Di ciò potrebbe costituire
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un'ulteriore conferma, da vent'anni circa a questa parte, l'imporsi del
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fenomeno dell'*archistar* (o *star architect*, o *starchitect*)[^23]:
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una nuova forma di celebrità fortemente mediatizzata che non ha paragoni
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con quella sperimentata da architetti di epoche precedenti, e che
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assimila invece l'architetto contemporaneo ad altri protagonisti dello
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*show business* globale (attori, personaggi televisivi, sportivi, ecc.).
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Una notorietà originata assai più dall'aspetto spettacolare e
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sorprendente dei loro edifici che non dalla comprensione (ma in fondo si
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potrebbe anche dire: dalla sussistenza stessa) del loro "messaggio".
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Le conseguenze di questo fenomeno, anche dopo che esso pare avere ormai
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superato la sua fase più acuta, non hanno tardato a farsi sentire:
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l'architettura, nel corso degli ultimi due decenni, sembra avere
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accresciuto la propria popolarità presso un pubblico sempre più
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allargato. Non che ovviamente l'architettura di oggi sia più conosciuta
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o studiata di quella delle epoche precedenti: piuttosto, essa pare
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essere entrata nell'orizzonte percettivo di persone che per il resto
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continuano a non occuparsene affatto, almeno in maniera diretta e
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cosciente.
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Se tale impressione corrisponde effettivamente alla realtà, ciò è da far
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risalire, oltreché alla sporadica capacità dell'architettura attuale di
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"scandalizzare" i ben (poco) pensanti, a quella di dare forma e sostanza
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-- almeno in apparenza -- ai "desideri" della società contemporanea,
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vale a dire di rispondere soddisfacentemente alle sue "attese". Il
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discorso in realtà è un po' più complicato. Affermare che nel corso
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della sua storia l'architettura sia sempre stata espressione delle
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società in cui si è sviluppata è una verità tanto ovvia da rischiare di
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essere confutabile. Nella *polis* greca, il tempio, il teatro, persino
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gli edifici sportivi (si pensi a Olimpia, a Nemea o a Epidauro), ben al
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di là dall'essere semplici contenitori di funzioni sociali, svolgevano
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il ruolo di riattivatori rituali di un fondamento rimosso da cui
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l'intera comunità originava. Nella città romana (soprattutto con
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l'espansione imperiale), gli edifici e gli spazi pubblici si facevano
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portatori di un messaggio politico che non era affatto espressione della
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realtà in cui si inserivano. Nella città rinascimentale, gli edifici
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rappresentavano frammenti di un ordine dotato di una ben precisa
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funzione ideologica, che spesso però è entrato in conflitto con la città
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precedente. E altrettanto si potrebbe dire delle altre epoche.
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Rispetto alle attese cui architettura e città hanno saputo rispondere
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nel corso del Novecento (per la gran parte attese di tipo sociale:
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richieste di abitazioni per tutti, di servizi sociali, di spazi
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pubblici), quelle odierne possiedono un carattere ben diverso. In
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realtà non tanto diverso da risultare imprevedibile. Lo spazio della
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città, nella storia, è stato teatro di una continua "contesa" tra idee
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di suo uso addirittura opposte:
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> Da un lato la città come un luogo di *otium*, luogo di scambio umano,
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> sicuramente fattivo, attivo, intelligente, una dimora insomma, e da un
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> altro il luogo dove poter sviluppare nel modo più efficace i
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> *nec-otia*[^24].
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Oggi all'architettura (e alla città) sembra non si chieda nulla di più
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che dar forma visibile e tangibile ai *negotia*, agli affari, vale a
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dire a quello "spirito commerciale" cui sono improntate nel modo più
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profondo e completo le società -- e all'interno di esse, le *vite* --
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occidentali[^25]. Ciò non va inteso in un senso ristretto,
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|
limitatamente a quegli spazi destinati alla vendita di cui pure gli
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architetti nell'ultimo secolo si sono intensamente occupati[^26].
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Piuttosto, svettanti grattacieli e sfavillanti shopping center -- ma
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anche edifici per l'intrattenimento e il tempo libero variamente
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concepiti -- paiono rispondere perfettamente "a tono" alle più o meno
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esplicite richieste dei cittadini-consumatori che non soltanto li
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utilizzano, ma che addirittura sembrano aderire totalmente al programma
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"ideologico" di cui questi edifici costituiscono l'oggettivazione. Un
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programma "ideologico" -- quello disposto dal sistema capitalistico --
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che si lascia assumere senza troppi pensieri, con leggerezza, e nel
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quale i cittadini-consumatori paiono felici di rispecchiarsi.
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Si potrebbe obiettare che tali domande "collettive" sono probabilmente
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assai poco spontanee, poco realistiche, e che addirittura esse sono del
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tutto irreali, nel senso che non sono formulate affatto dalla
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maggioranza di coloro che usufruiscono delle città e dei suoi edifici; e
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che piuttosto sono il prodotto della *simulazione di un desiderio* che
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le forze economiche oggi dominanti nelle nostre società proiettano
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sull'inconscio collettivo dei cittadini-consumatori, con un'intensità
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tanto maggiore al crescere delle dimensioni dei contesti urbani[^27].
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Ma, quale che sia la verità, questa "illusione di soddisfazione sociale"
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nei confronti dell'architettura urbana per il momento funziona, e trova
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una piena rispondenza negli architetti incaricati di realizzarla.
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L'architetto -- oggi come nei momenti storici precedenti -- mette la
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propria opera a disposizione della società in cui vive. Lo faceva
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Filippo Brunelleschi con la Repubblica di Firenze, lo facevano Gian
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Lorenzo Bernini e Francesco Borromini con il Papato di Roma, e lo fanno
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gli architetti attuali con i loro committenti. In apparenza, non vi è
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nessuna differenza; in realtà, i modi in cui gli architetti si sono
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messi al servizio della società nel corso del tempo presentano tra di
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loro difformità consistenti[^28]. L'architetto ha spesso rivestito un
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ruolo di consigliere e di propositore, oltreché di realizzatore. E in
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non poche occasioni è arrivato anche a calarsi -- in passato -- nei
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|
panni del pensatore, dell'utopista, del sognatore, declinando
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l'etimologia del progetto nel suo senso più diretto e immediato: quello
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di un'evocazione -- qui e ora -- del futuro (*proiectus* in latino è
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propriamente l'azione del gettare in avanti, e dunque del proiettare).
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Oggi invece, almeno in una gran parte dei casi, l'architetto appare
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preda di intricate dinamiche che, se da un lato le/gli vietano di porsi
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in una posizione di "ingenua" neutralità, dall'altro la/lo portano a
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vedere in maniera quasi "connaturata" ("naturalizzata", si potrebbe dire
|
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in termini marxisti) il proprio ruolo di "operatore specializzato"
|
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all'interno di un processo ben più vasto e composito di cui il proprio
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progetto rappresenta con tutta evidenza soltanto un "momento". Ed è
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degno di nota che, proprio in questo ambito, all'architetto sia
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richiesto non soltanto di svolgere ruoli esecutivi, ma anche -- in
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|
alcuni casi particolarmente complessi -- di fornire contributi
|
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"ideativi", spingendosi al di là delle proprie "tradizionali competenze
|
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disciplinari"[^29], in qualità di "suggeritore" di possibili funzioni e
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|
utilizzi, sempre comunque inseriti in una logica complessiva che non
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|
le/gli è dato in alcun modo di mettere in discussione, per non parlare
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poi di criticarla apertamente. Ciò, ben lungi dal conferire
|
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|
all'architetto un ruolo "decisionale" autonomo, finisce per attestarne
|
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|
la posizione ancillare, riducendo il suo contributo a uno "scandaglio
|
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|
preliminare di ipotesi formalizzate"[^30]. Ed è dunque palese come,
|
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|
stando le cose in questo modo, la sua "massima aspirazione" possa essere
|
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|
quella di limitarsi a farsi interprete di "programmi ideologici" già
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stabiliti da altri, aggiungendovi al più il valore di un'effettiva o
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presunta "originalità" della forma.
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Quale sia il messaggio in questione, potrebbe risultare a questo punto
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quasi enigmatico, se non fosse invece sin troppo evidente, trattandosi
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dell'"eterna" (nella logica capitalistica) esortazione al consumo di cui
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|
il sistema ha endemicamente bisogno; un consumo che non va inteso
|
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|
esclusivamente nel senso dell'acquisizione di merci, di beni materiali,
|
|||
|
ma anche in quello più astratto e generale dell'assunzione del sistema
|
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|
in quanto tale come *valore*. In questo senso, l'esortazione al consumo
|
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|
capitalistico -- consumo di sé, oltreché di ogni singola merce -- si
|
|||
|
traduce immediatamente nell'*affermazione* (niente affatto nella
|
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|
semplice "richiesta") di un *consenso* nei propri stessi confronti[^31]:
|
|||
|
nei confronti delle proprie "regole", dei propri "valori". In
|
|||
|
quest'opera cosí importante di persuasione, che il capitalismo conduce
|
|||
|
in quel modo seduttivo e apparentemente non coercitivo che gli è
|
|||
|
proprio, l'architettura ha l'incombenza fondamentale di tradurre tutto
|
|||
|
ciò in oggetti, spazi e luoghi concreti.
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|||
|
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|
A cinquant'anni di distanza dal saggio *Per una critica dell'ideologia
|
|||
|
architettonica*[^32], e a poco meno dalla sua già citata rielaborazione
|
|||
|
in forma di libro, in cui Tafuri stilava una lucida diagnosi in merito
|
|||
|
ai "compiti che lo sviluppo capitalistico ha tolto all'architettura" --
|
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|
primo e fondamentale fra questi, la dimensione utopica -- lasciando ad
|
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|
essa soltanto il "dramma" di "vedersi obbligata a tornare *pura
|
|||
|
architettura*, istanza di forma priva di utopia, nei casi migliori,
|
|||
|
sublime inutilità"[^33], l'architetto si ritrova a fare i conti con una
|
|||
|
condizione nella quale davvero la possibilità dell'utopia sembra essere
|
|||
|
ormai tramontata, e in cui non rimane null'altro che la dimensione della
|
|||
|
realtà (sublimemente inutile, o piuttosto pragmaticamente utilissima)
|
|||
|
quale suo campo d'azione. Una realtà niente affatto neutrale, e che
|
|||
|
anzi il suo stesso apporto -- insieme a quello di altre forze[^34] --
|
|||
|
contribuisce a configurare nella sua forma consensuale.
|
|||
|
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|
Individuare le condizioni in cui l'architetto odierno si trova,
|
|||
|
riconoscerne i limiti, cercare di comprendere i modi di un loro
|
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|
possibile superamento, è quanto si prefigge il presente libro. A
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|||
|
partire dalla chiara consapevolezza che non è in ogni caso proponibile
|
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|
alcuna inversione di rotta, alcun semplicistico e nostalgico "ritorno
|
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|
alle origini". I percorsi della storia, per quanto tortuosi e
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|||
|
apparentemente (o effettivamente) poco logici, sono sempre e comunque
|
|||
|
incontrovertibili. Ciò su cui dunque è necessario interrogarsi, dopo
|
|||
|
avere debitamente esplorato il profilo e il campo d'azione degli
|
|||
|
architetti di un passato lontano o recente che hanno esercitato il
|
|||
|
proprio ruolo di intellettuali, è quale sia il senso oggi -- e, ancora
|
|||
|
di più, quale potrà essere il senso *in futuro* -- di un architetto
|
|||
|
capace di andare oltre l'esecuzione di incarichi assegnati, un
|
|||
|
architetto che sappia farsi interprete *attivo* della realtà,
|
|||
|
prefigurando per essa possibilità alternative, o quantomeno cercando di
|
|||
|
metterla in crisi.
|
|||
|
|
|||
|
[^1]: Vedi ad esempio *Intello Academy* dell'economista e psicanalista
|
|||
|
Corinne Maier, tradotto in italiano con l'imbarazzante titolo
|
|||
|
*Intellettualoidi di tutto il mondo, unitevi!*, Bompiani, Milano 2007.
|
|||
|
|
|||
|
[^2]: Vedi, tra i molti altri, Elémire Zolla, *L'eclissi
|
|||
|
dell'intellettuale*, Bompiani, Milano 1959; Zygmunt Bauman, *La
|
|||
|
decadenza degli intellettuali. Da legislatori a interpreti*, Bollati
|
|||
|
Boringhieri, Torino 2007; Frank Furedi, *Che fine hanno fatto gli
|
|||
|
intellettuali?*, Cortina, Milano 2007.
|
|||
|
|
|||
|
[^3]: Antonio Gramsci, *Quaderni del carcere* (1929-35), 4 voll., a cura
|
|||
|
di Valentino Gerratana, Einaudi, Torino 2014.
|
|||
|
|
|||
|
[^4]: Gramsci, *Quaderni del carcere* cit., vol. III, Quaderno 12
|
|||
|
(XXIX), § 1, p. 1516.
|
|||
|
|
|||
|
[^5]: *Ibid.*, § 3, p. 1550.
|
|||
|
|
|||
|
[^6]: *Ibid.*, pp. 1550-51.
|
|||
|
|
|||
|
[^7]: *Ibid.*, p. 1551.
|
|||
|
|
|||
|
[^8]: *Ibid.*, Quaderno 11 (XVIII), § 16, p. 1406.
|
|||
|
|
|||
|
[^9]: *Ibid.*, vol III, Quaderno 12 (XXIX), § 3, p. 1551.
|
|||
|
|
|||
|
[^10]: Jürgen Habermas, *Il ruolo dell'intellettuale e la causa
|
|||
|
dell'Europa*, Laterza, Roma-Bari 2011, p. 7.
|
|||
|
|
|||
|
[^11]: *Ibid*. Su ciò vedi anche Michael Walzer, *L'intellettuale
|
|||
|
militante. Critica sociale e impegno politico nel Novecento*, il
|
|||
|
Mulino, Bologna 1991.
|
|||
|
|
|||
|
[^12]: Manfredo Tafuri, *Progetto e utopia. Architettura e sviluppo
|
|||
|
capitalistico*, Laterza, Roma-Bari 1973, pp. 169-70.
|
|||
|
|
|||
|
[^13]: Gramsci, *Quaderni del carcere* cit., vol. III, Quaderno 12
|
|||
|
(XXIX), § 3, p. 1550.
|
|||
|
|
|||
|
[^14]: Oltre a Karl Marx e Friedrich Engels, *L'ideologia tedesca*
|
|||
|
(1845), Editori Riuniti, Roma 1971, p. 21 e *passim*, vedi, tra gli
|
|||
|
altri, Alfred Sohn-Rethel, *Lavoro intellettuale e lavoro manuale. Per
|
|||
|
la teoria della sintesi sociale*, Feltrinelli, Milano 1977.
|
|||
|
|
|||
|
[^15]: "... e che tu abbia una istruzione letteraria, che sia esperto
|
|||
|
nel disegno, preparato in geometria, che conosca un buon numero di
|
|||
|
racconti storici, che abbia seguito con attenzione lezioni di filosofia,
|
|||
|
che conosca la musica, che abbia qualche nozione di medicina, che
|
|||
|
conosca i pareri dei giuristi, che abbia acquisito le leggi
|
|||
|
dell'astronomia": Vitruvio, *De Architectura*, 2 voll., Einaudi, Torino
|
|||
|
1997, libro I.3, p. 14.
|
|||
|
|
|||
|
[^16]: *Ibid.*, libro I.1, p. 13.
|
|||
|
|
|||
|
[^17]: Per la distinzione tra "lavoro" e "opera" vedi Hannah Arendt,
|
|||
|
*Vita activa. La condizione umana* (1958), Bompiani, Milano 2011,
|
|||
|
pp. 58 sgg. Per un'applicazione di questa distinzione all'architettura,
|
|||
|
vedi Pier Vittorio Aureli, *Labor and Work in Architecture*, in "Harvard
|
|||
|
Design Magazine", n. 46, 2018, pp. 71-81.
|
|||
|
|
|||
|
[^18]: Antonio Averlino detto il Filarete, *Trattato di architettura*
|
|||
|
(1464 circa), 2 voll., a cura di Anna Maria Finoli e Liliana Grassi, Il
|
|||
|
Polifilo, Milano 1972, libro I, pp. 10-11.
|
|||
|
|
|||
|
[^19]: Emblematico al proposito è il racconto di Italo Calvino, *La
|
|||
|
speculazione edilizia*, Einaudi, Torino 1963 (ma finito di scrivere nel
|
|||
|
1957), il cui protagonista è un giovane intellettuale che, trascinato
|
|||
|
dallo "spirito dell'epoca", si imbarca in un'operazione immobiliare
|
|||
|
sulla Riviera ligure affiancato a un equivoco imprenditore edile.
|
|||
|
|
|||
|
[^20]: Tomás Maldonado, *Che cos'è un intellettuale? Avventure e
|
|||
|
disavventure di un ruolo*, Feltrinelli, Milano 1995. Altrettanto
|
|||
|
sintomatico, comunque, è il fatto che, tra tutti i nomi citati nel
|
|||
|
libro, non ve ne sia neppure uno d'un architetto.
|
|||
|
|
|||
|
[^21]: *Ibid.*, p. 95.
|
|||
|
|
|||
|
[^22]: *Ibid.*, p. 94.
|
|||
|
|
|||
|
[^23]: Gabriella Lo Ricco e Silvia Micheli, *Lo spettacolo
|
|||
|
dell'architettura. Profilo dell'archistar*^©^, Bruno Mondadori, Milano
|
|||
|
2003.
|
|||
|
|
|||
|
[^24]: Massimo Cacciari, *La città*, Pazzini Editore, Rimini 2009,
|
|||
|
p. 23.
|
|||
|
|
|||
|
[^25]: *The Harvard Design School Guide to Shopping*, a cura di Chuihua
|
|||
|
Judy Chung, Jeffrey Inaba, Rem Koolhaas e Sze Tsung Leong, Taschen, Köln
|
|||
|
2001.
|
|||
|
|
|||
|
[^26]: Vedi, ad esempio, Dario Scodeller, *Negozi. L'architetto nello
|
|||
|
spazio della merce*, Electa, Milano 2007.
|
|||
|
|
|||
|
[^27]: Su ciò vedi Jean Baudrillard, *La società dei consumi. I suoi
|
|||
|
miti e le sue strutture*, il Mulino, Bologna
|
|||
|
2010. Al proposito vedi anche le ricerche condotte da Vanni Codeluppi,
|
|||
|
*Lo spettacolo della merce. I luoghi del consumo dai 'passages' a
|
|||
|
'Disney World'*, Bompiani, Milano 2000; Id., *La vetrinizzazione
|
|||
|
sociale. Il processo di spettacolarizzazione degli individui e della
|
|||
|
società*, Bollati Boringhieri, Torino 2007; Id., *Metropoli e luoghi del
|
|||
|
consumo*, Mimesis, Milano 2014.
|
|||
|
|
|||
|
[^28]: Spiro Kostof (a cura di), *The Architect. Chapters in the
|
|||
|
History of the Profession*, University of California Press, Berkeley
|
|||
|
2000, che tuttavia -- per quanto riguarda i periodi dal 1700 in avanti
|
|||
|
-- si limita ad analizzare il contesto anglosassone e nordamericano.
|
|||
|
|
|||
|
[^29]: Manfredo Tafuri, *Storia dell'architettura italiana 1944-1985*,
|
|||
|
Einaudi, Torino 1986, p. 206. Il "caso" in questione è quello del
|
|||
|
Lingotto di Torino.
|
|||
|
|
|||
|
[^30]: *Ibid.*, p. 207. più in generale vedi anche -- per limitarsi alla
|
|||
|
sola Italia -- il capitolo *"Reconversio urbis I": Venezia, Milano,
|
|||
|
Torino, Firenze*, in Marco Biraghi e Silvia Micheli, *Storia
|
|||
|
dell'architettura italiana 1985-2015*, Einaudi, Torino 2013, pp. 38-59.
|
|||
|
|
|||
|
[^31]: Interessante a questo proposito constatare come la società
|
|||
|
capitalistica abbia il proprio modello nella fabbrica. E non a caso
|
|||
|
proprio qui mutano -- con il passare del tempo -- i rapporti sociali,
|
|||
|
indirizzandosi progressivamente verso l'ottenimento di un consenso.
|
|||
|
Sull'argomento vedi il fondamentale Michael Burawoy, *Manufacturing
|
|||
|
Consent: Changes in the Labor Process under Monopoly Capitalism*,
|
|||
|
University of Chicago Press, Chicago 1979. "Per comprendere le dinamiche
|
|||
|
sociali che avvengono nelle fabbriche a capitalismo sviluppato occorre
|
|||
|
riconoscere che le politiche di produzione un tempo fondate unicamente
|
|||
|
su metodi coercitivi si modificano e si ampliano in modo da rendere
|
|||
|
possibile un progressivo coinvolgimento consensuale della manodopera nel
|
|||
|
proprio lavoro. In altri termini, con l'evoluzione storica del
|
|||
|
capitalismo, le politiche di produzione passano gradualmente dal
|
|||
|
dispotismo all'egemonia. Con questa espressione, tratta da Gramsci,
|
|||
|
Burawoy intende una politica che combina organicamente forza e
|
|||
|
persuasione, coercizione e consenso, e che fornisce una base ideologica
|
|||
|
di legittimazione al proprio esercizio che è accettata anche da coloro
|
|||
|
su cui il potere è esercitato": Giuseppe Bonazzi, *Storia del pensiero
|
|||
|
organizzativo*, Franco Angeli, Milano 2008, p. 145.
|
|||
|
|
|||
|
[^32]: Manfredo Tafuri, *Per una critica dell'ideologia architettonica*,
|
|||
|
in "Contropiano", n. 1, 1969, pp. 31-79.
|
|||
|
|
|||
|
[^33]: Tafuri, *Progetto e utopia* cit., p. 3.
|
|||
|
|
|||
|
[^34]: Edward S. Herman e Noam Chomsky, *La fabbrica del consenso. La
|
|||
|
politica e i mass media*, Il Saggiatore, Milano 2014.
|
|||
|
|
|||
|
# L'architettura come merce e l'architetto come "rifornitore"
|
|||
|
|
|||
|
Una trasformazione profonda, lenta e apparentemente inesorabile ha avuto
|
|||
|
luogo con particolare intensità nel corso degli ultimi cento anni: la
|
|||
|
trasformazione dell'architettura (intesa come fatto concreto, materiale,
|
|||
|
tridimensionale) da "oggetto d'uso" a merce. Questo fenomeno non
|
|||
|
costituisce nulla di sorprendente, o di anormale, considerato il
|
|||
|
contesto generale nel quale si svolge. Ciò nondimeno, per chi se ne
|
|||
|
occupa da un punto di vista "interno" (disciplinare o "scientifico" che
|
|||
|
dir si voglia), cosí come per chi la osserva distrattamente da lontano,
|
|||
|
da "fuori", l'architettura può risultare "strana" in queste vesti.
|
|||
|
Perciò, provare a fissare brevemente tale fenomeno può valere a
|
|||
|
intenderlo nell'ottica della disciplina e a cercare di comprendere le
|
|||
|
sue conseguenze in un senso più generale.
|
|||
|
|
|||
|
Tale trasformazione in realtà ha avuto inizio ben da prima: in quanto
|
|||
|
oggetto d'uso, l'architettura ha da gran tempo cessato di essere
|
|||
|
prodotta da colei/colui cui era destinata, proprietario o fruitore che
|
|||
|
fosse, e dunque il suo valore d'uso si è presto tramutato in valore
|
|||
|
d'uso sociale; e in qualità di valore d'uso sociale è divenuto un
|
|||
|
oggetto di scambio e ha acquisito un valore di scambio[^1]. Con ciò
|
|||
|
l'architettura, come qualsiasi altro oggetto nelle società nelle quali
|
|||
|
predomina il modo di produzione capitalistico, ha già virtualmente
|
|||
|
compiuto la sua trasmutazione in merce: arrivando anzi a costituire --
|
|||
|
come a tutti ben noto -- uno dei fondamenti stessi della ricchezza
|
|||
|
pubblica e privata, e rappresentando valori economici spesso assai
|
|||
|
cospicui, nella forma di proprietà immobiliari dotate di un proprio
|
|||
|
specifico mercato.
|
|||
|
|
|||
|
Ma pur se tecnicamente avvenuto ormai da lungo tempo, il passaggio
|
|||
|
dell'architettura da oggetto d'uso a merce è privo fino al principio del
|
|||
|
XX secolo di un elemento fondamentale al suo definitivo compimento: il
|
|||
|
trapassare del carattere di merce dal livello del puro valore di scambio
|
|||
|
alla totalità dei suoi aspetti. Progettazione, rappresentazione,
|
|||
|
costruzione, commercializzazione, sono tutti momenti del processo
|
|||
|
produttivo dell'architettura che a vario titolo vengono sottoposti a una
|
|||
|
più o meno palese e intensa mercificazione. La storia dell'architettura
|
|||
|
del Novecento è, sotto molti riguardi, la storia del progressivo cammino
|
|||
|
di questa, non tanto o soltanto verso una "modernità" genericamente o
|
|||
|
stilisticamente intesa, quanto piuttosto verso il suo divenire *prodotto
|
|||
|
di consumo*[^2]. L'abitazione, di questo processo, rappresenta il caso
|
|||
|
forse maggiormente emblematico. Se si pone mente allo sviluppo della
|
|||
|
residenza, in tutte le sue forme e a tutti i suoi livelli, nel corso
|
|||
|
dell'ultimo secolo[^3], ad esempio, non si può che constatare il suo
|
|||
|
completo coinvolgimento in questo processo: l'industrializzazione dei
|
|||
|
metodi costruttivi, la standardizzazione e la prefabbricazione dei
|
|||
|
componenti edilizi e degli elementi d'arredo, la serializzazione dei
|
|||
|
"modelli" abitativi, le stesse tecniche di pubblicizzazione e di
|
|||
|
vendita: non c'è campo in cui la residenza non abbia adottato le
|
|||
|
medesime strategie utilizzate per gli altri prodotti di consumo. Ciò --
|
|||
|
si badi bene -- ha avuto conseguenze tanto positive quanto negative.
|
|||
|
Cosí, dagli inizi del Novecento in avanti, la residenza è stata spesso
|
|||
|
oggetto di ricerche e di sperimentazioni tecnicamente e socialmente
|
|||
|
all'avanguardia, volte a migliorarne le "prestazioni", e non di rado
|
|||
|
anche a diminuirne i costi; ma è stata pure oggetto di sfruttamenti
|
|||
|
intensivi e di operazioni a carattere puramente speculativo, oltreché
|
|||
|
funzionali a precise politiche di ghettizzazione sociale, come risulta
|
|||
|
evidente osservando quanto è accaduto nelle periferie delle città di
|
|||
|
molti paesi occidentali, in particolare negli anni cinquanta e sessanta.
|
|||
|
|
|||
|
Non sono qui in discussione gli esiti di queste operazioni. E il
|
|||
|
problema non è neppure quello di distribuire "promozioni e bocciature"
|
|||
|
ai rispettivi architetti. La funzione dell'architettura rimane comunque
|
|||
|
strutturale al sistema; e neppure il "mito riformista", che ha
|
|||
|
lungamente attraversato l'Europa nel corso del Novecento, è riuscito ad
|
|||
|
avere ragione delle sue contraddizioni.
|
|||
|
|
|||
|
A questa vicenda appartengono alcune delle migliori idee e realizzazioni
|
|||
|
-- in termini di impegno politico sul piano urbano e di studio di
|
|||
|
soluzioni innovative alla scala architettonica -- che si possano
|
|||
|
annoverare nell'ambito del XX secolo. Si pensi ad esempio al caso della
|
|||
|
Francoforte di Ernst May. Il lavoro svolto in qualità di assessore
|
|||
|
all'edilizia, con la collaborazione di un ingente numero di architetti
|
|||
|
che formeranno la cosiddetta "brigata May", rivela in pieno lo sforzo
|
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|
per riscattare le condizioni di partenza -- in termini di possibilità
|
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|
economiche e di standard dimensionali -- delle numerose *Siedlungen*
|
|||
|
(per un ammontare totale di circa 12 000 appartamenti) progettate tra il
|
|||
|
1926 e il 1930, mediante l'impiego di equipaggiamenti tecnologici e di
|
|||
|
dispositivi di altra natura del tutto inusitato per quelle che sono e
|
|||
|
rimangono a tutti gli effetti case popolari. Dovendo sottostare a
|
|||
|
vincoli dimensionali alquanto esigui (40-45 mq per un alloggio per
|
|||
|
quattro persone), May e i suoi collaboratori riservano una particolare
|
|||
|
attenzione ai servizi (tra essi la famosa *Frankfurter Küche*, la
|
|||
|
cucina-laboratorio ultra-efficente di Margarete Schütte-Lihotzky)[^4],
|
|||
|
agli impianti, agli spazi comuni, agli edifici pubblici e alle
|
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attrezzature collettive. In questo senso, la dotazione di impianti di
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riscaldamento e di lavanderie centralizzati, di asili infantili, di
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campi da gioco e di ricreazione, di centri sociali, e persino
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l'installazione in ciascun complesso residenziale di impianti-radio
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centrali per offrire "la possibilità di promuovere in futuro lo spirito
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comunitario attraverso trasmissioni radiofoniche interne che abbracciano
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la sfera di una *Siedlung*"[^5], pongono in evidenza l'importanza che
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May assegna a tutto ciò che può fungere da fattore di connessione
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sociale. Si tratta di una complessa operazione culturale e
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organizzativa condotta sia con strumenti specificamente architettonici
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(la standardizzazione delle componenti edilizie e l'utilizzo per la
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costruzione di pannelli prefabbricati) sia con altri mezzi, tra cui --
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oltre a quelli già citati -- la pubblicazione di una rivista mensile,
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"Das neue Frankfurt", che tra il 1926 e il 1931 affronta una serie di
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questioni cruciali come l'*Existenzminimum*, l'istruzione e l'igiene, ma
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anche questioni a prima vista estranee alla cultura architettonica, come
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la fotografia sperimentale, il teatro, il film documentario,
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l'automobile utilitaria. Nonostante la molteplicità degli approcci,
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ogni elemento messo in campo da May risulta riconducibile a una
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concezione unitaria che pone al suo centro -- come ha scritto Giorgio
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Grassi -- uno "stile di vita" ispirato "a una disciplina rigorosa, a una
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norma morale"[^6]. È significativo che tutti questi accorgimenti si
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connettano tra loro secondo una metodologia che attinge dal repertorio
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della tecnica avanguardistica del "montaggio" (non a caso Tafuri, a
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proposito della nuova Francoforte di May, evoca la "catena di
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montaggio")[^7]. E tuttavia, questo "sogno di un "socialismo dal volto
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umano" (...) mistifica il proprio essere tutto rivolto a stimolare i
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processi produttivi"[^8]: un'anticipazione della "meccanizzazione" della
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casa borghese.
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Diverso il caso -- ma non diversi gli effetti -- delle proposte
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residenziali avanzate da Le Corbusier a partire dai primi anni venti.
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La *machine-à-habiter* è per lui lo strumento sociale per "evitare la
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rivoluzione"[^9], ovvero per attuarla in termini architettonici, in modo
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pacifico. Come l'automobile utilitaria (la stessa di cui si occupava
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"Das neue Frankfurt"), l'architettura prodotta in serie gli appare
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destinata a cambiare la vita dei suoi utenti, e non semplicemente a
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mettere loro a disposizione le proprie prestazioni in una versione più
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aggiornata. Quale diretta conseguenza di ciò, i tradizionali elementi
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dell'edificio (pareti, finestre, coperture, ecc.) risultano
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profondamente aggiornati, come lo sarebbero i pezzi di un meccanismo per
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effetto di un'innovazione tecnologica, di un ruolo e di un funzionamento
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differenti, e non per ragioni estetiche o di "gusto". Montandoli uno a
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uno secondo un "sistema logico" che dalla cellula elementare della
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Maison Dom-Ino giunge fino al complesso macchinario urbano della Ville
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Radieuse, Le Corbusier pone in evidenza il necessario legame tra tutte
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le parti -- o i "pezzi" -- della costruzione dello spazio sociale, da
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quello privato a quello pubblico, e ne mostra la riducibilità a un unico
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"discorso".
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Che la "rivoluzione" architettonica attuata (o quantomeno, attuabile) in
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questo modo sia concepita da Le Corbusier in termini del tutto
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antirivoluzionari da un punto di vista politico -- com'è reso esplicito
|
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dall'aut aut che egli stesso insistentemente propone: "Architettura o
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rivoluzione" --, non la priva affatto di un carattere a propria volta
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politico: infatti
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> ... la strategia politica dietro questo progetto è chiara: la Maison
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> Dom-Ino doveva risolvere la penuria di abitazioni per lavoratori, e i
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> lavoratori erano intesi come i potenziali proprietari delle proprie
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> abitazioni. Il modello Dom-Ino inscriveva la proprietà privata --
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> ovvero il miglior modo, per il capitale, per controllare i lavoratori
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> -- direttamente nel processo costruttivo della casa. Qui il legame
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> tra forma urbana e investimento economico già stabilito dalla
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> trasformazione di Parigi di Haussmann è perfezionato alla scala della
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> singola abitazione[^10].
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L'intento politico del ciclo che connette la cellula alla città va
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dunque valutato nella sua interezza come espressione della volontà di
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costruire un mondo nuovo per l'"uomo nuovo" prodotto dal capitalismo
|
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(vale a dire per "l'uomo contemporaneo" di cui lo stesso Le Corbusier
|
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parla, il quale "avverte (...) l'esistenza di un mondo che si va
|
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elaborando regolarmente, logicamente, chiaramente, che produce con
|
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|
purezza cose utili e utilizzabili")[^11]. E se le condizioni di
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esistenza capitalistiche non risultano in alcun modo sovvertite bensì
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casomai potenziate dal programma lecorbusieriano, è in ogni caso una
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|
mutazione fondamentale quella di cui esso si fa interprete, come
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riconosce anche Benjamin: "La *ville contemporaine* di Le Corbusier è
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pur sempre un complesso edilizio lungo una strada maestra. Senonché,
|
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col fatto che questa strada è ora percorsa da automobili e che nel
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centro del complesso atterrano gli aerei, tutto si è trasformato"[^12].
|
|||
|
Inoltre, in quanto "regolabile e movibile" e priva di "aura"[^13], la
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|||
|
*machine-à-habiter* costituisce "l'epilogo della "casa" come figurazione
|
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|
mitologica"[^14]. Essa è pronta per diventare un prodotto di serie, un
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dispositivo, vale a dire un prodotto dell'industria:
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> La grande industria deve occuparsi della costruzione e produrre in
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> serie gli elementi della casa. (...) Se si sradicano dal proprio cuore
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> e dalla propria mente i concetti sorpassati della casa e si esamina la
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|
> questione da un punto di vista critico e oggettivo, si arriverà alla
|
|||
|
> casa-strumento, casa in serie, sana (anche moralmente) e bella
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|
> dell'estetica degli strumenti di lavoro che accompagnano la nostra
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|
> esistenza[^15].
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Da qui alla casa-merce il passo è breve.
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Tuttavia, nonostante i fervidi auspici di Le Corbusier, è soprattutto
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sotto un profilo formale e figurativo che l'architettura mostra --
|
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soprattutto a partire dal secondo dopoguerra, e in modo ancora più
|
|||
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evidente negli ultimi trent'anni -- la sua integrale assimilazione a una
|
|||
|
merce. È stato nel corso di questo periodo, infatti, che si è verificato
|
|||
|
un sempre più rilevante processo di identificazione dell'architettura
|
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|
con l'immagine. Facendo ricorso a diversi "espedienti", essa ha fatto
|
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|
gradualmente registrare lo spostamento del proprio "baricentro" dalla
|
|||
|
mitologia centrale del moderno, consistente essenzialmente nella
|
|||
|
rappresentazione delle funzioni, a quella -- precipuamente postmoderna
|
|||
|
-- della comunicazione e della mediatizzazione di se stessa. Nel
|
|||
|
compiere questa "evoluzione" l'architettura si dichiara idonea, prima
|
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|
che a ogni altra cosa, alla propria diffusione e circolazione. Ed è
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|||
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precisamente in quest'ottica che va intesa la sua trasformazione in
|
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immagine.
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Già nel 1967, con sorprendente lucidità, Guy Debord aveva diagnosticato
|
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il destino che attendeva "tutta la vita delle società nelle quali
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|
predominano condizioni moderne di produzione"[^16], vale a dire il modo
|
|||
|
di produzione capitalistico: trasformarsi in "un'immensa accumulazione
|
|||
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di spettacoli". Per Debord, nell'epoca del capitalismo avanzato, tutto
|
|||
|
ciò che in precedenza "era direttamente vissuto si è allontanato in una
|
|||
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rappresentazione". In essa l'accumulazione del capitale è giunta a un
|
|||
|
tale grado da farsi spettacolo, "da divenire immagine"[^17]. E se "lo
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|
spettacolo (...) è l'equivalente generale astratto di tutte le
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|||
|
merci"[^18], nella proliferazione delle immagini dobbiamo riconoscere
|
|||
|
null'altro che la proliferazione totale della merce. Anche il
|
|||
|
rovesciamento dell'affermazione di Debord proposto più recentemente da
|
|||
|
Matteo Pasquinelli ("Il capitale è spettacolo ad un tale grado di
|
|||
|
accumulazione da trasformarsi in una skyline di cemento")[^19] non
|
|||
|
sposta -- e anzi conferma -- la propensione del capitale a investire in
|
|||
|
merce-architettura. Ed è proprio in quanto merce che essa persegue
|
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|
l'obiettivo che accomuna tutte le merci nell'epoca moderna e
|
|||
|
contemporanea: presentarsi come perenne novità. "La novità è una qualità
|
|||
|
indipendente dal valore d'uso della merce"[^20]: non si potrebbe
|
|||
|
esprimere in maniera più sintetica la relazione che interconnette merce,
|
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|
nuovo e apparenza. Essa appartiene al regno dell'immaginario, non a
|
|||
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quello dell'utile.
|
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Nonostante l'affermazione di Alois Riegl che il "valore di novità" sia
|
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|
il *beatus possidens* di "un luogo occupato per millenni", esso ha fatto
|
|||
|
il suo ingresso nell'ambito architettonico relativamente di
|
|||
|
recente[^21]. L'apposizione del prefisso neo- di fronte alla parata
|
|||
|
degli stili del passato, lungo tutto l'Ottocento, costituisce la prima
|
|||
|
avvisaglia di un fenomeno in precedenza del tutto sconosciuto, almeno in
|
|||
|
quei termini; mentre la denominazione di Art Nouveau, utilizzata tra
|
|||
|
fine Ottocento e primo Novecento per indicare il complesso di
|
|||
|
manifestazioni artistiche tese a segnare una svolta rispetto al passato,
|
|||
|
da un lato, e a dare un volto alla classe borghese divenuta soggetto
|
|||
|
ormai dominante sulla scena della storia, dall'altro, parla chiaramente
|
|||
|
dell'ansia di arte e architettura di quel periodo di caratterizzarsi in
|
|||
|
senso innovativo; anzi, di identificarsi *tout court* con il nuovo.
|
|||
|
Cosí come -- in maniera se possibile ancora più esplicita -- è
|
|||
|
significativo che negli anni venti e trenta, soprattutto in ambito
|
|||
|
tedesco e olandese, vengano impiegate formule come "Neues Bauen", "Neue
|
|||
|
Baukunst" o "Nieuwbouw" per riferirsi all'insieme delle esperienze
|
|||
|
relative all'architettura moderna[^22]. Soltanto in seguito il termine
|
|||
|
"nuovo" scomparirà dal lessico ufficiale dell'architettura, per
|
|||
|
penetrare in compenso sempre più nel profondo della sua
|
|||
|
ideologia. "Nuovo" a questo punto non è più l'attributo di una
|
|||
|
determinata "famiglia" architettonica, comprendente edifici e progetti
|
|||
|
contraddistinti da caratteri comuni e riconoscibili, riconducibili nel
|
|||
|
loro complesso alla categoria di "moderno", quanto piuttosto quello di
|
|||
|
ogni architettura dotata di una propria spiccata individualità, ovvero
|
|||
|
-- per dirlo in modo più preciso -- di una propria *singolarità*;
|
|||
|
un'architettura la cui "novità" è dunque fondamentalmente rappresentata
|
|||
|
dalla propensione per una "differenza" che è spesso sinonimo di
|
|||
|
stravaganza. Il "nuovo", in quest'ottica, serve all'architettura
|
|||
|
soprattutto per distinguersi, per attrarre l'attenzione: un accorgimento
|
|||
|
che essa ha evidentemente assimilato dalla pubblicità, e che, nel
|
|||
|
rimarcare la sua riduzione a immagine, ne conferma in pieno il carattere
|
|||
|
di merce. Cosí come, secondo Tafuri, per converso, "non è un caso che
|
|||
|
il destino dei formalismi si concluda sempre nell'utilizzazione
|
|||
|
"pubblicitaria" del *lavoro sulla forma*"[^23].
|
|||
|
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|
In realtà il potere delle immagini *sub specie architecturae* ha una
|
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|
storia ben più lunga e prestigiosa. Anche volendo limitarsi al XX
|
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|
secolo, si potrebbero ricordare i grandi edifici del potere politico nei
|
|||
|
regimi totalitari, cosí come quelli del potere economico nelle
|
|||
|
democrazie: edifici che, nell'adempimento delle proprie funzioni,
|
|||
|
trasmettono un fascio di idee che comprendono variamente -- e spesso
|
|||
|
contemporaneamente -- ufficialità, autorità, eternità, inattaccabilità,
|
|||
|
solidità, stabilità. Del tutto diverso è invece il discorso per quanto
|
|||
|
riguarda quegli edifici il cui "scopo" precipuo è rivestire il ruolo di
|
|||
|
*icone*[^24]. Gli "edifici iconici", nella definizione che ne dà Pier
|
|||
|
Vittorio Aureli,
|
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> ... sono tipicamente landmarks singolari il cui scopo è interamente
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> iscritto all'interno della logica dell'urbanizzazione. E infatti,
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|||
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> l'obiettivo dell'edificio iconico è un'architettura post-politica
|
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|
> spogliata da qualsiasi significato che non sia la celebrazione della
|
|||
|
> performance economica aziendale[^25].
|
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|
Prima di questa fase, l'iconicità ha rappresentato la caratteristica
|
|||
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distintiva di alcuni edifici eccezionali, nel senso che -- letteralmente
|
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|
-- costituivano delle eccezioni. Nel corso del XX secolo edifici
|
|||
|
iconici in un modo del tutto diverso da quelli successivi sono stati ad
|
|||
|
esempio il Salomon R. Guggenheim Museum (1943-59) a New York di Frank
|
|||
|
Lloyd Wright e l'Opera House (1957-73) di Sydney, di Jørn Utzon. In
|
|||
|
entrambi i casi i loro autori hanno fatto ricorso a soluzioni formali
|
|||
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che sembrano aver tenuto conto della singolarità di cui essi ritenevano
|
|||
|
fossero portatori i loro edifici. In realtà, nel caso del Guggenheim,
|
|||
|
ciò che viene progressivamente emergendo dalla lunghissima gestazione
|
|||
|
dell'edificio è -- più di ogni altra cosa -- una volontà
|
|||
|
"iconoclasta"[^26], anziché iconica, e di conseguenza un autoritratto
|
|||
|
della personalità del suo autore, di cui esso ha finito per diventare il
|
|||
|
massimo emblema; mentre nel caso dell'Opera House -- pur tra le enormi
|
|||
|
difficoltà progettuali e realizzative che hanno portato il suo autore a
|
|||
|
disconoscerne la paternità[^27] -- è non soltanto Sydney ma addirittura
|
|||
|
l'Australia intera a essere "condensata" nella sua celebre immagine.
|
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Ma è forse con il Centre Georges Pompidou (1971-77) che architettura e
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|
immagine sembrano arrivare a identificarsi perfettamente. E tuttavia,
|
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|
ancora una volta, con molte radicali differenze rispetto non solo ai
|
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|
suoi successori, ma anche a ogni banale pretesa simbolica. Per quanto
|
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|
assai rilevante sotto molteplici punti di vista, infatti, il Centre
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|
Pompidou non può certo ambire a rappresentare, come parte per il tutto,
|
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|
il luogo in cui sorge -- Parigi o la Francia --, e neppure l'intera
|
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|
opera dei suoi autori: Renzo Piano, Richard Rogers o Peter Rice. Esso
|
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piuttosto rappresenta nella maniera più compiuta il tentativo delle
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|
autorità francesi -- e del presidente Pompidou in primo luogo -- di dare
|
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|
vita a un edificio che rispondesse, incorporandole, alle istanze del
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|||
|
Maggio '68 francese. Ciò di cui la grande "macchina per
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comunicare"[^28] è la rappresentazione è la totale *autonomia* della sua
|
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immagine rispetto a qualsiasi suo "contenuto". Come ha rilevato Jean
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Baudrillard,
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> ... con il suo intreccio di tubi (...) con la sua fragilità
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> (calcolata?), che dissuade da ogni mentalità o monumentalità
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> tradizionale,
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la macchina Beaubourg
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> ... proclama apertamente che il nostro tempo non sarà mai più quello
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|
> della durata, che la nostra sola temporalità è quella del ciclo
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> accelerato e del riciclaggio, quella del circuito e del transito di
|
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|
> fluidi[^29].
|
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|
In questo processo di trasmutazione il Centre Pompidou si afferma come
|
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|
immagine, non certo dell'istituzione museale che nega di essere, bensì
|
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|
della "rottura delle molecole culturali e \[del\] loro ricombinarsi in
|
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|
prodotti di sintesi". Immagine dunque della frantumazione di
|
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|
un'immagine, sostituita da un festoso apparato di strutture metalliche,
|
|||
|
tubi colorati e spazi liberi (almeno nelle intenzioni) per usi diversi.
|
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|
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|
È interessante notare al proposito come -- attraverso un'operazione di
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|
grande complessità, condotta in tempi rapidissimi (il bando di concorso
|
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|
è messo a punto già nel 1970, ad appena due anni di distanza dall'acme
|
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|
del movimento) e in cui sono coinvolti numerosissimi soggetti con
|
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|
svariate competenze -- la "controcultura" del '68, ovvero la cultura
|
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|
"alternativa" sviluppatasi in Francia e non solo in quell'intorno di
|
|||
|
anni, venga fatta propria, integrata in un edificio sorto per volontà di
|
|||
|
un potere destinato comunque ad affermare (e a confermare) la propria
|
|||
|
indiscussa centralità. E non è meno sorprendente il fatto che il potere
|
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|
compia un cosí vistoso "spostamento" dalla propria auto-rappresentazione
|
|||
|
tradizionale di quanto lo sia il fatto che per farlo utilizzi le
|
|||
|
medesime "armi" del nemico (tra essi, gli echi del progetto del Fun
|
|||
|
Palace di Cedric Price per Joan Littlewood e dei disegni "tecno-utopici"
|
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|
di Archigram). Ed è altresí interessante che le istanze di rinnovamento
|
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|
e le aspirazioni di egemonia culturale dello Stato francese vengano
|
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|
incanalate in una forma corrispondente a ciò che nuovamente Baudrillard
|
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|
definirà un "ipermercato della cultura", ovvero "un oggetto da
|
|||
|
consumare, (...) un edificio da manipolare"[^30]: dove i processi di
|
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|
reificazione e di mercificazione sono ormai trasparenti.
|
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|
Pur radicandosi sul medesimo "ceppo", la ramificazione del discorso
|
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|
relativa agli *iconic buildings* si sviluppa in un modo differente, a
|
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|
partire proprio dal ruolo da essi occupato all'interno dei rispettivi
|
|||
|
contesti urbani. Il Guggenheim Museum di Bilbao (1991-97) di Frank O.
|
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|
Gehry si è guadagnato il titolo di capostipite della famiglia degli
|
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|
*iconic buildings* non soltanto per le sue forme vistose e sorprendenti
|
|||
|
ma anche per lo studiato posizionamento in un punto strategico della
|
|||
|
città, sulla riva del fiume Nervión[^31]. L'intera vicenda del
|
|||
|
Guggenheim -- compresi gli articolati rapporti tra il governo dei Paesi
|
|||
|
Baschi, il direttore della Solomon R. Guggenheim Foundation, Thomas
|
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|
Krens, e l'architetto Gehry -- costituisce in questo senso un esempio da
|
|||
|
manuale, che in molte altre occasioni in seguito si è cercato di
|
|||
|
replicare[^32]. È soprattutto in queste ultime, tuttavia, che in modo
|
|||
|
sempre più lampante emerge come le presunte "eccezioni" siano in realtà
|
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|
funzionali a confermare la regola. Eccentricità formali e appariscenze
|
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cromatiche propagano ai quattro venti il roboante annuncio che "tutto
|
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|
rimarrà come prima", ovvero che non è in corso alcuna "rivoluzione", o
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|
meglio ancora che l'"ordine costituito" non verrà minimamente smentito o
|
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|
scalfito dal nuovo inserimento. "Piuttosto che essere forme agonistiche,
|
|||
|
le "icone" contemporanee sono la manifestazione finale e celebrativa
|
|||
|
della *Grundnorm* dell'urbanizzazione: la vittoria dell'ottimizzazione
|
|||
|
economica sul giudizio politico"[^33]. Nell'estensione sconfinata delle
|
|||
|
città contemporanee, gli edifici iconici assumono il valore di un
|
|||
|
"richiamo" (da intendersi nel senso in cui la medicina utilizza il
|
|||
|
termine: la re-inoculazione di una sostanza per consolidare uno stato
|
|||
|
d'immunità. Dove l'immunità in questione è riferita a qualsiasi
|
|||
|
cambiamento sostanziale da parte dell'"organismo" complessivo).
|
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|
Ma che cosa ne è dell'architetto allorché l'architettura abbia fatto il
|
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|
suo ingresso nel "circuito" della spettacolarizzazione capitalistica? Da
|
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|
quel momento in avanti -- e poi con sempre maggiore frequenza -- si
|
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|
trova a rivestire il ruolo del "creatore di spettacoli". Non si tratta
|
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|
ovviamente di un ruolo inedito per lui: in svariati momenti della storia
|
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|
agli architetti è spettato il compito di allestire feste, di mettere in
|
|||
|
scena rappresentazioni e di progettare edifici effimeri di vario
|
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|
genere[^34]; e la "festa del capitale", da questo punto di vista, non
|
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|
pare discostarsi troppo dalla festa barocca. Ma anche nel vero e
|
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|
proprio esercizio della loro professione gli architetti hanno avuto
|
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|
spesso modo di conferire ai propri edifici caratteri altamente
|
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|
spettacolari. Ciò di per sé non costituisce un problema, al di fuori di
|
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|
quei casi in cui tale spettacolarità assume tratti del tutto gratuiti;
|
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|
cosí come, per converso, non per forza di cose l'elemento che accomuna
|
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|
tra loro gli edifici iconici contemporanei è un'esplicita
|
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|
spettacolarità. In fondo, lo stesso fenomeno degli *iconic buildings*
|
|||
|
costituisce soltanto il caso particolare (e forse oggi -- almeno in
|
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|
parte -- esaurito, o comunque "attutito" rispetto ad alcuni anni fa) di
|
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|
un discorso più vasto e generalizzato; la punta di un iceberg la cui
|
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|
"spettacolarità" consente a esso di emergere con maggiore evidenza.
|
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|
|
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|
Sulla possibile reversibilità di questo aspetto hanno contato coloro che
|
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|
-- in controtendenza rispetto all'orientamento più largamente diffuso --
|
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hanno cercato di mettere in scacco tale spettacolarizzazione. Cercare
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di farlo, tuttavia, può costringere a compiere "salti" singolari,
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apportatori di illuminanti paradossi. Nel 2006 lo studio OMA ha
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progettato il Dubai Renaissance, un bianco volume monolitico di 300
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metri di altezza per 200 di larghezza, destinato a uffici, hotel e suite
|
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residenziali. Nel testo di presentazione dell'edificio si legge:
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> L'ambizione di questo progetto è di concludere la fase attuale
|
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> dell'idolatria architettonica -- l'età dell'icona -- in cui
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> l'ossessione del genio individuale supera di gran lunga l'impegno per
|
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|
> lo sforzo collettivo necessario a costruire la città. Invece di
|
|||
|
> un'architettura della forma e dell'immagine, abbiamo creato una
|
|||
|
> reintegrazione di architettura e ingegneria, dove l'intelligenza non è
|
|||
|
> investita in effetti, ma in una logica strutturale e concettuale, che
|
|||
|
> offre un nuovo tipo di prestazioni e funzionalità[^35].
|
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|
L'edificio che ne deriva s'ispira a una nuova Simplicity^TM^ (si badi
|
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|
bene, affiancata dal *trademark*) che tra i suoi attributi enumera
|
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qualità come *pure*, *straight*, *substantial*, *objective*,
|
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*predictable*, *original*, *honest* e *fair*. Nonostante le sue "buone"
|
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|
intenzioni, tuttavia, il Dubai Renaissance risulta soltanto una falsa
|
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reazione all'"idolatria architettonica": come appare evidente dalla
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|||
|
tavola elaborata dallo stesso OMA, dove esso è messo a confronto con una
|
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|
parata di "vanità" architettoniche (dalle Petronas Towers di César Pelli
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|
a Kuala Lumpur, al Burj al-'Arab di Tom Wright nella stessa Dubai),
|
|||
|
dalle quali in realtà si distingue soltanto per le sembianze candide e
|
|||
|
per i lineamenti uniformi. Pur rinunciando all'espressività delle forme
|
|||
|
e all'impatto dei colori, il Dubai Renaissance è animato dalla medesima
|
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|
volontà di stupire presente negli altri edifici iconici che insieme a
|
|||
|
esso compongono una surreale "città analoga" nel deserto arabico.
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|
Affermare una "iconoclastia" in luogo di una "iconolatria", cosí come
|
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|
vagheggiare una città post-iconica[^36] in un mondo post-iconico, da
|
|||
|
questo punto di vista, appaiono tentativi ineffettuali destinati al
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|||
|
fallimento, o a essere rapidamente assorbiti nelle capaci fauci di un
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|
onnivoro capitalismo.
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|
Come già detto, comunque, il nocciolo della questione non sta
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|
nell'"originalità" del ruolo degli architetti odierni rispetto a quello
|
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|
rivestito da essi in passato; né nell'eccentricità dei loro progetti
|
|||
|
rispetto alla "canonicità" (vera o presunta) di quelli di altre epoche
|
|||
|
storiche. E non consiste neppure nella posizione oggi assunta dagli
|
|||
|
architetti nei confronti della società in cui operano. Il vero problema
|
|||
|
è piuttosto quale posizione occupino gli architetti nei processi
|
|||
|
produttivi attuali. Non si tratta dunque di un problema soggettivo,
|
|||
|
bensì di un problema -- come già ben compreso da Walter Benjamin negli
|
|||
|
anni trenta[^37] -- *tecnico*. Detto in altri termini, il problema è se
|
|||
|
-- e in quale misura -- gli architetti odierni, esercitando il loro
|
|||
|
ruolo di "creatori di spettacoli", oppure piuttosto rivestendone un
|
|||
|
altro, riescano a operare una *trasformazione* dell'apparato produttivo,
|
|||
|
e se -- e quanto -- invece compiano nei confronti di questo un "semplice
|
|||
|
rifornimento"[^38].
|
|||
|
|
|||
|
Come chiarisce lo stesso Benjamin,
|
|||
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|||
|
> ... rifornire un apparato produttivo senza trasformarlo (nella misura
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|||
|
> del possibile) rappresenta un procedimento estremamente oppugnabile
|
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|
> persino quando i contenuti di cui è rifornito questo apparato sembrano
|
|||
|
> di natura rivoluzionaria.
|
|||
|
|
|||
|
In questa prospettiva, il "rifornitore" di un apparato produttivo è
|
|||
|
colui che si limita a perpetuarlo, o che al più lo rinnova "dall'interno
|
|||
|
(...) secondo la moda", di conseguenza "lasciandolo cosí com'è"[^39].
|
|||
|
Significativamente, per indicare i "rifornitori", Benjamin fa ricorso
|
|||
|
anche al termine francese *routiniers* (coloro che si conformano
|
|||
|
all'abitudine, che ripetono stancamente il già noto), intendendo con
|
|||
|
esso coloro che rinunciano ad apportare correzioni al sistema di
|
|||
|
produzione[^40]. A ciò egli contrappone il *Produzent* (produttore):
|
|||
|
non semplicemente colui che produce (o piuttosto, che banalmente
|
|||
|
ri-produce), quanto piuttosto colui che trasforma in senso tecnico
|
|||
|
l'apparato produttivo.
|
|||
|
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|||
|
La domanda da porsi a questo punto è: sono in grado gli architetti
|
|||
|
attuali, con il loro intervento, di trasformare l'apparato produttivo
|
|||
|
nel quale sono inseriti?
|
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|
Le trasformazioni verificatasi nell'architettura nel corso dell'ultimo
|
|||
|
secolo -- e poi, in modo sempre più rapido, nel corso degli ultimi
|
|||
|
decenni (trasformazioni che, al di là degli aspetti strutturali e di
|
|||
|
quelli estetico-formali, hanno contrassegnato il suo progressivo
|
|||
|
*divenir-merce*) -- hanno inesorabilmente modificato anche la posizione
|
|||
|
occupata dagli architetti all'interno dell'apparato produttivo. Non che
|
|||
|
in precedenza questi godessero di una maggiore indipendenza, ma ancora
|
|||
|
nel corso degli anni venti e nei primi anni trenta, e successivamente
|
|||
|
tra gli anni cinquanta e sessanta, vi sono stati tentativi -- pur spesso
|
|||
|
conclusisi in delusioni, sconfitte, o in strategici ripiegamenti -- di
|
|||
|
*spostare* sostanzialmente il senso del lavoro dell'architetto, a volte
|
|||
|
anche a costo di scontri o di rinunce: si pensi ad esempio
|
|||
|
all'impostazione della didattica del Bauhaus di Dessau da parte di
|
|||
|
Hannes Meyer, tutta improntata a una "scientificizzazione spinta dei
|
|||
|
processi architettonici"[^41]; o ai progetti radicali -- architettonici
|
|||
|
e urbani -- di Ludwig Hilberseimer, rigorosi al punto da superare ogni
|
|||
|
ipotesi funzionalista o formalista, e rivolgersi piuttosto a un soggetto
|
|||
|
post-umanista[^42]; o al ripensamento profondo della stessa idea di
|
|||
|
progetto -- e conseguentemente di oggetto -- architettonico da parte di
|
|||
|
Cedric Price[^43]; o ancora, alla monumentale opera "minimale" compiuta
|
|||
|
da Aldo van Eyck con la realizzazione di oltre settecento *playgrounds*
|
|||
|
nell'ambito dell'intervento per la municipalità di Amsterdam[^44]. In
|
|||
|
seguito, invece, una stessa "sorte" epocale sembra aver coinvolto molti
|
|||
|
architetti, più ancora che a compiere una consapevole o prudente
|
|||
|
ritirata verso posizioni più riparate, ad "accomodarsi" semplicemente
|
|||
|
nei ruoli loro offerti da un intendimento sociale. Al punto che oggi
|
|||
|
una delle loro funzioni preminenti, per dirla ancora una volta con le
|
|||
|
parole di Benjamin, "è quella di rinnovare il mondo dall'interno -- in
|
|||
|
altre parole: secondo la moda --, lasciandolo cosí com'è".
|
|||
|
|
|||
|
Ma se, come si è visto, la trasformazione dell'architettura in merce ha
|
|||
|
quale suo necessario corollario la trasformazione dell'architetto in
|
|||
|
"rifornitore" (*rifornitore di merci*), vi è però un'ulteriore ed
|
|||
|
estrema trasformazione che questi subisce nel corso di tale processo, e
|
|||
|
in diretta conseguenza di esso: la trasformazione dell'architetto stesso
|
|||
|
in merce. Ciò può essere inteso in due accezioni diverse,
|
|||
|
corrispondenti a due "profili" di architetti ritenuti -- nella gran
|
|||
|
parte dei casi, a torto -- altrettanto diversi tra loro. La prima
|
|||
|
accezione è quella che tende a identificare l'architetto contemporaneo
|
|||
|
con un moderno demiurgo, dotato di spiccate doti autoriali e di una
|
|||
|
forte riconoscibilità stilistica. Questa figura si confonde con il mito
|
|||
|
dell'architetto-*archistar*. In qualità di merce -- e merce di "lusso"
|
|||
|
-- l'architetto-*archistar* ha fama di essere molto prezioso, e perciò
|
|||
|
anche altrettanto desiderato e "corteggiato"; inoltre, lo si ritiene
|
|||
|
capace di disporre pienamente dei propri strumenti, delle proprie
|
|||
|
tecniche, dei propri linguaggi, e ancora di più, di disporre di sé nel
|
|||
|
senso più generale, di autodeterminarsi, ma al tempo stesso pure di
|
|||
|
essere libero d'imporre le proprie scelte. Per tutte queste ragioni,
|
|||
|
*in quanto merce*, l'architetto-*archistar* induce l'idea di non essere
|
|||
|
"soggetto" al mercato, bensì piuttosto di occuparvi una posizione
|
|||
|
privilegiata, se non addirittura di dominarlo. Questa prima accezione
|
|||
|
-- che è la più largamente diffusa -- è al tempo stesso anche la più
|
|||
|
facilmente falsificabile.
|
|||
|
|
|||
|
La seconda accezione è legata a una situazione come quella attuale, in
|
|||
|
cui una grandissima sovrabbondanza di architetti disponibili sul mercato
|
|||
|
fa aumentare a dismisura la concorrenza tra loro, costringendo molti ad
|
|||
|
accettare condizioni di pesante deprezzamento del proprio lavoro.
|
|||
|
L'architetto in questo modo finisce per vendere se stesso come una merce
|
|||
|
svalutata. È il caso di moltissimi giovani architetti che lavorano
|
|||
|
gratis, o sottopagati, senza contratto, senza orari, senza riposi
|
|||
|
settimanali, senza ferie pagate, senza pensione. Di questi
|
|||
|
architetti-lavoratori sfruttati e delle condizioni di produzione del
|
|||
|
progetto negli studi contemporanei bisognerà tornare a parlare più
|
|||
|
oltre. In questo caso come nell'altro, comunque, al di là delle
|
|||
|
differenze più o meno apparenti, la mercificazione investe direttamente
|
|||
|
l'architetto, il quale in tal modo -- oltre che delle proprie "merci" --
|
|||
|
rifornisce il mercato anche di se stesso.
|
|||
|
|
|||
|
[^1]: Per le nozioni di valore d'uso, valore d'uso sociale, valore di
|
|||
|
scambio, il riferimento è ovviamente Karl Marx, *Il Capitale*,
|
|||
|
Editori Riuniti, Roma 1980, vol. I, pp. 67 e sgg.
|
|||
|
|
|||
|
[^2]: Per un'utile (per quanto episodica) lettura in tal senso vedi
|
|||
|
*Architecture and Capitalism. 1845 to the Present*, a cura di Peggy
|
|||
|
Deamer, Routledge, New York 2014.
|
|||
|
|
|||
|
[^3]: Sul tema vedi, tra gli altri, le interessanti raccolte *Housing in
|
|||
|
Europa 1. 1900-1960* e *Housing in Europa 2. 1960-1979*, Luigi
|
|||
|
Parma, Bologna 1978 e 1979; Roger Sherwood, *Modern Housing
|
|||
|
Prototypes*, Harvard University Press, Cambridge (Mass.) 1978; e
|
|||
|
inoltre *Las formas de la residencia en la ciudad moderna*, a cura
|
|||
|
di Carlos Martí Arís, Edicions UPC, Barcelona 2000.
|
|||
|
|
|||
|
[^4]: Vedi *Die Frankfurter Küche von Margarete Schütte-Lihotzky*, a
|
|||
|
cura di Peter Neover, Ernst & Sohn, Berlin 1991.
|
|||
|
|
|||
|
[^5]: Ernst May, *Cinque anni di attività di edilizia residenziale a
|
|||
|
Francoforte sul Meno*, in "Das neue Frankfurt", n. 2-3, 1930, ora in
|
|||
|
G. Grassi (a cura di), *Das neue Frankfurt 1926-1931*, Edizioni
|
|||
|
Dedalo, Bari 1975, p. 208.
|
|||
|
|
|||
|
[^6]: Giorgio Grassi, *Das neue Frankfurt e l'architettura della nuova
|
|||
|
Francoforte*, in Grassi (a cura di), *Das neue Frankfurt 1926-1931*
|
|||
|
cit., p. 9.
|
|||
|
|
|||
|
[^7]: Tafuri, *Progetto e utopia* cit., p. 107; Manfredo Tafuri e
|
|||
|
Francesco Dal Co, *Architettura contemporanea*, Electa, Milano 1976,
|
|||
|
p. 153.
|
|||
|
|
|||
|
[^8]: Francesco Dal Co, *Architetti e città -- Unione Sovietica
|
|||
|
1917-1934*, in *Socialismo, città, architettura -- URSS 1917-1937.
|
|||
|
Il contributo degli architetti europei*, testi di Alberto Asor Rosa,
|
|||
|
Bruno Cassetti, Giorgio Ciucci, Francesco Dal Co, Marco De Michelis,
|
|||
|
Rita Di Leo, Kurt Junghanns, Gerritt Oorthuys, Vítězslav Procházka,
|
|||
|
Hans Schmidt, Manfredo Tafuri, Officina Edizioni, Roma 1971, p. 106.
|
|||
|
|
|||
|
[^9]: Le Corbusier, *Verso una architettura* (1923), Longanesi, Milano
|
|||
|
1973, p. 243.
|
|||
|
|
|||
|
[^10]: Pier Vittorio Aureli, *Means to an End. The Rise and Fall of the
|
|||
|
Architectural Project of the City*, in Id. (a cura di), *The City
|
|||
|
as a Project*, Ruby Press, Berlin 2013, p. 37.
|
|||
|
|
|||
|
[^11]: Le Corbusier, *Verso una architettura* cit., pp. 241-43.
|
|||
|
|
|||
|
[^12]: Walter Benjamin, *Parigi capitale del* *XIX* *secolo*, Einaudi,
|
|||
|
Torino 1986, p. 533.
|
|||
|
|
|||
|
[^13]: Vedi Walter Benjamin, *Esperienza e povertà* (1933), in Id.,
|
|||
|
*Esperienza e povertà*, a cura di Massimo Palma, Castelvecchi, Roma
|
|||
|
2018, p. 55.
|
|||
|
|
|||
|
[^14]: Benjamin, *Parigi capitale del* *XIX* *secolo* cit.
|
|||
|
|
|||
|
[^15]: Le Corbusier, *Verso una architettura* cit., p. 187.
|
|||
|
|
|||
|
[^16]: Guy Debord, *La società dello spettacolo* (1967), Sugarco, Milano
|
|||
|
1990, p. 85.
|
|||
|
|
|||
|
[^17]: *Ibid.*, p. 97.
|
|||
|
|
|||
|
[^18]: Debord, *La società dello spettacolo* cit., p. 108.
|
|||
|
|
|||
|
[^19]: Matteo Pasquinelli, *Oltre le rovine della Città Creativa: la
|
|||
|
fabbrica della cultura e il sabotaggio della rendita*, in Marco
|
|||
|
Baravalle (a cura di), *L'arte della sovversione*, Manifestolibri,
|
|||
|
Roma 2009, p. 152. L'affermazione originale di Debord recita "Lo
|
|||
|
spettacolo è il capitale ad un tal grado di accumulazione da
|
|||
|
divenire immagine".
|
|||
|
|
|||
|
[^20]: Benjamin, *Parigi capitale del* *XIX* *secolo* cit., p. 15.
|
|||
|
|
|||
|
[^21]: Alois Riegl, *Il culto moderno dei monumenti. Il suo carattere e
|
|||
|
i suoi inizi* (1903), a cura di Sandro Scarrocchia, Abscondita,
|
|||
|
Milano 2017, p. 55.
|
|||
|
|
|||
|
[^22]: Vedi, tra i molti altri, Ludwig Hilberseimer, *Internationale
|
|||
|
Neue Baukunst*, Julius Hoffmann, Stuttgart 1927; Bruno Taut, *Die
|
|||
|
neue Baukunst in Europa und Amerika*, Julius Hoffmann, Stuttgart
|
|||
|
1929; Adolf Behne, *Neues Wohnen, neues Bauen*, Hesse & Becker,
|
|||
|
Leipzig 1930; Jacobus Johannes Pieter Oud, *Nieuwe bouwkunst in
|
|||
|
Holland en Europa*, De Driehoek, 's-Graveland 1935.
|
|||
|
|
|||
|
[^23]: Manfredo Tafuri, *Lavoro intellettuale e sviluppo capitalistico*,
|
|||
|
in "Contropiano", n. 2, 1970, p. 268.
|
|||
|
|
|||
|
[^24]: Charles Jencks, *The Iconic Building. The Power of Enigma*,
|
|||
|
Rizzoli, New York 2005.
|
|||
|
|
|||
|
[^25]: Pier Vittorio Aureli, *The Possibility of an Absolute
|
|||
|
Architecture*, MIT Press, Cambridge (Mass.) 2011, p. XII.
|
|||
|
|
|||
|
[^26]: Francesco Dal Co, *The Guggenheim. Frank Lloyd Wright's
|
|||
|
Iconoclastic Masterpiece*, Yale University Press, New Haven 2017.
|
|||
|
|
|||
|
[^27]: Françoise Fromonot, *Jørn Utzon architetto della Sydney Opera
|
|||
|
House*, Electa, Milano 1998.
|
|||
|
|
|||
|
[^28]: Francesco Dal Co, *Centre Pompidou. Renzo Piano, Richard Rogers,
|
|||
|
and the Making of a Modern Monument*, Yale University Press, New
|
|||
|
Haven 2016.
|
|||
|
|
|||
|
[^29]: Jean Baudrillard, *L'effetto Beaubourg. Implosione e
|
|||
|
dissuasione*, in Id., *Simulacri e impostura. Bestie, Beaubourg,
|
|||
|
apparenze e altri oggetti*, a cura di Matteo G. Brega, Pgreco,
|
|||
|
Milano 2008, pp. 27-44, e in particolare p. 31.
|
|||
|
|
|||
|
[^30]: Baudrillard, *L'effetto Beaubourg* cit., pp. 35 e 38.
|
|||
|
|
|||
|
[^31]: Coosje Van Bruggen, *Frank O. Gehry. Guggenheim Museum Bilbao*,
|
|||
|
Guggenheim Museum Publ., New York 1999; John Rajchman, *Effetto
|
|||
|
Bilbao*, in "Casabella", n. 673-74, 1999-2000, pp. 10-11.
|
|||
|
|
|||
|
[^32]: Vedi ad esempio Davide Ponzini e Michele Nastasi,
|
|||
|
*Starchitecture. Scene, attori e spettacoli nelle città
|
|||
|
contemporanee*, Allemandi, Torino 2011.
|
|||
|
|
|||
|
[^33]: Aureli, *The Possibility of an Absolute Architecture* cit., p.
|
|||
|
XII.
|
|||
|
|
|||
|
[^34]: Sul tema della festa barocca vedi, tra gli altri, Marcello
|
|||
|
Fagiolo, *La festa barocca*, De Luca, Roma 1997, nonché Id. (a cura
|
|||
|
di), *Le capitali della festa. Italia settentrionale e Italia
|
|||
|
centrale e meridionale*, 2 voll., De Luca, Roma 2007-2008.
|
|||
|
|
|||
|
[^35]: Vedi http://www.oma.eu/projects/2006/dubai-renaissance/.
|
|||
|
|
|||
|
[^36]: Josep Lluís Mateo e altri (a cura di), *Iconoclastia. News from
|
|||
|
a Post-Iconic World. Architectural Papers IV*, ETH --
|
|||
|
Eidgenössische Technische Hochschule -- Ed. Actar, Zürich --
|
|||
|
Barcelona 2009.
|
|||
|
|
|||
|
[^37]: Walter Benjamin, *L'autore come produttore* (1934), in Id.,
|
|||
|
*Avanguardia e rivoluzione. Saggi sulla letteratura*, Einaudi,
|
|||
|
Torino 1973, pp. 199-217 (ora in *Opere complete*, VI. *Scritti
|
|||
|
1934-1937*, ivi 2004). Si tratta del medesimo saggio citato da
|
|||
|
Manfredo Tafuri in *La sfera e il labirinto. Avanguardie e
|
|||
|
architettura da Piranesi agli anni '70*, Einaudi, Torino 1980,
|
|||
|
p. 352, a proposito delle ricerche architettoniche degli anni
|
|||
|
sessanta e settanta. Sulle sue considerazioni al proposito si dovrà
|
|||
|
tornare più oltre.
|
|||
|
|
|||
|
[^38]: Benjamin, *L'autore come produttore* cit., p. 207.
|
|||
|
|
|||
|
[^39]: *Ibid.*, p. 209.
|
|||
|
|
|||
|
[^40]: *Ibid.*, p. 208.
|
|||
|
|
|||
|
[^41]: Francesco Dal Co, *Hannes Meyer e la venerabile scuola di
|
|||
|
Dessau*, in Hannes Meyer, *Scritti 1921-1942. Architettura o
|
|||
|
rivoluzione*, a cura di F. Dal Co, Marsilio, Padova 1969, p. 38.
|
|||
|
|
|||
|
[^42]: K. Michael Hays, *Modernism and the Posthumanist Subject. The
|
|||
|
Architecture of Hannes Meyer and Ludwig Hilberseimer*, The MIT
|
|||
|
Press, Cambridge (Mass.) 1992.
|
|||
|
|
|||
|
[^43]: Stanley Mathews, *From Agit-Prop to Free Space: The Architecture
|
|||
|
of Cedric Price*, Black Dog Publishing, London 2007.
|
|||
|
|
|||
|
[^44]: Liane Lefaivre e Ingeborg de Roode (a cura di), *Aldo van Eyck.
|
|||
|
Playgrounds*, NAi Publishers, Rotterdam 2002.
|
|||
|
|
|||
|
# Il ruolo dell'architetto intellettuale
|
|||
|
|
|||
|
L'esordio della storia dell'architettura moderna viene fatto coincidere,
|
|||
|
secondo il parere di molti studiosi, con la concezione della cupola di
|
|||
|
Santa Maria del Fiore da parte di Filippo Brunelleschi[^1]. La nota
|
|||
|
vicenda legata al completamento del Duomo di Firenze, risolvibile
|
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|
tradizionalmente facendo ricorso all'impiego di armature (centine) di
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legno, nella circostanza non applicabili a causa delle grandi dimensioni
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dello spazio da voltare, diviene l'occasione per Brunelleschi non
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soltanto per applicare il proprio sapere costruttivo, frutto dello
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studio diretto dell'antico, ma anche per affermare e difendere, "per la
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prima volta, (...) la "professionalità" dell'architetto contro il vago
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"magistero" dell'artefice, la priorità dell'invenzione tecnica sulla
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perizia del mestiere"[^2]. Non si tratta soltanto di una
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"rivendicazione di categoria": nella distinzione tra il momento del
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progetto e quello dell'esecuzione è in gioco anche la distinzione tra
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un'attività "liberale" e un'attività "meccanica", e dunque l'assunzione
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da parte dell'individuo colto del compito di organizzare e guidare la
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società. È la nascita dell'intellettuale come soggetto attivo, oltreché
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come figura speculativa.
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Significativamente, Antonio Manetti, il primo biografo di Brunelleschi,
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ne mette in rilievo sopra ogni altra cosa il grande e meraviglioso
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"intelletto"[^3]. Un intelletto che non agisce certo nell'isolamento e
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che necessita degli altri per poter compiere la propria "azione"[^4], ma
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che al tempo medesimo pone se stesso e il proprio operare su un piano
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completamente diverso rispetto a quello occupato dai suoi interlocutori.
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Non a caso, tutte le sue biografie non mancano di riportare -- sia pure
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in versioni differenti -- un episodio emblematico: nel 1430, in seguito
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alle proteste dei "maestri di cazzuola" per le fatiche e i pericoli del
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lavoro sulla cupola, egli decide di licenziarli e di sostituirli con
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maestranze lombarde, salvo in seguito riassumerli tutti (tranne uno) a
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un salario più basso[^5]. Si tratta della dimostrazione più evidente
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del fatto che la supremazia dell'uomo d'intelletto si esercita in
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termini di potere di comando e di controllo, ma assume anche
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connotazioni che ne distinguono non tanto la mansione o il ruolo quanto
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piuttosto l'appartenenza a una *classe*. Ciò che l'episodio fa emergere
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impetuosamente -- cosí come l'intero intervento di Brunelleschi a Santa
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Maria del Fiore -- è cioè "il tema della moderna divisione sociale del
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lavoro"[^6].
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La coincidenza del sorgere della figura dell'architetto come
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intellettuale e del manifestarsi di rapporti di classe prefiguranti
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quelli che si instaureranno con la rivoluzione industriale tra la
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borghesia e il proletariato non è evidentemente casuale. Come rileva
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ancora Tafuri, "l'intellettuale-architetto (...) rivendicando
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l'autonomia del proprio ruolo, (...) si pone all'avanguardia delle nuove
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classi al potere". E aggiunge: "tanto da poter persino entrare in
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conflitto con esse là dove queste non siano disposte ad essere
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conseguenti fino in fondo con le proprie premesse".
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L'episodio a cui allude Tafuri è probabilmente quello riferito da
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Vasari, secondo il quale, avendo ricevuto da Cosimo de' Medici
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l'incarico di progettare un palazzo in piazza San Lorenzo, a Firenze,
|
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Brunelleschi ne "fece un bellissimo e gran modello"; ma poi, "parendo a
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|
Cosimo troppo sontuosa e gran fabbrica, più per fuggire l'invidia che la
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spesa, lasciò di metterla in opera"; al che Brunelleschi, "intendendo la
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resoluzione di Cosimo, che non voleva tal cosa mettere in opera, con
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|
sdegno in mille pezzi il disegno ruppe"[^7].
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Non sono tuttavia numerosi i casi in cui l'architetto si ribellerà -- o
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|
addirittura, si opporrà concretamente -- al potere e ai potenti, nei
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secoli successivi. E semmai un indizio della sempre maggiore
|
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|
assimilazione degli architetti al sistema di potere di volta in volta
|
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|
vigente si lascia rintracciare nel loro parallelo cercare rifugio in
|
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un'attività che tende sempre meno a identificarsi -- come accadeva
|
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ancora nel caso di Brunelleschi -- con il solo progetto architettonico,
|
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e che si apre via via ad altre espressioni e linguaggi: dal disegno come
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tecnica (almeno potenzialmente) affrancata dalla realizzazione concreta,
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alla scrittura come pratica finalizzata non esclusivamente a
|
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verbalizzare le "regole" dell'architettura ma anche a produrre su di
|
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|
essa "discorsi" di natura diversa, spesso scopertamente soggettivi: non
|
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|
più trattati, insomma, quanto piuttosto "punti di vista", "opinioni"
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sull'architettura. Ciò che ne deriva è una forma di indipendenza
|
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dell'architetto non solo nei confronti della committenza ma anche nei
|
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|
confronti della propria stessa attività; sviluppando la *teoria* come
|
|||
|
una dimensione al tempo stesso organica e autonoma di questa,
|
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|
l'architetto porta a compimento il processo di autoaffermazione di sé
|
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|
come intellettuale.
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|
In questo senso, Leon Battista Alberti incarna al suo massimo grado la
|
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|
figura dell'intellettuale-umanista che estende *anche* all'architettura
|
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|
il proprio ambito d'interessi, tanto scrivendone (nella forma canonica
|
|||
|
del trattato)[^8], quanto progettandola (senza però interessarsi
|
|||
|
attivamente alle fasi costruttive)[^9]. E infatti nella definizione che
|
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|
egli dà dell'architetto si preoccupa prima di ogni altra cosa di
|
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|
sgombrare il campo dai possibili equivoci circa il ruolo di questi come
|
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|
artista-intellettuale, distinguendolo nettamente da quello di altre
|
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|
figure che si occupano in modo diverso di costruzioni, come il *faber
|
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|
tignarius*:
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> ... non prenderò certo in considerazione un carpentiere, per
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|
> paragonarlo ai più qualificati esponenti delle altre discipline: il
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> lavoro del carpentiere infatti non è che strumentale rispetto a quello
|
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|
> dell'architetto[^10].
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|
E invece
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> ... architetto chiamerò colui che con metodo sicuro e perfetto sappia
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> progettare razionalmente e realizzare praticamente, attraverso lo
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|
> spostamento dei pesi e mediante la riunione e la congiunzione dei
|
|||
|
> corpi, opere che nel modo migliore si adattino ai più importanti
|
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|
> bisogni dell'uomo.
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|
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|
Dove anche il "realizzare praticamente" va inteso piuttosto come
|
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|
capacità di compiere *reali* verifiche delle ipotesi progettuali
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formulate che non come un diretto intervento dell'architetto nelle fasi
|
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|
costruttive dell'edificio.
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|
Pur non essendo possibile seguire analiticamente le avventure
|
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|
dell'architetto intellettuale dal Rinascimento in avanti (in larga parte
|
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|
coincidenti, del resto -- almeno fino a tempi abbastanza recenti --, con
|
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|
la storia dell'architettura *tout court*), non si può mancare almeno di
|
|||
|
ricordare il ruolo occupato all'interno di esse da Andrea Palladio: non
|
|||
|
soltanto in qualità di progettista di un'imprescindibile "rete" di
|
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|
edifici in terra veneta, ma soprattutto in quanto autore dei *Quattro
|
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|
Libri dell'Architettura* (1570). Sono proprio questi ultimi a
|
|||
|
costituire il perfetto paradigma -- a ben guardare mai eguagliato da
|
|||
|
alcuno né prima né dopo di lui -- del tradursi *in atto* di
|
|||
|
un'intellettualità architettonica. Fuggendo "la lunghezza delle
|
|||
|
parole", limitandosi dunque a "quelle avvertenze, che mi parranno più
|
|||
|
necessarie"[^11], e affiancandovi "alcuni disegni" di cui fornisce le
|
|||
|
"misure, da' quali potrà ciascuno facilmente, secondo che se gli
|
|||
|
offerirà l'occasione, esercitando l'acutezza del suo ingegno, pigliar
|
|||
|
partito e far opera degna di esser lodata"[^12], Palladio consegue la
|
|||
|
più compiuta sintesi tra testi e immagini raggiunta in un trattato: dove
|
|||
|
i disegni "dicono" ciò a cui le parole alludono soltanto. La
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|||
|
sorprendente "perspicuità" dell'*opus* palladiano, se costituisce
|
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|
l'irrefutabile presupposto della sua fortuna planetaria[^13], è anche lo
|
|||
|
specchio ingannevole con il quale abbagliare coloro che non sono "in
|
|||
|
tale arte istruiti". Ciò rende *I Quattro Libri*, al tempo stesso, "per
|
|||
|
tutti e per nessuno", o perlomeno per quel numero ristretto
|
|||
|
d'"intendenti" che sappia comprenderne e applicarne il codice sotteso.
|
|||
|
Ed è straordinariamente significativo che sia proprio lo strumento del
|
|||
|
disegno -- nella semplice forma della proiezione ortogonale in pianta,
|
|||
|
sezione e alzato -- a rendere pienamente effettuale l'operazione
|
|||
|
intellettuale compiuta dall'architetto. Con una notazione ulteriore:
|
|||
|
pur raccogliendo opere esemplari realizzate da autori antichi e
|
|||
|
"moderni" (tra questi ultimi, soltanto Donato Bramante, oltre a se
|
|||
|
stesso), il trattato di Palladio richiede di essere letto come una
|
|||
|
teoria generale della progettazione basata sul sistema degli ordini e
|
|||
|
delle proporzioni; una teoria capace di approssimarsi tanto all'"idea"
|
|||
|
da distanziarsi persino dalla realtà[^14].
|
|||
|
|
|||
|
Sarà Giovanni Battista Piranesi -- trecento anni più tardi -- a mostrare
|
|||
|
invece come l'architetto possa ormai concepire se stesso in modo quasi
|
|||
|
del tutto svincolato dalla produzione progettuale, senza con questo
|
|||
|
cessare di considerarsi architetto a tutti gli effetti. Piranesi fa del
|
|||
|
disegno qualcosa di più di un mezzo di prefigurazione o di
|
|||
|
rappresentazione della realtà: e infatti, nelle *Antichità Romane*
|
|||
|
(1756), come nelle *Vedute di Roma* (1778), esso ha il compito di
|
|||
|
dissezionare e di catalogare in ogni sua parte il "corpo" della città,
|
|||
|
al fine di farne non tanto un semplice rilievo, quanto piuttosto un
|
|||
|
approfondito studio analitico-critico[^15]; nel caso delle *Carceri
|
|||
|
d'invenzione* (1761) e del *Campo Marzio dell'Antica Roma* (1762),
|
|||
|
invece, il disegno rimane volutamente incerto tra memoria archeologica e
|
|||
|
progetto del nuovo, escludendo comunque dal proprio orizzonte qualsiasi
|
|||
|
eventualità di realizzazione. In entrambi i casi, oltrepassa il valore
|
|||
|
di strumento meramente tecnico, per divenire un vero e proprio
|
|||
|
dispositivo che permette a Piranesi di definire senza condizionamenti il
|
|||
|
proprio campo d'azione. Un'assenza di condizionamenti che si può
|
|||
|
misurare innanzitutto sul piano intellettuale. Non per nulla, il testo
|
|||
|
teorico più importante di Piranesi, il *Parere sull'Architettura*
|
|||
|
(1765), è organizzato in forma *dialogica*, vale a dire la modalità
|
|||
|
espressiva più lontana dalla prescrittività della trattatistica. Nella
|
|||
|
composizione dialettica delle opinioni sostenute da Protopiro e
|
|||
|
Didascalo è sintetizzabile il "parere" piranesiano, sostenitore del
|
|||
|
"libero gioco della creatività, che si esprime nella sede "privilegiata"
|
|||
|
dell'ornamento", ma anche della necessità di dotare quest'ultimo dei
|
|||
|
"criteri compositivi" ispirati "ai metodi con i quali la natura crea e
|
|||
|
dispone i propri fenomeni"[^16].
|
|||
|
|
|||
|
La libertà creativa individuale, sia pur temperata dal riferimento al
|
|||
|
piano "oggettivo" e condivisibile della natura, è dunque la
|
|||
|
manifestazione della presa di coscienza del ruolo ormai compiutamente
|
|||
|
*intellettuale* dell'architetto. Ma è anche la chiara manifestazione di
|
|||
|
una crisi. Mentre si emancipa progressivamente dalla "fisica" del
|
|||
|
potere (soltanto più tardi scoprirà di essere inesorabilmente immerso
|
|||
|
nella sua "microfisica")[^17], l'architetto intellettuale si trova
|
|||
|
sempre di più al cospetto di una frantumazione che riguarda la
|
|||
|
disciplina di cui si occupa non meno che il proprio io. Ancora una
|
|||
|
volta, Piranesi è il precoce annunciatore di entrambi i fenomeni. Ma
|
|||
|
più in generale, il fiorire -- tra XVII e XIX secolo -- di
|
|||
|
polemiche[^18], pamphlet e saggi[^19] di ogni genere relativi
|
|||
|
all'architettura è indice dell'affermarsi di certezze proclamate con
|
|||
|
tanto più vigore e animosità quanto più si rivelano il frutto di una
|
|||
|
costitutiva arbitrarietà e soggettività. Tramontata l'epoca in cui
|
|||
|
poteva esercitare le sue funzioni ricorrendo *sola mente* ai lucidi
|
|||
|
schemi desunti dagli *aeterna exempla* del classico, ora l'architetto è
|
|||
|
costretto a ripiegarsi su se stesso per trovare frammenti di "verità"
|
|||
|
individuali, ma sempre più spesso per nascondere la propria
|
|||
|
inadeguatezza e per coprire i propri dubbi. La "personalità"
|
|||
|
dell'architetto, in certi casi, inizia ad assumere maggiore importanza
|
|||
|
della sua stessa opera.
|
|||
|
|
|||
|
L'affermarsi di una dimensione teorica ormai non più correlata con una
|
|||
|
stretta normatività comporta la necessità di connotare fortemente
|
|||
|
ciascuna teoria, al fine di differenziare l'una dall'altra, in un gioco
|
|||
|
di prese di posizione e di distanza che in molti casi ha l'effetto di
|
|||
|
radicalizzarle. Si ripensi all'*incipit* di *Architecture. Essai sur
|
|||
|
l'art* di Étienne-Louis Boullée: "Che cos'è l'architettura? La definirò
|
|||
|
forse con Vitruvio l'arte del costruire? No"[^20]. La "sacralità"
|
|||
|
degli antichi -- e di Vitruvio quale massima autorità in materia
|
|||
|
architettonica -- viene deliberatamente infranta. Per Boullée
|
|||
|
l'architettura ha piuttosto a che fare con la "poesia", ovvero con il
|
|||
|
"carattere" che ciascun tipo di costruzione deve esprimere, sulla base
|
|||
|
di un preciso rapporto *analogico* tra forma e contenuto degli edifici:
|
|||
|
"Le immagini che essi offrono ai nostri sensi dovrebbero suscitare in
|
|||
|
noi sentimenti corrispondenti all'uso al quale essi sono
|
|||
|
consacrati"[^21].
|
|||
|
|
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|
La radicalizzazione della teoria si manifesta però al suo massimo grado
|
|||
|
nell'opera di un allievo di Boullée, Jean-Nicolas-Louis Durand. Nei due
|
|||
|
libri del *Précis des leçons données à l'École Polytechnique*
|
|||
|
(1802-809), la *raison* è ormai diventata un'*ideé fixe*, una vera e
|
|||
|
propria ossessione; ed è nelle tavole che l'accompagnano (in particolar
|
|||
|
modo della seconda parte), più ancora che nel testo, che essa trova la
|
|||
|
sua più piena espressione: planimetrie e alzati le cui combinazioni e
|
|||
|
permutazioni rigorosamente geometriche lasciano pochi dubbi in merito
|
|||
|
alla "natura" della teoria sostenuta. Il cui autore, con altrettanta
|
|||
|
chiarezza, risulta tramutato in un suo "sostenitore"[^22].
|
|||
|
|
|||
|
Ma è proprio a fronte dell'esasperazione delle posizioni e
|
|||
|
dell'inoperatività che spesso vi si associa -- e al conseguente rischio
|
|||
|
di isolamento nel quale con sempre maggiore frequenza incorre
|
|||
|
l'architetto intellettuale -- che questi tende ad "aprire" la propria
|
|||
|
visione a una dimensione più allargata, collettiva, caratterizzata non
|
|||
|
di rado in senso spiccatamente utopico. A partire da *L'architecture
|
|||
|
considérée sous le rapport de l'art, des moeurs et de la législation*
|
|||
|
(1804) di Claude-Nicolas Ledoux, l'architetto si propone come
|
|||
|
"pensatore" -- o "ripensatore" -- della città e della società.
|
|||
|
Affiancandosi, o sostituendosi addirittura, alle tradizionali figure di
|
|||
|
riferimento (il filosofo, il politico, l'industriale, il pedagogo, il
|
|||
|
filantropo)[^23], l'architetto si appropria del mito riformista, sia
|
|||
|
pure proiettato in un mondo soltanto immaginato, in senso grafico o
|
|||
|
letterario. Gli esiti di questo passaggio si lasceranno rintracciare
|
|||
|
ancora nella *Cité industrielle* (1917) di Tony Garnier[^24] e nella
|
|||
|
*Ville contemporaine de trois millions d'habitants* (1922) di Le
|
|||
|
Corbusier[^25].
|
|||
|
|
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|
Proprio Le Corbusier può essere considerato l'architetto intellettuale
|
|||
|
più significativo e influente del XX secolo. Il suo apporto, in questo
|
|||
|
senso, non è valutabile esclusivamente in termini produttivi, cosí come
|
|||
|
non lo è neppure in chiave meramente progettuale, o almeno non
|
|||
|
nell'accezione usuale del termine, come fase preparatoria "in vista"
|
|||
|
della sua realizzazione concreta. Dalla Maison Dom-Ino alla Ville
|
|||
|
Radieuse e oltre, Le Corbusier elabora un discorso articolato in varie
|
|||
|
"puntate" ma unitario, le cui singole parti scaturiscono da un'*idea di
|
|||
|
spazio* e da un'*idea di costruzione e struttura* ben precise, declinate
|
|||
|
su scale diverse, fino a giungere a formulare una visione "totale",
|
|||
|
completamente alternativa al mondo reale; una visione che affida
|
|||
|
all'architettura il compito di ripensare radicalmente la società.
|
|||
|
|
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|
Anche sotto il profilo pubblicistico, non soltanto Le Corbusier si
|
|||
|
rivela probabilmente il più prolifico scrittore di architettura del
|
|||
|
secolo[^26], ma pure quello più di ogni altro capace di funzionalizzare
|
|||
|
tale attività al ruolo autoassegnatosi di architetto intellettuale: che
|
|||
|
non consiste né nell'assolvere a compiti puramente tecnici, di semplice
|
|||
|
illustrazione e diffusione dei progetti, né nell'affermare valori
|
|||
|
esclusivamente ideologici o letterari, l'intenzione del raggiungimento
|
|||
|
dei quali potrebbe anche prescindere dallo svolgimento di un'attività
|
|||
|
progettuale. Adottando via via la forma del manifesto, del pamphlet,
|
|||
|
dello scritto polemico, i libri di Le Corbusier si presentano come vere
|
|||
|
e proprie "crociate"[^27] combattute con le armi della critica, della
|
|||
|
provocazione e dell'ironia; il tutto finalizzato a fornire ogni supporto
|
|||
|
possibile a una concezione dell'architettura che -- come poc'anzi
|
|||
|
rilevato -- è tanto ideale quanto concreta, ovvero traducibile in
|
|||
|
termini spaziali e in termini costruttivo-strutturali: perfetta sintesi
|
|||
|
del compito che per tutta la vita Le Corbusier ostinatamente persegue.
|
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|
|||
|
È nell'Italia del secondo dopoguerra, tuttavia, che la figura
|
|||
|
dell'architetto intellettuale assume una forte connotazione sociale, e
|
|||
|
in certi casi pure politica, con il conseguente riconoscimento del suo
|
|||
|
ruolo anche al di fuori dell'ambito strettamente disciplinare.
|
|||
|
Emblematico, in questo senso, è il caso di Bruno Zevi: laureatosi nel
|
|||
|
1942 alla Graduate School of Design di Harvard diretta da Walter
|
|||
|
Gropius, negli anni successivi Zevi torna in Italia dove lavora come
|
|||
|
architetto, ma soprattutto si fa propagatore della "buona novella"
|
|||
|
dell'architettura organica di Frank Lloyd Wright[^28]. Non meno
|
|||
|
importante è la posizione da lui assunta all'interno di svariate
|
|||
|
istituzioni, tra le quali l'Istituto Nazionale di Urbanistica (INU), di
|
|||
|
cui riveste la carica di segretario generale dal 1952 al 1968, e
|
|||
|
l'IN/ARCH (Istituto Nazionale di Architettura), da lui stesso fondato
|
|||
|
nel 1959. Un impegno civile che verrà profuso anche all'interno di
|
|||
|
movimenti e partiti politici, a partire dalla militanza in Giustizia e
|
|||
|
Libertà, negli anni della guerra e della Resistenza, per passare poi al
|
|||
|
Partito d'Azione, a Unità Popolare, al Partito socialista unificato e
|
|||
|
infine al Partito radicale, per il quale nel 1987 sarà eletto deputato
|
|||
|
al parlamento e del quale diverrà presidente tra la fine degli anni
|
|||
|
ottanta e i primi novanta[^29].
|
|||
|
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|
Ma è l'implicazione nel campo della produzione culturale direttamente
|
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|
legata all'architettura ciò che caratterizza in modo particolare
|
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|
l'azione di Zevi. Il forte coinvolgimento in qualità di redattore
|
|||
|
dapprima e poi di condirettore nella rivista "Metron", tra il 1946 e il
|
|||
|
1954, e la fondazione nel 1955 e la direzione fino al 2000 di
|
|||
|
"L'architettura. Cronache e storia", insieme a una produzione libraria
|
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|
qualitativamente e quantitativamente ragguardevole -- in cui spiccano,
|
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|
tra i molti altri, titoli fondamentali quali *Saper vedere
|
|||
|
l'architettura*, *Storia dell'architettura moderna*, *Poetica
|
|||
|
dell'architettura neoplastica*, *Il linguaggio moderno
|
|||
|
dell'architettura*[^30] -- sono i segni tangibili di un coinvolgimento
|
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|
che va evidentemente oltre il consueto piano di lavoro dello studioso e
|
|||
|
dello storico. È proprio *Verso un'architettura organica*, del resto,
|
|||
|
che dà avvio a quello che a tutti gli effetti -- anche al di là del più
|
|||
|
immediato riferimento wrightiano -- è un tentativo di portare un
|
|||
|
contributo fattivo, da architetto e da intellettuale, alla ricostruzione
|
|||
|
italiana. In quest'ottica va letta la *Prefazione*, datata febbraio
|
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|
1944, in cui sottolinea che
|
|||
|
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|
> ... forse sarebbe stato più esatto intitolare questo libretto "verso
|
|||
|
> un'edilizia organica", stabilendo cosí dall'inizio che, invece di fare
|
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> una storia dell'arte, ci si accingeva al compito più modesto di
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> trovare un indirizzo comune nel lavoro contemporaneo[^31].
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Un concetto su cui ritorna più oltre con chiarezza ancora maggiore:
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> Alla fine del conflitto mondiale, l'Italia avrà bisogno di pane e di
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> case. Nelle sue terre distrutte, contadini, operai, intellettuali
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> domanderanno case. L'opera degli architetti dovrà rispondere alle
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> esigenze materiali e psicologiche dell'edilizia di un paese finalmente
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> libero[^32].
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Un'edilizia organica, nell'auspicio di Zevi: vale a dire che "ha alla
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sua base un'idea sociale, non un'idea figurativa; (...) che vuole
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essere, prima che umanistica, umana"[^33].
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Nella medesima prospettiva va inscritto anche il suo coinvolgimento
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nella realizzazione del *Manuale dell'architetto*[^34]: una complessa
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operazione, a cui partecipano, tra gli altri, Gustavo Colonnetti, Mario
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Ridolfi, Pier Luigi Nervi e Mario Fiorentino, che ha come scopo
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l'"alfabetizzazione" degli architetti italiani in vista della
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ricostruzione. Ed è appunto questa finalità *operativa* che
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contraddistingue la totalità degli interventi di Zevi: dalla scrittura
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all'insegnamento, dalla pratica professionale alla difesa del
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territorio, nulla è concepito come impegno puramente "accademico";
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piuttosto, come altrettante "cause" per le quali battersi con veemente
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passione. Una finalità che non manca di toccare anche la storia, da lui
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utilizzata per affermare le proprie convinzioni -- in campo progettuale
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come in campo politico-ideologico --, oltreché per fini conoscitivi.
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Tafuri, definendo tale attitudine storico-critica "operativa" come
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> ... un'analisi dell'architettura (o delle arti in generale), che abbia
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> come suo obiettivo non un astratto rilevamento, bensì la
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> "progettazione" di un preciso indirizzo poetico, anticipato nelle sue
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> strutture, e fatto scaturire da analisi storiche programmaticamente
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> finalizzate e deformate[^35],
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ha voluto criticarne gli intendimenti strumentali, non sufficientemente
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distaccati a suo avviso dal raggiungimento di presunti propositi
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esterni. Al "punto di incontro fra la storia e la progettazione, --
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come scrive ancora Tafuri, -- la critica operativa *progetta* la storia
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passata proiettandola verso il futuro". Tra coloro che egli vede come
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"i più validi assertori, in Europa, di un rilancio ideologico rivolto a
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colmare il salto fra impegno civile e azione culturale"[^36], nel
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secondo dopoguerra, Tafuri cita tre soli nomi: Jean-Paul Sartre, Elio
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|
Vittorini e -- appunto -- Bruno Zevi. E se quelli dei primi due, dal
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punto di vista tafuriano, sembrano parlare legittimamente di un ruolo di
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*engagement* intellettuale che mescola fino a fonderle del tutto
|
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letteratura e politica, giungendo a un'"identificazione tra pensiero e
|
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azione", il nome di Zevi -- in quella stessa ottica -- pare stare a
|
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|
testimoniare piuttosto una "forzatura" di tale identificazione. Vi è
|
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|
insomma un intento apertamente polemico nei confronti di Zevi *in
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quanto* architetto intellettuale che si servirebbe della storia per
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affermare il proprio credo progettuale. "La storia, -- scrive Tafuri, --
|
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per sua natura, è un gioco di equilibrio, che la critica operativa forza
|
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facendo precipitare la dimensione del presente"[^37]. In ciò dunque
|
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consisterebbe ai suoi occhi l'"errore" di Zevi: nell'"*attualizzare* la
|
|||
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storia*"*, nel "renderla duttile strumento per l'azione*"*[^38].
|
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|
Il più emblematico *casus* di attualizzazione storica zeviana (nonché
|
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|
flagrante ragione di "rottura" tra i due) si verificherà in occasione
|
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|
della Mostra critica delle opere michelangiolesche (Roma, Palazzo delle
|
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|
Esposizioni, 1964). L'attualità di Michelangelo verrà "dimostrata" da
|
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|
Zevi mediante letture volumetriche e spaziali che fanno dell'artista
|
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|
rinascimentale a tutti gli effetti un "moderno"[^39]; e a ciò vanno
|
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|
aggiunti i discussi "plastici critici" realizzati dagli studenti dello
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|
IUAV di Venezia ed esposti in mostra. La censura nei confronti di
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|
questi da parte di Tafuri non avviene però sulla base del presunto
|
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|
"scandalo" che essi susciterebbero, bollato invece come "ingenuo";
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|
piuttosto sulla base di una duplice incoerenza: da una lato la mancanza
|
|||
|
di "sorveglianza" delle loro trasformazioni rispetto agli originali, e
|
|||
|
dall'altro il tentativo (fallito) di "una dilettantesca traduzione del
|
|||
|
linguaggio architettonico in astratti e astorici giochi scultorei"[^40].
|
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La condanna tafuriana del modo di interpretare il ruolo dell'architetto
|
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|
intellettuale da parte di Zevi non avrebbe in fondo particolare
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|
rilevanza in questo contesto, se non fosse che lo stesso Tafuri
|
|||
|
imprimerà una svolta decisiva alla propria carriera staccandosi --
|
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|
intorno alla metà degli anni sessanta -- dallo studio AUA (Architetti
|
|||
|
Urbanisti Associati)[^41], con cui aveva collaborato tanto da un punto
|
|||
|
di vista teorico che progettuale, per dedicarsi interamente alla storia.
|
|||
|
In realtà, già negli intendimenti del gruppo, composto da giovani
|
|||
|
architetti romani (tra cui Giorgio Piccinato e Vieri Quilici), vi era
|
|||
|
una presa di distanza dall'architettura come pratica professionale
|
|||
|
separata dagli altri "piani d'azione" della realtà; e infatti in AUA,
|
|||
|
nel nome e nei fatti, l'attività progettuale è affiancata da -- e
|
|||
|
integrata con -- ricerche urbane[^42] e piani urbanistici.
|
|||
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|||
|
> Il gruppo concepisce il proprio mestiere come una vera e propria
|
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|
> militanza etica e politica. La professione architettonica, la critica
|
|||
|
> e la storiografia, non sono intesi tanto come discipline tecniche,
|
|||
|
> come mestieri o specialismi del mercato del lavoro, bensì come
|
|||
|
> "impegno integrale", come componenti di un universo disciplinare che
|
|||
|
> agisce allo stesso tempo politicamente e tecnicamente, contribuendo in
|
|||
|
> maniera attiva alla trasformazione della città e della realtà. In tal
|
|||
|
> senso, è comprensibile la vicinanza che il gruppo esprime nei
|
|||
|
> confronti delle istanze riformatrici delle avanguardie degli anni
|
|||
|
> venti, e come sembri evidente anche il riferimento alla figura
|
|||
|
> dell'intellettuale organico nella celebre definizione di Antonio
|
|||
|
> Gramsci[^43].
|
|||
|
|
|||
|
La storia praticata da Tafuri, però, sarà concepita in modo affatto
|
|||
|
diverso rispetto a quella di Zevi: una storia caratterizzata dalla "più
|
|||
|
totale indifferenza nei confronti dell'*azione positiva*"[^44] (ovvero
|
|||
|
di quell'azione che cerchi di modellare l'architettura a propria
|
|||
|
immagine, sulla base dell'autorità del passato), e impegnata piuttosto
|
|||
|
in una "continua *contestazione del presente*"[^45], che si traduce in
|
|||
|
una "minaccia (...) ai tranquillizzanti miti in cui si acquietano le
|
|||
|
inquietudini e i dubbi degli architetti moderni"[^46]. Il compito
|
|||
|
dell'intellettuale impegnato nel campo della storia dell'architettura,
|
|||
|
in questo senso, diviene quello di "esasperare" la condizione di disagio
|
|||
|
in cui versano l'architetto e l'architettura "di fronte alla dinamica
|
|||
|
dello sviluppo capitalista"[^47], mostrando tutta la problematicità di
|
|||
|
una situazione "assurda eppure reale".
|
|||
|
|
|||
|
> ... Ponendo di continuo in crisi gli obiettivi apparentemente
|
|||
|
> avanzati su cui rischiano di acquietarsi la ricerca e il dibattito, il
|
|||
|
> critico deve (...) -- con un rigore cui è obbligato dalle vicende
|
|||
|
> storiche in cui opera -- (...) stimola\[re\] dubbi sempre più
|
|||
|
> coscienti, dissensi sempre più costruttivi, disagi sempre più
|
|||
|
> generalizzati.
|
|||
|
|
|||
|
L'attività storica diviene cosí per Tafuri ""critica delle ideologie
|
|||
|
architettoniche", e, in quanto tale, attività "politica" -- anche se
|
|||
|
mediatamente politica"[^48]; più che l'enunciazione di una vaga
|
|||
|
intenzione, la formulazione di un vero e proprio "programma" che -- con
|
|||
|
un anno di anticipo rispetto alla pubblicazione del saggio intitolato
|
|||
|
precisamente *Per una critica dell'ideologia architettonica* -- ne
|
|||
|
preannuncia a grandi linee i contenuti e, ancor di più, il disegno
|
|||
|
strategico complessivo:
|
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|
> La messa in luce di ciò che l'architettura è, *in quanto disciplina
|
|||
|
> storicamente condizionata e istituzionalmente funzionale al
|
|||
|
> "progresso" della borghesia precapitalistica prima, alle nuove
|
|||
|
> prospettive della "Zivilisation" capitalistica poi*, va quindi
|
|||
|
> riconosciuto come l'unico scopo rivestito di senso storico, da parte
|
|||
|
> di chi intenda forzare il ruolo istituzionale assegnato agli
|
|||
|
> intellettuali dall'Illuminismo in poi[^49].
|
|||
|
|
|||
|
Si tratta da un lato di un'opera di demistificazione, vale a dire del
|
|||
|
disvelamento delle "incrostazioni" ideologiche che rivestono (spesso
|
|||
|
arrivando a occultarla del tutto) la vicenda dell'architettura moderna,
|
|||
|
a partire da Brunelleschi in avanti; e dall'altro del tentativo di
|
|||
|
istituire rapporti positivi, costruttivi, con la funzione più
|
|||
|
intrinsecamente politica della storia. Ciò che ne deriva non è soltanto
|
|||
|
un "progetto" storico radicalmente diverso dalla "storia progettuale"
|
|||
|
zeviana[^50], ma anche una figura di storico in grado di riappropriarsi
|
|||
|
correttamente del proprio ruolo di intellettuale.
|
|||
|
|
|||
|
Ciò nondimeno, malgrado la presenza di almeno altre due personalità di
|
|||
|
alto profilo intellettuale operanti nell'ambito degli studi
|
|||
|
storico-architettonici -- Giulio Carlo Argan e Leonardo Benevolo[^51] --
|
|||
|
non è prevalentemente dal punto di vista storico che l'architetto
|
|||
|
intellettuale italiano giunge a occupare un posto di particolare rilievo
|
|||
|
nel panorama architettonico degli anni cinquanta, sessanta e settanta. È
|
|||
|
anzi proprio attraverso la pacifica e proficua convivenza e integrazione
|
|||
|
di attività progettuale (architettonica o urbanistica) e attività
|
|||
|
culturale (significativamente segnata, in molti casi, se non da una vera
|
|||
|
e propria militanza, da una dichiarata *appartenenza* politica) che
|
|||
|
alcuni dei principali protagonisti della scena italiana acquisiranno
|
|||
|
autorevolezza a livello nazionale e internazionale, e conferiranno
|
|||
|
all'Italia un singolare primato nella produzione di architetti
|
|||
|
intellettuali.
|
|||
|
|
|||
|
Nel rilevare *"*la scissione tra architetti e intellettuali"[^52], a
|
|||
|
partire dalla seconda metà del Novecento, con particolare riferimento
|
|||
|
alla Francia, Jean-Louis Cohen ha nel contempo evidenziato l'esistenza
|
|||
|
-- per converso -- di un intenso rapporto tra architetti e intellettuali
|
|||
|
in Italia, ovvero "il fatto che gli architetti italiani siano degli
|
|||
|
intellettuali"[^53]. Le ragioni individuate a supporto di questa
|
|||
|
peculiare situazione sono molteplici:
|
|||
|
|
|||
|
> Se i rapporti tra intellettuali italiani e architetti sono cosí
|
|||
|
> particolari, è senza dubbio prima di tutto perché gli architetti
|
|||
|
> stessi, in linea con i pionieri dell'architettura razionale del
|
|||
|
> periodo fascista, sono capaci di scrivere e di chiarire
|
|||
|
> intellettualmente i loro punti di riferimento e il loro approccio
|
|||
|
> progettuale[^54].
|
|||
|
|
|||
|
A ciò va aggiunta la specificità delle scuole di architettura italiane
|
|||
|
in cui la gran parte di tali architetti sono inseriti, che reclutano i
|
|||
|
propri insegnanti "sulla base della loro produzione culturale (articoli,
|
|||
|
libri) tanto quanto su quella delle loro opere architettoniche"[^55].
|
|||
|
Inoltre -- nota Cohen -- in assenza di un forte controllo statale delle
|
|||
|
commesse pubbliche, come accade in Francia, il sistema politico e
|
|||
|
amministrativo frammentato e spesso clientelare italiano favorisce lo
|
|||
|
sviluppo di competenze da parte dell'architetto che esulano da quelle
|
|||
|
puramente progettuali, ivi compresa una certa *"*aura culturale".
|
|||
|
Infine in Italia, tra gli anni cinquanta e settanta, si riscontra una
|
|||
|
vera e propria esplosione nel campo della produzione editoriale di
|
|||
|
architettura, riguardante tanto i libri che le riviste[^56], cui si
|
|||
|
aggiunge il contributo critico apportato da associazioni quali il
|
|||
|
Movimento di Studi per l'Architettura (MSA), composto, tra gli altri, da
|
|||
|
Franco Albini, Lodovico Belgiojoso, Piero Bottoni, Giancarlo De Carlo,
|
|||
|
Ignazio Gardella, Marco Zanuso, o il Movimento Comunità di Adriano
|
|||
|
Olivetti[^57], oltreché il citato APAO; senza dimenticare ambiti
|
|||
|
culturali più ampi, qual è il Gruppo 63, con le riviste a esso correlate
|
|||
|
come "Marcatré" e "Quindici"[^58]; o ancora, riviste apertamente
|
|||
|
politiche come "Contropiano*",* diretta da Alberto Asor Rosa e Massimo
|
|||
|
Cacciari (dopo l'abbandono di Antonio Negri all'indomani dell'uscita del
|
|||
|
primo numero, a causa di insanabili dissidi sulla linea politica da
|
|||
|
conferire alla rivista), espressione della corrente operaista nel
|
|||
|
periodo a cavallo tra anni sessanta e settanta, cui collaborano, tra gli
|
|||
|
altri, Manfredo Tafuri, Francesco Dal Co e Marco De Michelis. Tutto ciò
|
|||
|
-- conclude Cohen -- rende la "qualità intellettuale del dibattito
|
|||
|
italiano il frutto meno di un caso che di una necessità"[^59].
|
|||
|
|
|||
|
Dalla ricchezza complessiva di questo quadro si stagliano un ristretto
|
|||
|
numero di individualità di grande rilevanza e influenza: Giuseppe
|
|||
|
Samonà, Ludovico Quaroni, Ernesto Nathan Rogers, Vittorio Gregotti,
|
|||
|
Carlo Aymonino, Aldo Rossi, per nominarne solo qualcuna. Significativo
|
|||
|
è che per tutti costoro non soltanto la dimensione operativa si intrecci
|
|||
|
costantemente con quella teorica, ma che per lo più la questione
|
|||
|
architettonica sia affiancata dalla questione urbana. *L'urbanistica e
|
|||
|
l'avvenire delle città*[^60], *La Torre di Babele*[^61], *Il problema
|
|||
|
del costruire nelle preesistenze ambientali*[^62], *Il territorio
|
|||
|
dell'architettura*[^63], *Origini e sviluppo della città moderna*[^64],
|
|||
|
*L'architettura della città*[^65] sono soltanto una piccola
|
|||
|
rappresentanza dei titoli di scritti che testimoniano l'interesse degli
|
|||
|
architetti appena citati per la disciplina intesa in un senso che non è
|
|||
|
mai restrittivamente localistico o settoriale, cosí come l'urbanistica
|
|||
|
non vi è mai intesa come questione puramente tecnica o gestionale.
|
|||
|
Persino nel caso di studi pubblicati in quegli anni, sotto la guida di
|
|||
|
alcuni dei medesimi autori, dedicati all'analisi di luoghi o casi
|
|||
|
specifici[^66], la circoscrizione e precisione del campo di ricerca non
|
|||
|
vanno mai disgiunte dall'intenzione di dare a tali studi un carattere
|
|||
|
emblematico e generalizzabile, in particolar modo da un punto di vista
|
|||
|
metodologico.
|
|||
|
|
|||
|
Con tutto ciò, diversi rimangono gli approcci alla figura
|
|||
|
dell'architetto *sub specie intellectualis*. Per Samonà è soprattutto
|
|||
|
la direzione dell'Istituto Universitario di Architettura di Venezia
|
|||
|
(IUAV) a divenire l'occasione per compiere una grande operazione
|
|||
|
culturale, oltreché didattica: chiamando a raccolta, a partire dal
|
|||
|
secondo dopoguerra, un corpo docente altamente qualificato --
|
|||
|
comprendente personaggi del calibro di Franco Albini, Ignazio Gardella,
|
|||
|
Saverio Muratori, Lodovico Belgiojoso, Giancarlo De Carlo, Luigi
|
|||
|
Piccinato, Giovanni Astengo e Bruno Zevi, rinnovato poi nel corso degli
|
|||
|
anni sessanta con l'immissione, tra gli altri, di Carlo Aymonino, Guido
|
|||
|
Canella, Gino Valle, Gianugo Polesello, Luciano Semerani, Costantino
|
|||
|
Dardi, Leonardo Benevolo, Manfredo Tafuri e Mario Manieri Elia -- egli
|
|||
|
ha posto le fondamenta di quella che assumerà vasta notorietà
|
|||
|
internazionale sotto il nome di "Scuola di Venezia"[^67].
|
|||
|
|
|||
|
Per Ludovico Quaroni i campi d'applicazione della particolare modalità
|
|||
|
con cui egli declina il ruolo di architetto intellettuale sono
|
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|
molteplici: quello di un impegno politico che incrocia, tra gli altri,
|
|||
|
il Movimento Comunità di Adriano Olivetti, e che si connette
|
|||
|
fattivamente ai numerosi piani urbanistici e ai progetti di quartieri
|
|||
|
popolari da lui elaborati nel corso della sua carriera; quella di una
|
|||
|
produzione saggistica che testimonia -- più che di una propensione
|
|||
|
"teorica" nei confronti dell'architettura e della città -- di un'assidua
|
|||
|
presenza nel dibattito vivo e attuale del suo tempo, spesso attuata per
|
|||
|
mezzo di apparizioni su testate secondarie o comunque defilate rispetto
|
|||
|
ai più consueti luoghi di elaborazione culturale[^68]; e infine quello
|
|||
|
dell'insegnamento universitario (a Firenze, Napoli e Roma), vero e
|
|||
|
proprio fronte di affermazione e verifica d'un atteggiamento dialettico
|
|||
|
di cui beneficeranno intere generazioni di allievi (molti dei quali
|
|||
|
destinati a loro volta a un illustre futuro)[^69], anziché luogo di
|
|||
|
semplice esposizione di "certezze" disciplinari[^70].
|
|||
|
|
|||
|
Per Ernesto Nathan Rogers, invece, lo strumento principale della propria
|
|||
|
azione culturale sono le riviste: dapprima "Domus", di cui diviene
|
|||
|
direttore subito dopo la guerra, e poi "Casabella", da lui diretta dal
|
|||
|
1953 al 1964. È in special modo nella redazione di
|
|||
|
"Casabella-Continuità" (secondo la nuova denominazione da lui data alla
|
|||
|
testata) e attraverso i suoi editoriali che Rogers svolge un'opera di
|
|||
|
"educazione" all'architettura moderna, rivista alla luce del rapporto
|
|||
|
con la città storica e intesa come paradigma non soltanto estetico ma
|
|||
|
anche *etico* per la ricostruzione dell'Italia dopo il secondo conflitto
|
|||
|
mondiale e il ventennio fascista. In questo senso vanno intesi i numeri
|
|||
|
di "Casabella-Continuità" che inquadrano tematiche più generali, spesso
|
|||
|
relative a problematiche urbane e territoriali, all'interno delle quali
|
|||
|
i singoli progetti di architettura si inseriscono non come semplice
|
|||
|
vetrina per la vanità dell'architetto di turno[^71]. Ma è soprattutto
|
|||
|
grazie a Rogers che ha luogo il decisivo incontro tra la cultura
|
|||
|
architettonica del periodo e la corrente più avanzata della filosofia
|
|||
|
italiana, rappresentata in quel momento da Antonio Banfi e da Enzo Paci.
|
|||
|
Con quest'ultimo in particolare il dialogo tra architettura e filosofia
|
|||
|
si fa serrato, apportando tangibili conseguenze sull'uno e sull'altro
|
|||
|
fronte[^72]. Dal punto di vista dell'architettura, Rogers coglie dalla
|
|||
|
lezione di Paci elementi che gli consentono di mettere a fuoco più
|
|||
|
compiutamente un pensiero che già aveva sviluppato in modo embrionale
|
|||
|
fin dal primo editoriale di "Casabella-Continuità":
|
|||
|
|
|||
|
> Noi crediamo nel fecondo ciclo *uomo-architettura-uomo* e vogliamo
|
|||
|
> rappresentarne il drammatico svolgimento: le crisi; le poche,
|
|||
|
> indispensabili certezze e i molti dubbi, ancor più necessari; siccome
|
|||
|
> pensiamo che essere vivi significhi, soprattutto, accettare la fatica
|
|||
|
> del quotidiano rinnovamento, col rifiuto delle posizioni acquisite,
|
|||
|
> nell'ansia fino all'angoscia, nel perpetuarsi dell'agone,
|
|||
|
> nell'allargare il campo dell'umana "simpatia"[^73].
|
|||
|
|
|||
|
Dall'acquisizione di una maggior consapevolezza filosofica derivano le
|
|||
|
evoluzioni di tale pensiero, come dimostra l'utilizzo di concetti come
|
|||
|
"esperienza"[^74] o di coppie di termini come "continuità-crisi", o
|
|||
|
"discontinuità-continuità" al di fuori di una dimensione puramente
|
|||
|
esistenziale e intuitiva. Cosí è, ad esempio, nella valutazione del
|
|||
|
contributo dato dall'architettura moderna, non riducibile per Rogers a
|
|||
|
semplici "apparenze figurative", e da ricondurre invece alle
|
|||
|
|
|||
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> ... espressioni di un metodo che ha tentato di stabilire nuove e più
|
|||
|
> chiare relazioni tra i contenuti e le forme, entro la fenomenologia di
|
|||
|
> un processo storico-pragmatico, sempre aperto, che, come esclude ogni
|
|||
|
> apriorismo nella determinazione di quelle relazioni, cosí non può
|
|||
|
> essere giudicato per schemi[^75].
|
|||
|
|
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|
Nella prospettiva filosofica di Paci, d'altronde, la crisi
|
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|
dell'architettura moderna è
|
|||
|
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|
> ... da addebitare a una troppo rigida e dogmatica interpretazione del
|
|||
|
> razionalismo del Movimento Moderno che, saldandosi all'istanza
|
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|
> tecnicista del processo di industrializzazione edilizia in atto, ha
|
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|
> finito per produrre il declassamento dell'architettura da Arte ad un
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> "insieme coerente e strumentale di operazioni tecniche"[^76].
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Ma va inscritta anche in un discorso molto più ampio che riguarda la
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"storicità" della crisi e la sua necessità per "prospettare un nuovo
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orizzonte"[^77] nel quale il passato possa rivivere in forma
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trasformata.
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Questa prospettiva induce Rogers a una profonda revisione del senso
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dell'architettura. Logica e ragione (ovvero le categorie che l'avevano
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innervata ancora negli anni tra le due guerre) non sono più sufficienti
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per lui a definire -- ma soprattutto a *incarnare* nella maniera più
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compiuta -- un'architettura che, pur senza rinunciare alla sua
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"missione" di modernità, debba però farsi carico di tutte le
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contraddizioni che lo stesso sviluppo moderno ha incontrato sul suo
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cammino. Ciò rende niente affatto semplice, e anzi del tutto
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*drammatico*, il compito dell'architetto: "Fra gli altri uomini,
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l'architetto rappresenta questa personalità singolare cui è devoluto il
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compito di tentare la sintesi tra gli opposti poli"[^78]. Si tratta di
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quella che Rogers concepisce come una vera e propria "lotta tra utilità
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e bellezza". "Dobbiamo sentire in ogni momento creativo il dramma
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fondamentale dell'esistenza perché la vita pone continuamente in
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contraddizione i bisogni pratici e le aspirazioni spirituali"[^79]; un
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dramma che l'architetto deve affrontare *operativamente*, lasciando che
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le contraddizioni convivano "traducendole" in opera. Ma anche:
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"Dobbiamo aspirare all'universale dando valore alle energie latenti
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nella contingenza"[^80]. Ciò comporta una diversa concezione della
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temporalità e della spazialità (intesa anche in senso allargato, come
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ambiente o contesto) del progetto, portatrici entrambe di "occasioni"
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che l'architetto non deve mancare di cogliere[^81].
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Frutto non secondario dell'intenso lavoro svolto da Rogers in vista
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della costruzione di un agire progettuale "in relazione", sarà uno
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stuolo di seguaci cresciuti all'interno della stessa redazione di
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"Casabella-Continuità", la cui precipua caratteristica è la libertà
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intellettuale e la capacità di esercitarla in modi che non ricalcano
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però quasi per nulla quelli del "maestro". Cosí Vittorio Gregotti ha
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ereditato da Rogers la vocazione per la conduzione di riviste ("Edilizia
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moderna", "Casabella", "Rassegna") come forma di militanza che trova
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espressione nella scelta delle tematiche da affrontare e delle opere da
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presentare, oltreché -- in maniera ancora più diretta ed esplicita --
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attraverso gli editoriali da lui pubblicati mensilmente. A tale
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cospicuo lavoro svolto nell'ambito dei periodici (cosí come pure dei
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quotidiani) Gregotti ha affiancato nel corso degli anni una altrettanto
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considerevole produzione libraria che, con ritmo cadenzato, ha
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accompagnato il trascorrere delle diverse stagioni
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dell'architettura[^82]. Senza dimenticare il suo ruolo di direttore
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della sezione Arti visive e Architettura della Biennale di Venezia del
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1976, preludio alle successive Biennali Internazionali di Architettura.
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Tutti questi fattori hanno determinato l'indiscussa centralità di
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Gregotti all'interno del panorama architettonico italiano e
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internazionale, una centralità ribadita anche sotto il profilo
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progettuale e costruttivo[^83].
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Nel caso di Carlo Aymonino e Aldo Rossi -- a loro volta membri della
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redazione della "Casabella-Continuità" rogersiana -- il modello cui
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entrambi si ispirano è l'intellettuale culturalmente e politicamente
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impegnato che domina la scena nell'Italia degli anni cinquanta,
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discendente a sua volta dalla concezione gramsciana dell'"intellettuale
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organico" inteso come "costruttore", e non come semplice "oratore",
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disponibile a confrontarsi con la realtà, a "mescolarsi attivamente alla
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|
vita pratica"[^84]; un intellettuale che però, proprio nel dopoguerra,
|
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conosce una profonda crisi d'identità e di coscienza che lo porta spesso
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a entrare in rotta di collisione con la linea dettata dal Partito
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comunista italiano, che pure in questo campo costituisce per molti di
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loro un punto di riferimento imprescindibile.
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Strettamente legate al Pci sono le riviste "Critica marxista", "Il
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Contemporaneo", "Società", "Voce comunista", su cui scrivono -- in
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|
particolar modo nel periodo giovanile -- Aymonino e Rossi[^85]. Ma è
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soprattutto con la produzione di ricerche all'interno dell'università,
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che non di rado troveranno la via della pubblicazione come semplici
|
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dispense[^86], che Aymonino e Rossi (ma con loro anche altri giovani
|
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architetti e professori come Costantino Dardi, Luciano Semerani, Gianugo
|
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Polesello, Guido Canella, Giorgio Grassi) giungono a definire l'esatta
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"funzione" dell'architetto intellettuale italiano degli anni sessanta e
|
|||
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settanta: quella di mettere a punto un apparato teorico utilizzabile in
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vista di un agire pratico, al di fuori però di qualsiasi prospettiva
|
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"personale", soggettiva, e in grado piuttosto -- stante la "natura
|
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collettiva dell'architettura"[^87] -- di essere condivisa dal maggior
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numero di persone possibile, e dunque socializzabile. A questo fine
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sono indispensabili una metodologia rigorosa, una strumentazione chiara
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e obiettivi altrettanto riconoscibili. Si legga ad esempio quanto
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scrive Rossi a introduzione del volume che raccoglie i contributi al
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dibattito svoltosi all'interno del gruppo di ricerca da lui diretto alla
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Facoltà di architettura del Politecnico di Milano nell'anno accademico
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1968-69:
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> La nostra ricerca si propone principalmente la costruzione di una
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> teoria razionale dell'architettura. Tale costruzione è principalmente
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> fondata sullo studio dei rapporti esistenti tra l'analisi urbana e la
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|
> progettazione architettonica[^88].
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|
Un metodo, appunto, il più possibile oggettivo e condivisibile.
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E tuttavia, dietro la "scientificità" dell'approccio alla ricerca emerge
|
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la determinazione da parte del giovane Rossi a ridare *necessità* al
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processo progettuale, prendendo le distanze dall'empirismo
|
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"professionalistico" imperante nell'Italia degli anni cinquanta e
|
|||
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sessanta, e al tempo stesso a riconquistare per l'architetto una
|
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|
*libertà intellettuale* che la stretta osservanza dell'"ortodossia"
|
|||
|
moderna non riusciva (più) a garantire. Per Rossi, come per gli altri
|
|||
|
architetti animati da un'ideologia comunista, ciò che è in gioco è una
|
|||
|
"visione del mondo"[^89] di cui l'architetto e l'architettura devono
|
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|
farsi portatori, *oltre* le pratiche del mestiere e l'adempimento delle
|
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|
funzioni.
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È un'impostazione condivisa anche da Antonio Monestiroli (non a caso tra
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|
i membri del gruppo di ricerca diretto da Rossi alla fine degli anni
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|
sessanta): un architetto che alla costruzione di una "visione del mondo"
|
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|
oggettiva e condivisa dedicherà il suo costante e coerente impegno
|
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intellettuale.
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> Questo legame stretto (...) fra il progetto e la collettività, fa sí
|
|||
|
> che il progetto acquisti un senso compiuto quando è determinato
|
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|
> esplicitamente da una volontà collettiva, quando cioè si manifesta
|
|||
|
> generalmente la volontà di definizione da parte della collettività
|
|||
|
> della città sua propria e dell'architettura. Questo è il motivo per
|
|||
|
> cui, solo quando si verificano queste condizioni, l'architettura
|
|||
|
> raggiunge il suo massimo sviluppo. Questo è anche il motivo per cui
|
|||
|
> quando l'impegno della collettività nei confronti dell'architettura
|
|||
|
> viene meno, questa o si riduce al suo aspetto tecnico-costruttivo, o
|
|||
|
> ricerca nostalgicamente se stessa, o si deforma a criticare la realtà
|
|||
|
> che la nega[^90].
|
|||
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|
Da ciò discende quasi logicamente la definizione che egli dà del
|
|||
|
progetto di architettura, "che consiste nello *svelamento della sua
|
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|
ragione collettiva*, del senso della sua appartenenza alla
|
|||
|
collettività*"*[^91].
|
|||
|
|
|||
|
Ed è proprio la coscienza del valore e della necessità di una *visione
|
|||
|
collettiva* che contraddistingue la stagione degli architetti
|
|||
|
intellettuali italiani da quella immediatamente successiva, che
|
|||
|
annovera, tra gli altri, teorici come Peter Eisenman e Rem Koolhaas. La
|
|||
|
distanza che separa questi ultimi da una concezione *politica* del ruolo
|
|||
|
dell'architetto è del tutto evidente, distanza non colmata neppure dal
|
|||
|
fatto che loro "incubatore" sia stato l'Institute for Architecture and
|
|||
|
Urban Studies di New York, strettamente legato all'Italia, e in
|
|||
|
particolar modo allo IUAV, a partire dai primi anni settanta[^92]. Se
|
|||
|
la "traduzione americana" della teoria si configura come un tentativo di
|
|||
|
riscatto dell'architettura dal dominio dei grandi studi commerciali (il
|
|||
|
cui unico "impegno" consiste nell'eterna ripetizione delle soluzioni
|
|||
|
elaborate dal *Functionalist style*) e da una classe di architetti più
|
|||
|
colti ma sin troppo compiacenti nel fornire risposte alle eterogenee
|
|||
|
richieste del mercato attraverso il nuovo eclettismo *post-modern*, ciò
|
|||
|
non può avvenire che a costo di uno "svuotamento" di senso: la riduzione
|
|||
|
al "grado zero" di "ogni ideologia, ogni sogno di funzione sociale, ogni
|
|||
|
residuo utopico", come ha lucidamente scritto Tafuri[^93]. È l'avvio di
|
|||
|
una trasformazione radicale dell'architetto intellettuale che, anche
|
|||
|
allorché sopravvive in quanto tale -- e ancor di più, proprio *per*
|
|||
|
sopravvivere in quanto tale --, deve rinunciare a ogni possibilità di
|
|||
|
connotare politicamente e socialmente il suo agire, ponendosi al centro
|
|||
|
di un universo di discorso interamente autoriferito[^94]. Non a caso le
|
|||
|
speculazioni eisenmaniane tendono verso la concettualizzazione e
|
|||
|
l'astrazione[^95], tanto quanto -- simmetricamente -- le analisi di
|
|||
|
Koolhaas provengono direttamente dalla realtà[^96].
|
|||
|
|
|||
|
Ma prima di analizzare quali siano gli apporti derivanti all'architetto
|
|||
|
intellettuale da questi due autori, vale la pena ricordare come siano
|
|||
|
Robert Venturi e Denise Scott Brown -- prima dello stesso Koolhaas -- a
|
|||
|
spalancare allo sguardo degli architetti (e non solo, ovviamente) le
|
|||
|
porte di una realtà che non è niente affatto "possibile" (e quindi
|
|||
|
ancora potenziale) e "diversa dalla realtà che ci circonda"[^97], ma è
|
|||
|
invece del tutto tangibile e verificabile. In qualità di esploratore
|
|||
|
urbano armato di macchina fotografica, l'intellettuale scende
|
|||
|
letteralmente in strada e si dispone a imparare da essa, senza più la
|
|||
|
mediazione di quegli "apparati" che l'avevano tradizionalmente
|
|||
|
supportato fin lí: i libri e -- si potrebbe dire, in una certa misura --
|
|||
|
la stessa cultura. *Complexity and Contradiction in Architecture* (1966)
|
|||
|
ma soprattutto *Learning from Las Vegas* (1972)[^98] si propongono come
|
|||
|
nuovi canoni per letture degli edifici e della città che a questo punto
|
|||
|
si aprono a una molteplicità di fenomeni, di stimolazioni, di
|
|||
|
interferenze. Per parafrasare l'*incipit* di *Delirious New York* di
|
|||
|
Rem Koolhaas, "una montagna di realtà priva di qualsiasi teoria"; e nel
|
|||
|
momento in cui è la realtà a parlare, le teorie che se ne lasciano
|
|||
|
dedurre si trovano inscritte direttamente nella materia. Dalle
|
|||
|
intelligenti analisi di Venturi e Scott Brown nascerà un'intera
|
|||
|
generazione di "detective dello spazio"[^99].
|
|||
|
|
|||
|
Per Koolhaas la realtà -- anche grazie allo studio OMA ("an
|
|||
|
international practice operating within the traditional boundaries of
|
|||
|
architecture and urbanism")[^100] e alla sua "costola" culturale AMO ("a
|
|||
|
research and design studio, applies architectural thinking to domains
|
|||
|
beyond ... AMO often works in parallel with OMA's clients to fertilize
|
|||
|
architecture with intelligence from this array of disciplines") -- è la
|
|||
|
base d'appoggio per costruire un'idea di architettura che si spinge
|
|||
|
spesso assai oltre il semplice edificio, per divenire interpretazione di
|
|||
|
singoli fenomeni, di complessi urbani o di interi territori[^101]. Lo
|
|||
|
sguardo sfaccettato e disincantato adottato in queste letture -- che
|
|||
|
intrecciano sociologia, economia, politica e arti -- è divenuto una
|
|||
|
modalità di osservazione che ha rapidamente fatto scuola, pur con
|
|||
|
rivisitazioni, deformazioni ed eccessi[^102].
|
|||
|
|
|||
|
Nonostante le evidenti difformità -- "stilistiche" non meno che
|
|||
|
sostanziali --, Koolhaas risulta ancor oggi, all'interno del panorama
|
|||
|
internazionale e in un'epoca qual è quella odierna inequivocabilmente
|
|||
|
postmoderna, l'unico erede (non è dato sapere quanto volontario o
|
|||
|
inconsapevole) di una tradizione intellettuale che affonda le sue radici
|
|||
|
nel moderno; una tradizione fondamentalmente *critica*, che sottopone la
|
|||
|
realtà al vaglio delle contraddizioni che essa stessa genera, senza con
|
|||
|
questo ridurle all'unità. È in questa accettazione -- e utilizzazione --
|
|||
|
della funzione produttiva della contraddizione che Koolhaas appare
|
|||
|
finalmente libero dalla nostalgia per il feticcio della "coerenza";
|
|||
|
anche se questo implica al tempo medesimo aver fatto piazza pulita di
|
|||
|
ogni "ideologia", con tutte le distorsioni ma pure con le possibilità di
|
|||
|
ancorarsi a un "cielo delle stelle fisse" dal punto di vista valoriale
|
|||
|
che questa portava con sé. E anche se questo comporta -- per usare le
|
|||
|
parole che Tafuri riserva a Venturi -- una "disincantata accettazione
|
|||
|
della realtà fino al cinismo"[^103].
|
|||
|
|
|||
|
Indiscutibilmente moderno, almeno nei suoi presupposti, è altresí il
|
|||
|
"progetto" eisenmaniano di fornire un contrappeso alla "insostenibile
|
|||
|
leggerezza" di un'epoca in cui sembra essersi dissolta ogni necessità di
|
|||
|
conferire "significato" alle cose. Finendo con l'incorrere, tuttavia,
|
|||
|
nel problema opposto. L'intero operare di Eisenman, tanto progettuale
|
|||
|
che teorico, pare irretito in un *entretien infini* con un inesauribile
|
|||
|
numero di interpretazioni e di significati, in qualche modo tutti
|
|||
|
equivalenti, tutti possibili[^104]. Ciò genera un gioco di specchi
|
|||
|
tanto affascinante (si pensi al proposito all'intenso dialogo da lui
|
|||
|
intrattenuto con Jacques Derrida)[^105] quanto sospetto di essere, alla
|
|||
|
lunga, sterile. E dove quanto si afferma non è più una visione
|
|||
|
complessiva -- o quantomeno estesa -- del mondo, oppure è una
|
|||
|
*Weltanschauung sub specie architecturae*, e dunque esposta al rischio
|
|||
|
di essere autoreferenziale.
|
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|
|
|||
|
Dalla frammentazione di cui Eisenman si fa portatore emerge però anche
|
|||
|
una straordinaria ricchezza interpretativa, a testimonianza del fatto
|
|||
|
che la pluralità dei punti di vista costituisce ormai uno strumento
|
|||
|
intellettuale imprescindibile in una prospettiva postmoderna. La stessa
|
|||
|
pluralità di punti di vista e ricchezza interpretativa che si può
|
|||
|
rintracciare nelle pagine della rivista "Oppositions" che lo stesso
|
|||
|
Eisenman -- affiancato dallo storico dell'architettura inglese Kenneth
|
|||
|
Frampton e dal critico d'origini argentine Mario Gandelsonas -- dirige
|
|||
|
dal 1973 al 1984[^106]. Fin dal nome, "Oppositions" preannuncia una
|
|||
|
conflittualità che rimane tuttavia interamente confinata al piano della
|
|||
|
teoria. Ma proprio su questo terreno si registrano contributi
|
|||
|
significativi da parte di autori dagli sguardi molti diversi. Tra loro,
|
|||
|
oltre a nomi già segnalati, si possono menzionare Rafael Moneo e Bernard
|
|||
|
Tschumi, due autori che incarnano in senso diametralmente opposto la
|
|||
|
figura dell'architetto intellettuale. Il primo, concentrando la propria
|
|||
|
attenzione sulla materialità degli edifici, sul loro essere portatori di
|
|||
|
una vita che eccede tanto quella di chi li frequenta e abita, quanto
|
|||
|
quella di chi li ha progettati; ma anche interrogandosi -- da architetto
|
|||
|
-- sulle opere e sul mestiere di altri architetti, animato dalla volontà
|
|||
|
di andare al di là di quanto a loro riguardo potrebbe apparire
|
|||
|
scontato[^107]. Il secondo, cercando di spostare l'architettura sul
|
|||
|
piano dell'evento, e più in generale di spostarla rispetto ai piani sui
|
|||
|
quali di consueto "riposa" da un punto di vista critico; una "messa in
|
|||
|
allarme" della disciplina, che utilizza gli strumenti della
|
|||
|
"disgiunzione", della "disgregazione" e della "violenza" per farla
|
|||
|
reagire[^108].
|
|||
|
|
|||
|
Da questi affondi sia pure molto parziali si evidenzia una condizione di
|
|||
|
crescente criticità -- con l'avvicinarsi al tempo presente --
|
|||
|
nell'interpretare il ruolo dell'intellettuale da parte degli architetti;
|
|||
|
criticità che trova conferma negli anni novanta del secolo scorso e nei
|
|||
|
primi anni del Duemila, improntati a un generale ripiegamento verso
|
|||
|
posizioni più pragmatiche, spesso coincidenti con un "isolamento" dentro
|
|||
|
gli studi professionali. Se questo mutamento ha almeno in parte
|
|||
|
carattere congiunturale (essendo cioè legato alla favorevole contingenza
|
|||
|
economica di quel periodo), il riapparire -- in anni più recenti -- di
|
|||
|
timidi segnali di inversione di tendenza si lascia forse interpretare
|
|||
|
come una conseguenza del proliferare della crisi; una crisi (economica e
|
|||
|
sociale) che in molte parti del mondo ha assunto una natura pressoché
|
|||
|
endemica. È in ogni caso all'interno di condizioni di crisi evidente --
|
|||
|
in cui il mercato del lavoro (anche nel settore dell'architettura)
|
|||
|
subisce una significativa contrazione, e soprattutto risente degli
|
|||
|
effetti dell'ingresso della produzione economica nella fase
|
|||
|
post-fordista[^109] -- che una giovane generazione di architetti
|
|||
|
sviluppa un rinnovato interesse per il pensiero radicale degli anni
|
|||
|
sessanta e settanta, nelle sue diverse forme: da quello più latamente
|
|||
|
politico, a quello dei *Radicals* italiani (Superstudio,
|
|||
|
Archizoom)[^110] e di alcuni degli interpreti del neo-razionalismo, in
|
|||
|
special modo l'Aldo Rossi dell'*Architettura della città* e il Giorgio
|
|||
|
Grassi della *Costruzione logica dell'architettura* (ma anche Guido
|
|||
|
Canella, Gianugo Polesello e altri)[^111]. Un *repêchage* che prende le
|
|||
|
mosse da presupposti molto distanti da quelli originari, e che in larga
|
|||
|
parte è anche estraneo alla cultura e all'ambito di appartenenza dei
|
|||
|
"discendenti" più diretti di quei protagonisti.
|
|||
|
|
|||
|
Nel fatale incontro tra scarse opportunità lavorative e fascinazione per
|
|||
|
i "maestri" di un'età precedente si compie il riavvicinamento alla
|
|||
|
scrittura critica di molti architetti in quel momento spesso soltanto
|
|||
|
ipotetici: se non già una vera e propria riattivazione della coscienza e
|
|||
|
del ruolo dell'intellettuale, perlomeno il riaffiorare di questi alla
|
|||
|
percezione di un'epoca che aveva finito per dimenticarli. Emblematica
|
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|
di questo momento è una rivista come "San Rocco", ideata, tra gli altri,
|
|||
|
da membri dei gruppi italiani 2A+P/A (Matteo Costanzo, Gianfranco
|
|||
|
Bombaci) e baukuh (Pier Paolo Tamburelli, Vittorio Pizzigoni, Andrea
|
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|
Zanderigo e altri) e del belga Office Kersten Geers David Van Severen, e
|
|||
|
diretta da Matteo Ghidoni. Ad essa collaborano autori di generazioni e
|
|||
|
di provenienze diverse (tra i quali architetti del calibro di Oliver
|
|||
|
Thill, Mark Lee, Freek Persyn, Harry Gugger, Pascal Flammer, Job
|
|||
|
Floris). Nel tempo per eccellenza della tirannia delle immagini, "San
|
|||
|
Rocco" decide programmaticamente di limitare l'uso di queste (pur
|
|||
|
enfatizzandole mediante uno studiatissimo impiego dell'assonometria),
|
|||
|
dando spazio ai testi (ma omettendo dalla copertina il nome della
|
|||
|
rivista). Inoltre opta per "non durare per sempre", predeterminando in
|
|||
|
tal modo il proprio decesso.
|
|||
|
|
|||
|
Da tutti questi indizi è lecito desumere qualche considerazione: per gli
|
|||
|
architetti nati nell'ultimo quarto del secolo scorso la riscoperta della
|
|||
|
cultura degli anni sessanta e settanta -- e con essa degli architetti
|
|||
|
intellettuali che vi fiorivano -- equivale a un ideale ritorno alle
|
|||
|
origini; se non il recupero di un "rimosso", di certo un percorso a
|
|||
|
ritroso per cercare di ritrovare un filo perduto. È poi significativo
|
|||
|
che tale iniziativa abbia come "centro operativo" l'Italia. È proprio in
|
|||
|
Italia infatti, più che in ogni altro luogo, che si è mantenuto uno
|
|||
|
stretto legame, un dialogo, tra architettura, storia e teoria. Ed è
|
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|
proprio l'Italia che può forse vantare la maggior concentrazione di
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architetti intellettuali nel corso della sua storia. Pur discontinua,
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tale presenza si lascia riscontrare anche in momenti difficili (si pensi
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ad esempio a Edoardo Persico e a Giuseppe Pagano durante il fascismo).
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Infine, le modalità secondo cui ciò avviene sono integralmente figlie
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dell'epoca attuale, e non esistono vie rapide e agevoli per mettere in
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connessione forme e contenuti di ora con forme e contenuti di allora.
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Vi sono infatti alcune caratteristiche peculiari dell'architetto
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intellettuale -- e dell'intellettuale *in generale* -- italiano degli
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anni sessanta e settanta che difficilmente possono essere fatte oggetto
|
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di illusorie rinascite, e che non casualmente sono scomparse nelle
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epoche successive e in altri contesti: tra queste, la consapevolezza non
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soltanto del proprio compito ma anche delle condizioni del proprio
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operare, ovvero dei propri *limiti storici*. Per Franco Fortini,
|
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scrittore, poeta, critico e saggista, fortemente impegnato in quegli
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anni in una lucida analisi delle condizioni di lavoro all'interno
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dell'"industria culturale", il ruolo da assegnare all'intellettuale
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parte dalla constatazione che lo sviluppo capitalistico realizza la
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progressiva distruzione della coscienza degli individui, ovvero -- come
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è stato scritto -- la "trasformazione antropologica dell'uomo da
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soggetto volitivo a merce, da essere dotato di pensiero, volontà,
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desiderio e coscienza a precipitato inerte di tempo ed energia
|
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inintenzionale"[^112]. In questa prospettiva, la trasformazione della
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società in senso comunista da lui vagheggiata poteva avvenire soltanto
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con il contributo di un lavoro intellettuale capace di concorrere alla
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creazione di una coscienza del presente comune e condivisa. E tuttavia,
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|
questo compito non potrebbe essere concepito per Fortini al di fuori di
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una verifica attenta e continua dei "criteri di valore" adottati per
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leggere la realtà. Cosí, ad esempio, l'"ordine storico, ideologico,
|
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|
estetico" di un libro e di un autore deve essere continuamente
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verificato "sul contesto sociale, produttivo, culturale, che quel libro,
|
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|
quegli autori, producono e ricevono"[^113]; ciò che implica la necessità
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|
-- come già Benjamin aveva compreso -- di non limitarsi a "schierarsi"
|
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|
politicamente ma di cercare di modificare *dall'interno* le condizioni
|
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politiche, ovvero i rapporti di produzione dell'epoca[^114]. Ma non
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|
potrebbe essere concepito neppure al di fuori delle condizioni effettive
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cui soggiace lo stesso lavoro intellettuale all'interno della società, e
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della società capitalista nello specifico: condizioni che sono per molti
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|
versi analoghe a quelle imposte al lavoro operaio. A partire dal fatto
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che il lavoro intellettuale diventa sempre più dipendente dall'industria
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|
culturale privata[^115], per giungere a quello -- diretta conseguenza
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della "riduzione di ogni forma di lavoro a lavoro industriale"[^116] --
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|
che anche il lavoro intellettuale, all'interno dello sviluppo
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capitalistico, tende a divenire lavoro astratto, parcellizzandosi in
|
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mansioni sempre più indifferenziate ed equivalenti tra di loro.
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Qualche anno più tardi Tafuri dedicherà un saggio al lavoro
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intellettuale che prende le mosse precisamente da questi presupposti:
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> ... siamo in presenza di un costante aumento dell'estraneità
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> dell'intellettuale al contenuto del proprio lavoro, che si realizza
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|
> tanto più concretamente tanto più quest'ultimo si caratterizza
|
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> esattamente come "lavoro": più esattamente, anzi, come lavoro
|
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|
> salariato[^117].
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Nel solco della linea "operaista" perseguita da Mario Tronti e dalla
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rivista "Contropiano" su cui Tafuri scrive, tale tendenza non va
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tuttavia rifiutata quanto piuttosto assecondata, portandola fino alle
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|
sue conseguenze ultime:
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> Leggere nelle condizioni attuali del lavoro intellettuale una concreta
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> tendenza verso un'omogeneizzazione materiale, che passa attraverso i
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|
> processi di ristrutturazione sociale e produttiva capitalistici,
|
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|
> significa riconoscere nella massificazione e nella mobilità dei ruoli,
|
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|
> nella perdita dei privilegi tradizionali riservati al lavoro
|
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> intellettuale, nel distacco -- che avviene già nella fase di
|
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|
> preparazione scolastica e universitaria -- dai contenuti del proprio
|
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|
> lavoro, nell'estraneità che finalmente anche l'intellettuale è
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|
> *obbligato* a sperimentare nei confronti dell'organizzazione
|
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|
> capitalistica del lavoro, alcune delle condizioni *positive* da cui
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> ripartire, per elaborare un programma di attacco al piano complessivo.
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|
E ancora, più oltre:
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> Non crediamo alle ripetute invenzioni di nuovi *alleati* della classe
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> operaia. Ma sarebbe suicida non riconoscere che sono le stesse linee
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> dello sviluppo capitalista a ricomporre, ai propri fini, una forza
|
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> lavoro tendenzialmente omogenea, che è possibile far funzionare sotto
|
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|
> il segno degli interessi diretti della classe operaia. Rovesciare
|
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|
> quello che è stato, per troppo tempo, il disegno capitalista, quello
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|
> che vede come proprio fine *una classe operaia organizzata dal
|
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|
> capitale*: questo è l'obiettivo da raggiungere ponendosi come compito
|
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|
> la gestione operaia delle rivendicazioni soggettive dei nuovi strati
|
|||
|
> di lavoro intellettuale salariato.
|
|||
|
>
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|
> Ma ciò non è possibile se non battendo ogni illusione reazionaria,
|
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|
> ogni proposta tesa a restituire *dignità* professionale a quegli
|
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|
> intellettuali "degradati". Mostrare in concreto la reazionarietà di
|
|||
|
> ogni discorso che voglia offrire prospettive "alternative" al lavoro
|
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|
> intellettuale, significa quindi riconoscere che solo *all'interno* del
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|
> ruolo oggettivo imposto dal dominio dello sviluppo è la condizione per
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|
> utilizzare la lotta dei ceti intellettuali assorbiti direttamente
|
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|
> nella produzione, in un attacco complessivo al piano del capitale: il
|
|||
|
> che significa, essenzialmente, estendere l'uso politico della lotta
|
|||
|
> *sul* salario a strati sociali sempre più ampi[^118].
|
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|
L'intellettuale impegnato nella costruzione di un radicale ripensamento
|
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|
della società a partire dalle condizioni esistenti, ma al tempo stesso
|
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|
alla ricerca di un orizzonte di senso *autonomo* per il proprio operare
|
|||
|
in quanto intellettuale, non può dunque che porsi nella posizione che
|
|||
|
Tronti sintetizza nell'espressione "dentro e contro": "*dentro* la
|
|||
|
società e *contro* di essa nello stesso tempo"[^119].
|
|||
|
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|
Le vicende storiche occorse dopo i primi anni settanta nella società
|
|||
|
italiana, cosí come in quelle di molti altri paesi occidentali
|
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|
industrializzati, porteranno a evoluzioni del tutto distanti da quelle
|
|||
|
prefigurate, tra gli altri, da Tronti, Fortini e Tafuri e -- per quanto
|
|||
|
riguarda il più specifico campo dell'architettura -- da Aymonino e
|
|||
|
Rossi. Proprio quest'ultimo, forse più di ogni altro, diverrà
|
|||
|
l'emblematico protagonista del brusco cambio di direzione impresso al
|
|||
|
lavoro intellettuale nel corso di meno di un decennio: dalla ricerca di
|
|||
|
un piano di lavoro condiviso come fondamento di un'alternativa alla
|
|||
|
realtà capitalistico-borghese, alla conquista di una "scrittura"
|
|||
|
privata, individuale, autobiografica. E non è probabilmente un caso che
|
|||
|
questo passaggio coincida con la "scoperta" dell'America da parte di
|
|||
|
Rossi[^120].
|
|||
|
|
|||
|
A partire da quel momento l'attitudine a essere "dentro e contro"
|
|||
|
declinerà vistosamente, fino a scomparire del tutto; una sparizione cui
|
|||
|
corrisponde un'altrettanto lunga eclissi della figura dell'architetto
|
|||
|
come intellettuale. Le ragioni di questa duplice sparizione (o forse
|
|||
|
sarebbe meglio dire "oscuramento") solo apparentemente sono
|
|||
|
riconducibili *in toto* alle condizioni politiche e sociali verificatesi
|
|||
|
in Italia e in buona parte del mondo dagli anni ottanta in avanti. In
|
|||
|
realtà, proprio quelle condizioni costituiscono il compimento e la
|
|||
|
conferma di quanto i migliori intellettuali dei decenni precedenti
|
|||
|
avevano lucidamente preconizzato[^121]. Non deve quindi stupire che,
|
|||
|
con il crescente imporsi di tali condizioni in tutte le società
|
|||
|
occidentalizzate, sottoposte agli effetti sempre più penetranti di un
|
|||
|
capitalismo al tempo stesso planetariamente esteso e minutamente
|
|||
|
pervasivo, siano tornate a emergere (specialmente in Italia)[^122], a
|
|||
|
partire dal principio del nuovo millennio, riflessioni filosofiche e
|
|||
|
politiche incentrate su temi su cui la cultura si era interrogata nei
|
|||
|
decenni precedenti[^123]. E che a fronte del "tutto dentro" del sistema
|
|||
|
globalizzato[^124], sia ritornata attuale la possibilità di porsi --
|
|||
|
rispetto a esso -- *dentro e contro*.
|
|||
|
|
|||
|
È alla luce di questa posizione che è forse possibile ripensare anche il
|
|||
|
ruolo dell'architetto intellettuale, *oggi*.
|
|||
|
|
|||
|
[^1]: Su Brunelleschi vedi, tra gli altri, Piero Sanpaolesi,
|
|||
|
*Brunelleschi*, Barbera, Firenze 1962; Frank D. Prager e Giustina
|
|||
|
Scaglia, *Brunelleschi. Studies of His Technology and Inventions*, The
|
|||
|
MIT Press, Cambridge (Mass.) 1970; Eugenio Battisti, *Filippo
|
|||
|
Brunelleschi*, Electa, Milano 1976; Arnaldo Bruschi, *Filippo
|
|||
|
Brunelleschi*, ivi 2006.
|
|||
|
|
|||
|
[^2]: Giulio Carlo Argan, *Brunelleschi*, Mondadori, Milano 1955, p. 44.
|
|||
|
|
|||
|
[^3]: Antonio Manetti, *Vita di Filippo Brunelleschi*, Edizioni Il
|
|||
|
Polifilo, Milano 1976, pp. 44 e 88.
|
|||
|
|
|||
|
[^4]: Arendt, *Vita activa* cit., pp. 137 sgg.
|
|||
|
|
|||
|
[^5]: Manetti, *Vita di Filippo Brunelleschi* cit., pp. 96-97; Giorgio
|
|||
|
Vasari, *Vita di Filippo Brunelleschi*, in *Le vite de' più eccellenti
|
|||
|
pittori, scultori ed architetti*, Einaudi, Torino 1986, pp. 316-17;
|
|||
|
Cesare Guasti, *La Cupola di Santa Maria del Fiore illustrata con i
|
|||
|
documenti dell'archivio dell'Opera secolare*, Barbèra Bianchi, Firenze
|
|||
|
1857, pp. 229-30.
|
|||
|
|
|||
|
[^6]: Manfredo Tafuri, *L'architettura dell'Umanesimo*, Laterza, Bari
|
|||
|
1969, p. 19.
|
|||
|
|
|||
|
[^7]: Vasari, *Vita di Filippo Brunelleschi* cit., p. 324.
|
|||
|
|
|||
|
[^8]: Il *De re ædificatoria* di Leon Battista Alberti, scritto intorno
|
|||
|
alla metà del XV secolo, verrà pubblicato per la prima volta nel 1485 in
|
|||
|
latino; vedi *L'architettura*, a cura di Giovanni Orlandi, Edizioni Il
|
|||
|
Polifilo, Milano 1988.
|
|||
|
|
|||
|
[^9]: Alberto Giorgio Cassani, *La fatica del costruire. Tempo e
|
|||
|
materia nel pensiero di Leon Battista Alberti*, Edizioni Unicopli,
|
|||
|
Milano 2000; Massimo Bulgarelli, *Leon Battista Alberti 1404-1472.
|
|||
|
Architettura e storia*, Electa, Milano 2008.
|
|||
|
|
|||
|
[^10]: Alberti, *L'architettura* cit., p. 6.
|
|||
|
|
|||
|
[^11]: Andrea Palladio, *I Quattro Libri dell'Architettura*, Domenico
|
|||
|
de' Franceschi, Venezia 1570, vol. I, *Proemio ai lettori*, p. 6.
|
|||
|
|
|||
|
[^12]: *Ibid.*, vol. III, cap. V, p. 12.
|
|||
|
|
|||
|
[^13]: Vedi, tra gli altri, Rudolf Wittkower, *Palladio e il
|
|||
|
palladianesimo*, Einaudi, Torino 1984.
|
|||
|
|
|||
|
[^14]: Sintomatico -- ma non certo unico -- il caso della Basilica di
|
|||
|
Vicenza: "La pianta della Basilica riprodotta nei *Quattro Libri* è solo
|
|||
|
un'invenzione, un singolare esempio di progetto ideale e irrealizzabile
|
|||
|
di un edificio già costruito in altro modo: in essa Palladio elimina
|
|||
|
proprio quelle difficoltà da cui era nato il proprio progetto e senza le
|
|||
|
quali il suo intervento non sarebbe stato neppure richiesto": James
|
|||
|
Ackerman, *Palladio*, Einaudi, Torino 1972, p. 45.
|
|||
|
|
|||
|
[^15]: Su Piranesi, vedi John Wilton-Ely, *Giovanni Battista Piranesi
|
|||
|
1720-1778*, Electa, Milano 2008.
|
|||
|
|
|||
|
[^16]: Pierluigi Panza, *Piranesi architetto*, Guerini Studio, Milano
|
|||
|
1998, p. 35.
|
|||
|
|
|||
|
[^17]: Michel Foucault, *Microfisica del potere*, Einaudi, Torino 1977.
|
|||
|
|
|||
|
[^18]: La più nota è probabilmente la "Querelle des anciens et des
|
|||
|
modernes" che, riprendendo la più nota disputa in campo letterario (vedi
|
|||
|
Marc Fumaroli, *Le api e i ragni. La disputa degli Antichi e dei
|
|||
|
Moderni*, Adelphi, Milano 2005), oppone Claude Perrault e François
|
|||
|
Blondel: cfr. Hanno-Walter Kruft, *Storia delle teorie architettoniche.
|
|||
|
Da Vitruvio al Settecento*, Laterza, Roma 1988, in particolare il
|
|||
|
cap. *La fondazione dell'Accademia di architettura e la crisi del
|
|||
|
dogmatismo accademico*, pp. 159-76; Anthony Gerbino, *François Blondel:
|
|||
|
Architecture, Erudition, and the Scientific Revolution*, Routledge,
|
|||
|
Abingdon-on-Thames 2010.
|
|||
|
|
|||
|
[^19]: Tra i più celebri e influenti, l'*Essai sur l'architecture*
|
|||
|
(1753) di Marc-Antoine Laugier e il *Saggio sopra l'architettura*
|
|||
|
(1757) di Francesco Algarotti, basato sulle idee (sia pur criticate) di
|
|||
|
Carlo Lodoli, denominato il "Socrate" dell'architettura per non aver
|
|||
|
lasciato tracce scritte della sua teoria: vedi Andrea Memmo, *Elementi
|
|||
|
d'architettura lodoliana*, Pagliarini, Roma 1786.
|
|||
|
|
|||
|
[^20]: Étienne-Louis Boullée, *Architettura. Saggio sull'arte*, a cura
|
|||
|
di Alberto Ferlenga, Einaudi, Torino 2005, p. 5.
|
|||
|
|
|||
|
[^21]: *Ibid.*, p. 3.
|
|||
|
|
|||
|
[^22]: Jean-Nicolas-Louis Durand, *Lezioni di architettura*, a cura di
|
|||
|
Ernesto D'Alfonso, CLUP, Milano 1986.
|
|||
|
|
|||
|
[^23]: Tra questi vanno ricordati, tra gli altri, Charles Fourier,
|
|||
|
Robert Owen, William Morris, Étienne Cabet, Jean-Baptiste Godin; sul
|
|||
|
tema vedi Françoise Choay, *La città. Utopie e realtà*, Einaudi, Torino
|
|||
|
1973.
|
|||
|
|
|||
|
[^24]: Tony Garnier, *Una città industriale*, a cura di Riccardo
|
|||
|
Mariani, Jaca book, Milano 1990.
|
|||
|
|
|||
|
[^25]: Le Corbusier, *Urbanistica* (1925), Il Saggiatore, Milano 1967.
|
|||
|
|
|||
|
[^26]: Catherine de Smet, *Le Corbusier Architect of Books*, Lars Müller
|
|||
|
Publishers, Baden 2005.
|
|||
|
|
|||
|
[^27]: In particolare, vedi Le Corbusier, *Croisade ou le Crépuscole des
|
|||
|
Académies*, Éditions Crés, Paris 1933.
|
|||
|
|
|||
|
[^28]: A tale azione si connettono strettamente da parte di Bruno Zevi
|
|||
|
la fondazione nel 1944 dell'APAO (Associazione per l'Architettura
|
|||
|
Organica) e la pubblicazione di *Verso un'architettura organica. Saggio
|
|||
|
sullo sviluppo del pensiero architettonico negli ultimi cinquant'anni*,
|
|||
|
Einaudi, Torino 1945.
|
|||
|
|
|||
|
[^29]: Roberto Dulio, *Introduzione a Bruno Zevi*, Laterza, Roma-Bari
|
|||
|
2008.
|
|||
|
|
|||
|
[^30]: Bruno Zevi, *Saper vedere l'architettura*, Einaudi, Torino 1948;
|
|||
|
Id., *Storia dell'architettura moderna*, ivi 1950; Id., *Poetica
|
|||
|
dell'architettura neoplastica*, Tamburini, Milano 1953; Id., *Il
|
|||
|
linguaggio moderno dell'architettura*, Einaudi, Torino 1973.
|
|||
|
|
|||
|
[^31]: Zevi, *Verso un'architettura organica* cit., p. 13.
|
|||
|
|
|||
|
[^32]: *Ibid.*, p. 150.
|
|||
|
|
|||
|
[^33]: *Ibid.*, p. 75.
|
|||
|
|
|||
|
[^34]: *Manuale dell'architetto*, a cura del Consiglio Nazionale delle
|
|||
|
Ricerche (CNR) -- United States Information Service (USIS), Roma 1946.
|
|||
|
|
|||
|
[^35]: Manfredo Tafuri, *Teorie e storia dell'architettura*, Laterza,
|
|||
|
Bari 1968, p. 161.
|
|||
|
|
|||
|
[^36]: Tafuri, *Teorie e storia dell'architettura* cit., p. 172.
|
|||
|
|
|||
|
[^37]: *Ibid.*, p. 176.
|
|||
|
|
|||
|
[^38]: *Ibid.*, p. 173.
|
|||
|
|
|||
|
[^39]: Bruno Zevi, *Introduzione: Attualità di Michelangiolo
|
|||
|
architetto*, in *Michelangiolo architetto*, a cura di Paolo Portoghesi e
|
|||
|
Bruno Zevi, Einaudi, Torino 1964, pp. 14-16. Vedi anche *Mostra critica
|
|||
|
delle opere michelangiolesche*, catalogo della mostra, Roma -- Palazzo
|
|||
|
delle Esposizioni, De Luca, Roma 1964.
|
|||
|
|
|||
|
[^40]: Tafuri, *Teorie e storia dell'architettura* cit., p. 126.
|
|||
|
|
|||
|
[^41]: Giorgio Ciucci, *Gli anni della formazione*, in "Casabella",
|
|||
|
n. 619-20, 1995, pp. 12-25.
|
|||
|
|
|||
|
[^42]: Giorgio Piccinato, Vieri Quilici e Manfredo Tafuri, *La città
|
|||
|
territorio. Verso una nuova dimensione*, in "Casabella-Continuità",
|
|||
|
n. 270, 1962, pp. 6-16; Enrico Fattinnanzi e Manfredo Tafuri,
|
|||
|
*Un'ipotesi per la città-territorio di Roma*, in "Casabella-Continuità",
|
|||
|
n. 274, 1963, pp. 27-36.
|
|||
|
|
|||
|
[^43]: Luka Skansi, *Architettura come "oggetto trascurabile". Note a
|
|||
|
margine di una discussione di Manfredo Tafuri su realismo e utopia*, in
|
|||
|
Alessandro De Magistris e Aurora Scotti (a cura di), *Utopiae finis?
|
|||
|
Percorsi tra utopismi e progetto*, Accademia University Press, Torino
|
|||
|
2018, p. 219.
|
|||
|
|
|||
|
[^44]: Tafuri, *Teorie e storia dell'architettura* cit., p. 270.
|
|||
|
|
|||
|
[^45]: *Ibid.*, p. 266.
|
|||
|
|
|||
|
[^46]: *Ibid.*, pp. 266-67.
|
|||
|
|
|||
|
[^47]: *Ibid.*, p. 269.
|
|||
|
|
|||
|
[^48]: *Ibid.*, p. 270.
|
|||
|
|
|||
|
[^49]: *Ibid*.
|
|||
|
|
|||
|
[^50]: Su ciò vedi Marco Biraghi, *Progetto di crisi. Manfredo Tafuri e
|
|||
|
l'architettura contemporanea*, Christian Marinotti Edizioni, Milano
|
|||
|
2005. Vedi anche il fondamentale saggio di Manfredo Tafuri, *Il
|
|||
|
"progetto" storico*, in "Casabella", n. 429, 1977, pp. 11-18 (poi come
|
|||
|
*Introduzione* a Id., *La sfera e il labirinto* cit., pp. 3-30).
|
|||
|
|
|||
|
[^51]: Su Argan, vedi Claudio Gamba (a cura di), *Giulio Carlo Argan.
|
|||
|
Intellettuale e storico dell'arte*, Electa, Milano 2012. La figura di
|
|||
|
Benevolo attende invece ancora una adeguata storicizzazione.
|
|||
|
|
|||
|
[^52]: Jean-Louis Cohen, *La coupure entre architectes et intellectuels,
|
|||
|
ou les enseignements de l'italophilie*, Mardaga, Bruxelles 2015.
|
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|
[^53]: Cohen, *La coupure entre architectes et intellectuels* cit.,
|
|||
|
p. 69.
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|||
|
[^54]: *Ibid.*, p. 100.
|
|||
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|||
|
[^55]: *Ibid.*, p. 101.
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|||
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|||
|
[^56]: Per quanto riguarda i libri vedi Fiorella Vanini, *La libreria
|
|||
|
dell'architetto. Progetti di collane editoriali 1945-1980*, Franco
|
|||
|
Angeli, Milano 2012; per le riviste vedi Marco Mulazzani, *Le riviste di
|
|||
|
architettura. Costruire con le parole*, in *Storia dell'architettura
|
|||
|
italiana. Il secondo Novecento (1945-1996)*, a cura di Giorgio Ciucci e
|
|||
|
Giorgio Muratore, Electa, Milano 1997, pp. 430-43.
|
|||
|
|
|||
|
[^57]: Sul MSA vedi Matilde Baffa, Corinna Morandi, Sara Protasoni e
|
|||
|
Augusto Rossari, *Il Movimento di Studi per l'Architettura 1945-1961*,
|
|||
|
Laterza, Roma-Bari 1995. Sull'ideologia "comunitaria" olivettiana
|
|||
|
esistono moltissimi contributi, oltre ai libri dello stesso Olivetti;
|
|||
|
per una sua esposizione sintetica ma approfondita vedi il capitolo
|
|||
|
*Aufklärung I. Adriano Olivetti e la 'communitas' dell'intelletto*, in
|
|||
|
Tafuri, *Storia dell'architettura italiana 1944-1985* cit., pp. 47-54.
|
|||
|
|
|||
|
[^58]: Renato Barilli, *La neoavanguardia italiana. Dalla nascita del
|
|||
|
"Verri" alla fine di "Quindici"*, il Mulino, Bologna 1995; Andrea
|
|||
|
Cortellessa, *Volevamo la Luna*, in *Quindici. Una rivista e il
|
|||
|
Sessantotto*, a cura di Nanni Balestrini, Feltrinelli, Milano 2008,
|
|||
|
pp. 451-72.
|
|||
|
|
|||
|
[^59]: Cohen, *La coupure entre architectes et intellectuels* cit.,
|
|||
|
p. 101. In merito vedi anche Cina Conforto, Gabriele De Giorgi,
|
|||
|
Alessandra Muntoni e Marcello Pazzaglini, *Il dibattito architettonico
|
|||
|
in Italia 1945-1975*, Bulzoni, Roma 1977.
|
|||
|
|
|||
|
[^60]: Giuseppe Samonà, *L'urbanistica e l'avvenire delle città*,
|
|||
|
Laterza, Bari 1959. Dello stesso autore è essenziale pure *L'unità
|
|||
|
architettura-urbanistica. Scritti e progetti 1929-1973*, a cura di
|
|||
|
Pasquale Lovero, Franco Angeli, Milano 1975. Su Samonà vedi Carlo
|
|||
|
Aymonino, Giorgio Ciucci, Francesco Dal Co e Manfredo Tafuri, *Giuseppe
|
|||
|
Samonà 1923-1975. Cinquant'anni di architetture*, Officina, Roma 1975.
|
|||
|
|
|||
|
[^61]: Ludovico Quaroni, *La Torre di Babele*, Marsilio, Padova 1967.
|
|||
|
Di Quaroni vedi anche *Immagine di Roma*, Laterza, Bari 1969, e
|
|||
|
*Progettare un edificio. Otto lezioni di architettura*, Mazzotta,
|
|||
|
Milano 1977. Su Quaroni vedi Manfredo Tafuri, *Ludovico Quaroni e lo
|
|||
|
sviluppo dell'architettura moderna in Italia*, Edizioni di Comunità,
|
|||
|
Milano 1964; Pippo Ciorra, *Ludovico Quaroni 1911-1987. Opere e
|
|||
|
progetti*, Electa, Milano 1989.
|
|||
|
|
|||
|
[^62]: Ernesto Nathan Rogers, *Il problema del costruire nelle
|
|||
|
preesistenze ambientali*, in "L'Architettura", n. 22, 1957 (ora in Id.,
|
|||
|
*Esperienza dell'architettura*, a cura di Luca Molinari, Skira, Milano
|
|||
|
1997, pp. 286-91). Alle tematiche delle preesistenze ambientali -- e
|
|||
|
più in generale al rapporto architettura-città -- sono dedicati numerosi
|
|||
|
degli editoriali pubblicati da Rogers su "Casabella", raccolti, oltreché
|
|||
|
in *Esperienza dell'architettura*, in *Editoriali di architettura*,
|
|||
|
Einaudi, Torino 1968; ora a cura di Gabriella Lo Ricco e Mario Viganò,
|
|||
|
Zandonai, Rovereto 2009.
|
|||
|
|
|||
|
[^63]: Vittorio Gregotti, *Il territorio dell'architettura*,
|
|||
|
Feltrinelli, Milano 1966.
|
|||
|
|
|||
|
[^64]: Carlo Aymonino, *Origini e sviluppo della città moderna*,
|
|||
|
Marsilio, Padova 1965. Vedi inoltre Id., *Il significato della città*,
|
|||
|
Laterza, Bari 1975.
|
|||
|
|
|||
|
[^65]: Aldo Rossi, *L'architettura della città*, Marsilio, Padova
|
|||
|
1966. Sul libro e le sue implicazioni vedi *Aldo Rossi, la storia di un
|
|||
|
libro. L'architettura della città, dal 1966 ad oggi*, a cura di
|
|||
|
Fernanda De Maio, Alberto Ferlenga e Patrizia Montini Zimolo, Il
|
|||
|
Poligrafo - IUAV, Padova-Venezia 2014.
|
|||
|
|
|||
|
[^66]: Vedi, ad esempio, *La città di Padova. Saggio di analisi
|
|||
|
urbana*, scritti di Carlo Aymonino, Manlio Brusatin, Gianni Fabbri,
|
|||
|
Mauro Lena, Pasquale Lovero, Sergio Lucianetti e Aldo Rossi, Officina,
|
|||
|
Roma 1970.
|
|||
|
|
|||
|
[^67]: Giovanni Marras e Marco Pogacnik (a cura di), *Giuseppe Samonà e
|
|||
|
la Scuola di Architettura a Venezia*, Il Poligrafo, Padova 2006.
|
|||
|
|
|||
|
[^68]: Ludovico Quaroni, *La città fisica*, a cura di Antonino
|
|||
|
Terranova, Laterza, Roma-Bari 1981.
|
|||
|
|
|||
|
[^69]: Tra loro va ricordato almeno Franco Purini, il cui contributo
|
|||
|
alla definizione del profilo dell'architetto intellettuale italiano a
|
|||
|
partire dagli anni sessanta -- attraverso la sua "opera di pensiero",
|
|||
|
che contempera architettura, disegno e parola -- è fondamentale; tra gli
|
|||
|
altri suoi lavori, vedi *Comporre l'architettura*, Laterza, Roma-Bari
|
|||
|
2000; *La misura italiana dell'architettura*, Laterza, Roma-Bari 2008.
|
|||
|
|
|||
|
[^70]: Su ciò vedi in particolar modo Tafuri, *Ludovico Quaroni e lo
|
|||
|
sviluppo dell'architettura moderna in Italia* cit., pp. 13-14.
|
|||
|
|
|||
|
[^71]: Fra le tematiche più generali trattate vanno ricordate, tra le
|
|||
|
altre: i Centri Direzionali Italiani (n. 264, 1962), Città e Regione
|
|||
|
(n. 270, 1962), i Problemi di Roma (n. 279, 1963), il Piano
|
|||
|
Intercomunale Milanese (n. 282, 1963), le Coste Italiane (nn. 283 e 284,
|
|||
|
1964), il Fabbisogno del Verde in Italia (n. 286, 1964), i Problemi USA
|
|||
|
(n. 294-95, 1964-65).
|
|||
|
|
|||
|
[^72]: Vedi, tra l'altro, *Enzo Paci. Architettura e filosofia*, in
|
|||
|
"aut aut", n. 333, 2007, numero dedicato al filosofo. Va ricordato che
|
|||
|
nel 1946, con Banfi, Vittorini, Einaudi e altri, Rogers è membro
|
|||
|
fondatore della Casa della cultura di Milano. Enzo Paci farà invece
|
|||
|
parte del comitato di redazione di "Casabella-Continuità" a partire dal
|
|||
|
numero 215 del 1957.
|
|||
|
|
|||
|
[^73]: Ernesto N. Rogers, *Continuità*, in "Casabella-Continuità",
|
|||
|
n. 199, 1953-54, p. 2.
|
|||
|
|
|||
|
[^74]: In particolare Rogers si rifà all'uso che John Dewey (studiato in
|
|||
|
quel periodo da Paci) ne fa in *Esperienza e educazione* (La Nuova
|
|||
|
Italia, Firenze 1949) e in *L'arte come esperienza* (ivi 1951). La
|
|||
|
prima raccolta degli editoriali di Rogers si intitola *Esperienza
|
|||
|
dell'architettura*, Einaudi, Torino 1958.
|
|||
|
|
|||
|
[^75]: Ernesto N. Rogers, *Continuità o crisi?*, in
|
|||
|
"Casabella-Continuità", n. 215, 1957, p. 3.
|
|||
|
|
|||
|
[^76]: Enzo Paci, *Fenomenologia e architettura contemporanea*, in Id.,
|
|||
|
*Relazioni e significati. Critica e dialettica*, Lampugnani Nigri,
|
|||
|
Milano 1966, p. 175.
|
|||
|
|
|||
|
[^77]: Enzo Paci, *La crisi della cultura e la fenomenologia
|
|||
|
dell'architettura contemporanea*, in "La Casa", n. 6, 1959, p. 356.
|
|||
|
|
|||
|
[^78]: Ernesto N. Rogers, *Il dramma dell'architetto* (1948), in Id.,
|
|||
|
*Esperienza dell'architettura* cit., p. 221.
|
|||
|
|
|||
|
[^79]: *Ibid.*, p. 223.
|
|||
|
|
|||
|
[^80]: *Ibid.*, p. 225.
|
|||
|
|
|||
|
[^81]: Massimo Canzian, *Orizzonti del fare architettonico. Progetto
|
|||
|
Estetica Teoria nel dibattito italiano del dopoguerra*, Guerini e
|
|||
|
Associati, Milano 1995, nonché l'*Introduzione* di Massimo Cacciari,
|
|||
|
pp. 11-17.
|
|||
|
|
|||
|
[^82]: Oltre al citato *Il territorio dell'architettura*, vedi, tra i
|
|||
|
molti altri, Vittorio Gregotti, *Dentro l'architettura*, Bollati
|
|||
|
Boringhieri, Torino 1991; Id., *Identità e crisi dell'architettura
|
|||
|
europea*, Einaudi, Torino 1999; Id., *L'architettura del realismo
|
|||
|
critico*, Laterza, Bari 2004; Id., *L'architettura nell'epoca
|
|||
|
dell'incessante*, ivi 2006; Id., *Contro la fine dell'architettura*,
|
|||
|
Einaudi, Torino 2008; Id., *Architettura e postmetropoli*, ivi 2011;
|
|||
|
Id., *Il sublime al tempo del contemporaneo*, ivi 2013; Id., *I racconti
|
|||
|
del progetto*, Skira, Milano 2018.
|
|||
|
|
|||
|
[^83]: Manfredo Tafuri, *Vittorio Gregotti. Progetti e architetture*,
|
|||
|
Electa, Milano 1982; Guido Morpurgo (a cura di), *Il territorio
|
|||
|
dell'architettura. Gregotti e Associati 1953-2017*, Skira, Milano 2017.
|
|||
|
|
|||
|
[^84]: Gramsci, *Quaderni del carcere* cit., vol. III, Quaderno 12
|
|||
|
(XXIX), § 3, p. 1551.
|
|||
|
|
|||
|
[^85]: Giovanni Durbiano, *I Nuovi Maestri. Architetti tra politica e
|
|||
|
cultura nel dopoguerra*, Marsilio, Venezia 2000, pp. 55-98.
|
|||
|
|
|||
|
[^86]: Per quanto riguarda i corsi di Carlo Aymonino allo IUAV di
|
|||
|
Venezia, cui collaborano, tra gli altri, anche Aldo Rossi, Costantino
|
|||
|
Dardi e Gianni Fabbri, vedi *Aspetti e problemi della tipologia
|
|||
|
edilizia. Documenti del Corso di caratteri distributivi degli edifici.
|
|||
|
Anno accademico 1963-1964*, Libreria Cluva, Venezia 1964; *La formazione
|
|||
|
del concetto di tipologia edilizia. Atti del Corso di caratteri
|
|||
|
distributivi degli edifici. Anno accademico 1964-1965*, ivi 1965;
|
|||
|
*Rapporti tra la tipologia edilizia e la morfologia urbana. Documenti
|
|||
|
del Corso di caratteri distributivi degli edifici. Anno accademico
|
|||
|
1965-1966*, ivi 1966.
|
|||
|
|
|||
|
[^87]: Aldo Rossi, *Tipologia, manualistica e architettura*, in
|
|||
|
*Rapporti tra la tipologia edilizia e la morfologia urbana* cit., p. 69.
|
|||
|
|
|||
|
[^88]: Aldo Rossi, *L'obiettivo della nostra ricerca*, in *L'analisi
|
|||
|
urbana e la progettazione architettonica. Contributi al dibattito e al
|
|||
|
lavoro di gruppo nell'anno accademico 1968-69. Gruppo di ricerca
|
|||
|
diretto da Aldo Rossi*, Clup, Milano 1970, p. 13.
|
|||
|
|
|||
|
[^89]: Durbiano, *I Nuovi Maestri* cit., p. 62.
|
|||
|
|
|||
|
[^90]: Antonio Monestiroli, *L'architettura della realtà* (1979),
|
|||
|
Allemandi, Torino 2004, p. 21.
|
|||
|
|
|||
|
[^91]: *Ibid.*, p. 22.
|
|||
|
|
|||
|
[^92]: Joan Ockman, *Venice and New York*, in "Casabella", n. 619-20,
|
|||
|
1995, pp. 56-65; Ernesto Ramon Rispoli, *Ponti sull'Atlantico.
|
|||
|
L'Institute for Architecture and Urban Studies e le relazioni
|
|||
|
Italia-America (1967-1985)*, Quodlibet, Macerata 2012.
|
|||
|
|
|||
|
[^93]: Tafuri, *La sfera e il labirinto* cit., p. 323.
|
|||
|
|
|||
|
[^94]: D'altronde, la tendenza a unificare azione intellettuale e
|
|||
|
attività politica sembra appartenere costitutivamente alla cultura
|
|||
|
italiana, che l'ha ereditata da Benedetto Croce. Al proposito vedi
|
|||
|
Eugenio Garin, *Intellettuali italiani del* *XX* *secolo*, Editori
|
|||
|
Riuniti, Roma 1996, in particolare il capitolo *Benedetto Croce o della
|
|||
|
"separazione impossibile" tra politica e cultura*, pp. 47-67.
|
|||
|
|
|||
|
[^95]: Peter Eisenman, *Inside Out. Scritti 1963-1988*, Quodlibet,
|
|||
|
Macerata 2014; Id., *Written into the Void. Selected Writings
|
|||
|
1990-2004*, Yale University Press, New Haven 2007.
|
|||
|
|
|||
|
[^96]: Rem Koolhaas, *Delirious New York* (1978), a cura di Marco
|
|||
|
Biraghi, Electa, Milano 2001; Id., *Junkspace*, a cura di Gabriele
|
|||
|
Mastrigli, Quodlibet, Macerata 2006; Id., *Singapore Songlines*, a cura
|
|||
|
di Manfredo di Robilant, Quodlibet, Macerata 2010.
|
|||
|
|
|||
|
[^97]: Monestiroli, *L'architettura della realtà* cit., p. 29.
|
|||
|
|
|||
|
[^98]: Robert Venturi, *Complessità e contraddizioni nell'architettura*,
|
|||
|
Edizioni Dedalo, Bari 1993; Robert Venturi, Denise Scott Brown e Steven
|
|||
|
Izenour, *Imparare da Las Vegas. Il simbolismo dimenticato della forma
|
|||
|
architettonica*, Quodlibet, Macerata 2010.
|
|||
|
|
|||
|
[^99]: Vedi, tra gli altri, Mirko Zardini (a cura di), *Paesaggi ibridi.
|
|||
|
Un viaggio nella città contemporanea*, Skira, Milano 1996; Stefano
|
|||
|
Boeri, *I detective dello spazio*, in "Il Sole -- 24 Ore", supplemento,
|
|||
|
16 marzo 1997; Id., *Atlanti eclettici*, in Multiplicity, *USE-Uncertain
|
|||
|
States of Europe -- Viaggio nell'Europa che cambia*, Skira, Milano 2003,
|
|||
|
pp. 425-45.
|
|||
|
|
|||
|
[^100]: Vedi http://oma.eu/office.
|
|||
|
|
|||
|
[^101]: Vedi, tra gli altri, AMO, *History of Europe and The European
|
|||
|
Union*, Archis, rivista a unico numero, Amsterdam 2005; Rem Koolhaas,
|
|||
|
Ole Bouman e Mitra Khoubrou (a cura di), *Al Manakh: Dubai Guide, Gulf
|
|||
|
Survey, Global Agenda*, Archis, Amsterdam 2007; Todd Reisz (a cura di),
|
|||
|
*Al Manakh: Gulf Continued*, ivi 2010; *Roadmap 2050. A practical Guide
|
|||
|
to a Prosperous, Low-carbon Europe*, OMA, Amsterdam 2010; vedi anche
|
|||
|
www.roadmap2050.eu/project/roadmap-2050.
|
|||
|
|
|||
|
[^102]: Vedi ad esempio MVRDV, *Farmax. Excursions on Density*, 010
|
|||
|
Publishers, Rotterdam 1998; Id., *KM3. Excursions on Capacity*, Actar,
|
|||
|
Barcelona 2005; BIG -- Bjarke Ingels Group, *Yes Is More. An Archicomic
|
|||
|
on Architectural Evolution*, Taschen, Köln 2009; Id., *Hot to Cold. An
|
|||
|
Odyssey of Architectural Adaptation*, ivi 2015.
|
|||
|
|
|||
|
[^103]: Tafuri, *La sfera e il labirinto* cit., p. 349.
|
|||
|
|
|||
|
[^104]: Rimando a questo proposito a Marco Biraghi, *Eisenman o
|
|||
|
dell'interpretazione*, in Pier Vittorio Aureli, Marco Biraghi e Franco
|
|||
|
Purini, *Peter Eisenman. Tutte le opere*, Electa, Milano 2007,
|
|||
|
pp. 22-37.
|
|||
|
|
|||
|
[^105]: Per le conversazioni tra Eisenman e Derrida, e per i testi di
|
|||
|
quest'ultimo su Eisenman, vedi Jacques Derrida, *Adesso l'architettura*,
|
|||
|
a cura di Francesco Vitale, Libri Scheiwiller, Milano 2008, pp. 181-238;
|
|||
|
vedi anche *Un matrimonio sfortunato. Derrida e l'architettura*, a cura
|
|||
|
di Peter Bojanić e Damiano Cantone, in "aut aut", n. 368, 2015.
|
|||
|
|
|||
|
[^106]: K. Michael Hays (a cura di), *Oppositions Reader. Selected
|
|||
|
Readings from a Journal for Ideas and Criticism in Architecture
|
|||
|
1973-1984*, Princeton Architectural Press, New York 1998.
|
|||
|
|
|||
|
[^107]: Rafael Moneo, *La solitudine degli edifici e altri scritti*, 2
|
|||
|
voll., I. *Questioni intorno all'architettura*; II. *Sugli architetti e
|
|||
|
il loro lavoro*, a cura di Andrea Casiraghi e Daniele Vitale, Allemandi,
|
|||
|
Torino 1999-2004; Id., *Inquietudine teorica e strategia progettuale
|
|||
|
nell'opera di otto architetti contemporanei*, Electa, Milano 2005.
|
|||
|
|
|||
|
[^108]: "Nelle sue disgregazioni e disgiunzioni, nella sua
|
|||
|
caratteristica frammentazione e dissociazione, l'attuale situazione
|
|||
|
culturale suggerisce la necessità di abbandonare le categorie di
|
|||
|
significato e le storie contestuali stabilite. Varrebbe quindi la pena
|
|||
|
di rinunciare a qualunque nozione di architettura postmoderna in favore
|
|||
|
di una architettura "postumanista", che evidenzi non solo la dispersione
|
|||
|
del soggetto e della forza delle regole sociali, ma anche l'effetto di
|
|||
|
questo decentramento sull'intera nozione di forma architettonica
|
|||
|
unificata e coerente": Bernard Tschumi, *Disgiunzioni* (1987), in Id.,
|
|||
|
*Architettura e disgiunzione*, a cura di Ruben Baiocco e Giovanni
|
|||
|
Damiani, Pendragon, Bologna 1996, p. 164.
|
|||
|
|
|||
|
[^109]: Su ciò vedi, ad esempio, Maurizio Lazzarato, *Immaterial Labor*,
|
|||
|
in Paolo Virno e Michael Hardt (a cura di), *Radical Thought in Italy.
|
|||
|
A Potential Politics*, University of Minnesota Press, Minneapolis 2006,
|
|||
|
pp. 132-46.
|
|||
|
|
|||
|
[^110]: Gianni Pettena (a cura di), *Radicals. Architettura e Design
|
|||
|
1960-1975*, La Biennale di Venezia -- Il Ventilabro, Firenze 1996;
|
|||
|
Andrea Branzi, *Modernità debole e diffusa*, Skira, Milano 2006.
|
|||
|
|
|||
|
[^111]: Giorgio Grassi, *La costruzione logica dell'architettura*,
|
|||
|
Marsilio, Venezia 1967. Per una rilettura "aggiornata" di Rossi e di
|
|||
|
Grassi, vedi baukuh, *Due saggi sull'architettura*, Sagep editori,
|
|||
|
Genova 2012.
|
|||
|
|
|||
|
[^112]: Daniele Balicco, *Non parlo a tutti. Franco Fortini
|
|||
|
intellettuale politico*, Manifestolibri, Roma 2006, p. 43.
|
|||
|
|
|||
|
[^113]: Franco Fortini, *Verifica dei poteri* (1960), in Id., *Verifica
|
|||
|
dei poteri*, Garzanti, Milano 1974, pp. 54-55.
|
|||
|
|
|||
|
[^114]: Rimando a Benjamin, *L'autore come produttore* cit., p. 201.
|
|||
|
|
|||
|
[^115]: Franco Fortini, *Astuti come colombe* (1962), in Id., *Verifica
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dei poteri* cit., pp. 66-87.
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[^116]: Mario Tronti, *La fabbrica e la società*, in "Quaderni Rossi",
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n. 2, 1962, p. 21.
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[^117]: Tafuri, *Lavoro intellettuale e sviluppo capitalistico* cit.,
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pp. 241-81, a p. 280.
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[^118]: *Ibid.*, p. 281.
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[^119]: Mario Tronti, *Operai e capitale*, Einaudi, Torino 1966, p. 14.
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[^120]: Oltre al forte incremento nella produzione di quadri e di
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disegni rossiani in corrispondenza dei suoi viaggi negli Stati Uniti e
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sotto la spinta del mercato americano, nella seconda metà degli anni
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settanta, va ricordato che la prima edizione dell'*Autobiografia
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scientifica* è stata pubblicata proprio negli Stati Uniti: Aldo Rossi,
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*Scientific Autobiography*, The MIT Press, Cambridge (Mass.) 1981.
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[^121]: Su tutti va ricordato ancora il fondamentale Debord, *La società
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dello spettacolo* cit.
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[^122]: Roberto Esposito, *Pensiero vivente. Origine e attualità della
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filosofia italiana*, Einaudi, Torino 2010; Dario Gentili, *Italian
|
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|
Theory. Dall'operaismo alla biopolitica*, il Mulino, Bologna 2012;
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|
Dario Gentili e Elettra Stimilli (a cura di), *Differenze italiane*,
|
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|
DeriveApprodi, Roma 2015.
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[^123]: Vedi ad esempio Paolo Virno, *Grammatica della moltitudine. Per
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una analisi delle forme di vita contemporanee*, DeriveApprodi, Roma
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2009; Mario Tronti, *Noi operaisti*, DeriveApprodi, Roma
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2009. Un'interessante incursione nel territorio disciplinare è
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rappresentato da Marco Assennato, *Linee di fuga. Architettura, teoria,
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politica*, :duepunti edizioni, Palermo 2011.
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[^124]: Michael Hardt e Antonio Negri, *Impero. Il nuovo ordine della
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globalizzazione*, Rizzoli, Milano 2002.
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# Le strategie del distacco
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> The education of a great intellectual often includes at the moment of
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> its beginnings not only the seeds of that person's future development,
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> but also the final result[^1].
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È sulla scia di questi tentativi che un architetto come Pier Vittorio
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Aureli ha ripreso le fila del discorso avviato ormai cinquant'anni fa da
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alcuni degli autori citati più sopra -- "*dentro* la società e *contro*
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di essa nello stesso tempo" -- con l'evidente intento di analizzarlo non
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tanto o soltanto da un punto di vista storico, quanto piuttosto in
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un'ottica odierna, e di applicarlo all'ambito dell'architettura e della
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città. Nel farlo, Aureli riporta l'attenzione del dibattito
|
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architettonico sul languente fronte della teoria, rendendo quest'ultima
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il proprio piano *operativo*. E qui bisogna subito fare attenzione: non
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si tratta infatti né di una teoria fine a se stessa, chiusa nel proprio
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universo autoreferenziale, né di una teoria dipendente dalla sua
|
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attuazione, dal suo tradursi in "pratica". Tra il piano della teoria e
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|
quello del progetto vi è un'incessante dialettica, in cui entrambe
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cooperano per il raggiungimento di un unico fine. Che non è in ogni
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caso quello della "realizzazione". Come si vedrà meglio in seguito,
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|
l'operatività del progetto si dispone per Aureli su un terreno
|
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programmaticamente diverso da quello della realtà, almeno in una prima
|
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|
fase del suo lavoro: una rinuncia a vederne i frutti concreti, o meglio
|
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piuttosto una sua "sottrazione" all'assoggettamento alle dinamiche del
|
|||
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mercato che gli consente di sviluppare il progetto nella pienezza della
|
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sue capacità dimostrative, senza obbligarlo a scendere a compromessi.
|
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|
Fin dalla sua formazione, compiuta tra lo IUAV di Venezia e il Berlage
|
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|
Institute di Rotterdam[^2], Aureli dimostra il proprio grado di
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|
consapevolezza nei confronti dei limiti e delle difficoltà che si trova
|
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a dover affrontare un giovane architetto al cospetto di un panorama
|
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|
contemporaneo di certo non rassicurante da un punto di vista lavorativo.
|
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La sua scelta di lasciare l'Italia per completare i propri studi
|
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all'estero, in questo senso, rappresenta l'espressione di una chiarezza
|
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|
di idee, di un *progetto* che inizia fin da allora a delinearsi. La
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|
stessa che gli farà raggiungere, nel giro di pochi anni, prestigiose
|
|||
|
posizioni di insegnamento: tra le altre, alla Columbia University di New
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|
York, alla Yale School of Architecture di New Haven e all'Architectural
|
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|
Association School di Londra.
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|
Una chiarezza confermata anche dall'ampiezza di vedute con cui s'accosta
|
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|
alle tematiche architettoniche. I suoi interessi si appuntano dapprima
|
|||
|
sullo studio dei principî insediativi urbani, poi sul concetto di "città
|
|||
|
arcipelago", quindi sul tentativo di definizione di un'architettura
|
|||
|
*assoluta*[^3]. Fin da subito, l'architettura è concepita non come una
|
|||
|
disciplina separata bensì come un crocevia dove si incontrano questioni
|
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|
sociali, politiche, storiche ed estetiche. Ma soprattutto, prima ancora
|
|||
|
che nell'affermazione di un'architettura specifica, vale a dire
|
|||
|
nell'elaborazione di una *propria* architettura, l'impegno di Aureli va
|
|||
|
in direzione della comprensione delle condizioni di *pensabilità*
|
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|
dell'architettura in generale nel contesto della città esistente. E ciò
|
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|
nondimeno, nessun approccio generico all'architettura, nessun suo
|
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|
inquadramento all'interno di una "mitica" interezza e astoricità. Al
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|||
|
contrario, nell'accostarsi a una sua formulazione teorica, Aureli ne
|
|||
|
compie un ripensamento analitico che si muove lungo i solchi della
|
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|
storia. Raccogliendo la lezione impartita da Manfredo Tafuri nei suoi
|
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|
corsi universitari allo IUAV e nei suoi libri, Aureli rilegge i momenti
|
|||
|
e le opere della storia dell'architettura (e non solo), dei quali si
|
|||
|
avvale con un atteggiamento che non ha nulla di vuotamente ostensivo, e
|
|||
|
neppure di semplicemente confermativo delle interpretazioni correnti.
|
|||
|
Pur non essendo la storia il suo campo d'azione, Aureli fa propria la
|
|||
|
concezione storica tafuriana (e benjaminiana) di un passato mai
|
|||
|
definitivamente passato, mai "dato per giudicato" una volta per tutte,
|
|||
|
bensì piuttosto assimilabile a un campo di forze le cui potenzialità
|
|||
|
sono riattivabili e in grado di trasformare ("inquietare", diceva
|
|||
|
Tafuri)[^4] il presente.
|
|||
|
|
|||
|
Ma vi è un altro elemento che Aureli sembra desumere dagli insegnamenti
|
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|
tafuriani: la necessità di una distanza critica. "La distanza è
|
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|
fondamentale per la storia"[^5]: è essa che aiuta a non cadere vittime
|
|||
|
dell'immedesimazione e delle altre deformazioni derivanti dall'assenza
|
|||
|
di "mediazioni". Nel caso di Aureli non si tratta evidentemente di una
|
|||
|
distanza da mantenere o da applicare in senso storico: è invece il tempo
|
|||
|
presente quello con il quale -- nella misura del possibile -- evitare
|
|||
|
d'immedesimarsi, e rispetto al quale dunque cercare di interporre un
|
|||
|
"filtro", una forma di "mediazione". Si legga nuovamente Tafuri:
|
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|
> Lo storico che prende in esame un lavoro contemporaneo deve creare una
|
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|
> distanza *artificiale*. (...) Il modo che abbiamo di distanziarci
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> dalla nostra epoca, e di darci cosí una prospettiva, è quello di
|
|||
|
> confrontare le differenze che essa presenta con il passato.
|
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|
Rispetto all'apparentemente inevitabile immediatezza del tempo presente
|
|||
|
Aureli prova a adottare delle forme di *distacco*[^6]. Come si vedrà,
|
|||
|
nulla che abbia a che fare con un disinteresse, un disimpegno o
|
|||
|
un'estraneazione, e ancor meno con una illusoria mancanza di inerenza
|
|||
|
alle condizioni presenti, con una velleitaria "libertà" dai
|
|||
|
condizionamenti. La dimensione in cui si colloca il distacco di Aureli
|
|||
|
-- ben lungi dall'immaginare alcuna possibile "neutralità" o "alterità"
|
|||
|
rispetto alle condizioni presenti -- è quella stessa del "problematico"
|
|||
|
in cui si colloca il "progetto" storico tafuriano[^7]. E non è forse un
|
|||
|
caso che sia altrettanto in una prospettiva progettuale -- oltreché
|
|||
|
teorica -- che Aureli cerchi di declinare il proprio distacco. Anzi, è
|
|||
|
proprio in nome di un distacco che in lui trovano un punto di
|
|||
|
unificazione attività teorica e attività progettuale, quest'ultima
|
|||
|
svolta nell'ambito dello studio Dogma ("L'architettura è come un dogma,
|
|||
|
una deliberata decisione sull'indecidibile, una dottrina senza
|
|||
|
prova")[^8], fondato nel 2002 insieme a Martino Tattara; uno studio che
|
|||
|
elegge programmaticamente a propria sede Bruxelles, in quanto città
|
|||
|
"baricentrica" in Europa, oltreché sua capitale[^9]. È proprio questo
|
|||
|
impegno progettuale a rendere ancora più significativo lo sforzo di
|
|||
|
praticare un distacco; cosí come pure, per converso, è soltanto a
|
|||
|
contatto con un'attività operativa che tale distacco acquisisce
|
|||
|
pienamente il suo senso.
|
|||
|
|
|||
|
L'attenzione di Dogma si è appuntata -- in special modo nella fase
|
|||
|
iniziale della sua attività -- su progetti a grande scala, culminati con
|
|||
|
*Stop City* (2007)[^10], proposta per un modello urbano teorico, e con
|
|||
|
*A Simple Heart* (2011)[^11], studio urbano sull'area metropolitana del
|
|||
|
nord-ovest dell'Europa. L'aspetto letteralmente sorprendente del primo
|
|||
|
progetto -- e tanto più al momento della sua pubblicazione -- consiste
|
|||
|
nel modo apparentemente lieve con cui *Stop City* torna a ragionare su
|
|||
|
ciò che l'architettura deve avere *in comune* per essere considerata
|
|||
|
parte costituente della città. Dopo decenni di architettura che si è
|
|||
|
limitata semplicemente a imporre la propria individualità alla città, o
|
|||
|
che -- in alternativa -- ha tentato disperatamente di ridarle
|
|||
|
un'identità ormai perduta, *Stop City* ha il coraggio (o la
|
|||
|
sfrontatezza) d'impostare la questione dell'architettura sul piano della
|
|||
|
città, anziché di risolvere la questione della città sul piano
|
|||
|
dell'architettura. Lo fa assumendo gli effetti sociali della città
|
|||
|
contemporanea (sradicamento, genericità) come propri "attributi politici
|
|||
|
(...) ovvero come la forma stessa del "contropiano" dentro e contro la
|
|||
|
città post-fordista"[^12].
|
|||
|
|
|||
|
*A Simple Heart* prende invece esplicitamente spunto dalle riflessioni
|
|||
|
sugli effetti della società post-fordista condotte da Paolo Virno e
|
|||
|
Giorgio Agamben[^13]. Nel corpo vivo di città come Amsterdam,
|
|||
|
Bruxelles, Düsseldorf, Dogma innesta un'enorme cornice quadrata di 800 ×
|
|||
|
800 m e alta 20 piani che ha lo scopo di "inquadrare" le condizioni
|
|||
|
urbane vigenti (ovvero la trasformazione della città contemporanea in
|
|||
|
una "fabbrica sociale" basata sul lavoro vivo, e dunque sui rapporti che
|
|||
|
si istituiscono al suo interno tra i lavoratori), facendone al tempo
|
|||
|
stesso il dispositivo che rende esplicite tali condizioni. Una
|
|||
|
radicalizzazione della situazione esistente, piuttosto che un tentativo
|
|||
|
di modificarla, che non si mantiene però indifferente nei suoi
|
|||
|
confronti. Ed è interessante che Dogma evochi (come peraltro già fatto
|
|||
|
a proposito di *Stop City*) il concetto di *kathecon* (letteralmente,
|
|||
|
"ciò che trattiene") desunto dal contesto teologico-politico e qui
|
|||
|
reinterpretato come una forza oscillante tra due polarità opposte che
|
|||
|
non si oppone al compimento di un processo ma che lo frena aderendo a
|
|||
|
esso, "proprio come il concavo aderisce (cosí definendolo) al
|
|||
|
convesso"[^14].
|
|||
|
|
|||
|
In maniera tanto chiara da risultare programmatica, in questi progetti
|
|||
|
non c'è né utopia né ironia: lungi dall'essere ipotesi di vita
|
|||
|
alternative a quella corrente sulla base di differenti presupposti
|
|||
|
sociali o architettonici, o dall'essere invece esasperazioni
|
|||
|
caricaturali delle forme di vita metropolitana attuale, essi
|
|||
|
costituiscono riflessioni per parole e immagini sul rapporto tra
|
|||
|
architettura e città, ovvero sulla possibilità che l'architettura torni
|
|||
|
ad avere senso e ruolo nella costruzione della città, e non la città a
|
|||
|
rappresentare il luogo di mera accumulazione dell'architettura. Nel
|
|||
|
fare ciò Aureli e Tattara evitano accuratamente di caricare
|
|||
|
l'architettura da loro proposta di qualsiasi "valore": nessuna
|
|||
|
ridondanza estetica, nessuna articolazione morfologica, al di fuori
|
|||
|
dell'ossessiva ripetizione di forme elementari e perentorie; e
|
|||
|
soprattutto, nessun riguardo per le circostanze effettive del progetto,
|
|||
|
nessuna analisi strutturale o distributiva, quasi nessun dettaglio.
|
|||
|
Nella misura del possibile, un'*astensione* dall'atto progettuale, o
|
|||
|
forse -- ancor meglio -- un'*astrazione* da esso (nel senso in cui si
|
|||
|
usa l'espressione "fare astrazione da qualcosa", intendendo cosí di
|
|||
|
prescindervi); astensione o astrazione che vale però al tempo stesso
|
|||
|
come precisa indicazione del problema: il quale -- con sempre maggiore
|
|||
|
frequenza e insistenza negli ultimi decenni -- può essere identificato
|
|||
|
nella tendenza a ridurre l'architettura a "oggetto" funzionale
|
|||
|
esclusivamente alla creazione -- o al consolidamento -- di un consenso
|
|||
|
intorno a operazioni di natura essenzialmente finanziaria; un oggetto la
|
|||
|
cui inconfondibile "maschera" assume di sovente le fattezze di
|
|||
|
un'iconicità del tutto autoreferenziale.
|
|||
|
|
|||
|
Da questo punto di vista, la rinuncia a una forma "identitaria" a favore
|
|||
|
di una forma "generica" ("un'architettura senza qualità, (...) liberata
|
|||
|
dall'immagine, dallo stile, dall'obbligo della stravaganza, dall'inutile
|
|||
|
invenzione di nuove forme")[^15], assume per Dogma il valore di una
|
|||
|
presa di posizione che non ha nulla a che fare con l'estetica:
|
|||
|
piuttosto, l'esortazione a recuperare all'architettura una dimensione
|
|||
|
urbana, tornando a farne l'elemento di definizione della *forma* della
|
|||
|
città.
|
|||
|
|
|||
|
Non a caso i due autori, a proposito di *Stop City*, parlano di
|
|||
|
"architettura non-figurativa", esattamente come faceva Archizoom a
|
|||
|
proposito di *No-Stop City* (1970-71)[^16]: non un'architettura priva di
|
|||
|
forma, o di "figura", dunque, quanto piuttosto di "figuratività", ossia
|
|||
|
di un'immagine convenzionalmente riconoscibile; in altri termini, si
|
|||
|
potrebbe dire, un'architettura non-rappresentativa, non-oggettiva,
|
|||
|
proprio come lo è l'arte astratta, che è priva di relazioni con le
|
|||
|
apparenze del mondo sensibile; ovvero, nel caso dell'architettura -- in
|
|||
|
quanto arte non mimetica -- con le apparenze del mondo architettonico.
|
|||
|
|
|||
|
In questo duplice principio di "astrazione" è contenuto, sia pure sotto
|
|||
|
forma differente, il medesimo atteggiamento di distacco che -- come
|
|||
|
detto -- caratterizza la ricerca teorica di Aureli: anzi, si può dire
|
|||
|
che ne sia la precisa controparte "operativa". In entrambi i casi la
|
|||
|
"presa-di-distanza" che implicano equivale a una presa di coscienza dei
|
|||
|
presupposti che sono loro sottesi. Detto altrimenti, per Aureli non vi
|
|||
|
può essere progetto -- teorico cosí come architettonico -- che non
|
|||
|
soltanto non analizzi nel modo quanto più obiettivo possibile i processi
|
|||
|
sui quali esso ineluttabilmente si radica, ma che non rifletta al tempo
|
|||
|
stesso sulla propria condizione di necessario distacco/presa-di-distanza
|
|||
|
da essi. Infatti, un progetto che aderisse immediatamente (senza alcuna
|
|||
|
mediazione, ovvero senza alcuna *meditazione*) ai processi, insomma un
|
|||
|
progetto che non si ponesse in una posizione critica (letteralmente: di
|
|||
|
messa in crisi) nei confronti dei loro fondamenti, sarebbe un progetto
|
|||
|
non soltanto radicato in essi ma interamente determinato, *condizionato*
|
|||
|
da essi.
|
|||
|
|
|||
|
A partire da questo punto si sviluppa la riflessione teorica di Aureli:
|
|||
|
affrontando anzitutto la questione dell'autonomia come prima forma di
|
|||
|
distacco. Nel primo libro da lui pubblicato, *The Project of Autonomy*
|
|||
|
(2008), il tema è sviluppato, non a caso, comprendendo in un unico
|
|||
|
abbraccio politica e architettura "Within and Against Capitalism"[^17].
|
|||
|
L'autonomia, di questa simultanea e contraddittoria condizione, è
|
|||
|
l'incarnazione più esatta: al tempo stesso immersa dentro i processi, e
|
|||
|
tuttavia separata da essi. In quanto dotata di un suo proprio *nomos*,
|
|||
|
di una norma regolativa sua propria, l'autonomia garantisce il
|
|||
|
mantenimento di un'indipendenza, anzi, in una certa misura è la forma
|
|||
|
stessa dell'indipendenza, *dentro e contro*.
|
|||
|
|
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|
Oggetto di *The Project of Autonomy* sono le modalità secondo cui si
|
|||
|
sono andate determinando posizioni o affermazioni di "autonomia", in
|
|||
|
ambito politico e architettonico, intorno agli anni sessanta e settanta.
|
|||
|
La simultaneità di tali fenomeni non riveste un ruolo secondario
|
|||
|
nell'economia dell'analisi aureliana ma l'aspetto primario è
|
|||
|
rappresentato dalle ragioni che hanno portato a fare dell'autonomia uno
|
|||
|
strumento -- o in certi casi addirittura un'"arma" -- di lotta,
|
|||
|
essenziale all'interno di un ben preciso momento storico.
|
|||
|
|
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|
Per quanto riguarda l'ambito politico, la pratica dell'autonomia è
|
|||
|
strettamente conseguente al tentativo di gruppi di intellettuali -- e,
|
|||
|
in misura proporzionalmente assai minore, di lavoratori e studenti -- di
|
|||
|
conferire nuovo rigore e vigore alla lotta di classe, in un momento
|
|||
|
politicamente delicato qual è stato quello attraversato dall'Italia tra
|
|||
|
la fine degli anni cinquanta e i primi sessanta, incertamente teso tra
|
|||
|
boom economico e apertura di un lungo ciclo di crisi. I luoghi in cui
|
|||
|
tale dibattito si sviluppa sono in special modo le riviste
|
|||
|
dell'operaismo "classico": in primo luogo "Quaderni Rossi", nata
|
|||
|
all'inizio degli anni sessanta e segnata nella sua breve vita dalla
|
|||
|
precoce scomparsa del suo fondatore e direttore, Raniero Panzieri[^18];
|
|||
|
quindi "Classe operaia", uscita a partire dal gennaio 1964, in seguito
|
|||
|
alla scissione da "Quaderni Rossi" da parte di Mario Tronti, cui si
|
|||
|
affiancano Alberto Asor Rosa, Sergio Bologna, Massimo Cacciari, Rita Di
|
|||
|
Leo e Antonio Negri; infine "Contropiano", diretta (come già detto) da
|
|||
|
Asor Rosa e Cacciari tra il 1968 e il 1971.
|
|||
|
|
|||
|
In questo frangente storico-politico, l'autonomia si presenta
|
|||
|
innanzitutto come tattica presa di distanza dalle organizzazioni
|
|||
|
ufficiali del movimento operaio: il Partito comunista italiano e i
|
|||
|
sindacati, sopra tutti gli altri. Facendo proprio "il punto di vista
|
|||
|
operaio"[^19], gli operaisti (cui si è già fatto cenno nel capitolo
|
|||
|
precedente) intendevano prendere e dare coscienza della condizione di
|
|||
|
sfruttamento della forza lavoro all'interno del sistema capitalistico,
|
|||
|
non limitata però soltanto alla classe operaia ma estesa anche alla
|
|||
|
borghesia e allo stesso lavoro intellettuale. Al fine di raggiungere
|
|||
|
tale obiettivo, se la riappropriazione dei processi produttivi da parte
|
|||
|
dei lavoratori -- in termini di auto-organizzazione della cooperazione
|
|||
|
del lavoro e di controllo operaio dell'uso delle macchine[^20] --
|
|||
|
inquadra ancora i rapporti tra capitale e forza lavoro entro il recinto
|
|||
|
chiuso della fabbrica, la "strategia del rifiuto"[^21] del lavoro -- e
|
|||
|
dunque l'*autonomia* rispetto a esso -- estende la lotta alla dimensione
|
|||
|
sociale e *totale* che è propria del capitalismo compiuto, e al tempo
|
|||
|
stesso vale come strumento di riconoscimento da parte della forza lavoro
|
|||
|
della propria vera natura. È la separazione della classe lavoratrice
|
|||
|
(non della sola classe operaia) dal lavoro, e quindi dal capitale.
|
|||
|
Ovvero, come afferma Tronti, "è la separazione della forza politica
|
|||
|
dalla categoria economica"[^22]. E non è un caso che, nel processo di
|
|||
|
estensione delle dinamiche originariamente interne alla fabbrica
|
|||
|
all'intera società, si passi dall'*autonomia operaia* (intesa tanto come
|
|||
|
esito di tale separazione quanto come vero e proprio movimento politico
|
|||
|
sorto dalle ceneri dell'operaismo) all'*autonomia del politico*[^23],
|
|||
|
elaborata dallo stesso Tronti "come possibilità di concepire la storia
|
|||
|
della classe operaia (e dunque del Capitale) non solo dal punto di vista
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dell'economia politica, ma anche da quello della politica *tout
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court*"[^24].
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A tale piano di applicazione del concetto e della pratica dell'autonomia
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corrispondono secondo Aureli altri piani, non tutti direttamente
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collegati all'ambito politico, e ciò nondimeno in un modo o nell'altro a
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esso relazionabili. In tal senso in *The Project of Autonomy* egli
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riconsidera il modo in cui il progetto dell'autonomia ha preso forma
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all'interno del dibattito sull'architettura e sulla città negli anni
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sessanta e settanta attraverso il lavoro teorico di Manfredo Tafuri,
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Aldo Rossi e Archizoom.
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> Per quanto radicalmente differenti, le posizioni di queste tre figure
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> centrali dell'architettura italiana degli ultimi cinquant'anni hanno
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> condiviso alcuni punti essenziali spesso dimenticati nelle trattazioni
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> storiche che hanno affrontato il loro lavoro. Tra i punti che intendo
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> mettere in evidenza c'è soprattutto la critica alla
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> *professionalizzazione* dell'architettura e al suo ruolo politicamente
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> e culturalmente passivo nei confronti delle dinamiche urbane che
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> allora segnavano l'impetuoso sviluppo economico italiano ed europeo.
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> Inoltre, in modi assai diversi e arrivando a conclusioni opposte tra
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> loro, le teorie di Rossi, Tafuri e Archizoom misero in discussione, in
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> modi più o meno espliciti, l'orizzonte riformista delle politiche
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> urbane del welfare-state, nonché i miti tecnocratici della
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> "programmazione economica" e della città-territorio[^25].
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In modo particolare, il contributo di Tafuri a un "progetto
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dell'autonomia" può essere fatto risalire al periodo in cui
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"Contropiano" s'impegna in una vasta e approfondita analisi critica dei
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riflessi dello sviluppo capitalistico su diversi contesti e settori
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sociali, inserita all'interno di una prospettiva di classe[^26]. In
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questo quadro s'inscrive il lungo saggio tafuriano *Per una critica
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dell'ideologia architettonica* (1969). "Critica dell'ideologia", in
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questo contesto, significa disvelamento dei meccanismi di assimilazione
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dell'architettura e della città alle leggi della produzione
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capitalistica, ma anche -- e soprattutto -- critica dell'"architetto
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moderno *progressista*, ovvero colui che in buona fede credeva fosse
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possibile riformare la città capitalista senza fare i conti fino in
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fondo con le condizioni in cui essa stessa viene prodotta"[^27]. Alla
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constatazione che "la cultura architettonica ha funzionato
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consapevolmente o inconsapevolmente come forma di sublimazione delle
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sempre più pressanti contraddizioni dello sviluppo urbano"[^28], si
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accompagna dunque per Tafuri la presa di coscienza della necessità di
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rendere la ricerca storica "autonoma dai condizionamenti ideologici
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della professione, soprattutto da quella politicamente
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"impegnata""[^29].
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Non a caso, in *Per una critica dell'ideologia architettonica* (e poi
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nel successivo *Progetto e utopia* che ne costituisce l'evoluzione in
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volume), Tafuri riserva una particolare attenzione alla figura e
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all'opera di Ludwig Hilberseimer, fino a quel momento marginalizzate
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dalla storiografia architettonica. È in esse infatti che egli scorge il
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superamento delle "illusioni" legate alla produzione di edifici come
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"oggetti" isolati e il riconoscimento della città quale "unità reale del
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ciclo di produzione"[^30]: a fronte della quale, per Hilberseimer,
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"unico compito adeguato per l'architetto è quello dell'*organizzatore*
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di quel ciclo". Alla luce di ciò, "autonomia" giunge a significare
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capacità di affrontare radicalmente le condizioni in cui il capitalismo
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produce se stesso, senza pensare di poterle eludere.
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Differente la concezione dell'autonomia per Aldo Rossi. Nel 1966, con
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*L'architettura della città*, egli propone "una teoria della città dal
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punto di vista dell'architettura"[^31], secondo l'interpretazione di
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Aureli. Non si tratta di una semplice rivendicazione disciplinare,
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quanto piuttosto del tentativo di rileggere la realtà della città
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attraverso un'"evidenza" storica apparentemente venuta meno agli occhi
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dei suoi contemporanei: l'evidenza dei "fatti urbani" come insieme di
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oggetti concreti, finiti, definiti, costituiti in ultima analisi di
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"materia" architettonica. Detto con le parole di Rossi:
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"... l'architettura non rappresenta che un aspetto di una realtà più
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complessa, di una particolare struttura, ma nel contempo, essendo il
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dato ultimo verificabile di questa realtà, essa costituisce il punto di
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vista più concreto con cui affrontare il problema"[^32] della città. Da
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ciò discende un modo di intendere l'autonomia dell'architettura che Ezio
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Bonfanti, primo esegeta di Rossi, interpreterà correttamente non come
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"libertà dell'architettura" bensì come libertà *per* l'architettura,
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ovvero come "liberazione della città all'architettura"[^33].
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Il progetto dell'autonomia rossiano, in questo senso, va considerato un
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progetto *politico*, che prende posizione, e perciò niente affatto
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neutrale; un progetto in cui decisione politica e forma urbana
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dovrebbero coincidere, in cui l'architettura dovrebbe entrare "come
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*parte* contro il *tutto* organico della città". Una "città fatta di
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*luoghi*, di fatti singolarmente individuati dentro il piano continuo
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dell'urbanizzazione"[^34]. Il concetto di luogo assume un ruolo
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determinante nella teoria rossiana della città proprio in virtú del suo
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carattere "discretizzante": il luogo si distingue sempre per la propria
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finitezza e parzialità, e in quanto portatore di *differenze*. Per
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Rossi il luogo -- il *locus* -- è il prodotto del rapporto esistente
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"tra una certa situazione locale e le costruzioni che stanno in quel
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|
luogo"[^35]. Tale rapporto -- definito da Rossi "singolare eppure
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|
universale" -- ha a che vedere con la memoria collettiva tanto quanto,
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per altri versi, ha a che vedere con il monumento. Ed è in questa
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chiave che Aureli rilegge il progetto *Locomotiva 2* di Rossi, Polesello
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e Luca Meda per il Centro direzionale di Torino (1962): un grande
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edificio a corte (una forma chiusa, emblematicamente contrapposta alle
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forme aperte cui si ispiravano le megastrutture e i progetti legati alla
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"grande dimensione" e alla "città-territorio" elaborati in quel
|
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periodo)[^36] che si impone all'interno della città per la sua natura di
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monumento, associato non a caso alla Mole Antonelliana e al Lingotto di
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Giacomo Mattè-Trucco.
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> Il colossale edificio sospeso su una grande piazza non solo
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> concentrava l'intero programma in una forma chiusa che non avrebbe
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> permesso la sua eventuale espansione, ma, attraverso le sue dimensioni
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> e la sua forma cosí singolarmente individuata, rendeva esplicita la
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> posizione e il significato del nuovo centro direzionale della
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> città[^37].
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Per quanto non immune da nostalgie "neoclassiciste" o da tentazioni
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"totalitarie", il progetto *Locomotiva 2* è la dimostrazione del modo in
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|
cui, secondo Rossi, l'architettura avrebbe potuto farsi al tempo stesso
|
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|
luogo e monumento, tornando cosí ad assumere il valore di architettura
|
|||
|
*della* città, capace di esprimere la propria positiva autonomia[^38].
|
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|
Nel caso del gruppo fiorentino Archizoom, infine, la questione
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dell'autonomia dell'architettura si mescola esplicitamente alla
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riflessione sull'autonomia politica elaborata nel corso degli anni
|
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sessanta e settanta dal pensiero operaista, che essi provano a tradurre
|
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|
in una proposta progettuale, sia pur estrema. Il presupposto da cui
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muove Archizoom è che "la città moderna "nasce nel Capitale" e si
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sviluppa all'interno della sua logica"[^39]. Pertanto i progetti del
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gruppo mostrano un'"adesione totale ed enfatica alle condizioni
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esistenti della città capitalista nella quale l'architettura non doveva
|
|||
|
riformare, bensì radicalizzare le condizioni esistenti"[^40]. Si tratta
|
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in una certa misura di un'attitudine *realista*, nel senso in cui lo è
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-- nota Aureli -- la pop art che gli stessi membri di Archizoom
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riprendono esplicitamente, soprattutto nei loro primi progetti: "Per
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Archizoom la pop art rappresentava l'emergere di una cultura estetica
|
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distruttiva dentro e contro l'estetica borghese". Ed è proprio un
|
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"realismo pop", ossessivamente ripetitivo, di stampo warholiano (in
|
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|
nulla imparentato, dunque, con il *neo*-realismo prevalente in Italia
|
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nel corso del ventennio precedente) quello che Archizoom utilizza per
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|
caratterizzare il Piano abitativo continuo e i Residential Parkings
|
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della *No-Stop City*:
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> L'estensione infinita dei "parcheggi residenziali" rappresentava il
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|
> compimento estremo dello sviluppo capitalista e, al tempo stesso, il
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> momento in cui lo sviluppo -- con la sua sovrabbondanza di merci e di
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|
> conoscenza connessa ai processi di produzione -- avrebbe messo in
|
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> crisi proprio la dipendenza dal lavoro salariato e dal suo apparato
|
|||
|
> sociale e politico. Per questo la *No-Stop City* era proposta da
|
|||
|
> Archizoom come l'antitesi dell'edilizia sociale che, dietro la
|
|||
|
> facciata benevola dell'assistenza sociale, manteneva un regime di
|
|||
|
> scarsità calcolata, strumentale a preservare la necessità del lavoro.
|
|||
|
> La *No-Stop City* avrebbe dovuto essere intesa non come un'utopia ma
|
|||
|
> come un esperimento nel quale tendenze già in atto venivano portate
|
|||
|
> alle estreme conseguenze per verificarne gli effetti politici. La
|
|||
|
> *No-Stop City* era dunque un progetto *propositivo* solo nella misura
|
|||
|
> in cui rendeva intelligibili le condizioni stesse della città
|
|||
|
> capitalista[^41].
|
|||
|
|
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|
La riproduzione infinita delle residenze assimilate a "parcheggi", cosí
|
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|
come quella degli altri spazi che compongono la *No-Stop City*,
|
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|
direttamente desunti dai modelli per eccellenza della società
|
|||
|
capitalista -- la fabbrica e il supermarket --, nel costituirne
|
|||
|
l'apparente affermazione, significa in realtà per Archizoom liberare la
|
|||
|
città dall'architettura (ovvero l'esatto contrario di quanto affermato
|
|||
|
da Bonfanti, citato in precedenza). Liberarsi dell'architettura
|
|||
|
equivale a rifiutarne ogni valore simbolico-rappresentativo,
|
|||
|
riportandola esclusivamente ai meccanismi della sua produzione; ciò che
|
|||
|
comporta far evolvere la città capitalista fino alle sue conseguenze
|
|||
|
ultime. "Solo in questo modo -- afferma Archizoom -- possiamo
|
|||
|
interrompere la continuità del sistema produttivo e l'insieme dei suoi
|
|||
|
collegamenti"[^42]. Al massimo di integrazione (vale a dire di
|
|||
|
alienazione) sarebbe dunque corrisposto il massimo di possibilità di
|
|||
|
libertà.
|
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|
|
|||
|
Di non minore importanza, agli occhi di Aureli -- e in realtà
|
|||
|
strettamente connesso alle questioni precedenti -- è il fatto che
|
|||
|
Archizoom, come per altri versi Tafuri,
|
|||
|
|
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|
> ... aprirono per l'architettura lo spazio di una critica irriducibile,
|
|||
|
> ovvero di un'autonomia della critica dall'ideologia della città che,
|
|||
|
> (...) nel caso di Archizoom, divenne autonomia del progetto dalla sua
|
|||
|
> realizzazione costruita[^43].
|
|||
|
|
|||
|
Ed è proprio nella "validità in sé del progetto come *teoria*"[^44] che
|
|||
|
per Aureli pare racchiudersi il senso più profondo del progetto
|
|||
|
dell'autonomia: l'autonomia stessa della teoria. Nelle pagine finali di
|
|||
|
*The Project of Autonomy*, Aureli si pone -- e pone al lettore -- una
|
|||
|
domanda: "Perché tornare a considerare *il progetto
|
|||
|
dell'autonomia*?"[^45]. La domanda apre ad alcune considerazioni che
|
|||
|
(retrospettivamente) cercano di porre la lettura del libro in una
|
|||
|
corretta prospettiva. Innanzitutto, spiega Aureli, il libro non va
|
|||
|
letto in chiave post-moderna, come celebrazione della post-politica che
|
|||
|
ha trionfato a partire dalla fine degli anni settanta. Nel prendere le
|
|||
|
distanze da questa possibile interpretazione, egli dichiara la propria
|
|||
|
affinità con le figure trattate nel libro e la propria adesione alle
|
|||
|
posizioni da loro sostenute. Tale "presa di partito" sposta
|
|||
|
completamente il significato di *The Project of Autonomy*, che
|
|||
|
altrimenti potrebbe essere letto come un saggio storico distaccato,
|
|||
|
"oggettivo", teso semplicemente a ricostruire un periodo circoscritto
|
|||
|
della recente vicenda italiana e, all'interno di esso, una specifica
|
|||
|
"attitudine" politica declinata in vari ambiti e secondo modalità
|
|||
|
differenti. E invece, a fianco di tale ricostruzione, che impegna in
|
|||
|
realtà la gran parte della trattazione, nelle righe finali del libro
|
|||
|
Aureli riconosce la *sconfitta* che il progetto dell'autonomia ha dovuto
|
|||
|
subire; una sconfitta impartitagli
|
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|
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|
> ... dal capitalismo che negli ultimi anni ha costretto la sinistra ad
|
|||
|
> abbandonare tutto il suo bagaglio storico e culturale, a cominciare
|
|||
|
> dalle sue parole chiave come conflitto, classe e, appunto,
|
|||
|
> capitalismo[^46].
|
|||
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Non è compito né intento di Aureli analizzare le cause e le conseguenze
|
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|
di questa sconfitta. Ciò che si ripromette è invece qualcosa di ancora
|
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|
più difficile: provare a individuare una via d'uscita dall'impasse di
|
|||
|
una cultura (politica non meno che architettonica) che si trovi a fare i
|
|||
|
conti con la scomparsa di qualsiasi ideale alternativo alla realtà del
|
|||
|
capitalismo, e conseguentemente al trionfo di quest'ultimo. Per farlo,
|
|||
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scrive, "diventa urgente e necessario cercare nuovi modi di pensare e
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|||
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costruire una nuova soggettività politica". Ed è alla luce di ciò che
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|
la lezione dell'operaismo (comprese le sue rielaborazioni in ambito
|
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|
architettonico compiute nel corso degli anni sessanta e settanta), da
|
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|
cui il filone principale del progetto dell'autonomia discende, torna a
|
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|
essere utile:
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> La lezione che oggi possiamo trarre dal lavoro di Tafuri, Rossi e
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|
> Archizoom va al di là di facili *repêchage* e indica che nella
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|
> *teoria* vi è qualcosa di irriducibile alla pratica dell'architettura
|
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|
> come professione[^47].
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|
L'autonomia della teoria, in questo senso, non vale soltanto come
|
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|
un'indicazione metodologica ma assume un valore paradossalmente
|
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|
*operativo*. All'interno del "contesto" del capitalismo quale unico
|
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|
orizzonte di realtà attualmente possibile, la teoria assume la
|
|||
|
fondamentale funzione di disinnescare la "coazione ad agire" e a
|
|||
|
svilupparsi in concreto, che è propria di questo, fornendo una
|
|||
|
prospettiva diversa, quantomeno pensabile. Da questo punto di vista,
|
|||
|
l'architettura intesa in senso teorico può rappresentare una "forma di
|
|||
|
conoscenza", un "modo di comprendere le cose" in cui è in gioco la
|
|||
|
possibilità di pensare, criticare e persino "cambiare lo spazio in cui
|
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|
viviamo". *Dentro* la realtà del capitalismo e al tempo stesso *contro*
|
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|
di esso.
|
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|
|
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|
Il secondo libro pubblicato da Aureli, *The Possibility of an Absolute
|
|||
|
Architecture*[^48], declina in una seconda accezione la tematica del
|
|||
|
distacco. Lo fa avendo il coraggio di riaccostarsi ancora una volta ai
|
|||
|
luoghi *più* comuni della disciplina architettonico-urbanistica;
|
|||
|
mantenendosi distante dall'usanza, assai diffusa negli ultimi anni, di
|
|||
|
"creare" nuovi concetti per cercare di spiegare una realtà contemporanea
|
|||
|
spesso vista come inesorabilmente "mutante" rispetto al passato, e
|
|||
|
dunque del tutto inconciliabile con questo; ma al tempo stesso senza
|
|||
|
cedere alla tentazione -- altrettanto diffusa e frequente -- di
|
|||
|
rifugiarsi nella sterile negazione della realtà, o di farsi paladino di
|
|||
|
una critica programmaticamente "contro"[^49].
|
|||
|
|
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|
Non soltanto la gran parte dei progetti e degli oggetti architettonici
|
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|
scelti da Aureli per sostenere il proprio discorso sono tra i più noti e
|
|||
|
citati dalla storia e dalla critica architettonica, ma anche i concetti
|
|||
|
e i termini a cui egli fa ricorso sono tra i più "basilari" e consueti
|
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|
in questo settore: a partire dal campo stesso d'indagine da lui preso in
|
|||
|
considerazione, il territorio che abbraccia architettura e città.
|
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|
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|
È proprio su questo terreno che si lasciano misurare fin da subito il
|
|||
|
coraggio e la "portata" del libro di Aureli: esso infatti prova a
|
|||
|
ristabilire un nesso intrinseco tra architettura e città, non più però
|
|||
|
sulla scorta delle "ragioni" morfologico-tipologiche che ormai
|
|||
|
cinquant'anni fa avevano guidato le ricerche, tra gli altri, di Aldo
|
|||
|
Rossi e Carlo Aymonino. E neppure lo fa ricorrendo ad alcuna delle
|
|||
|
tante "sociologie della città" (o della metropoli) correnti ai nostri
|
|||
|
giorni. È piuttosto dalle categorie del "politico" e del "formale" --
|
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|
categorie fondative e in una certa misura "preliminari" rispetto al
|
|||
|
campo considerato -- che il suo discorso prende le mosse. Nel primo
|
|||
|
capitolo, *Toward the Archipelago*, lasciando momentaneamente da parte
|
|||
|
gli "avanzamenti" e gli "aggiornamenti" disciplinari, Aureli fa ritorno
|
|||
|
ai fondamenti. E sono le parole, anzitutto, che egli interroga alla
|
|||
|
ricerca del loro senso perduto, o rimosso. A partire dall'etimologia di
|
|||
|
*ab-solutus* (sciolto da), l'aggettivo che qualifica la sua *idea* di
|
|||
|
architettura: "qualcosa che è risolutamente se stesso dopo che è stato
|
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|
"separato" dal suo altro"[^50]. Da ciò discende che "la condizione
|
|||
|
effettiva della forma architettonica è di separare ed essere separata".
|
|||
|
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|||
|
Aureli palesemente non è interessato all'aspetto formale
|
|||
|
dell'architettura in senso estetico-figurativo: ciò che vuole mettere in
|
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|
luce è la natura finita della *form*, non la sua *shape*. Il problema
|
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|
della forma è dunque quello stesso del *limite*. Come già cent'anni fa
|
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|
rilevava Georg Simmel:
|
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> Il segreto della forma sta nel fatto che essa è confine; essa è la
|
|||
|
> cosa stessa, e nello stesso tempo, il cessare della cosa, il
|
|||
|
> territorio circoscritto in cui l'Essere e il Non-più-essere sono una
|
|||
|
> cosa sola[^51].
|
|||
|
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|||
|
Assumere come punto di partenza del discorso su architettura e città la
|
|||
|
questione della forma *in quanto limite* significa additare come
|
|||
|
fondamentale la questione delle *differenze*. I limiti infatti *sono*
|
|||
|
le differenze. "Nel suo separare ed essere separata, l'architettura
|
|||
|
rivela *in uno* l'essenza della città e la propria stessa essenza come
|
|||
|
forma politica: la città come composizione di parti (separate)"[^52].
|
|||
|
Il legame tra architettura e città, allora, non è qualcosa che
|
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|
scaturisce dall'assunzione di uno specifico punto di vista interno alla
|
|||
|
disciplina, quanto piuttosto qualcosa che appartiene già da sempre --
|
|||
|
*ontologicamente* -- alla relazione dialettica che connette tra loro le
|
|||
|
componenti che vi entrano in gioco. Questo legame si dà nella forma
|
|||
|
della "composizione delle differenze"[^53]. In ciò consiste, in
|
|||
|
definitiva, la città: architetture conviventi nel loro radicale
|
|||
|
differire. E qui le differenze non vanno intese tanto in senso
|
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tipologico o funzionale bensì in senso *formale*, come *oggettivazione
|
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|
di un limite*.
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Per Aureli l'idea di un'architettura *assoluta* si traduce
|
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|
"concretamente" in una serie di isole chiare e distinte, relazionate tra
|
|||
|
loro nella forma dell'*arcipelago*. La parola "arcipelago" non è certo
|
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|
inedita nell'ambito del discorso architettonico e urbano degli ultimi
|
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|
anni. Prima di lui l'avevano utilizzata tra gli altri -- a diverso
|
|||
|
titolo e con diverse accezioni -- architetti come Oswald Mathias Ungers,
|
|||
|
il giovane Koolhaas, studiosi come Colin Rowe, ma pure filosofi come
|
|||
|
Massimo Cacciari[^54]. E tuttavia, nell'impiego che egli ne fa non vi è
|
|||
|
traccia di alcuna sudditanza nei confronti di tali autori (che pure
|
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cita), né alcuna dipendenza da "ricuperi" più o meno recenti o alla moda
|
|||
|
di essi; anzi, proprio il fatto di impiegarla dimostra la sua totale
|
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|
indifferenza nei confronti di questi.
|
|||
|
|
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D'altronde, per lui quella dell'arcipelago non è affatto una metafora,
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un'espressione figurata da lasciar cadere non appena questa abbia finito
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di svolgere il compito di portare là dove si voleva essere condotti.
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Semmai egli intende l'arcipelago come un "archetipo", un paradigma
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spaziale che, fin dalla Grecia antica, esprime una ben precisa (benché
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non aprioristicamente definita) relazione tra corpi: una pluralità di
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enti differenti (sia pure tra di loro congeneri), più o meno raggruppati
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o sparpagliati, ma in qualunque caso *discontinui*: "Il concetto
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dell'arcipelago descrive una condizione in cui le parti sono separate
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ancorché unite dal terreno comune della loro giustapposizione"[^55]. È
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questa condizione topologica che Aureli pensa come nesso essenziale tra
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architettura e città, e in ultima analisi come forma stessa della città.
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Ma in quale senso va inteso quest'ultimo termine? Ben lungi dall'essere
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utilizzato in modo casuale o generico, anche il termine "città", nel
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libro di Aureli, viene vagliato sotto il profilo etimologico nelle sue
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diverse versioni: *polis*, *civitas* e *urbs*. E se la *polis* greca
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raccoglie entro i suoi limiti dati i *polites* che la abitano come una
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comunità omogenea per *genos*, *logos* ed *ethos*; se la *civitas*
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romana equivale alla somma dei suoi *cives*, che hanno tra loro in
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comune il "diritto" di occupare lo spazio che li ospita, è invece
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l'*urbs* a incarnare nel modo più compiuto la costruzione materiale
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della città:
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> Mentre la *polis* greca era la città strettamente circoscritta entro
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> il suo perimetro murato, l'*urbs* romana non era pensata per essere
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> limitata, e di fatto si è espansa nella forma di un'organizzazione
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> territoriale, in cui le strade hanno giocato un ruolo cruciale[^56].
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Sarà proprio l'*urbs*, infatti, a divenire nel corso della storia la
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"specie" di città planetariamente dominante, e addirittura l'unico
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modello di aggregazione umana apparentemente possibile. Ildefons Cerdà,
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l'ingegnere e urbanista iberico del XIX secolo, ha introdotto per la
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prima volta il termine "urbanizzazione" per esprimere la condizione di
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illimitatezza e la completa integrazione di movimento e comunicazione
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determinata dal capitalismo. È questo "vasto e turbinante oceano di
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persone, di cose, di interessi di ogni sorta, di migliaia di elementi
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diversi"[^57], secondo le sue parole, che definisce con esattezza la
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realtà delle città odierne, il loro *status* di metropoli *oltre* la
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metropoli, senza più centro o periferia.
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> L'essenza dell'urbanizzazione è dunque la distruzione di ogni limite,
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> confine o forma che non sia l'infinita, compulsiva ripetizione della
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> propria stessa riproduzione e il conseguente meccanismo di controllo
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> totalizzante che garantisce questo processo di infinitezza[^58].
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È in opposizione al mare dell'urbanizzazione, dilagante a macchia d'olio
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e di fatto ormai sconfinata, che Aureli propone la sua idea di città:
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che, se non si limita a confermare le condizioni attualmente esistenti,
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non coltiva però neanche alcuna illusione di poter ricreare le
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condizioni di esistenza di una *polis* organica. La città-arcipelago
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non è pensata in alternativa alla realtà dell'urbanizzazione ("non c'è
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via di ritorno dall'urbanizzazione")[^59]: semmai come integrativa di
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essa. In questo senso, nella concezione di Aureli, la città-arcipelago
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risulta inevitabilmente immersa nel mondo dell'urbanizzazione, e
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affiorante da esso nella forma di un sistema discreto di architetture
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finite, limitate, distinte; isole, appunto, che non arrivano mai
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tuttavia a costituire un intero.
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Si tratta di un'idea di architettura che reagisce criticamente alla
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realtà dell'urbanizzazione, un'idea per formulare la quale Aureli arriva
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a equiparare le categorie -- tra di loro apparentemente estranee -- del
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"politico" e del "formale"[^60] quali espressioni entrambe del *limite*.
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> Il politico ha luogo nella decisione in merito a come articolare la
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> relazione, lo spazio *infra*, lo spazio *in between*. Lo spazio *in
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> between* è un aspetto costitutivo del concetto di forma, fondato sulla
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> contrapposizione delle parti. Cosí come non c'è un modo per pensare
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> il politico all'interno dell'uomo stesso, non c'è neppure un modo per
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> pensare lo spazio *in between* in se stesso. Lo spazio *in between*
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> può materializzarsi soltanto come uno spazio di confronto tra le
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> parti. La sua esistenza può essere decisa soltanto dalle parti che
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> formano i suoi margini[^61].
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A un capitolo a carattere eminentemente teoretico e fondativo ne seguono
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altri quattro dedicati ad altrettanti "casi" storici: l'architettura di
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Palladio e il progetto di una città anti-ideale; il Campo Marzio di
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Piranesi *versus* la pianta di Roma del Nolli; l'architettura di Boullée
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come "stato di eccezione"; l'idea di *City within the City* in Ungers e
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Koolhaas. In questi capitoli Aureli mostra una solida conoscenza
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dell'architettura e della sua storia. Ma non è strettamente da questo
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punto di vista che vanno letti. La ragione di tali approfondimenti non
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è quella di presentare documenti "inediti" o di fornire nuove
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interpretazioni di cose già note. Essi piuttosto sono funzionali al
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discorso di Aureli, che in questo modo cerca nel passato gli "indizi
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probatori" -- o piuttosto gli adeguati "sostegni" -- della propria
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teoria.
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Non mancano, in questi capitoli, alcune forzature (basti pensare -- a
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titolo esemplificativo -- all'applicazione alle architetture disegnate
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di Boullée della categoria schmittiana-agambeniana dello "stato di
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eccezione")[^62]. Sarebbe tuttavia pedante, oltreché in fondo inutile,
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rimproverare ad Aureli un uso troppo disinvolto della storia, dal
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momento che è proprio un uso troppo rigido e poco interessante della
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storia che si può e si *deve* spesso rimproverare agli storici "di
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professione". Le "forzature" di Aureli vanno dunque lette come
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positivamente strumentali alla sua costruzione teorica, non diversamente
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da quanto si potrebbe fare con alcuni testi di Robert Venturi, Peter
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Eisenman o Rem Koolhaas, dove la storia è dichiaratamente -- e in fondo
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non illegittimamente -- reinterpretata in chiave contemporanea.
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La *finitio* classica palladiana, la sommatoria di edifici privi di
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"tessitura" urbana del Campo Marzio piranesiano, la sequenza di edifici
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pubblici monumentali di Boullée come "progetto per una metropoli", la
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città "fatta di isole" dei progetti di Ungers, servono tutte ad Aureli
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per dimostrare l'esistenza storica del rapporto tra architettura e città
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nel medesimo senso in cui egli stesso lo afferma.
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L'indicazione immediata che scaturisce da tutto ciò è la necessità di un
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radicale ripensamento dell'architettura rispetto alla logica che informa
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gli edifici "iconici" contemporanei: *landmarks* "solisti" che si
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inseriscono perfettamente nella trama senza fine dell'urbanizzazione.
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Contro tale logica, Aureli propone come modello di architettura per la
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città-arcipelago l'isolamento e l'innalzamento dell'edificio sopra un
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basamento (*plinth*), come dimostrativamente illustrato nel progetto
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koolhaasiano *The City of the Captive Globe* (1972), o come
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insistentemente ribadito nella gran parte dei progetti e degli edifici
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di Mies van der Rohe. È proprio da una rilettura in tal senso delle
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opere miesiane -- dal Padiglione di Barcellona (1929) alla
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Nationalgalerie di Berlino (1962-68), passando per il Seagram Building
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di New York (1954-58) -- che Aureli trae il miglior paradigma
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*realizzato* della propria teoria e che la tesi del libro trova una sua
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persuasiva conferma: "I basamenti di Mies reinventano lo spazio urbano
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come un arcipelago di artefatti urbani definiti"[^63]. E ancora:
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> Il basamento introduce un arresto nella fluidità dello spazio urbano,
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> evocando cosí la possibilità di comprendere lo spazio urbano non come
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> ubiquo, pervasivo e tirannico, bensì come qualcosa che può essere
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> inquadrato, limitato, e in tal modo potenzialmente situato come cosa
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|
> tra altre cose[^64].
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La lezione di Mies viene cosí assunta per la sua capacità di definire
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un'architettura che è al tempo stesso "un'attitudine particolare nei
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confronti della città". Secondo Aureli, questa attitudine a inquadrare
|
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e a delimitare deve essere sviluppata "sia come forma materiale di
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architettura sia come principio politico di progettazione"[^65].
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È una tale attitudine che, opponendosi alla generalizzata
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omogeneizzazione contemporanea, ovvero alla "confusione" delle
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differenze (o piuttosto, alla loro insistente e colpevole negazione),
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rende possibile quella *composizione delle differenze* che si è citata
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più sopra. In questo senso,
|
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> ... l'architettura assoluta come forma finita non è semplicemente
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> l'affermazione tautologica dell'oggetto in quanto tale; è anche il
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> paradigma per una città non più guidata da un *ethos* di espansione e
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|
> inclusione bensì dall'idea positiva di limiti e confronto[^66].
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È su questo piano che architettura e città tornano a trovare un punto di
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incontro necessario:
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> La parte è *assoluta*; essa sta in solitudine, ma assume una posizione
|
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> rispetto al tutto dal quale è stata separata. L'architettura
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> dell'arcipelago deve essere un'architettura assoluta, un'architettura
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> definita dalla -- e che rende chiara la -- presenza dei *limiti* che
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|
> definiscono la città[^67].
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Ed è ugualmente su questo piano che "formale" e "politico" s'incontrano
|
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e dimostrano di poter costituire una cosa sola.
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> Invece di sognare una società perfettamente integrata che può essere
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> ottenuta soltanto come supremo compimento dell'urbanizzazione e del
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> suo *avatar*, il capitalismo, un'architettura assoluta deve
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> riconoscere la separatezza politica che potenzialmente si può
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> manifestare, nel mare dell'urbanizzazione, attraverso i confini che
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> definiscono la possibilità della città.
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È qui -- più e meglio che altrove -- che si lascia riconoscere il già
|
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ricordato coraggio di Aureli: nell'affermare, oggi, la *separatezza*
|
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(ovvero, ancora una volta, la differenza) come un valore *politico*, non
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*anti*-politico: l'unico -- l'ultimo -- modo, forse, per poter stare
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*insieme* davvero. L'identico coraggio che lo porta a sostenere,
|
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|
nell'ormai completo e generalizzato asservimento delle idee alla loro
|
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"verifica" pratica, l'*autonomia della teoria*. In questo senso, se con
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|
*The Possibility of an Absolute Architecture* egli definisce con tutta
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evidenza il campo operativo in cui si muove come architetto, è
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significativo però che rinunci a presentare nel libro i propri progetti:
|
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una rinuncia che è nel contempo la miglior "dimostrazione" *in azione*
|
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del suo stesso discorso sul limite.
|
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La terza riflessione che Aureli affida a un sia pur piccolo volume ruota
|
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intorno ai medesimi concetti di distacco e rinuncia, declinati con
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|
accenti ancora una volta diversi. Rispetto ai due precedenti, *Less Is
|
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Enough* è non soltanto un libro molto più agile, ma anche assai meno
|
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focalizzato sull'architettura; questo aspetto però -- ben lungi dal
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rappresentare un'indebita deviazione dal "percorso principale", o
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addirittura una negazione di esso -- costituisce invece la riprova
|
|||
|
dell'ampiezza del discorso *intellettuale* di Aureli[^68].
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"Per molti anni *less is more* è stato il tormentone del
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minimalismo"[^69]: l'*incipit* del libro prende le mosse dalla notissima
|
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|
frase citata da Ludwig Mies van der Rohe nel corso di un'intervista del
|
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|
1959. La ragione per cui Aureli ritorna su un *topos* tanto frequentato
|
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|
e tanto citato (spesso a sproposito) dalla cultura architettonica è
|
|||
|
quella che "in anni recenti, e specialmente a partire dalla recessione
|
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economica del 2008, l'attitudine per il *less is more* è nuovamente
|
|||
|
tornata di moda". Non a caso, dopo i fasti degli anni novanta e
|
|||
|
dell'inizio del XXI secolo, segnato dalla proliferazione di edifici
|
|||
|
iconici, la riduzione delle risorse e dei budget si è tradotta per
|
|||
|
alcuni architetti nella scelta di una maggiore austerità formale, e per
|
|||
|
altri in un approccio più attento al sociale. Ciò che accomuna tali due
|
|||
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atteggiamenti -- pur tra di loro diversi -- è l'opportunità di "fare di
|
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più con meno", ciò che rende il *less is more* un imperativo economico,
|
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|
più ancora che estetico.
|
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> All'interno della storia del capitalismo *less is more* definisce i
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|
> vantaggi della riduzione dei costi di produzione. I capitalisti hanno
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|
> sempre cercato di ottenere di più con meno. Il capitalismo non è
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|||
|
> soltanto un processo di accumulazione ma anche, e specialmente,
|
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> l'incessante ottimizzazione del processo produttivo verso una
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|
> situazione in cui *meno* investimento di capitale equivale a più
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|
> accumulazione di capitale[^70].
|
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In una situazione di crisi economica, ciò che il capitale domanda è più
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|||
|
lavoro per meno denaro, più creatività con meno sicurezza sociale.
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La condizione di ristrettezza economica e la propensione estetica per il
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*less is more* sembrano convergere nella tradizione dell'ascetismo.
|
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Questo termine (dal greco *askein*, esercizio, auto-addestramento)
|
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indica comunemente, in ambito religioso, il ritiro dal mondo, la pratica
|
|||
|
dell'astinenza dai piaceri mondani, propria degli eremiti e dei monaci.
|
|||
|
In anni più recenti "l'ascetismo è stato invece identificato come la
|
|||
|
fonte ideologica e morale dell'idea di austerità"[^71]. In senso
|
|||
|
secolare, l'ascetismo equivale alla libertà dalle distrazioni mondane al
|
|||
|
fine di dedicarsi interamente all'etica del lavoro e della produzione.
|
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|
Questa seconda versione dell'ascetismo per Max Weber sta a fondamento
|
|||
|
dell'etica del capitalismo[^72]. Come egli spiega, con il calvinismo si
|
|||
|
registra l'uscita dell'ascetismo dai confini del monastero e la sua
|
|||
|
trasformazione in una mentalità diffusa nelle città. L'ascetismo si
|
|||
|
avvia in tal modo a divenire la disciplina di una razionalità etica
|
|||
|
destinata a costituire il fondamento dello stile di vita borghese, e in
|
|||
|
quanto tale a rappresentare il vero "spirito" del capitalismo.
|
|||
|
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|||
|
Pur considerando questa lettura dell'ascetismo, Aureli ne abbraccia una
|
|||
|
differente: "proprio perché la pratica dell'ascetismo persegue la
|
|||
|
trasformazione del sé, sostengo che esso può essere sia un mezzo di
|
|||
|
oppressione che una forma di resistenza al potere soggettivo del
|
|||
|
capitalismo"[^73]. Nell'ascetismo i soggetti si focalizzano sulla loro
|
|||
|
vita come il cuore della loro pratica, strutturandola in accordo con una
|
|||
|
forma autodeterminata fatta di specifiche abitudini e regole. Di
|
|||
|
conseguenza anche l'architettura che è connessa con questa pratica non è
|
|||
|
focalizzata sulla rappresentazione ma sulla vita stessa, sul *bios*,
|
|||
|
come il più generico substrato dell'esistenza umana. Lo stesso sviluppo
|
|||
|
dell'architettura moderna, attenta all'igiene, al comfort e al controllo
|
|||
|
sociale, è stata guidata da una logica biopolitica. Ma è soprattutto
|
|||
|
nella storia del monachesimo, dove l'architettura del monastero era
|
|||
|
espressamente progettata per definire la vita in tutti i suoi dettagli
|
|||
|
più immanenti, che l'ascetismo trova il suo più significativo
|
|||
|
compimento. Alle origini il principale proposito dell'ascetismo
|
|||
|
monastico era di ottenere "una forma di reciprocità tra soggetti liberi
|
|||
|
dal contratto sociale imposto dalle forme di potere"[^74], ed è sulla
|
|||
|
scorta di questa possibilità che Aureli si domanda se l'ascetismo possa
|
|||
|
condurci a un tipo di vita differente da quella imposta oggi dalle
|
|||
|
società dominanti.
|
|||
|
|
|||
|
Nel prendere in considerazione questa possibilità, Aureli evidenzia come
|
|||
|
l'ascetismo sia una pratica del sé, prima ancora di essere
|
|||
|
esplicitamente rivolta al culto religioso; una pratica che in modo
|
|||
|
intrinseco mette in questione le condizioni sociali e politiche date,
|
|||
|
alla ricerca di un modo differente di vivere la propria vita. Del
|
|||
|
resto, anche la scelta della vita monacale costituiva "un modo di
|
|||
|
rifiutare l'integrazione della fede cristiana nelle istituzioni di
|
|||
|
potere"[^75]. La radicale critica del potere condotta dal monachesimo
|
|||
|
delle origini si manifestava sotto forme di opposizione non violenta:
|
|||
|
come il rifiuto della casa e di qualsiasi ruolo all'interno della
|
|||
|
società, e più in generale come un pacifico distacco.
|
|||
|
|
|||
|
Nell'evoluzione del monachesimo si registra il passaggio dalla
|
|||
|
solitudine eremitica alla vita cenobitica (cenobio = *koinos bios*, vita
|
|||
|
comune), in cui i monaci vivono nello stesso luogo e condividono la
|
|||
|
stessa regola. Nel monastero la vita in comune non contraddice la
|
|||
|
possibilità di stare da soli. "La rigorosa organizzazione del monastero
|
|||
|
non intendeva rimpiazzare la vita con una regola, ma piuttosto rendere
|
|||
|
la regola cosí coerente con la forma di vita scelta dai monaci che la
|
|||
|
regola avrebbe potuto addirittura scomparire"[^76]. Da una tale
|
|||
|
condizione deriva una forma di reciprocità fraterna in cui nessuno tende
|
|||
|
a prevalere sugli altri; ed è proprio nell'organizzazione fisica del
|
|||
|
monastero che si lascia rintracciare una possibile traduzione spaziale
|
|||
|
della già citata *convivenza delle differenze*.
|
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|
Da notare la convergenza di interessi sul tema dell'organizzazione
|
|||
|
dell'architettura monastica tra Aureli e Rossi. Scrive infatti
|
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|
quest'ultimo in un quaderno dell'inizio degli anni settanta, rimasto
|
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|
inedito:
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> La forma tipologica del convento è importantissima perché ci offre un
|
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|
> tipo di abitazione dove la questione tipologica costituisce la stessa
|
|||
|
> struttura organizzativa e dove, forse per la prima volta, vediamo
|
|||
|
> sorgere un edificio collettivo potendone seguire tutta la genesi. La
|
|||
|
> tipologia conventuale è riportabile a due soluzioni fondamentali: la
|
|||
|
> prima quella benedettina e la seconda, più tarda, quella certosina.
|
|||
|
> (...) Le due concezioni entrambe di straordinario interesse permangono
|
|||
|
> vive come riferimento al mondo moderno e come da un lato accolgono
|
|||
|
> tradizioni antiche, dall'altro sono il nucleo formale per le ipotesi
|
|||
|
> moderne più avanzate nel campo della forma della città[^77].
|
|||
|
|
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|
Ma altrettanto significativo è che, approfondendo il discorso sugli
|
|||
|
ordini monastici, Aureli si soffermi piuttosto su quello francescano.
|
|||
|
Come sottolineato da Agamben[^78], i primi francescani rigettavano
|
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|
l'idea della proprietà privata, non soltanto nella forma del possesso
|
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|
individuale di beni ma anche in quanto possesso di capitale potenziale,
|
|||
|
sotto forma di terra o di strumenti per lavorarla o, ancora, di possesso
|
|||
|
del lavoro altrui. La forma di vita a cui aderivano i francescani,
|
|||
|
modellata sulla vita evangelica, prevedeva semplicità, castità e
|
|||
|
povertà; un'*altissima paupertas* che si estendeva anche a ciò che
|
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|
comunemente è considerato appartenente "di diritto" al soggetto
|
|||
|
individuale: la propria persona (affidata totalmente a Dio), il proprio
|
|||
|
tempo (gestito dai superiori e dai confratelli), il proprio cibo
|
|||
|
(soltanto consumato e non accumulato). In luogo della proprietà
|
|||
|
privata, dunque, i francescani delle origini si limitavano a usare, vale
|
|||
|
a dire ad appropriarsi temporaneamente di ciò che serviva loro. Ed è
|
|||
|
proprio nell'uso come condivisione di qualcosa che si dà la forma
|
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|
suprema del vivere in comune.
|
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|
|
|||
|
Per Aureli tali pratiche possono tornare ad assumere un senso nel mondo
|
|||
|
contemporaneo, al di fuori di una prospettiva religiosa. Già negli anni
|
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trenta Walter Benjamin, a seguito di quanto descrive come un
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"impoverimento dell'esperienza", effetto tra i più devastanti della
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prima guerra mondiale, parla di una "nuova barbarie", e si domanda: "A
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|
cosa mai è indotto il barbaro dalla povertà di esperienza? È indotto a
|
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ricominciare da capo; a iniziare dal nuovo; a farcela con il poco"[^79].
|
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|
Benjamin dunque identifica gli aspetti più tragici dell'esperienza
|
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moderna -- lo sradicamento culturale e territoriale e la precarietà
|
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della vita in generale -- e li trasforma in una forza emancipante che
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egli definisce "carattere distruttivo": "Il carattere distruttivo
|
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|
conosce solo una parola d'ordine: creare spazio; una sola attività: far
|
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pulizia. Il suo bisogno di aria fresca e di uno spazio libero è più
|
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|
forte di ogni odio"[^80].
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Spinto da circostanze storiche ed esistenziali, ma anche dall'adesione a
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un modello di vita che Charles Baudelaire (suo beneamato e ammirato
|
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"eroe") gli aveva ispirato, Benjamin vive in prima persona la condizione
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di sradicamento e di precarietà. Come un monaco mendicante, Benjamin
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riduce al minimo i suoi beni personali per usare la città stessa come
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una vasta abitazione.
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A ideale *pendant* di questa condizione di vita, Aureli pone la Co-op
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Zimmer elaborata da Hannes Meyer in occasione della Mostra delle
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cooperative a Gent (1924): un progetto concepito nella prospettiva di
|
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una società senza classi, in cui ogni membro dovrebbe avere a
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|
disposizione la medesima dotazione economica minima. Anche
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|
l'arredamento è ridotto allo strettamente essenziale in questo perfetto
|
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|
esemplare di *Existenzminimum*: poche mensole, due sedie pieghevoli, un
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letto singolo. Soltanto la presenza di un grammofono dimostra che non
|
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|
si tratta di "uno spazio dettato esclusivamente dalla "necessità", ma
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|
anche predisposto per un tempo "improduttivo""[^81]. Questa stanza è
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|
realizzata da Meyer non come forma di possesso bensì come spazio minimo
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individuale che prevede di condividere altri spazi collettivi. "Qui la
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|
vita privata (*privacy*) non è la proprietà (*property*), bensì
|
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|
piuttosto la possibilità di godere di uno stato di solitudine e di
|
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|
concentrazione"[^82]. Diversamente da Mies van der Rohe, dunque, per
|
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|
Meyer "less is not more, less is just enough"[^83]. Per lui la povertà
|
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|
non costituisce semplicemente una privazione, ma può arrivare a
|
|||
|
rappresentare addirittura un valore, una condizione paradossalmente
|
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|
lussuosa, che suggerisce "un senso di calma e di edonistico godimento".
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|
Ma anche nella situazione sociale attuale, in cui da un lato per far
|
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|
ripartire l'economia viene "suggerito" di consumare di più ma dall'altro
|
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|
vengono diminuiti i salari e tagliate le forme di protezione sociali,
|
|||
|
l'ascetismo può "ridefinire ciò che è realmente necessario e cosa non lo
|
|||
|
è, al di là del regime di scarsità imposto dal mercato"[^84]. È in
|
|||
|
questo contesto che l'ascetismo può rappresentare la possibilità di
|
|||
|
riconquistare una miglior condizione di vita, vivendo con meno, senza
|
|||
|
trasformare tale "meno" in un'ideologia: "less is *not* more, less is
|
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|
just less". Soltanto oltrepassando la sua aura ideologica, il meno può
|
|||
|
divenire il punto di partenza per una forma di vita alternativa che
|
|||
|
superi al tempo stesso i falsi bisogni imposti dal mercato e le
|
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|
politiche di austerità imposte dal debito. In questa prospettiva "*less
|
|||
|
is enough* è un tentativo di definire un modo di vivere che vada oltre
|
|||
|
la promessa di crescita e la minacciosa retorica della scarsità"; un
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|
modo di vivere ascetico che pone al centro se stessi, ma che offre anche
|
|||
|
la possibilità di una condivisione di spazi con altri.
|
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|
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|
Ed è forse proprio questa la condizione corrispondente a quello che Marx
|
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|
definisce l'"essere sociale" dell'individuo[^85]\: una condizione che
|
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|
questi vede insidiata dalla proprietà privata e che -- all'opposto --
|
|||
|
può essere pienamente riattivata da una forma di reciprocità basata non
|
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|
sul possesso ma sulla condivisione: dove il meno che si ha in termini di
|
|||
|
possesso, diviene il più che si ha da condividere.
|
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|
> Dire *enough* (anziché *more*) significa ridefinire ciò di cui abbiamo
|
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|
> realmente bisogno al fine di vivere (...) una vita distaccata
|
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|
> dall'ethos sociale della proprietà, dall'ansia della produzione e del
|
|||
|
> possesso, e dove *less is just enough*[^86].
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|
Autonomia, assolutezza, ascetismo: questi tre concetti, e i relativi
|
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|
riflessi che essi hanno nella vita concreta, nei rapporti sociali,
|
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|
nell'organizzazione spaziale, hanno tutti in comune -- come già rilevato
|
|||
|
-- una forma di *distacco*. Una simile condizione si rivela
|
|||
|
indispensabile per chi, come Aureli, intenda accostarsi alle questioni
|
|||
|
contemporanee (non soltanto quelle relative al ristretto ambito
|
|||
|
architettonico, bensì tutte quelle a cui quest'ambito sia in qualche
|
|||
|
modo rapportabile) senza farsene "assorbire"; non limitandosi
|
|||
|
semplicemente a ripetere e a far proprie opinioni diffuse e consolidate
|
|||
|
a loro riguardo, e cercando piuttosto di affrontarle *ripensandone le
|
|||
|
condizioni dall'interno*. È precisamente questa attitudine che
|
|||
|
caratterizza l'architetto intellettuale, e l'intellettuale in generale:
|
|||
|
la capacità di penetrare nelle cose mantenendosene però distaccato
|
|||
|
abbastanza da poterle *mettere in prospettiva*, come avvertiva Tafuri,
|
|||
|
ovverosia da poterle osservare da un punto di vista al tempo medesimo
|
|||
|
interno ed esterno. L'uso consapevole della tecnica della prospettiva
|
|||
|
richiede tanto una visione "da fuori" dello spazio da rappresentare,
|
|||
|
quanto un minuzioso controllo di ogni parte di esso, vale a dire della
|
|||
|
sua perfetta misurabilità; dove vedere "da fuori" non equivale in alcun
|
|||
|
modo a una possibilità di "uscita" dallo spazio; e dove renderlo
|
|||
|
misurabile non significa affatto aderire immediatamente a esso. Nell'un
|
|||
|
caso come nell'altro, interno ed esterno vanno considerati come punti di
|
|||
|
vista del tutto relativi: relativi alle possibilità di movimento di cui
|
|||
|
chi utilizza la prospettiva dispone.
|
|||
|
|
|||
|
A questo posizionamento teorico da parte di Aureli corrisponde, sul
|
|||
|
piano dell'attività progettuale, un progressivo cambio di scala nei
|
|||
|
progetti di Dogma[^87]. Dalla genericità del *framework* che
|
|||
|
abbracciava la foresta in *Stop City*, o dallo "spazio (...)
|
|||
|
completamente sussunto dalla produzione"[^88] in *A Simple Heart*, si
|
|||
|
passa ora a un'analisi focalizzata sulla casa in quanto "apparato per la
|
|||
|
riproduzione della vita"[^89], ovvero come teatro di una vasta serie di
|
|||
|
azioni e funzioni. In progetti come *Ladders* (2011), *Frame(s)*
|
|||
|
(2011), *Every Day is Like Sunday* (2015), ma soprattutto *Communal
|
|||
|
Villa* (2015) e *Like a Rolling Stone* (2016), Dogma concentra la
|
|||
|
propria attenzione sull'abitazione come ambito in cui sempre di più vita
|
|||
|
e produzione coincidono. Affiancati da una parallela ricerca storica
|
|||
|
condotta dallo studio[^90], ma anche dagli esiti dell'attività didattica
|
|||
|
laboratoriale svolta da Aureli con i suoi studenti[^91], questi progetti
|
|||
|
si sforzano di ripensare radicalmente -- vale a dire fino ai fondamenti
|
|||
|
-- le condizioni di possibilità di un'abitazione che sia luogo di
|
|||
|
convivenza di spazi domestici e spazi lavorativi; convivenza che la
|
|||
|
contemporaneità ha in realtà ereditato ma che ha però fortemente
|
|||
|
esacerbato. *Like a Rolling Stone*, in tal senso, prende le mosse dallo
|
|||
|
studio delle *boarding houses* (case-pensione) realizzate in Inghilterra
|
|||
|
e in America tra la seconda metà del XIX secolo e la prima parte del XX,
|
|||
|
per approdare a nuovi progetti di *boarding houses* per Londra, il cui
|
|||
|
nucleo tematico ruota intorno al rapporto tra stanze destinate a singoli
|
|||
|
individui e servizi condivisi[^92].
|
|||
|
|
|||
|
Il medesimo tema era stato già affrontato in *Communal Villa*, proposta
|
|||
|
per uno spazio di vita e di lavoro rivolto ad artisti da collocarsi a
|
|||
|
Berlino, sviluppato in collaborazione con Realism Working Group[^93].
|
|||
|
Nel definire con precisione le circostanze del progetto (posizionamento
|
|||
|
dell'edificio lungo assi infrastrutturali, urbani o suburbani;
|
|||
|
individuazione per esso di sistemi costruttivi prefabbricati, in acciaio
|
|||
|
o in cemento armato), gli autori non intendono sancirne la "veridicità":
|
|||
|
piuttosto s'impegnano a fissarne le condizioni di fattibilità mediante
|
|||
|
l'identificazione di soluzioni che ne consentano il massimo abbattimento
|
|||
|
dei costi. Ma è ancora una volta nell'organizzazione spaziale che il
|
|||
|
progetto prova a compiere un significativo "spostamento" delle
|
|||
|
condizioni imposte dal mercato, misurandosi con la precarietà in cui di
|
|||
|
sovente si trovano, nell'epoca contemporanea, categorie "deboli" come
|
|||
|
quelle degli artisti. Attraverso una riduzione al minimo degli spazi
|
|||
|
individuali e una dotazione di ampi spazi comuni (studi, sale riunioni,
|
|||
|
cucine, spazi di gioco per i bambini e altri servizi), la *Communal
|
|||
|
Villa* cerca di superare la consueta strutturazione abitativa basata sul
|
|||
|
nucleo familiare, integrando in una comunità individui uniti tra loro da
|
|||
|
interessi, uso di strumentazioni e modi di vita comuni. Lungi dal
|
|||
|
confermare la tradizionale articolazione della casa (fatta assurgere in
|
|||
|
questa circostanza addirittura a "villa", con tutte le risonanze
|
|||
|
simboliche che questo termine porta con sé), il progetto di Dogma e
|
|||
|
Realism Working Group è pensato per una forma di vita alternativa a
|
|||
|
quella consueta, più flessibile e fors'anche più sostenibile di quanto
|
|||
|
lo sia quest'ultima.
|
|||
|
|
|||
|
Come nel caso del monastero, da cui palesemente discende, questa forma
|
|||
|
di vita si fonda sul presupposto che l'unico modo per vivere insieme sia
|
|||
|
avere nel contempo la possibilità di vivere da soli. Solitudine e
|
|||
|
comunità, da questo punto di vista, costituiscono due polarità non
|
|||
|
banalmente opposte bensì complementari tra loro, proprio come lo sono
|
|||
|
architettura e città. Ed è proprio nel riportare il dominio
|
|||
|
dell'economia (nel senso originario dell'*oikonomia*, l'amministrazione
|
|||
|
della casa) al dominio politico (inteso nel modo in cui lo intendeva
|
|||
|
Carl Schmitt, come dimensione di un antagonismo)[^94] che Dogma dimostra
|
|||
|
di saper ripensare il progetto nella sua prospettiva più propria. Il
|
|||
|
medesimo obiettivo che tenacemente e con lucidità persegue lo stesso
|
|||
|
Aureli in qualità di architetto intellettuale: far emergere --
|
|||
|
attraverso le sue riletture, cosí come attraverso la sua pratica -- la
|
|||
|
*dimensione politica dell'architettura*.
|
|||
|
|
|||
|
[^1]: Pier Vittorio Aureli, *The Difficult Whole. Typology and the
|
|||
|
Singularity of the Urban Event in Aldo Rossi's Early Theoretical
|
|||
|
Work. 1953-1964*, in "Log", n. 9 (inverno-primavera 2007), p. 42.
|
|||
|
|
|||
|
[^2]: Aureli si laurea nel 1999 allo IUAV; nel 2001 ottiene il master in
|
|||
|
Architettura al Berlage Institute; nel 2003 consegue il dottorato di
|
|||
|
ricerca in Pianificazione urbana allo IUAV e nel 2005 il PhD in
|
|||
|
Architettura al Berlage Institute di Delft (Rotterdam).
|
|||
|
|
|||
|
[^3]: Pier Vittorio Aureli, *Schemi di città. La costruzione del
|
|||
|
principio insediativo*, tesi di laurea, relatore Bernardo Secchi, IUAV,
|
|||
|
a.a. 1997-98; Id., *La città arcipelago e il suo progetto*, tesi di
|
|||
|
dottorato, relatori Elia Zenghelis e Bernardo Secchi, IUAV,
|
|||
|
a.a. 2001-2002; Id., *The Possibility of Absolute Architecture*, PhD
|
|||
|
Thesis, relatore Elia Zenghelis, Berlage Institute, Technische
|
|||
|
Universiteit, Delft-Rotterdam, a.a. 2004-2005. Vedi Gabriele Mastrigli,
|
|||
|
*Commanders of the Field: Notes on the Architecture of Dogma*, in
|
|||
|
*Dogma: 11 Projects*, Architectural Association Publications, London
|
|||
|
2013, pp. 109-13.
|
|||
|
|
|||
|
[^4]: Manfredo Tafuri, *Ricerca del Rinascimento*, Einaudi, Torino 1992,
|
|||
|
p. XXI.
|
|||
|
|
|||
|
[^5]: Manfredo Tafuri, *Non c'è critica, solo storia*, intervista con
|
|||
|
Richard Ingersoll, in "Casabella", n. 619-20, 1995, p. 96 (intervista
|
|||
|
pubblicata per la prima volta nel 1986 su "Design Book Review").
|
|||
|
|
|||
|
[^6]: Di "distacco", riferito ai contenuti del lavoro intellettuale
|
|||
|
svolto all'interno dell'organizzazione capitalistica, parla anche Tafuri
|
|||
|
nel passo riportato al termine del capitolo precedente; una condizione
|
|||
|
in apparenza "negativa", che tuttavia a suo avviso -- mediante uno
|
|||
|
strategico rovesciamento -- deve essere riconosciuta come condizione
|
|||
|
*positiva* "da cui ripartire, per elaborare un programma di attacco al
|
|||
|
piano complessivo": Tafuri, *Lavoro intellettuale e sviluppo
|
|||
|
capitalistico* cit., p. 280.
|
|||
|
|
|||
|
[^7]: Vedi al proposito, oltre ovviamente a Tafuri, *Il "progetto"
|
|||
|
storico* cit., il saggio-recensione di Cacciari (*Eupalinos o
|
|||
|
l'architettura*, in "Nuova Corrente", n. 76-77, 1978, p. 422) a
|
|||
|
Manfredo Tafuri e Francesco Dal Co, *L'architettura contemporanea*,
|
|||
|
Electa, Milano 1976.
|
|||
|
|
|||
|
[^8]: Dogma, *Dogma*, in *Portfolio*, Heverlee 2011, p. 5.
|
|||
|
|
|||
|
[^9]: Su ciò vedi la successiva ricerca di Pier Vittorio Aureli e
|
|||
|
Martino Tattara, *Brussels: A Manifesto. Towards the Capital of
|
|||
|
Europe*, a cura di Joachim Deklerck, Martino Tattara e Veronique
|
|||
|
Patteeuw, NAi Publishers, Rotterdam 2007.
|
|||
|
|
|||
|
[^10]: Dogma, *Stop City* (2007), in *Dogma: 11 Projects* cit.,
|
|||
|
pp. 10-19.
|
|||
|
|
|||
|
[^11]: Dogma, *A Simple Heart* (2011), in *Dogma: 11 Projects* cit.,
|
|||
|
pp. 20-31.
|
|||
|
|
|||
|
[^12]: Dogma, *Stop City: per una architettura non-figurativa della
|
|||
|
città (dopo la città post-fordista)*, in GIZMO, *MMX. Architettura zona
|
|||
|
critica*, Zandonai, Rovereto 2011, p. 159.
|
|||
|
|
|||
|
[^13]: Paolo Virno, *Virtuosity and Revolution: The Political Theory of
|
|||
|
Exodus*, in Virno e Hardt (a cura di), *Radical Thought in Italy* cit.,
|
|||
|
pp. 189-212; Id., *Mondanità. L'idea di "mondo" tra esperienza
|
|||
|
sensibile e sfera pubblica*, Manifestolibri, Roma 1994; Giorgio Agamben,
|
|||
|
*Signatura rerum. Sul metodo*, Bollati Boringhieri, Torino 2008.
|
|||
|
|
|||
|
[^14]: Dogma, *A Simple Heart*, in *Dogma: 11 Projects* cit., p. 22.
|
|||
|
Sul concetto di *kathecon* vedi Massimo Cacciari, *Il potere che frena*,
|
|||
|
Adelphi, Milano 2013, ma anche Giorgio Agamben, *Il mistero del male.
|
|||
|
Benedetto XVI e la fine dei tempi*, Laterza, Roma-Bari 2013.
|
|||
|
|
|||
|
[^15]: Dogma, *Stop City*, in *Dogma: 11 Projects* cit., p. 10.
|
|||
|
|
|||
|
[^16]: "Ipotesi di linguaggio architettonico non-figurativo": Archizoom
|
|||
|
Associati, *No-Stop City* (1970), in Roberto Gargiani, *Archizoom
|
|||
|
Associati, 1966-1974. Dall'onda pop alla superficie neutra*, Electa,
|
|||
|
Milano 2007, pp. 169-73.
|
|||
|
|
|||
|
[^17]: Pier Vittorio Aureli, *The Project of Autonomy. Politics and
|
|||
|
Architecture Within and Against Capitalism*, Princeton Architectural
|
|||
|
Press, New York 2008; trad. it. *Il progetto dell'autonomia. Politica e
|
|||
|
architettura dentro e contro il capitalismo*, Quodlibet, Macerata 2016.
|
|||
|
|
|||
|
[^18]: Al proposito vedi *Raniero Panzieri e i "Quaderni Rossi"*, in
|
|||
|
"aut aut", n. speciale (149-50), 1975, con contributi, tra gli altri, di
|
|||
|
Antonio Negri e Massimo Cacciari.
|
|||
|
|
|||
|
[^19]: Questa espressione ricorre di sovente nelle pagine di "Quaderni
|
|||
|
Rossi", "Classe Operaia" e "Contropiano": vedi Steve Wright, *L'assalto
|
|||
|
al cielo. Per una storia dell'operaismo*, Edizioni Alegre, Roma 2008.
|
|||
|
|
|||
|
[^20]: Raniero Panzieri, *Sull'uso capitalistico delle macchine nel
|
|||
|
neocapitalismo*, in "Quaderni Rossi", n. 1, 1961, pp. 53-72.
|
|||
|
|
|||
|
[^21]: Mario Tronti, *Marx, forza-lavoro, classe operaia* (1965), in
|
|||
|
Id., *Operai e capitale* cit., pp. 259-63.
|
|||
|
|
|||
|
[^22]: *Ibid.*, p. 260.
|
|||
|
|
|||
|
[^23]: Mario Tronti, *Sull'autonomia del politico*, Feltrinelli, Milano
|
|||
|
1977.
|
|||
|
|
|||
|
[^24]: Aureli, *Il progetto dell'autonomia* cit., p. 65.
|
|||
|
|
|||
|
[^25]: *Ibid.*, p. 25.
|
|||
|
|
|||
|
[^26]: Tra gli altri, vedi Massimo Cacciari, *Sviluppo capitalistico e
|
|||
|
ciclo delle lotte. La Montedison di Porto Marghera 1. La "fase"
|
|||
|
1950-1966*, in "Contropiano", n. 3, 1968, pp. 579-627; Id., *Sviluppo
|
|||
|
capitalistico e ciclo delle lotte. La Montedison di Porto Marghera. 2.
|
|||
|
La "fase" 1966 -- estate 1969*, ivi, n. 2, 1969, pp. 397-447; Umberto
|
|||
|
Coldagelli, *Forza-lavoro e sviluppo capitalistico*, ivi, n. 1, 1969,
|
|||
|
pp. 81-127; Enzo Schiavuta, *Ricerca scientifica e sviluppo
|
|||
|
capitalistico*, ivi, n. 2, 1970, pp. 285-309; Mario Tronti, *Classe
|
|||
|
operaia e sviluppo*, ivi, n. 3, 1970, p. 471. A questa analisi Tafuri
|
|||
|
dà il suo contributo con *Lavoro intellettuale e sviluppo capitalistico*
|
|||
|
cit. (1970).
|
|||
|
|
|||
|
[^27]: Aureli, *Il progetto dell'autonomia* cit., p. 79.
|
|||
|
|
|||
|
[^28]: *Ibid.*, p. 80.
|
|||
|
|
|||
|
[^29]: *Ibid.*, p. 87.
|
|||
|
|
|||
|
[^30]: Tafuri, *Per una critica dell'ideologia architettonica* cit.,
|
|||
|
p. 60.
|
|||
|
|
|||
|
[^31]: Aureli, *Il progetto dell'autonomia* cit., p. 95.
|
|||
|
|
|||
|
[^32]: Rossi, *L'architettura della città* cit., p. 23.
|
|||
|
|
|||
|
[^33]: Ezio Bonfanti, *Autonomia dell'architettura*, in "Controspazio",
|
|||
|
n. 1, 1969, p. 29.
|
|||
|
|
|||
|
[^34]: Aureli, *Il progetto dell'autonomia* cit., p. 102.
|
|||
|
|
|||
|
[^35]: Rossi, *L'architettura della città* cit., p. 117.
|
|||
|
|
|||
|
[^36]: Reyner Banham, *Le tentazioni dell'architettura. Megastrutture*,
|
|||
|
Roma-Bari, Laterza 1980; ILSES (Istituto lombardo per gli studi
|
|||
|
economici e sociali), *Relazioni del Seminario "La nuova dimensione
|
|||
|
della città -- La città-regione"*, Atti del convegno, Stresa, 19-21
|
|||
|
gennaio, Milano 1962; *La città territorio. Un esperimento didattico
|
|||
|
sul centro direzionale di Centocelle in Roma*, Leonardo da Vinci
|
|||
|
Editrice, Bari 1964.
|
|||
|
|
|||
|
[^37]: Aureli, *Il progetto dell'autonomia* cit., p. 110. Vedi anche
|
|||
|
Id., *Aldo Rossi: Locomotiva 2, Competition Entry for a Directional
|
|||
|
Centre, Turin, Italy*, in Brett Steele e Francisco Gonzalez de Canales
|
|||
|
(a cura di), *First Works: Emerging Architectural Experimentation of the
|
|||
|
1960s and 1970s*, Architectural Association Publications, London 2009,
|
|||
|
pp. 88-89.
|
|||
|
|
|||
|
[^38]: Al progetto di Rossi, Polesello e Meda si rifà esplicitamente il
|
|||
|
progetto di Dogma, *Locomotiva 3*, una proposta per l'area denominata
|
|||
|
Spina 4 a Torino, elaborata nel 2010; vedi *Dogma: 11 Projects* cit.,
|
|||
|
pp. 74-81.
|
|||
|
|
|||
|
[^39]: Archizoom Associati, *Città catena di montaggio del sociale.
|
|||
|
Ideologia e teoria della metropoli*, in "Casabella", n. 350-51, 1970,
|
|||
|
p. 44.
|
|||
|
|
|||
|
[^40]: Aureli, *Il progetto dell'autonomia* cit., p. 118.
|
|||
|
|
|||
|
[^41]: *Ibid.*, pp. 115-16.
|
|||
|
|
|||
|
[^42]: Archizoom Associati, *Città catena di montaggio del sociale*
|
|||
|
cit., p. 8.
|
|||
|
|
|||
|
[^43]: Aureli, *Il progetto dell'autonomia* cit., p. 131.
|
|||
|
|
|||
|
[^44]: *Ibid.*, p. 127.
|
|||
|
|
|||
|
[^45]: *Ibid.*, pp. 139-40.
|
|||
|
|
|||
|
[^46]: *Ibid.*, p. 140.
|
|||
|
|
|||
|
[^47]: *Ibid.*, p. 141.
|
|||
|
|
|||
|
[^48]: Pier Vittorio Aureli, *The Possibility of an Absolute
|
|||
|
Architecture*, The MIT Press, Cambridge (Mass.) 2011.
|
|||
|
|
|||
|
[^49]: Vedi, ad esempio, Franco La Cecla, *Contro l'architettura*,
|
|||
|
Bollati Boringhieri, Torino 2008; Id., *Contro l'urbanistica*, Einaudi,
|
|||
|
Torino 2015.
|
|||
|
|
|||
|
[^50]: Aureli, *The Possibility of an Absolute Architecture* cit., p.
|
|||
|
IX.
|
|||
|
|
|||
|
[^51]: Georg Simmel, *Metafisica della morte* (1910), in Id.,
|
|||
|
*Metafisica della morte e altri scritti*, a cura di Lucio Perucchi, SE,
|
|||
|
Milano 2012, pp. 9-10.
|
|||
|
|
|||
|
[^52]: Aureli, *The Possibility of an Absolute Architecture* cit., pp.
|
|||
|
IX-X.
|
|||
|
|
|||
|
[^53]: *Ibid.*, p. 32.
|
|||
|
|
|||
|
[^54]: Massimo Cacciari, *L'arcipelago*, Adelphi, Milano 1997.
|
|||
|
|
|||
|
[^55]: Aureli, *The Possibility of an Absolute Architecture* cit., p.
|
|||
|
XI.
|
|||
|
|
|||
|
[^56]: *Ibid.*, p. 4.
|
|||
|
|
|||
|
[^57]: Ildefons Cerdà, *Teoría general de la urbanización* (1867),
|
|||
|
citato *ibid.*, p. 9.
|
|||
|
|
|||
|
[^58]: Aureli, *The Possibility of an Absolute Architecture* cit.,
|
|||
|
p. 16.
|
|||
|
|
|||
|
[^59]: *Ibid.*, p. 32.
|
|||
|
|
|||
|
[^60]: Su ciò vedi anche Pier Vittorio Aureli, *City as Political Form:
|
|||
|
Four Archetypes of Urban Transformation*, in "Architectural Design",
|
|||
|
vol. 81, n. 1, 2011, pp. 32-37.
|
|||
|
|
|||
|
[^61]: Aureli, *The Possibility of an Absolute Architecture* cit.,
|
|||
|
p. 27.
|
|||
|
|
|||
|
[^62]: Carl Schmitt, *Teologia politica: quattro capitoli sulla dottrina
|
|||
|
della sovranità* (1922), in Id., *Le categorie del "politico". Saggi di
|
|||
|
teoria politica*, a cura di Gianfranco Miglio e Pierangelo Schiera, il
|
|||
|
Mulino, Bologna 1972, pp. 27-86; Giorgio Agamben, *Lo stato di
|
|||
|
eccezione*, Bollati Boringhieri, Torino 2003.
|
|||
|
|
|||
|
[^63]: Aureli, *The Possibility of an Absolute Architecture* cit.,
|
|||
|
p. 37.
|
|||
|
|
|||
|
[^64]: *Ibid.*, pp. 40-41.
|
|||
|
|
|||
|
[^65]: *Ibid.*, p. 41.
|
|||
|
|
|||
|
[^66]: *Ibid.*, p. 42.
|
|||
|
|
|||
|
[^67]: *Ibid.*, p. 45.
|
|||
|
|
|||
|
[^68]: Pier Vittorio Aureli, *Less Is Enough*, Strelka Press, Moscow
|
|||
|
2013.
|
|||
|
|
|||
|
[^69]: *Ibid.*, p. 7.
|
|||
|
|
|||
|
[^70]: Aureli, *Less Is Enough* cit., p. 8.
|
|||
|
|
|||
|
[^71]: *Ibid.*, p. 9.
|
|||
|
|
|||
|
[^72]: Max Weber, *L'etica protestante e lo spirito del capitalismo*
|
|||
|
(1905), Rizzoli, Milano 1991.
|
|||
|
|
|||
|
[^73]: Aureli, *Less Is Enough* cit., pp. 11-12.
|
|||
|
|
|||
|
[^74]: *Ibid.*, p. 13.
|
|||
|
|
|||
|
[^75]: *Ibid.*, p. 16.
|
|||
|
|
|||
|
[^76]: Aureli, *Less Is Enough* cit., p. 24.
|
|||
|
|
|||
|
[^77]: Aldo Rossi, *Quaderno inedito (Varie 1 -- Milano -- Arch. Veneta
|
|||
|
- Abitazione -- Pref. II ed. L'arch. della città -- Politecnico)*,
|
|||
|
1969-70, citato in Gianni Braghieri, *Presentazione*, in "Soundings",
|
|||
|
n. 1, 2017, numero monografico dedicato a Aldo Rossi, a cura di Lamberto
|
|||
|
Amistadi e Ildebrando Clemente, p. 68.
|
|||
|
|
|||
|
[^78]: Giorgio Agamben, *Altissima povertà. Regole monastiche e forme
|
|||
|
di vita*, Neri Pozza, Vicenza 2011.
|
|||
|
|
|||
|
[^79]: Benjamin, *Esperienza e povertà* cit., p. 53.
|
|||
|
|
|||
|
[^80]: Walter Benjamin, *Il carattere distruttivo* (1931), in Id.,
|
|||
|
*Esperienza e povertà* (2018), a cura di Massimo Palma, cit., p. 41.
|
|||
|
|
|||
|
[^81]: Aureli, *Less Is Enough* cit., p.
|
|||
|
40. Vedi anche Id., *A Room Without Ownership*, in *Hannes Meyer: Co-op
|
|||
|
Interieur*, Spector Book, Leipzig 2015, pp. 33-39.
|
|||
|
|
|||
|
[^82]: Aureli, *Less Is Enough* cit., pp. 40-41.
|
|||
|
|
|||
|
[^83]: *Ibid.*, p. 41.
|
|||
|
|
|||
|
[^84]: *Ibid.*, p. 58.
|
|||
|
|
|||
|
[^85]: Karl Marx, *Manoscritti economici-filosofici del 1844*, a cura di
|
|||
|
Norberto Bobbio, Einaudi, Torino 2018, p. 113.
|
|||
|
|
|||
|
[^86]: Aureli, *Less Is Enough* cit., p. 59.
|
|||
|
|
|||
|
[^87]: Su questo passaggio di scala vedi Pier Vittorio Aureli e Martino
|
|||
|
Tattara, *A Limit to the Urban: Notes on Large-Scale Design*, in *Dogma:
|
|||
|
11 Projects* cit., pp. 42-45, e Id., *Barbarism Begins at Home: Notes on
|
|||
|
Housing*, *ibid.*, pp. 86-90.
|
|||
|
|
|||
|
[^88]: Dogma, *A Simple Heart*, in *Dogma: 11 Projects* cit., p. 22.
|
|||
|
|
|||
|
[^89]: Aureli e Tattara, *Barbarism Begins at Home* cit., p. 86.
|
|||
|
|
|||
|
[^90]: Svolta a partire dal 2013, la ricerca *Living/Working* ha avuto
|
|||
|
come esito la pubblicazione di Dogma, *The Room of One's Own*, Black
|
|||
|
Square Press, Milano 2017.
|
|||
|
|
|||
|
[^91]: Pier Vittorio Aureli e Maria S. Giudici, *The Grand Domestic
|
|||
|
Revolution. Revisiting the Architecture of Housing*, Diploma 14,
|
|||
|
Architectural Association School, London, a.a. 2013-14; Pier Vittorio
|
|||
|
Aureli e altri, *How to Live Together. Homes for Houston*, Advanced
|
|||
|
Design Studio -- Yale School of Architecture, New Haven (primavera)
|
|||
|
2014.
|
|||
|
|
|||
|
[^92]: Dogma + Black Square, *Like a Rolling Stone. Revisiting the
|
|||
|
Architecture of the Boarding Houses*, Black Square Press, Milano 2016.
|
|||
|
|
|||
|
[^93]: Dogma + Realism Working Group, *Communal Villa. Production and
|
|||
|
Reproduction in Artists' Housing*, Spector Books, Leipzig 2016. Realism
|
|||
|
Working Group è un collettivo di artisti che opera nella capitale
|
|||
|
tedesca.
|
|||
|
|
|||
|
[^94]: Carl Schmitt, *Il concetto di "politico"* (1932), in Id., *Le
|
|||
|
categorie del "politico"* cit., pp. 101-65.
|
|||
|
|
|||
|
# Architettura dentro e contro
|
|||
|
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|||
|
"L'arte di costruire è la volontà dell'epoca \[*Zeitwille*\] tradotta in
|
|||
|
spazio"[^1]. La nota affermazione di Ludwig Mies van der Rohe, da lui
|
|||
|
enunciata e ribadita in più circostanze[^2], potrebbe a prima vista
|
|||
|
apparire la più compiuta espressione del totale asservimento
|
|||
|
dell'architettura alle forze operanti nel tempo in cui questa nasce e si
|
|||
|
colloca. E in effetti, proprio il "servire" costituisce per Mies van
|
|||
|
der Rohe il compito essenziale dell'architettura: "L'opera degli
|
|||
|
architetti deve servire la vita \[*dem Leben dienen*\]. Soltanto la
|
|||
|
vita deve essere la loro guida"[^3]. Parrebbe cosí giustificarsi
|
|||
|
concettualmente, per voce di uno dei più lucidi e profondi architetti
|
|||
|
del secolo scorso, l'attitudine dell'architettura a "mettersi al
|
|||
|
servizio" della società e dei "soggetti" agenti al suo interno; ciò che
|
|||
|
finirebbe con il ridurre l'architettura -- almeno in una certa misura --
|
|||
|
a un semplice "riflesso" di questi, delle loro dinamiche e "volontà",
|
|||
|
appunto.
|
|||
|
|
|||
|
Ma come va inteso esattamente il "servire la vita" di Mies van der Rohe?
|
|||
|
In un saggio di straordinaria intensità Massimo Cacciari ha interpretato
|
|||
|
in maniera forse definitiva la connessione tra *dem Leben dienen* e
|
|||
|
*Zeitwille* nel pensiero dell'architetto tedesco:
|
|||
|
|
|||
|
> ... si cadrebbe grossolanamente in errore ritenendo che tale servizio
|
|||
|
> si riferisca soltanto alla "vita" in quanto somma di esigenze,
|
|||
|
> domande, imperativi. Se cosí fosse, non saremmo agli antipodi, ma nel
|
|||
|
> bel mezzo dell'idea funzionalistica del progetto (...) Ben altro
|
|||
|
> timbro ha *das Leben* per Mies. Vita e Ergon, Vita *e* trascendenza
|
|||
|
> dell'idea dell'opera formano un insieme indissolubile. Si serve la
|
|||
|
> vita soltanto servendo l'opera -- si è al servizio del proprio tempo
|
|||
|
> (...) soltanto se si è capaci di "immaginare" l'opera[^4].
|
|||
|
|
|||
|
Il servizio alla vita, dunque, non è affatto un semplice assoggettarsi
|
|||
|
ai "doveri" quotidiani, mondani, cui l'architettura è comunque
|
|||
|
destinata, e neppure ai compiti più eccezionali, "di facciata", dei
|
|||
|
quali a volte essa è investita, tanto quanto l'essere in accordo con la
|
|||
|
volontà dell'epoca non si lascia in alcun modo ridurre a un semplice
|
|||
|
rispecchiamento di ciò che l'epoca "si aspetta" dall'opera.
|
|||
|
|
|||
|
> Vita è sempre intesa come en-érgheia, vita nel e dell'ergon: molto più
|
|||
|
> che un mero dato di fatto, la vita, di cui Mies parla, è quella vita
|
|||
|
> in cui l'ergon si manifesta, in cui può aver luogo la verità
|
|||
|
> dell'ergon. Vita compiuta, perciò,
|
|||
|
|
|||
|
ma compiuta nel suo essere in-atto, en-érgheia. E ancora:
|
|||
|
|
|||
|
> Vita, per Mies, è sempre spirituale decisione nei confronti dell'opera
|
|||
|
> -- distacco (...) da ogni vita "immediata", da ogni vita
|
|||
|
> naturalisticamente-immediatamente intesa[^5].
|
|||
|
|
|||
|
Ancorché sancire un legame deterministico, l'affermazione miesiana che
|
|||
|
mette in correlazione volontà dell'epoca e architettura sottende la
|
|||
|
precisa condizione che le lega l'una all'altra: tradurre la volontà
|
|||
|
dell'epoca in spazio, vale a dire "immaginare" l'opera, non è mai
|
|||
|
un'operazione meccanica, meramente servile; piuttosto implica una
|
|||
|
*potenza*, una *en-*érgheia, appunto, che è quella derivante dall'opera
|
|||
|
stessa, che l'epoca non può semplicemente prevedere o prescrivere.
|
|||
|
Anzi, nel caso di un'opera come quella di Mies che ritiene decisiva
|
|||
|
l'"essenza dell'arte di costruire"[^6], questa non può derivare da una
|
|||
|
semplice "invenzione" soggettiva, e a rigore neppure da una
|
|||
|
intenzionalità progettante, bensì deve "limitarsi" a
|
|||
|
presentare-manifestare la verità che la precede e la trascende.
|
|||
|
|
|||
|
Concepire il rapporto tra opera e epoca in termini non deterministici
|
|||
|
implica dunque da parte dell'architetto una comprensione effettiva della
|
|||
|
struttura dell'epoca in cui è immerso, comprensione da cui scaturisce
|
|||
|
quella "potenza immaginativa" che nulla ha a che vedere con la fantasia
|
|||
|
o con la creatività, e che piuttosto richiede un "ascolto" dell'opera.
|
|||
|
|
|||
|
Quale sia la struttura della *sua* epoca -- e in quale misura essa si
|
|||
|
differenzi sostanzialmente da quella delle epoche precedenti -- appare
|
|||
|
molto chiaro agli occhi di Mies:
|
|||
|
|
|||
|
> Da tempo la macchina è diventata padrona della produzione. Questa era
|
|||
|
> approssimativamente la situazione prebellica. Sebbene il ritmo di
|
|||
|
> questo sviluppo sia stato ridotto dallo scoppio della guerra, la sua
|
|||
|
> direzione è rimasta immutata. Anzi, la situazione si è persino
|
|||
|
> acutizzata. Se prima per mille motivi l'economia era praticata in
|
|||
|
> modo libero, attualmente altrettanti motivi costringono alle più
|
|||
|
> serrate riflessioni. Quanto già prima della guerra la vita fosse
|
|||
|
> legata all'economia, ci è apparso del tutto evidente soltanto nel
|
|||
|
> periodo post-bellico. Ora esiste "soltanto" l'economia. Essa domina
|
|||
|
> ogni cosa, la politica e la vita[^7].
|
|||
|
|
|||
|
Esattamente negli stessi termini, oggi si potrebbe affermare che "esiste
|
|||
|
"soltanto" l'economia". Ciò che non impedisce, a chi sia dotato di
|
|||
|
capacità di comprensione e di ascolto, di servire la vita liberando la
|
|||
|
potenza immaginativa dell'opera, proprio come fa Mies van der Rohe.
|
|||
|
|
|||
|
In un'epoca come quella attuale, in cui sempre di più predomina
|
|||
|
l'economia e declina la politica (non tanto in termini di governo,
|
|||
|
quanto di capacità di affermazione di idee o di presa di posizione su
|
|||
|
questioni di interesse generale), diventa indubbiamente difficile
|
|||
|
distaccarsi dalla vita in senso "immediato" e servire invece la vita in
|
|||
|
un senso superiore, come quello appena indicato. Ma ancora più
|
|||
|
difficile, in una condizione del genere, risulta resistere -- o
|
|||
|
addirittura opporsi apertamente -- alla "volontà dell'epoca". E ciò
|
|||
|
tanto più poi quando si cerchi di far coincidere le forme di
|
|||
|
"resistenza" o di "opposizione" con quelle architettoniche.
|
|||
|
|
|||
|
Per cercare almeno di nominare le condizioni che rendono possibile
|
|||
|
assumere tali posizioni può essere utile tornare a osservare in
|
|||
|
quest'ottica alcuni momenti o episodi, in certi casi anche largamente
|
|||
|
noti, di un più o meno recente passato.
|
|||
|
|
|||
|
Quando Benjamin menziona il mutismo di coloro che ritornavano dai campi
|
|||
|
di battaglia della prima guerra mondiale come sintomo dell'inaridirsi
|
|||
|
della loro capacità di comunicare le esperienze vissute, quando
|
|||
|
sottolinea la "miseria del tutto nuova" che "ha colpito gli uomini (...)
|
|||
|
con questo immenso sviluppo della tecnica"[^8], appare del tutto chiaro
|
|||
|
come per lui una simile "povertà di esperienza" vada intesa non nel
|
|||
|
senso che manchi loro qualcosa, "come se gli uomini anelassero a una
|
|||
|
nuova esperienza"[^9], bensì piuttosto nel senso che "essi desiderano
|
|||
|
essere esonerati dalle esperienze". La "povertà di esperienza" è la
|
|||
|
reazione a un eccesso: quelle persone "hanno "divorato" tutto, la
|
|||
|
*Kultur* e l'"uomo", e ne sono divenuti più che sazi e stanchi"[^10].
|
|||
|
La conseguenza di ciò è lo svilupparsi di quel "nuovo positivo concetto
|
|||
|
di barbarie"[^11] già citato in precedenza, da cui chi ne risulta
|
|||
|
soggetto "è indotto a ricominciare da capo; a iniziare dal nuovo; a
|
|||
|
farcela con il poco; a costruire a partire dal poco". Si potrebbe
|
|||
|
considerarla una rinuncia; ma si tratta anche di
|
|||
|
un'opportunità. "Ricominciare da capo", cosí come "far pulizia, (...)
|
|||
|
creare spazio"[^12], sono azioni che hanno tra loro in comune la
|
|||
|
liberazione da qualcosa, si tratti di oggetti oppure di forme e schemi
|
|||
|
mentali ormai invecchiati. Distaccarsene, abbandonarli, dimenticarli
|
|||
|
comporta sempre una nuova apertura.
|
|||
|
|
|||
|
Non sarà forse casuale che, nello stesso contesto del primo dopoguerra
|
|||
|
tedesco, all'interno dell'appena nato Staatlisches Bauhaus di Weimar, il
|
|||
|
primo insegnamento cui vengono sottoposti gli studenti (il corso
|
|||
|
preparatorio, il cosiddetto *Vorkurs*), affidato da Gropius all'artista
|
|||
|
svizzero Johannes Itten, consista in una radicale rifondazione della
|
|||
|
loro grammatica percettiva e cognitiva mediante una serie di esercizi
|
|||
|
che hanno lo scopo fondamentale di cancellare quanto da essi
|
|||
|
precedentemente imparato o conosciuto, per predisporli a nuove
|
|||
|
esperienze di apprendimento. La didattica di Itten deve molto agli
|
|||
|
insegnamenti impartitigli dal pedagogo Ernst Schneider presso la Scuola
|
|||
|
di formazione per insegnanti di Berna-Hofwil. Il metodo di Schneider
|
|||
|
prevedeva tra l'altro l'impiego delle teorie psicoanalitiche junghiane e
|
|||
|
di pratiche pedagogiche progressiste che tendevano a non correggere il
|
|||
|
lavoro creativo degli studenti per non reprimerne le inclinazioni. A
|
|||
|
questi principî Itten affianca quelli appresi dalla frequentazione della
|
|||
|
scuola del pittore tedesco Adolf Hölzel a Stoccarda, negli anni
|
|||
|
precedenti la guerra, basati su accostamenti cromatici contrastanti e
|
|||
|
sulla loro applicazione a forme elementari, ma anche su attività fisiche
|
|||
|
di rilassamento da svolgere in stretta connessione con il lavoro
|
|||
|
creativo. Prendendo spunto da tutto ciò e combinando esercizi corporei
|
|||
|
e gestuali, respirazione ritmica, reinterpretazioni delle opere degli
|
|||
|
antichi maestri, indottrinamento filosofico-religioso ispirato alla
|
|||
|
religione neo-zoroastriana Mazdaznan, dieta vegetariana, rivoluzione nel
|
|||
|
vestiario e altro ancora[^13], il corso preliminare di Itten mirava a
|
|||
|
conferire una nuova "unità" allo studente, risvegliandolo al tempo
|
|||
|
stesso dal "sonno del mondo".
|
|||
|
|
|||
|
> Fondamentale per il corso propedeutico al Bauhaus appariva l'obiettivo
|
|||
|
> di liberare le energie creative e l'autonomia degli studenti,
|
|||
|
> esaltandone capacità e soggettive predilezioni. "Si trattava -- per
|
|||
|
> Itten -- di costruire l'uomo nella sua interezza come un essere
|
|||
|
> creativo" capace di affrontare con successo la complessità di un
|
|||
|
> "progetto figurativo" che pretendeva la sinergia di forze e capacità
|
|||
|
> diverse, fisiche, morali, spirituali, intellettuali[^14].
|
|||
|
|
|||
|
D'altronde, pur con accenti e "stili" diversi da quelli di Itten ("Itten
|
|||
|
vuol fare del Bauhaus un monastero, con tanto di santi e di monaci",
|
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scrive Oskar Schlemmer in una lettera del 1921)[^15], anche Walter
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Gropius, con il corso di studi del Bauhaus, intende restituire
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integralità all'architetto, attraverso l'apprendimento di teorie,
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tecniche e materiali che soltanto in un momento finale avrebbero dovuto
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sintetizzarsi nella pratica progettuale vera e propria. Un architetto
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-- quello uscito dal Bauhaus -- il cui "obiettivo programmatico"
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potrebbe essere fatto coincidere esattamente con il benjaminiano
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"ricominciare da capo", "iniziare dal nuovo", "farcela con il poco".
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L'emancipazione dalle incrostazioni di una cultura sino a quel momento
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tramandata e passivamente accettata conduce cosí a una trasformazione
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radicale, e dischiude la possibilità di costruire *davvero* per la
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propria epoca.
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Tra i "costruttori" barbarici citati da Benjamin -- insieme a René
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Descartes, Albert Einstein, Paul Klee, Paul Scheerbart, Adolf Loos e Le
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Corbusier -- vi è anche il Bauhaus[^16]. Loro comune segno distintivo è
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"una totale mancanza d'illusioni nei confronti dell'epoca e ciò
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nonostante un pronunciarsi senza riserve per essa"[^17]. La stessa
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fusione di coinvolgimento e distacco che si lascia rilevare anche in
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Mies van der Rohe.
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Ma in quale misura -- è lecito chiedersi -- ci si potrebbe giovare oggi
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di questo insegnamento? Nell'"età dell'inconsistenza"[^18] in cui ci
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troviamo, non meno che nel primo dopoguerra tedesco, gli uomini sono
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vittime di un eccesso, di qualche cosa di "troppo"; non meno di allora,
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sentono -- *sentiamo* -- di avere "divorato" tutto, e di esserne "più
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che sazi e stanchi". E ancora una volta in maniera analoga a quella
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circostanza, ciò appare causato da un "immenso sviluppo della tecnica".
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Nella nostra epoca, la sensazione di sazietà e di stanchezza costituisce
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una reazione a un "eccesso dell'Eguale", come lo denomina Byung-Chul
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Han[^19], derivante da una "sovrapproduzione", da un "eccesso di
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prestazione o di comunicazione"[^20]. Gli eccessi dell'Eguale generano
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una condizione saturativa. Troppe immagini, troppi eventi, troppe
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possibilità. La stanchezza che ne deriva è il prodotto di un
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esaurimento, un'estenuazione psichica a fronte della quale non vi sono
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facili rimedi.
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Ma vi è anche un altro genere di stanchezza: quella che suggerisce di
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rallentare il passo, di non far seguire un'azione alle azioni già
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compiute in precedenza; una stanchezza che induce al riposo, al
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non-fare, all'ascolto, alla contemplazione. È lo stesso tipo di stato
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che provoca la "povertà di esperienza" di cui parla Benjamin:
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> ... agli occhi della gente, stancatasi delle complicazioni senza fine
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> della vita quotidiana e per la quale il fine della vita affiora solo
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> come un lontanissimo punto di fuga in un'infinita prospettiva di
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> mezzi, appare liberante un'esistenza che in ogni frangente basta a se
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> stessa nel modo più semplice e contemporaneamente più
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> confortevole[^21].
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Per ottenerlo bisogna rinunciare a qualcosa, prendere tempo, "creare
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spazio", retrocedere, rilassarsi, oziare.
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D'altra parte, nota ancora Han, "la pura frenesia non crea nulla di
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nuovo, ma riproduce e accelera ciò che è già disponibile"[^22]. È
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interessante che il filosofo sudcoreano introduca questa considerazione
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in relazione a quanto affermato da Benjamin a proposito della "noia
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profonda" come presupposto di un'attenzione profonda, contemplativa, in
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un saggio di poco successivo a quello appena citato e ad esso
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strettamente connesso[^23]. Lo stato di distensione spirituale di cui
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per Benjamin la noia costituisce il culmine ("La noia è l'uccello
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incantato che cova l'uovo dell'esperienza"), per Han è l'esatto rovescio
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della forma attuale della concentrazione: l'"iper-attenzione", vale a
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dire un'attenzione dispersa tra troppi obiettivi simultaneamente: "un
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rapido cambiamento di focus tra compiti, sorgenti d'informazioni e
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processi diversi"[^24] che si traduce nel vano iperattivismo
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contemporaneo.
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"Farcela con il poco", "costruire a partire dal poco", cessano a questo
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punto di risuonare come formule vuote e si presentano invece come
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*soluzioni concrete* per coloro i quali -- al pari dei "costruttori"
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additati da Benjamin ("uomini che del radicalmente nuovo hanno fatto la
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loro causa e lo hanno fondato su comprensione e rinuncia")[^25] -- siano
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pronti a sottrarre il proprio agire agli eccessi di lavoro e produzione,
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all'iperattivismo frenetico contrabbandato per "dovere" sociale (e
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spesso giustificato ai propri stessi occhi in nome del denaro) per
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assumere in alternativa un comportamento ispirato a una contemplazione
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attiva, a una "distensione" che sia al tempo stesso operante.
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Potrebbe sembrare un'evenienza impossibile, oppure completamente
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distante da ogni applicazione architettonica. In realtà, esiste un
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tentativo compiuto in tal senso in un passato relativamente recente:
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quello dell'Internationale Situationniste, organizzazione (e rivista)
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attiva tra la fine degli anni cinquanta e i sessanta. Per Guy Debord,
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Asger Jorn, Constant Nieuwenhuys, Gilles Ivain e per gli altri
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componenti del gruppo, "l'architettura è il mezzo più semplice per
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*articolare* il tempo e lo spazio, per *modellare* la realtà, per far
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sognare", come si legge nel primo fascicolo della rivista. Ma con una
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ben precisa avvertenza:
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> Non si tratta solamente di articolazione e di modulazione plastica,
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> espressione di una bellezza passeggera. Ma di una modulazione
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> influenzale che si inscrive nella curva eterna dei desideri umani e
|
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> dei progressi nella realizzazione di questi desideri[^26].
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Tradotto in un linguaggio meno altisonante, i situazionisti rifiutano
|
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fin da subito di intervenire in modo trasformativo nei confronti della
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realtà, negandosi lo strumento del progetto come mezzo attuativo
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|||
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concreto, ma pure come semplice ipotesi alternativa, come fuga dal reale
|
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|
(e infatti la fuoriuscita di Constant dall'Internationale
|
|||
|
Situationniste, nel 1960, sarà causata proprio dai dissapori legati a
|
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|
*New Babylon*, il suo progetto di città utopica, e in particolar modo
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alla contrapposizione tra la maniera in cui egli lo sviluppa,
|
|||
|
maggiormente legata alle componenti strutturali e alle forme
|
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|
architettoniche, e quella richiesta dagli altri situazionisti, più
|
|||
|
strettamente connessa ai contenuti)[^27]. A partire da questo
|
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presupposto le pratiche situazioniste si svilupperanno, anziché in
|
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|
direzione della costruzione architettonica nel senso tradizionale del
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termine, in quella della *costruzione di situazioni*; dove per
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|
"situazione" -- secondo la definizione che essi stessi ne danno -- va
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|
inteso un "momento della vita, concretamente e deliberatamente costruito
|
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mediante l'organizzazione collettiva di un ambiente unitario e di un
|
|||
|
gioco di avvenimenti"[^28]. La rinuncia a compiere interventi materiali
|
|||
|
e durevoli non equivale automaticamente a una riduzione al mutismo o
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|
all'inazione; piuttosto comporta uno spostamento del punto di vista
|
|||
|
sulla realtà, un "lavoro" su di essa che ne produce di fatto una
|
|||
|
*risemantizzazione*. Per i situazionisti ciò si traduce in "azioni"
|
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|
denominate *derive*: attraversamenti casuali dello spazio urbano
|
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|
finalizzati unicamente a rileggerlo in modo imprevisto, mettendone in
|
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|
luce aspetti alternativi, dimenticati o nascosti. Alla città borghese
|
|||
|
(o a parti -- o anche a semplici frammenti o dettagli -- di essa)
|
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|
vengono cosí attribuiti nuovi significati e nuovi "usi" ai margini
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|
dell'utile.
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|
Un tale genere di atteggiamento nei confronti della città e della realtà
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|
potrebbe apparire del tutto inefficace. Non producendo frutti immediati
|
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|
e tangibili risulta a prima vista completamente superfluo. Tuttavia, è
|
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|
proprio in una rimessa in discussione dei valori socialmente condivisi
|
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|
in quel determinato momento storico che affonda le proprie radici
|
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|
l'analisi -- e la critica -- situazionista. Si equivocherebbe il senso
|
|||
|
di tale operare scambiandolo (come spesso è stato fatto in periodi più
|
|||
|
recenti) per una produzione di performance artistiche. In realtà tutte
|
|||
|
le elaborazioni situazioniste -- dai rilievi psico-geografici delle
|
|||
|
città alle derive, passando per i materiali pubblicati sulla rivista --
|
|||
|
hanno un intento profondamente e inequivocabilmente *politico*, anche
|
|||
|
dietro le mentite spoglie della leggerezza e dell'ironia. Ed è proprio
|
|||
|
a partire da una riconsiderazione politica delle categorie dell'utile e
|
|||
|
dell'inutile, cosí come del lavoro produttivo e del gioco, che i
|
|||
|
situazionisti impostano le loro esperienze. Le quali sono sí
|
|||
|
caratterizzate da una programmatica impermanenza e aleatorietà; ma al
|
|||
|
tempo stesso vengono assoggettate dai componenti del gruppo a un certo
|
|||
|
"rigore" metodologico che le rende comunicabili e scambiabili, e dunque
|
|||
|
anche condivisibili. Fondamentale per i situazionisti, da questo punto
|
|||
|
di vista, è che le derive da essi compiute non rimangano delle
|
|||
|
esperienze isolate, soggettive, ma vengano invece sempre socializzate.
|
|||
|
Soltanto cosí l'opera di risignificazione di alcuni luoghi della città
|
|||
|
può giungere a compimento; e in questo modo avviare un processo di
|
|||
|
"riqualificazione" (anche solo virtuale) dei medesimi luoghi. Il fatto
|
|||
|
che questo processo si attui in una prospettiva ludica -- ovvero nella
|
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|
dimensione in cui l'*homo ludens* si sostituisce all'*homo faber*[^29]
|
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|
-- non lo rende per questo meno pensabile: semmai meno facilmente
|
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|
realizzabile, vale a dire realizzabile soltanto a costo di forzare i
|
|||
|
consueti termini della realtà, infrangendo cioè il patto che questa
|
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tacitamente istituisce con un modo "serio" di intendere la società e il
|
|||
|
mondo.
|
|||
|
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È verso la fine del Settecento, rileva Johan Huizinga, nel momento in
|
|||
|
cui si sviluppano simultaneamente classe borghese, rivoluzione
|
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|
industriale e Illuminismo, che "lavoro e produzione assurgono a ideale,
|
|||
|
anzi quasi a idolo"[^30]. Si tratta dell'infanzia dell'epoca odierna. È
|
|||
|
in quel momento infatti che, secondo lo storico olandese, sorge
|
|||
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|
> ... \[l'\]equivoco secondo il quale le forze economiche e l'interesse
|
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|
> economico determinerebbero e dominerebbero il corso del mondo. La
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|
> sopravvalutazione del fattore economico nella società e nello spirito
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> umano era in certo senso il frutto naturale del razionalismo e
|
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|
> dell'utilitarismo.
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|||
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Il ritorno -- o l'approdo -- a una società ludica, per i situazionisti,
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|
corrisponde appunto alla messa in crisi del razionalismo e
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|
dell'utilitarismo, cioè a dire del capitalismo. Il rifiuto di
|
|||
|
quest'ultimo è il rifiuto innanzitutto di una logica produttiva in senso
|
|||
|
economico, non della produzione *tout court*. È in questa logica che
|
|||
|
essi pongono il "gioco" al centro del proprio interesse. Pur se
|
|||
|
improduttivo in senso economico, il gioco in compenso produce
|
|||
|
divertimento. Ed è precisamente quest'ultimo che si prefiggono di
|
|||
|
"produrre" i situazionisti. Un divertimento che non costituisce una
|
|||
|
semplice evasione dalle consuete regole sociali, una pausa dalla
|
|||
|
"serietà" altrimenti dominante, bensì il fondamento stesso di una
|
|||
|
società basata sul gioco anziché sul lavoro, sull'avventura anziché
|
|||
|
sulla noia; una società nomade anziché stanziale, proprio come la *New
|
|||
|
Babylon* di Constant immaginava di esserlo[^31].
|
|||
|
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|||
|
Ma non è soltanto nel progetto di Constant che il gioco assume un ruolo
|
|||
|
centrale nella costruzione di situazioni urbane alternative a quelle
|
|||
|
esistenti. Il concetto di "urbanismo unitario" formulato
|
|||
|
dall'Internationale Situationniste, ovvero la "costruzione integrale di
|
|||
|
un ambiente in legame dinamico con esperienze di comportamento"[^32], è
|
|||
|
al tempo stesso una critica alla città del capitale e la prefigurazione
|
|||
|
di uno spazio sociale inteso nella prospettiva del ludico:
|
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> L'urbanismo unitario non è una dottrina urbanistica ma una critica
|
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|
> dell'urbanistica. (...) Nessuna disciplina separata può essere
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|
> accettata in sé, noi andiamo verso una creazione globale
|
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|
> dell'esistenza. L'urbanismo unitario è distinto dai problemi
|
|||
|
> dell'habitat e tuttavia è destinato ad inglobarli; a maggior ragione è
|
|||
|
> distinto dagli attuali scambi commerciali. In questo momento prende
|
|||
|
> in considerazione un campo di esperienza per lo *spazio sociale* delle
|
|||
|
> città future. Non è una reazione contro il funzionalismo, ma il suo
|
|||
|
> superamento: si tratta di realizzare, al di là dell'utilità immediata,
|
|||
|
> un ambiente funzionale appassionante. (...) Cosí come l'habitat,
|
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|
> l'urbanismo unitario è distinto dai problemi estetici. Va contro lo
|
|||
|
> spettacolo passivo, principio della nostra cultura in cui
|
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|
> l'organizzazione dello spettacolo si estende tanto più scandalosamente
|
|||
|
> quanto più aumentano i mezzi dell'intervento umano. Mentre oggi le
|
|||
|
> stesse città vengono offerte come un penoso spettacolo, un supplemento
|
|||
|
> ai musei, per i turisti trasportati su corriere di vetro, l'urbanismo
|
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|
> unitario prende in considerazione l'ambiente urbano come terreno di un
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|
> gioco di partecipazione. L'urbanismo unitario non è idealmente
|
|||
|
> separato dall'attuale terreno della città. Si è formato
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|||
|
> dall'esperienza di questo terreno e a partire dalle costruzioni
|
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|
> esistenti. Noi dobbiamo sia sfruttare gli attuali scenari con
|
|||
|
> l'affermazione di uno spazio urbano ludico quale lo fa riconoscere la
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|||
|
> deriva, sia costruirne di totalmente inediti. (...) L'urbanismo
|
|||
|
> unitario si contrappone alla fissazione delle città nel tempo. (...)
|
|||
|
> L'urbanismo unitario è contro la fissazione delle persone in dati
|
|||
|
> punti di una città. È lo zoccolo di una civiltà del tempo libero e del
|
|||
|
> gioco[^33].
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|||
|
|
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|
Le "tecniche" situazioniste, pur in apparenza estremamente elementari, e
|
|||
|
certamente assai modeste se confrontate con quelle impiegate dalle forze
|
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|
loro antagoniste, si fondano tuttavia su una lucida comprensione delle
|
|||
|
dinamiche in campo; una comprensione che consente loro di "anticipare"
|
|||
|
le mosse dell'avversario, o in certi casi addirittura di appropriarsi
|
|||
|
dei meccanismi regolativi di tali dinamiche. L'esempio più emblematico
|
|||
|
è proprio quello relativo alla spettacolarizzazione della città e della
|
|||
|
società capitaliste, presagita con largo anticipo e criticata nella sua
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|||
|
natura "passiva" dai situazionisti, prima di essere approfonditamente
|
|||
|
analizzata, anni più tardi, da Guy Debord, in *La Société du Spectacle*
|
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|
(1967). Lungi dall'essere semplicemente rifiutata, la nozione di
|
|||
|
spettacolo è invece assunta e direttamente (e coscientemente) impiegata
|
|||
|
anche in alcune delle pratiche situazioniste. Si pensi ad esempio
|
|||
|
all'uso delle immagini -- sorprendenti e a volte provocatorie -- nelle
|
|||
|
pagine della rivista, a corredo di ponderosi saggi con i quali esse non
|
|||
|
intrattengono palesemente alcun rapporto; o alle copertine della rivista
|
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|
stessa, tutte diversamente colorate e metallizzate in modo tale da
|
|||
|
renderle specchianti, una lavorazione complessa e costosa all'epoca, il
|
|||
|
cui unico scopo è evidentemente quello di rendere i fascicoli -- appunto
|
|||
|
-- più spettacolari, e dunque attraenti. D'altronde, al di là della
|
|||
|
singolarità di questi esempi, quanto si offre come lezione più generale
|
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|
e durevole dal caso dell'Internationale Situationniste è che per
|
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|
combattere efficacemente qualcosa bisogna penetrarvi in profondità e, da
|
|||
|
tale posizione interna, capirne le regole, giungendo al limite persino a
|
|||
|
impiegarle. L'essere *dentro* -- anche nella sovversiva logica
|
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|
situazionista -- non è dunque soltanto una condizione fattuale imposta
|
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da ostili circostanze "esterne", bensì l'irrinunciabile presupposto per
|
|||
|
poter essere *contro*.
|
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|
A fronte di ciò si potrebbe obiettare che le "azioni" situazioniste --
|
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ovvero le situazioni --, essendo per loro natura impersistenti e del
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|
tutto prive di sostanzialità, non lasciano alcuna traccia dietro di sé,
|
|||
|
o perlomeno non tracce abbastanza tangibili da poter essere oggettivate,
|
|||
|
e di conseguenza disgiunte, fatte altro da chi le ha vissute. La
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|
rinuncia alla produttività delle proprie azioni parrebbe dunque lo
|
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|
"scotto" che l'Internationale Situationniste è costretta a pagare per
|
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|
mantenere dal proprio punto di vista una posizione "politicamente
|
|||
|
corretta". In realtà la prospettiva dei situazionisti è radicalmente
|
|||
|
opposta: affidare per intero il proprio operare a un "lavoro
|
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|
improduttivo" significa implicitamente sottrarlo alla possibilità di
|
|||
|
trasformarsi in merce. Rifiutando di farsi "opera" (la cui produttività
|
|||
|
"aggiunge nuovi oggetti al mondo umano artificiale")[^34], la situazione
|
|||
|
-- come la forza lavoro -- "non "produce" altro che vita". Una vita che
|
|||
|
non a caso i situazionisti definiscono correttamente in termini di
|
|||
|
"esperienza".
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|
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|
L'"improduttività" situazionista non è comunque l'unico modo per
|
|||
|
liberarsi dal carico di valori sociali da lungo tempo assunti come
|
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|
"naturali". Non sono pochi i casi in cui gli architetti hanno cercato
|
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|
almeno di infrangere il "cerchio magico" che racchiude in un unico
|
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|
abbraccio progetto e realtà; rinunciando deliberatamente a quest'ultima
|
|||
|
ed esonerando in questo modo il progetto dal compito di dover fare i
|
|||
|
conti con essa. Ciò non spezza, sia chiaro, l'equazione architettura =
|
|||
|
merce, dal momento che ogni progetto incarna, almeno potenzialmente,
|
|||
|
entrambe. Di progetti non realizzati, ovviamente, ne esiste un numero
|
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|
sterminato, senza che questo comporti una altrettanto alta ricorrenza di
|
|||
|
casi in cui i progetti intendano opporsi intenzionalmente alla realtà.
|
|||
|
Anzi, si potrebbe facilmente affermare che la maggior parte dei progetti
|
|||
|
che rimangono tali anelerebbe sopra ogni altra cosa a essere realizzata.
|
|||
|
Quanto invece qui interessa sono quegli assai più rari casi -- in tutti
|
|||
|
i sensi "eccezioni" -- in cui il progetto mette in difficoltà, e
|
|||
|
addirittura impedisce, ostacola letteralmente, la possibilità della
|
|||
|
propria realizzazione, arrivando a *progettare* le condizioni della
|
|||
|
propria irrealizzabilità.
|
|||
|
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|
Sarebbe fin troppo facile citare al proposito i molti progetti utopici
|
|||
|
prodotti dalla cultura architettonica tra la seconda metà del Settecento
|
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|
e gli ultimi decenni del Novecento: ai quali progetti tuttavia difetta,
|
|||
|
nella gran parte di casi, la consapevolezza (o forse sarebbe meglio
|
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|
dire, la disillusione) di essere inevitabilmente "dentro" per poter
|
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|
essere davvero contro. La vera debolezza delle utopie, in questo senso,
|
|||
|
non è tanto quella di non poter essere realizzate, quanto piuttosto
|
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|
d'illudersi di non essere condizionate dalla realtà, di porsi come una
|
|||
|
vera alternativa rispetto a quest'ultima. Ciò che è utopico in tali
|
|||
|
progetti è proprio questa chimerica speranza. Cosí come ciò che in essi
|
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|
finisce per essere davvero ineffettuale, più che il tentativo di
|
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|
osservare il mondo con uno sguardo diverso, è la persuasione che tale
|
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sguardo non appartenga comunque a "questo mondo", che possa esistere in
|
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|
esso, nonostante esso.
|
|||
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|
Al di fuori delle utopie architettoniche e delle ideologie che
|
|||
|
inevitabilmente vi sono connesse[^35], è in una dimensione meno carica
|
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di "messianiche attese" che l'allontanamento del progetto dalla realtà
|
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|
(ovvero dal rispetto delle condizioni per una sua realizzazione almeno
|
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|
possibile) produce esiti più interessanti. Con intenti che si
|
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presentano comunque critici o polemici -- anche se espressi a volte in
|
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|
maniera silenziosa o sottile -- nei confronti del contesto economico,
|
|||
|
sociale, politico, insomma del complessivo panorama valoriale in cui si
|
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|
inseriscono (o che piuttosto rifiutano).
|
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|
Tra i tanti che si potrebbero citare, un caso estremamente affascinante
|
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da questo punto di vista è quello di John Hejduk. Dopo gli studi
|
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|
compiuti in diverse università americane, come la Cooper Union di New
|
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York e la Harvard University, viene chiamato a insegnare alla School of
|
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Architecture di Austin (Texas), dove -- insieme ad altri colleghi tra i
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quali Colin Rowe, Robert Slutzky, Werner Seligmann e Bernhard Hoesli --
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dà vita al gruppo dei Texas Rangers[^36]. Anche grazie all'influenza
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del lavoro astratto-geometrico -- grafico e pittorico -- di Josef Albers
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(allievo e poi maestro del Bauhaus -- nonché insegnante del *Vorkurs*,
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già tenuto da Itten -- prima dell'emigrazione negli Stati Uniti, quindi
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direttore del Black Mountain College in North Carolina e del
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dipartimento di Design alla Yale University) il gruppo sviluppa un
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approccio al progetto architettonico tendente a marginalizzare i
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problemi concreti come il programma, la funzione o gli aspetti
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costruttivi, focalizzandosi invece su principî visuali e su
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un'architettura intesa come disciplina autonoma. È in questo contesto
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che Hejduk esplora le possibilità insite nella *nine-square grid*, la
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griglia di nove quadrati come matrice per infinite variazioni
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compositive. Su questi esercizi si basano le sette "Texas Houses",
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elaborate tra il 1954 il 1963[^37]. Dopo diverse esperienze lavorative
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presso studi di qualificati professionisti quali I. M. Pei and
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Partners, nel 1965 Hejduk apre un proprio studio di architettura a New
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York. Nei progetti che produce a cavallo di questi anni -- serie
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Diamond (1963-67), serie 1/4, 1/2, 3/4 (1968-74), Wall Houses
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(1971-73)[^38] --, il tema insistentemente affrontato è quello della
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casa: tema che tuttavia, contrariamente a quanto non accada di norma,
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esclude dal proprio orizzonte qualsiasi ipotesi di fattibilità. Facendo
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ricorso a diverse "strategie" compositive (rotazioni, concentrazioni,
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dimezzamenti, prolungamenti), Hejduk pone sul cammino del progetto
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differenti generi d'impedimenti, tali da mantenere quanto più lontano
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possibile da esso lo "spettro" della costruibilità. Si tratta con tutta
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evidenza di un'architettura preoccupata di rispondere a requisiti
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puramente teorici. Ma una "teoria" che ha ben poco di positivo da
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dimostrare. Al di là di elementari figure geometriche e di forme
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puriste di esplicita discendenza lecorbusieriana, questi progetti di
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case o di altri tipi di spazi non contengono altro che l'esatto
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contrario di quanto comunemente si potrebbe ritenere comodo, agevole,
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funzionale. In questo senso va inteso, ad esempio, il lunghissimo
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corridoio che collega-e-divide le stanze poste alle due estremità della
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3/4 House; o che si "tende" all'infinito nella Gunn House; o ancora, che
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fa da "spina" centrale nella Extension House: vere e proprie "barriere"
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architettoniche che s'interpongono beffardamente all'usabilità della
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casa; la quale, in tal modo, più che un rifugio, appare un luogo di
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pena. Ed effetti analoghi si lasciano riscontrare nei progetti della
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serie Diamond (Diamond House A, Diamond House B, Diamond Museum C), dove
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lo spazio quadrato è recintato e scandito internamente da pareti
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ortogonali o da forme curvilinee "libere" soltanto di rendere possibile
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la circolazione dentro quella che si rivela essere a tutti gli effetti
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una prigione.
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Ha certamente ragione Manfredo Tafuri nel ritenere John Hejduk "il più
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empirico e il meno intellettualistico"[^39] dei componenti del gruppo
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dei New York Five, al quale aderisce in occasione dell'incontro
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organizzato da Kenneth Frampton nell'ambito della Conference of
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Architects for the Study of Environment, svoltosi al MoMA nel 1969[^40].
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E tuttavia, tale empirismo dei suoi progetti teorici non si lascerebbe
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definire meglio che come un tentativo di minare alle basi idee e
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consuetudini che vogliono l'architettura (e in particolar modo quella
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della casa) come qualcosa di lontano dalle insidie delle vuote
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speculazioni, tutta assorbita dallo svolgimento di compiti utili, e la
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cui perfetta integrazione alle regole del mercato è garantita dal
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sistema stesso che la detiene e controlla. In forma essenziale, quasi
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elementare, i progetti impossibili di Hejduk sembrano costituire
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un'opposizione a tale sistema; un'opposizione niente affatto aggressiva,
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bensì condotta con le "armi" di una serissima ironia e di un poetico
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candore. Né d'altronde risulta inverosimile, nell'ottica della seconda
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metà degli anni sessanta, ribellarsi alle logiche del professionismo
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spersonalizzato dei grandi studi americani, dominati -- più che dagli
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*architects* -- dai *builders*, occupati perlopiù in stanche repliche
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degli stilemi dell'*International Style*. E farlo doveva essere tanto
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più significativo dalla particolare prospettiva newyorkese.
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Allorché Hejduk nel 1965 apre uno studio di architettura e inizia a
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produrre i propri progetti lo fa non già per integrarsi a tale sistema,
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bensì piuttosto per sottrarsi a esso. E anche in seguito -- con rare
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eccezioni rappresentate dai pochi progetti realizzati, tutti accomunati
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da un gusto per la giocosità e da un'irriverente irrisione nei confronti
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del "buon senso" (dai surreali interventi effettuati all'interno della
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Cooper Union School, a New York, alla "macchina celibe" dello Studio for
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a Musician, fino agli stranianti edifici costruiti a Berlino nell'ambito
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dell'Internationale Bauausstellung 1987)[^41] -- egli persisterà nella
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sua volontaria "astensione" dalla realtà e in una ricerca del senso
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dell'architettura al di là della sua costruzione, spostando
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preferenzialmente la propria attenzione sul terreno del disegno e della
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poesia. Rompendo i limiti dell'oggettività e fissità tradizionali, gli
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edifici diventano cosí personaggi, oggetti-soggetti protagonisti di un
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"viaggio" che da Venezia li porta via via a Praga, Berlino, Riga,
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Vladivostok[^42]. Negli espressivi e infantili disegni che compongono i
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libri-avventure di Hejduk rivivono lo spirito surrealista e
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situazionista, ma soprattutto si agita uno spirito che nel rifiuto della
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dimensione costruttiva-costrittiva dell'architettura non identifica la
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sua negazione, quanto piuttosto vede la sua libertà dal reale come un
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valore.
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Sulla medesima lunghezza d'onda dell'"esposizione lucida e perversa
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dell'inutilità del gioco intrapreso"[^43] dai progetti di Hejduk si
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pongono le speculazioni sull'architettura elaborate da Peter Eisenman.
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|
Il loro carattere è molto più intellettuale; la loro volontà
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dimostrativa molto più stringente, e tuttavia non dissimili sono il
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contesto in cui questi si muove e gli obiettivi che lo animano. In
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|
particolar modo nel noto ciclo delle Houses I-X, progettate e in parte
|
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realizzate tra il 1967 e il 1976, il tema centrale è quello delle
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|
variazioni compiute su operazioni compositive ed elementi semplici e
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lineari, ma via via resi sempre più complessi nelle loro relazioni: una
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|||
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sorta di *ars combinatoria*, o di "grammatica trasformazionale" *à la*
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Chomsky, alla quale peraltro Eisenman si rifà esplicitamente. Come già
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nel caso dei progetti di Hejduk, anche qui l'architettura vive una vita
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propria staccata dalla realtà: essa *parla di se stessa*, del proprio
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sistema di segni privati di senso, autoreferenziali, tautologici. Ma
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appunto, nell'affermare il linguaggio come perfettamente fine a se
|
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stesso, si sancisce la separazione della forma architettonica dalla
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dimensione esperienziale. Scrive Eisenman a proposito della House III
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(1969-71), realizzata a Lakeville (Connecticut):
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> Quando entra nella "propria casa", il proprietario è un intruso che
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> tenta di prenderne possesso e, di conseguenza, distrugge, seppur in
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> senso positivo, l'unità e la completezza iniziale della struttura
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> architettonica[^44].
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E Tafuri:
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> La spietata operazione di Eisenman consiste nel riconoscere che non si
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> dà lingua architettonica se non al di fuori della prassi, che il
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> laboratorio sintattico evocato da oggetti perfettamente circoscritti
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> nel colloquio dei segni fra loro *non ammette intrusi*[^45].
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|
"Al di fuori della prassi": ancora una volta si ripresenta la non
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|
accettazione dell'architettura come semplice "cosa pratica", come mera
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*machine à fonctionner*. Ma ciò a cui s'oppone Eisenman, a ben
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|
guardare, è qualcosa di più che il funzionamento o l'uso
|
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|
dell'architettura: piuttosto è il destino di superfluità, di
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|
"inoperatività" che ai suoi occhi l'architettura finisce per assumere
|
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|
nell'epoca del capitalismo maturo. Ridotta a oggetto solo-funzionale,
|
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essa rischia di diventare paradossalmente un oggetto inutile. Di tale
|
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|
inutilità -- o per meglio dire, di tale *intransitività* -- le stesse
|
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|
case di Eisenman, da lui stesso battezzate *Cardboard Architecture*
|
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|
(architettura di cartone)[^46], sono la pur esile prova. Nella House
|
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VI, ad esempio, realizzata con il nome di House Frank a Cornwall
|
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(Connecticut, 1972-75), l'incrocio di piani verticali perpendicolari tra
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loro produce una costruzione gremita di contraddizioni spaziali:
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|
passaggi interdetti, collegamenti imprevisti, scale che finiscono nel
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nulla. Le aporie dello spazio, concepite come parti inerenti al
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|
sistema, ridanno alla casa un imprevisto interesse "autonomo": la casa
|
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diviene interessante *in sé*, non in quanto capace di essere comoda o
|
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funzionale, o per il suo valore di mercato.
|
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|
Applicata al corpo concreto dell'architettura, tuttavia, la teoria
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|
eisenmaniana dello "svuotamento di senso dei segni" si espone a
|
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|
possibili "cadute"; o quantomeno, in certi casi risulta essere un piano
|
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pericolosamente inclinato, come lo sono le pareti della House X (1975),
|
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|
l'ultima della serie: una casa concepita come un'assonometria
|
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|
tridimensionale, in cui la realtà è virtualmente "piegata" alla sua
|
|||
|
rappresentazione e nella quale di conseguenza vivere sarebbe
|
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|
letteralmente impossibile (e infatti non verrà realizzata). O come lo
|
|||
|
sono -- ancora di più -- alcune sue opere degli anni ottanta e novanta
|
|||
|
(Uffici della Koizumi Sangyo Corporation, Tokyo, 1988-90; Aronoff Center
|
|||
|
for Design and Art, Cincinnati, 1988-96; Sede centrale della Nunotani
|
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|
Corporation, Tokyo, 1990-92, tutte realizzate), in cui singoli
|
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|
elementi e interi volumi si presentano storti al punto da mettere
|
|||
|
quasi a repentaglio il loro stesso utilizzo. È proprio qui che
|
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|
l'incursione della teoria all'interno dei territori della realtà
|
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|
mostra la sua debolezza. Fuori dalla zona di costitutiva ambiguità
|
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|
tra astrazione e realtà in cui vivevano i suoi primi progetti di case
|
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|
concettuali, le quali -- nonostante gli sporadici affondi nella
|
|||
|
materia -- rimangono comunque "fantasmi virtuali", corpi disincarnati
|
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|
fino ai limiti del possibile, le architetture successive di Eisenman
|
|||
|
riescono al più a mettere in scena una parodia del conflitto; la loro
|
|||
|
"decostruzione" del mondo è soltanto una maschera destinata a fornire
|
|||
|
a quel mondo l'ennesima copertura (*intellettuale*) con cui
|
|||
|
perpetuarsi, non certo la spia dell'aprirsi al suo interno di "crepe".
|
|||
|
Dietro la rottura dell'ordine non vi è la minaccia di alcun dissidio
|
|||
|
con il mondo bensì -- neanche troppo paradossalmente -- l'annuncio
|
|||
|
della nascita di una "nuova alleanza" con esso, come dimostra tra
|
|||
|
l'altro il consenso ricevuto dagli edifici sopra citati e da altri
|
|||
|
loro consimili da parte di diverse *corporations*. E lo stesso si può
|
|||
|
dire dell'"architettura non classica", "rappresentazione di se stessa,
|
|||
|
dei propri valori e della sua esperienza interna"[^47], che Eisenman
|
|||
|
teorizza e contestualmente realizza in quegli stessi anni;
|
|||
|
un'architettura auto-generata a partire da presupposti totalmente
|
|||
|
arbitrari, e che tuttavia -- unici -- garantirebbero a suo avviso una
|
|||
|
completa autonomia dalle tre *fictions* (rappresentazione, ragione,
|
|||
|
storia) sotto il cui giogo essa sarebbe rimasta dal Rinascimento fin
|
|||
|
quasi alla fine del XX secolo. Ma dare vita a "un'*architettura come
|
|||
|
discorso indipendente*, libero da valori esterni"[^48], esattamente
|
|||
|
come elevare l'arbitrarietà a nuovo fondamento, si dimostreranno
|
|||
|
possibilità tanto seducenti quanto in fin dei conti illusorie.
|
|||
|
|
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|
Al di là comunque di tutte le possibili fughe nel "mondo dei sogni"
|
|||
|
della teoria e del progetto (e persino di quegli oggetti che -- pur
|
|||
|
materiali e tridimensionali -- si lasciano agevolmente inquadrare in una
|
|||
|
cornice di irrealtà, com'è il caso di quelli di Eisenman), a
|
|||
|
un'architettura che pretenda di posizionarsi in maniera effettivamente
|
|||
|
diversa rispetto alle logiche e all'universo valoriale dominanti si
|
|||
|
richiederà di confrontarsi con questi in modo più stringente, più
|
|||
|
sostanziale. Per spingersi oltre le facili apparenze di libertà o di
|
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|
insubordinazione, insomma, o meglio ancora, per evitare di accontentarsi
|
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|
di una semplice "*dis*simulazione" della libertà dai valori, è
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|||
|
necessario trovare qualcosa -- e qualcuno -- che sia in grado di
|
|||
|
confrontarsi sul serio con la realtà. Con la ben precisa coscienza che,
|
|||
|
nel compiere questo passaggio, architettura e architetto si trovano a
|
|||
|
dover affrontare "appesantimenti" di vario genere assai più gravosi,
|
|||
|
quali ad esempio il rispetto delle leggi fisiche, dei regolamenti
|
|||
|
edilizi e di tutti gli altri vincoli -- espliciti o sottintesi -- che
|
|||
|
appartengono al mondo reale.
|
|||
|
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Non sono numerosi -- stanti queste premesse -- i casi in cui un edificio
|
|||
|
e il suo architetto possano dirsi davvero capaci di rompere norme e
|
|||
|
convenzioni, *non* sul versante formale quanto piuttosto su quello delle
|
|||
|
regole comunemente diffuse e accettate, mostrando cosí di saperle
|
|||
|
modificare dall'interno. Tra queste rare eccezioni, vi è senza alcun
|
|||
|
dubbio John N. Habraken, architetto olandese che ha dedicato la sua
|
|||
|
intera carriera a una riconsiderazione integrale del ruolo rivestito da
|
|||
|
sé o da altri all'interno del processo di produzione edilizia, e
|
|||
|
conseguentemente a una modificazione dello stesso processo. Nel 1961
|
|||
|
pubblica un libro, *De dragers en de mensen, het einde van de
|
|||
|
massawoningbouw* (tradotto in inglese nel 1972 con il titolo *Supports:
|
|||
|
An Alternative to Mass Housing*)[^49], che susciterà l'interesse
|
|||
|
dell'ambiente accademico e professionale olandese. In stretta
|
|||
|
connessione con ciò, nel 1964 viene fondato lo Stichting Architecten
|
|||
|
Research (SAR), un'organizzazione per la ricerca nel settore della
|
|||
|
residenza, finanziata da un gruppo di architetti olandesi e diretta
|
|||
|
dallo stesso Habraken. Pur senza impegnarsi nella diretta redazione di
|
|||
|
progetti, il SAR ha fornito la propria consulenza ad altri architetti,
|
|||
|
amministrazioni pubbliche ed enti olandesi per coadiuvarne la
|
|||
|
sperimentazione progettuale nel campo dell'edilizia residenziale.
|
|||
|
L'idea elaborata da Habraken si basa sulla distinzione, all'interno dei
|
|||
|
nuclei abitativi, tra elementi stabili, sia per la loro funzione che per
|
|||
|
il loro contenuto tecnico, denominati "supporti" (*supports*), ed
|
|||
|
elementi variabili, il cui utilizzo è più soggettivo e mutevole nel
|
|||
|
tempo, denominati "unità staccabili" (*infills*). Rispetto alle
|
|||
|
"tradizioni" precedenti (compresa quella moderna) si istituisce cosí una
|
|||
|
prima differenza: se infatti i supporti devono essere messi in opera in
|
|||
|
cantiere, le unità staccabili sono prodotte dall'industria. Ma la
|
|||
|
distinzione riguarda anche i soggetti coinvolti nel processo di
|
|||
|
definizione di ciascun nucleo residenziale: se per i *supports* è ancora
|
|||
|
indispensabile la presenza delle figure che di norma presiedono al
|
|||
|
processo costruttivo (architetto, ingegnere), i "detentori del potere"
|
|||
|
sulle *infills* sono invece gli utenti. Ed è a partire da qui che
|
|||
|
Habraken svilupperà, negli anni seguenti, un discorso relativo alla
|
|||
|
relazione esistente tra chi esercita il potere all'interno del processo
|
|||
|
progettuale e la forma che questo assume. Cosí, come in tutti gli altri
|
|||
|
casi,
|
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|
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|
> ... anche nell'edilizia di massa la morfologia esprime i valori di chi
|
|||
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> assume le decisioni: in questo caso l'élite intellettuale,
|
|||
|
> professionale, che stabilisce i giudizi di valore e ne risponde
|
|||
|
> soltanto nei confronti del suo stesso gruppo sociale. Il dibattito
|
|||
|
> sulla qualità -- su ciò che è valido o meno, su ciò che si deve o non
|
|||
|
> si deve fare -- si svolge soltanto tra i professionisti. Le regole
|
|||
|
> vengono fissate dagli stessi che le mettono in pratica. L'architetto
|
|||
|
> che sostiene una nuova forma non si preoccupa di mettersi in contatto
|
|||
|
> con i futuri utenti ma solo con le autorità. Le autorità ascoltano
|
|||
|
> solo i professionisti e gli esperti. I risultati vengono poi
|
|||
|
> confrontati sul piano internazionale attraverso riviste, congressi,
|
|||
|
> mostre, visite: il dialogo tra professionisti continua[^50],
|
|||
|
|
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|
tralasciando del tutto coloro che -- in quanto direttamente implicati --
|
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|
avrebbero al contrario il diritto di prendervi parte.
|
|||
|
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|
Pur essendo uno dei massimi sostenitori di un reale coinvolgimento,
|
|||
|
ovvero di una "partecipazione", di tali soggetti, Habraken è anche molto
|
|||
|
chiaro e realistico in merito: "Una partecipazione reale (...) può
|
|||
|
essere basata soltanto su un rapporto di potere. (...) Chiedere
|
|||
|
partecipazione significa che non si ha potere nell'ambito della
|
|||
|
controparte". Il processo di partecipazione, pertanto,
|
|||
|
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> ... può funzionare soltanto se il rapporto si sviluppa tra due poteri
|
|||
|
> che in qualche modo si equilibrano -- tra due poteri che operano in
|
|||
|
> una diversa direzione e devono trovare un equilibrio. È necessario che
|
|||
|
> nel processo entrambi i poteri siano identificabili e riconosciuti.
|
|||
|
> (...) Finché questo equilibrio non esiste, i cosiddetti processi
|
|||
|
> partecipatori sono soltanto un'espressione del problema, non la sua
|
|||
|
> soluzione[^51].
|
|||
|
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|
È muovendo da questi presupposti che si può assumere nel suo significato
|
|||
|
effettivo il "caso" del Villaggio Matteotti di Terni (1969-75), il cui
|
|||
|
"artefice" è Giancarlo De Carlo: un intervento giustamente celebre, non
|
|||
|
solo per i suoi esiti, che ne fanno un "frammento" di architettura di
|
|||
|
grande qualità del secondo dopoguerra, nonché un complesso fortemente
|
|||
|
identitario e unitario (nonostante la mancata realizzazione della parte
|
|||
|
destinata ai servizi pubblici), ma soprattutto per la ragione che -- tra
|
|||
|
i primi e i pochi casi in Italia -- il Villaggio ha visto appunto la
|
|||
|
partecipazione degli utenti al processo di progettazione.
|
|||
|
|
|||
|
In realtà, quella della partecipazione, pur rivestendo un ruolo
|
|||
|
importante, è soltanto una delle condizioni poste da De Carlo al
|
|||
|
committente -- le Acciaierie di Terni -- per accettare l'incarico che
|
|||
|
gli era stato offerto. E qui è interessante notare come la posizione di
|
|||
|
De Carlo nei confronti della sua "controparte" sia abissalmente distante
|
|||
|
da quella assunta dalla maggior parte dei colleghi suoi contemporanei, e
|
|||
|
ancora di più dalla pressoché totalità degli architetti del giorno
|
|||
|
d'oggi. Per comprendere quale sia con esattezza la posizione di De
|
|||
|
Carlo basta leggere il testo scritto da lui stesso che ripercorre con
|
|||
|
precisione la vicenda di Terni[^52]. Durante il fascismo, all'estrema
|
|||
|
periferia sud-orientale di Terni, era stato realizzato un quartiere
|
|||
|
operaio per i dipendenti delle Acciaierie. La situazione di degrado del
|
|||
|
quartiere, l'assenza di servizi e la programmatica carenza di
|
|||
|
collegamenti con la città suggeriscono alla direzione delle Acciaierie
|
|||
|
di intervenire in qualche modo:
|
|||
|
|
|||
|
> La direzione propendeva per vendere le case ai loro abitanti e
|
|||
|
> togliersi una volta per tutte il peso di dovere intervenire con forti
|
|||
|
> spese di manutenzione o, peggio, di risanamento. I consigli di
|
|||
|
> fabbrica invece sostenevano l'ipotesi di radere al suolo tutto e
|
|||
|
> ricostruire sulla stessa area il volume di residenza che era
|
|||
|
> consentito dal piano regolatore. Dopo lunghe discussioni, visto che
|
|||
|
> non si trovava uno sbocco tra le due inconciliabili alternative, la
|
|||
|
> direzione decideva di girare il problema a un architetto, e cioè a
|
|||
|
> qualcuno che fosse in grado di risolverlo in termini puramente
|
|||
|
> tecnici, e perciò inequivocabili[^53].
|
|||
|
|
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In quest'ultimo passaggio va sottolineata l'ingenua -- o piuttosto la
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ben calcolata -- identificazione della figura dell'architetto con quella
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del "tecnico": dove con questo termine la direzione delle Acciaierie
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intendeva evidentemente alludere a qualcuno in grado di svolgere una
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funzione -- e di fornire una prestazione -- oggettiva, misurabile,
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"scientifica"; perfetta incarnazione, secondo le attese della
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committenza, del "rifornitore" del sistema. E invece, l'architetto
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prescelto disattenderà tale aspettativa:
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> Ma l'architetto -- che poi ero io -- si rendeva subito conto che se
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> avesse tagliato il nodo, invece di tentare di scioglierlo, si sarebbe
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> trovato a svolgere un ruolo equivoco al servizio di un potere che non
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> gli piaceva.
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De Carlo mette a punto cinque diverse ipotesi di intervento: dal
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risanamento integrale del vecchio villaggio, senza variare la sua
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configurazione originale ma dotandolo dei servizi collettivi necessari e
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ristrutturando integralmente gli edifici residenziali, alla sostituzione
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del tessuto edilizio originale con un sistema di edifici a torri uguali
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a quello già utilizzato in un altro intervento dalle Acciaierie di
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Terni; dall'utilizzo di un sistema di edifici in linea analogo a quelli
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utilizzati dagli istituti di case popolari in giro per l'Italia in
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quegli anni, all'adozione di due possibili sistemi di edifici costituiti
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da tre piastre sovrapposte all'interno delle quali sono previste
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sequenze di edifici lineari includenti la residenza, i servizi di
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diretta pertinenza dell'abitazione e i canali del movimento pedonale.
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"Ciascuna delle cinque alternative era corredata dalla descrizione dei
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vantaggi e degli svantaggi che comportava, in relazione ai diversi punti
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di vista che era possibile considerare". Ma soprattutto:
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> Le cinque alternative venivano consegnate e accompagnate da una nota
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> nella quale si diceva che l'architetto sarebbe stato interessato a
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> elaborare il progetto, e quindi ad assumere l'incarico, soltanto se la
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> scelta fosse caduta sulla quarta o la quinta soluzione: le prime tre
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> le Acciaierie avrebbero potuto attuarle in proprio o rivolgendosi ad
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> altri che si sentissero di condividerle[^54].
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Lungi dal mettersi completamente "al servizio" del suo committente, del
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tutto prono di fronte alle richieste di questi, come suo puro
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"rifornitore", De Carlo pone le condizioni in base alle quali è
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disponibile a farsi carico del progetto. E non si tratta affatto di
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richieste di ordine economico. Piuttosto, quelle alle quali egli mira
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sono le condizioni che ritiene migliori *per il progetto*, e di
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conseguenza migliori per chi dovrà usufruirne. Il concetto -- e la
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pratica -- della "partecipazione" discendono precisamente da questi
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presupposti. Nell'ottica di quest'ultima, "il compito del progettista
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non è più di sfornare soluzioni finite e inalterabili, ma di estrarre le
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soluzioni da un confronto continuo con chi utilizzerà la sua
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opera"[^55]. Un *processo*, non più semplicemente un progetto[^56].
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Ma la questione della partecipazione apre anche ulteriori prospettive
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che De Carlo sviluppa solo parzialmente. Ad esempio quella relativa
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alla "gestione del potere" intimamente connesso all'architettura.
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Scrive De Carlo:
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> Si ha la partecipazione quando tutti intervengono in egual misura
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> nella gestione del potere, oppure -- forse cosí è più chiaro -- quando
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> non esiste più il potere perché tutti sono direttamente ed egualmente
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> coinvolti nel processo delle decisioni[^57].
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L'idea di De Carlo, sulla scia delle tendenze del comunismo anarchico
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verso cui era orientato[^58], è quella di una sorta di "dissoluzione del
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potere" attraverso la sua condivisione. In realtà, ciò che qui egli
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sembra soprattutto voler mettere in discussione fino alle sue radici è
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il ruolo dell'architetto: "La prospettiva che mi sembra molto
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interessante è quella di sottrarre l'architettura agli architetti per
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restituirla alla gente che la usa"[^59]. È l'architetto che può e che
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*deve* compiere -- ai suoi occhi -- un atto di rinuncia nei confronti
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della propria stessa natura di *autore* (della propria *auctoritas*,
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dunque), per far divenire il progetto davvero utilizzabile dai suoi
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fruitori.
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Ma se l'architetto può arrivare a compiere questa rinuncia, rendendo
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l'architettura, attraverso la partecipazione, "sempre meno la
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rappresentazione di chi la progetta e sempre più la rappresentazione di
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chi la usa"[^60], ciò può avvenire soltanto a patto che l'architetto
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stesso abbia compiuto un'altra "liberazione", esattamente simmetrica
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alla prima, nei confronti della committenza. È infatti evidente come a
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quest'ultima non possa essere forzatamente richiesto di essere sensibile
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alle esigenze dell'utenza, né imposto un ascolto attento di essa.
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Quando ciò si verifica, va ritenuta più una fortunata eccezione che non
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un'indefettibile regola. Se l'esperienza descritta da De Carlo
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testimonia di una sia pur cauta apertura da parte del committente alle
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richieste dell'architetto, attesta altresí in maniera inequivocabile
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l'*autonomia* dell'architetto nei confronti della sua "controparte".
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Nel saper rifiutare (o quantomeno riformulare) il proprio ruolo di
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"tecnico", De Carlo reimposta il rapporto con la committenza in termini
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*politici*. E come in tutte le questioni di carattere politico,
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l'efficacia o meno di una data azione si misura sulla base della
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capacità di persuadere (o di lasciarsi persuadere) dei suoi "attori",
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ovvero sulla base dei rapporti di forza esistenti tra loro. Non deve
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stupire, in tal senso, che De Carlo non sia riuscito a vincere per
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intero la propria battaglia, e anzi sia stato costretto a incassare
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diverse sconfitte. Soltanto la sua presa di distanza dalle pretese
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della committenza, comunque, ovverosia la sua manifesta indipendenza da
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esse, ha reso possibile il Villaggio Matteotti nelle forme e nei modi
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attuali: un intreccio strettissimo di spazi residenziali, spazi comuni e
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spazi aperti; quasi un labirinto tridimensionale, o una *casbah*
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moderna, in cui cemento armato e natura, anziché essere posti in
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alternativa o in antitesi, convivono in una relazione dialettica, in
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condizione di confrontarsi e di fondersi. Ma soprattutto, un
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insediamento *umano* prima ancora che urbano, una *comunità organica*
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dove gli abitanti ritrovano una centralità che altrove, nell'epoca
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contemporanea, appare ormai inesorabilmente perduta.
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Pur non essendo frequenti, le "lotte" dell'architetto per ottenere
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condizioni migliori non sono tanto rare da potersi dire inesistenti.
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Anche se spesso non giungono alla notorietà del caso appena citato,
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consumandosi senza troppi clamori, nell'"anonimato" del rapporto tra
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committente e architetto, queste "lotte" hanno come obiettivo di
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ridefinire, almeno provvisoriamente e localmente, le modalità con cui
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viene prodotta l'architettura, dal progetto preliminare all'edificio
|
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finito. Si potrebbe ritenere che oggetto di simili "rivendicazioni" sia
|
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immancabilmente la richiesta di miglioramenti del trattamento economico
|
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da parte dell'architetto. In realtà, pur non escludendo certo questa
|
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possibilità, in moltissimi casi l'architetto si batte pure per un
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|
innalzamento della qualità del progetto, oppure -- ciò che non è poi
|
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tanto diverso -- per un allungamento dei tempi della sua esecuzione, con
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|
un conseguente beneficio nelle condizioni di lavoro e un aumento
|
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dell'accuratezza nella sua attuazione.
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|
Qualunque sia l'oggetto e il tenore di tali trattative (o -- in certi
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casi -- bracci di ferro), l'elemento costante è che da esse rimangono
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esclusi gli utenti dell'edificio in questione, futuri proprietari o
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locatari che siano. Anche quando -- assai raramente -- è prevista una
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loro compartecipazione alla definizione del progetto (come nel caso
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appena citato, ad esempio), i destinatari dell'architettura hanno scarsa
|
|||
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o nessuna voce in capitolo, soprattutto in merito agli aspetti economici
|
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|
relativi al "bene" a cui intendono accedere. È proprio quello
|
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dell'accessibilità al "bene"-architettura (nella gran parte dei casi, la
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|
residenza) il problema con cui in ogni parte del mondo è costretta a
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confrontarsi un'enorme quantità di persone. Non c'è bisogno di
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|
rileggere i "classici" testi di Friedrich Engels[^61] per sapere quali
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|
siano i problemi che le classi economicamente più disagiate -- ancora
|
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oggi -- devono fronteggiare per potersi "permettere" la "propria"
|
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|
abitazione: un'abitazione il cui costo -- si tratti di affitto o di
|
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proprietà -- è spesso fonte di indebitamento. Senza dimenticare che il
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|
crollo finanziario del 2008, cui è seguito un lungo periodo di crisi
|
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|
economica, è stato causato dall'esplosione della "bolla" dei mutui
|
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|
*subprime*, concessi a persone dall'insufficiente capacità di assolvere
|
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|
a essi.
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|
È per questa ragione che un ulteriore modo di essere fattivamente
|
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|
"dentro e contro" le regole imposte dal mercato -- ma anche "dentro e
|
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contro" le condizioni che, in molti paesi del mondo, portano alla "falsa
|
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|
alternativa" della realizzazione di insediamenti spontanei, "informali"
|
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|
-- è rappresentato dalla strategia attivata da Alejandro Aravena
|
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|
attraverso il programma Elemental. Avviato nel 2001 in Cile, suo paese
|
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natale, insieme all'ingegner Andrés Iacobelli e all'architetto Pablo
|
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|
Allard, anch'essi cileni, incontrati alla Harvard University, tale
|
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programma utilizza il sussidio statale a fondo perduto di 7500 dollari
|
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americani, concesso alle fasce più povere della popolazione dal
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programma Vivienda Social Dinámica sin Deuda (Edilizia sociale dinamica
|
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senza debito) del ministero per la Casa e l'Urbanistica cileno, per
|
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|
realizzare una casa migliore -- in termini dimensionali e qualitativi --
|
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|
di quanto non sia quella normalmente assegnata dallo Stato con i
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|
medesimi fondi. La somma stanziata doveva essere in grado di coprire i
|
|||
|
costi del terreno, nonché quelli della progettazione e della costruzione
|
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di ogni singola unità abitativa.
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|
L'approfondita ricerca compiuta da Aravena e da un team di altri
|
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|
architetti ed esperti in diverse materie porta all'individuazione dei
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requisiti indispensabili per rendere l'abitazione sociale un
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|
investimento e non una semplice spesa per la collettività:
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> Tutti noi, quando compriamo una casa, ci aspettiamo che incrementi il
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|
> suo valore. Questa è la ragione per cui una casa, quasi per
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> definizione, è un investimento. Sfortunatamente, non è quel che
|
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|
> succede con l'edilizia sociale. L'edilizia sociale è più simile
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|
> all'acquisto di un'automobile che a quello di una casa: ogni giorno
|
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|
> che passa, il suo valore diminuisce[^62].
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Perché ciò possa avvenire, la stessa abitazione deve diventare uno
|
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|
strumento per il superamento della povertà, e non un semplice riparo
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|
dall'ambiente circostante. Per Elemental i requisiti fondamentali sono
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il posizionamento non troppo lontano dal centro delle aree sulle quali
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far sorgere i nuovi insediamenti, per evitare che si creino disagi nel
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|
raggiungimento del posto di lavoro e della scuola da parte degli
|
|||
|
abitanti; la possibilità che le unità abitative si espandano rispetto ai
|
|||
|
36 m^2^ iniziali, fino a un massimo di 72 m^2^ totali; la possibilità
|
|||
|
che questa seconda metà della casa venga realizzata dagli stessi
|
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abitanti con tecniche di autocostruzione a costi molto bassi; la
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|||
|
partecipazione dei medesimi utenti alle scelte progettuali, e in
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generale il loro consenso alle operazioni compiute. Al proposito
|
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scrivono gli autori del programma:
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> Come nel judo, intendevamo prendere la forza del nostro avversario --
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> in questo caso la scarsità di mezzi -- e usarla a nostro vantaggio,
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> ridirigendola verso gli obiettivi del nostro progetto. Nello
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> specifico ci siamo concentrati sulle costituzionali capacità
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> organizzative delle famiglie[^63].
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Il primo, storico intervento realizzato da Elemental, terminato nel
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2004, si colloca a Iquique, città situata nel nord del Cile, in una zona
|
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desertica del paese. Assegnato dal programma ministeriale Chile Barrio,
|
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il sito, denominato "Quinta Monroy", è collocato in una parte centrale
|
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della città, e nei trent'anni precedenti l'intervento era stato occupato
|
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da un centinaio di famiglie che vi avevano costruito delle residenze
|
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informali. Il problema tuttavia non si presenta di facile risoluzione:
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> Se per rispondere alla richiesta avessimo assunto 1 casa = 1 famiglia
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> = 1 lotto, saremmo stati in grado di ospitare solo 30 famiglie sul
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> sito. (...) Se per cercare di usare il terreno in modo più efficiente,
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> avessimo impiegato delle case a schiera, anche riducendo la larghezza
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> del lotto fino a farlo coincidere con la larghezza della casa, e
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|||
|
> ancora di più, con la larghezza di una stanza, saremmo stati in grado
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> di ospitare solo 60 famiglie[^64].
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La soluzione trovata -- basata sull'idea di corpi edilizi disposti su
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tre livelli alternati a spazi vuoti utilizzabili per le possibili
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espansioni, consente di alloggiare tutte le 93 famiglie e al tempo
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stesso di effettuare gli ampliamenti delle unità abitative.
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Da un punto di vista architettonico, le case Elemental (replicate in
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seguito in diverse altre località in America Latina, anche al di fuori
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del Cile, per un totale di qualche migliaio di unità abitative
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realizzate), in perfetto accordo con il loro nome, presentano
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caratteristiche elementari, essenziali: parallelepipedi in pannelli di
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cemento prefabbricati all'interno dei quali i progettisti si limitano a
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disporre le componenti più complesse, che una famiglia raramente è in
|
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grado di costruire da sola: solai, muri divisori, scale, impianti, bagni
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e cucine. Il resto viene lasciato all'iniziativa degli abitanti,
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monitorata però per evitare possibili abusi o situazioni di insicurezza.
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Dal 2006, inoltre, con la creazione di un "Do Tank", la Elemental SA, la
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prosecuzione del programma è stata resa possibile grazie al supporto
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della Pontificia Universidad Catolica de Chile di Santiago (presso la
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|
quale lo stesso Aravena insegna), e della Empresas Copec, una società
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petrolifera cilena che estende i propri interessi anche ai settori
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dell'energia, della pesca, della silvicoltura e del *real estate*.
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Senza bisogno di dettagliare ulteriormente un caso di per sé già molto
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|
noto, vale la pena soffermarsi piuttosto su che cosa rende esemplare
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|
Elemental dal punto di vista della capacità di confrontarsi con un
|
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|
problema reale senza rimanere impigliati nei suoi meccanismi.
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|
Innanzitutto il programma Elemental non è concepito con l'obiettivo di
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conseguire riconoscimenti per coloro che se ne sono occupati, o
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|
risultati in qualche modo comparabili con quelli che fanno bella mostra
|
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di sé nelle monografie o nei siti dedicati ad altri architetti.
|
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|
L'obiettivo di Elemental è rendere economicamente sostenibile
|
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|
l'acquisizione di una casa per una tipologia di abitanti che nelle
|
|||
|
condizioni normali sono invece obbligati a sottostare, alternativamente,
|
|||
|
al "capestro" della contrazione di un mutuo per diventare proprietari di
|
|||
|
casa, o anche semplici affittuari (entrambe condizioni spesso
|
|||
|
inarrivabili per costoro), oppure al "capestro" di accettare la "logica"
|
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|
degli insediamenti "informali" (leggi *villas miseria*, *poblaciónes
|
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|
callampas* o *favelas*, a seconda delle lingue e dei luoghi), con tutti
|
|||
|
i problemi che questo comporta. Non meno rilevante è il benessere
|
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|
sociale degli abitanti, che implica l'inserimento delle case in contesti
|
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|
accettabili in termini di collocazione urbana e di sicurezza, e la
|
|||
|
creazione di spazi collettivi. Ma altrettanto prioritaria, per
|
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|
Elemental, è la qualità del progetto, strenuamente difesa non come un
|
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|
valore in sé (e per sé), bensì come condizione indispensabile
|
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|
all'ottenimento degli altri obiettivi.
|
|||
|
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|
Per raggiungere tutto ciò Aravena e i suoi soci e collaboratori si
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|
servono di tutte le forze a disposizione, deboli o potenti che siano: da
|
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|
quelle degli abitanti, interpellati sulle scelte progettuali e resi
|
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|
partecipi attraverso iniziative comunitarie, fino a quelle di un
|
|||
|
soggetto potenzialmente "ostile" quale potrebbe essere considerato una
|
|||
|
compagnia petrolifera. Senza falsi moralismi o pregiudizi ideologici,
|
|||
|
con una combinazione di "realismo", "pragmatismo" e "ambizione"[^65],
|
|||
|
Elemental analizza, comprende e utilizza con la massima precisione le
|
|||
|
complesse dinamiche politiche, sociali, economiche connesse alle
|
|||
|
operazioni che compie, fino a giungere al punto di *trasformarle* in
|
|||
|
quegli aspetti essenziali che consentono di volgerle a proprio favore.
|
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|
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|
Naturalmente gli esiti progettuali potrebbero apparire non appetibili --
|
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|
e conseguentemente non proponibili -- per uno standard occidentale,
|
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|
anche nel campo dell'edilizia sociale; ma vanno tenuti presenti il
|
|||
|
contesto e le condizioni emergenziali in cui Elemental si trova a
|
|||
|
operare. E sono proprio questi fattori che rovesciano polarmente la
|
|||
|
prospettiva del discorso fatto in precedenza: è accettando il confronto
|
|||
|
con situazioni difficili, ovvero rinunciando a dedicarsi a progetti più
|
|||
|
agevoli ma potenzialmente anche più "sensazionali", che Elemental
|
|||
|
ottiene *sensazionali risultati*. Facendocela "con il poco". Dentro la
|
|||
|
realtà e contro ogni attesa. A riprova di ciò si veda la copiosa messe
|
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|
di premi e riconoscimenti raccolti in tutte le parti del mondo, dai
|
|||
|
primi anni Duemila in avanti, dai progetti Elemental[^66], nonché il
|
|||
|
Pritzker Prize assegnato nel 2016 ad Alejandro Aravena per lo stesso
|
|||
|
progetto[^67]. Ed è significativo -- e quasi paradossale -- che sia
|
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|
proprio la giuria del Pritzker Prize a riconoscere ad Aravena la
|
|||
|
capacità di "trasforma(re) il professionista in una figura universale",
|
|||
|
e a salutare con lui "la rinascita di un architetto più impegnato
|
|||
|
socialmente", capace di "lottare (...) per affrontare le crisi abitative
|
|||
|
globali (...) e trovare soluzioni veramente collettive per l'ambiente
|
|||
|
costruito"[^68].
|
|||
|
|
|||
|
[^1]: Ludwig Mies van der Rohe, *Edificio per uffici* (1923), in Id.,
|
|||
|
*Gli scritti e le parole*, a cura di Vittorio Pizzigoni, Einaudi, Torino
|
|||
|
2010, p. 5.
|
|||
|
|
|||
|
[^2]: Vedi, tra gli altri, Ludwig Mies van der Rohe, *Architettura e
|
|||
|
volontà dell'epoca* (1924), *ibid.*, p. 25.
|
|||
|
|
|||
|
[^3]: Ludwig Mies van der Rohe, *Minuta di un articolo* (1923), *ibid.*,
|
|||
|
p. 7. Nello stesso testo, poche righe più oltre, è ribadita la natura
|
|||
|
della *Baukunst* come "volontà dell'epoca tradotta in spazio".
|
|||
|
|
|||
|
[^4]: Massimo Cacciari, *Res aedificatoria. Il "classico" di Mies van
|
|||
|
der Rohe*, in "Casabella", n. 629, dicembre 1995, p. 4.
|
|||
|
|
|||
|
[^5]: *Ibid.*
|
|||
|
|
|||
|
[^6]: Ludwig Mies van der Rohe, *Quello che intendiamo per formazione
|
|||
|
elementare* (1924), in Id., *Gli scritti e le parole* cit., p. 19.
|
|||
|
|
|||
|
[^7]: Ludwig Mies van der Rohe, *Il costruire è legato alla vita*
|
|||
|
(1926), in Id., *Gli scritti e le parole* cit., p. 35.
|
|||
|
|
|||
|
[^8]: Benjamin, *Esperienza e povertà* cit., p. 52.
|
|||
|
|
|||
|
[^9]: *Ibid.*, p. 56.
|
|||
|
|
|||
|
[^10]: *Ibid.*, p. 57.
|
|||
|
|
|||
|
[^11]: *Ibid.*, p. 53.
|
|||
|
|
|||
|
[^12]: Si riprendono qui le parole -- anch'esse già citate -- dell'altro
|
|||
|
breve saggio, "gemello" del precedente, di Benjamin, *Il carattere
|
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distruttivo* cit., p. 41.
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[^13]: Johannes Itten, *Design and Form. The Basic Course at the
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Bauhaus and later*, Thames and Hudson, London
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1965. Sulle pratiche di insegnamento di Itten vedi, tra gli altri, Éva
|
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|
Forgács, *The Bauhaus Idea and Bauhaus Politics*, Central European
|
|||
|
University Press, London -- New York 1995.
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|
[^14]: Marco De Michelis e Agnes Kohlmeyer, *Bauhaus-Bauhaus 1919-1933*,
|
|||
|
in Id. (a cura di), *Bauhaus 1919-1933. Da Klee a Kandinsky, da Gropius
|
|||
|
a Mies van der Rohe*, Mazzotta, Milano 1996, p. 18.
|
|||
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|
|||
|
[^15]: Oskar Schlemmer a Otto Meyer-Amden, 14 luglio 1921, citato in
|
|||
|
Peter Hahn, *Idee e utopie degli anni della fondazione*, in De Michelis
|
|||
|
e Kohlmeyer (a cura di), *Bauhaus 1919-1933* cit., p. 48.
|
|||
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|
|||
|
[^16]: Benjamin, *Esperienza e povertà* cit., p. 56.
|
|||
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|||
|
[^17]: *Ibid.*, p. 53.
|
|||
|
|
|||
|
[^18]: Roberto Calasso, *L'innominabile attuale*, Adelphi, Milano 2017,
|
|||
|
p. 14.
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|||
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|
|||
|
[^19]: Byung-Chul Han, *La società della stanchezza*, Nottetempo, Roma
|
|||
|
2012, p. 15.
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|||
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|
|||
|
[^20]: *Ibid.*, p. 16.
|
|||
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|
|||
|
[^21]: Benjamin, *Esperienza e povertà* cit., p. 57.
|
|||
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|
|||
|
[^22]: Han, *La società della stanchezza* cit., p. 32.
|
|||
|
|
|||
|
[^23]: Walter Benjamin, *Il narratore. Considerazioni sull'opera di
|
|||
|
Nicolaj Leskov* (1936), in Id., *Angelus Novus. Saggi e frammenti*,
|
|||
|
Einaudi, Torino 1962, in particolare p. 243.
|
|||
|
|
|||
|
[^24]: Han, *La società della stanchezza* cit., p. 31.
|
|||
|
|
|||
|
[^25]: Benjamin, *Esperienza e povertà* cit., p. 58.
|
|||
|
|
|||
|
[^26]: Gilles Ivain, *Formulario per un nuovo urbanismo* (1953), in
|
|||
|
*Internazionale Situazionista 1958-1969*, Nautilus, Torino 1994, fasc.
|
|||
|
I, p. 16.
|
|||
|
|
|||
|
[^27]: *Informazioni situazioniste*, *ibid.*, fasc. V, p. 10. Vedi
|
|||
|
inoltre Simon Ford, *The Situationist International. A User's Guide*,
|
|||
|
Black Dog Publishing, London 2005; Simon Sadler, *The Situationist
|
|||
|
City*, The MIT Press, Cambridge (Mass.) 1998.
|
|||
|
|
|||
|
[^28]: *Definizioni*, in *Internazionale Situazionista 1958-1969* cit.,
|
|||
|
fasc. I, p. 13.
|
|||
|
|
|||
|
[^29]: Johan Huizinga, *Homo ludens* (1939), Einaudi, Torino 2002.
|
|||
|
|
|||
|
[^30]: *Ibid.*, p. 225.
|
|||
|
|
|||
|
[^31]: Francesco Careri, *Constant. New Babylon, una città nomade*,
|
|||
|
Testo & Immagine, Torino 2001. Vedi anche Constant, *Un'altra città per
|
|||
|
un'altra vita*, in *Internazionale Situazionista 1958-1969* cit., fasc.
|
|||
|
III, pp. 37-40.
|
|||
|
|
|||
|
[^32]: *Definizioni*, in *Internazionale Situazionista 1958-1969* cit.,
|
|||
|
fasc. I, p. 13.
|
|||
|
|
|||
|
[^33]: *L'urbanismo unitario alla fine degli anni '50*, in
|
|||
|
*Internazionale Situazionista 1958-1969* cit., fasc. III, pp. 12-14.
|
|||
|
|
|||
|
[^34]: Arendt, *Vita activa* cit., p. 63.
|
|||
|
|
|||
|
[^35]: Su ciò vedi Karl Mannheim, *Ideologia e utopia* (1929), il
|
|||
|
Mulino, Bologna 1999.
|
|||
|
|
|||
|
[^36]: Alexander Caragonne, *The Texas Rangers. Notes from the
|
|||
|
Architectural Underground*, The MIT Press, Cambridge (Mass.) 1995.
|
|||
|
|
|||
|
[^37]: Kenneth Frampton, *John Hejduk: 7 Houses*, The Institute for
|
|||
|
Architecture and Urban Studies, New York
|
|||
|
1980. Scrive Hejduk a proposito di questi progetti: "Speravo di
|
|||
|
stabilire un punto di vista, con la convinzione che attraverso una
|
|||
|
disciplina autoimposta, uno studio intenso e circoscritto e un'estetica,
|
|||
|
sarebbe stata possibile una liberazione della mente e della mano che
|
|||
|
conducesse a visioni e trasformazioni della forma spaziale. (...) Se
|
|||
|
l'evoluzione della forma prosegue o si ferma dipende dall'uso
|
|||
|
dell'intelletto non come uno strumento accademico, ma come un elemento
|
|||
|
di vita passionale": John Hejduk, *Statement 1964*, *ibid.*, p. 116.
|
|||
|
|
|||
|
[^38]: John Hejduk, *Mask of Medusa. Works 1947-1983*, a cura di Kim
|
|||
|
Shkapich, Rizzoli, New York 1985, pp. 241-309.
|
|||
|
|
|||
|
[^39]: Manfredo Tafuri, *"Les bijoux indiscrets"*, in *Five architects
|
|||
|
N.Y.*, a cura di Camillo Gubitosi e Alberto Izzo, Officina, Roma 1977,
|
|||
|
p. 17.
|
|||
|
|
|||
|
[^40]: Su ciò, vedi *Five architects: Eisenman, Graves, Gwathmey,
|
|||
|
Hejduk, Meier*, Museum of Modern Art, Wittenborn (New York) 1972.
|
|||
|
|
|||
|
[^41]: Hejduk, *Mask of Medusa* cit., pp. 310-25; K. Michael Hays,
|
|||
|
*Sanctuaries. The last works of John Hejduk*, Canadian Centre for
|
|||
|
architecture, Montreal and the Menil collection, Houston 2002.
|
|||
|
|
|||
|
[^42]: Vedi, tra gli altri, John Hejduk, *Vladivostok*, Rizzoli
|
|||
|
International, New York 1989; Id., *Soundings*, Rizzoli International,
|
|||
|
New York 1993.
|
|||
|
|
|||
|
[^43]: Tafuri, *"Les bijoux indiscrets"* cit., p. 18.
|
|||
|
|
|||
|
[^44]: Peter Eisenman, *House III*, in Aureli, Biraghi e Purini, *Peter
|
|||
|
Eisenman. Tutte le opere* cit., p. 68.
|
|||
|
|
|||
|
[^45]: Tafuri, *"Les bijoux indiscrets"* cit., p. 16.
|
|||
|
|
|||
|
[^46]: Peter Eisenman, *Architettura di cartone. House I and House II*
|
|||
|
(1972), in Id., *Inside out. Scritti 1963-1988* cit., pp. 57-74.
|
|||
|
|
|||
|
[^47]: Peter Eisenman, *La fine del Classico. La fine dell'Inizio, la
|
|||
|
fine della Fine* (1984), in Id., *Inside out. Scritti 1963-1988* cit.,
|
|||
|
p. 264.
|
|||
|
|
|||
|
[^48]: *Ibid.*, p. 263.
|
|||
|
|
|||
|
[^49]: John N. Habraken, *Strutture per una residenza alternativa*, Il
|
|||
|
Saggiatore, Milano 1974.
|
|||
|
|
|||
|
[^50]: John N. Habraken, *L'ambiente costruito e i limiti della pratica
|
|||
|
professionale*, in "Spazio e Società", n. 1, 1978, p. 80.
|
|||
|
|
|||
|
[^51]: *Ibid.*, p. 81. Sulla percezione e sul ruolo reale
|
|||
|
dell'architetto odierno vedi anche il più recente John N. Habraken,
|
|||
|
*Palladio's Children*, a cura di Jonathan Teicher, Taylor & Francis,
|
|||
|
Oxon 2005.
|
|||
|
|
|||
|
[^52]: Vedi Giancarlo De Carlo, *Il Villaggio Matteotti a Terni*, in
|
|||
|
Id., *L'architettura della partecipazione*, a cura di Sara Marini,
|
|||
|
Quodlibet, Macerata 2013, pp. 97-112.
|
|||
|
|
|||
|
[^53]: *Ibid.*, p. 103.
|
|||
|
|
|||
|
[^54]: De Carlo, *Il Villaggio Matteotti a Terni* cit., p. 104.
|
|||
|
|
|||
|
[^55]: Giancarlo De Carlo, *L'architettura della partecipazione* (1973),
|
|||
|
in Id., *L'architettura della partecipazione* cit., p. 70.
|
|||
|
|
|||
|
[^56]: *Ibid.*, p. 71.
|
|||
|
|
|||
|
[^57]: *Ibid.*, p. 61.
|
|||
|
|
|||
|
[^58]: Francesco Samassa, *"Un edificio non è un edificio non è un
|
|||
|
edificio". L'anarchitettura di Giancarlo De Carlo*, in Id. (a cura di),
|
|||
|
*Giancarlo De Carlo. Percorsi*, Il Poligrafo, Padova, pp. 125-61.
|
|||
|
|
|||
|
[^59]: *Ibid.*, p. 60.
|
|||
|
|
|||
|
[^60]: *Ibid.*, p. 78.
|
|||
|
|
|||
|
[^61]: Friedrich Engels, *La situazione della classe operaia in
|
|||
|
Inghilterra* (1845), in Karl Marx e Friedrich Engels, *Opere complete*,
|
|||
|
Editori Riuniti, Roma 1972, vol. IV, pp. 235-514; Friedrich Engels,
|
|||
|
*La questione delle abitazioni* (1872), Editori Riuniti, Roma 1971.
|
|||
|
|
|||
|
[^62]: Alejandro Aravena e Andrés Iacobelli, *Elemental. Manual de
|
|||
|
vivienda incremental y diseño participativo / Incremental Housing and
|
|||
|
Participatory Design Manual*, Hatje Cantz Verlag, Ostfildern 2012,
|
|||
|
p. 18; più in generale vedi anche Id., *Elemental Chile. A Handbook on
|
|||
|
Progressive Housing*, Actarbirkhauser, Barcelona 2010.
|
|||
|
|
|||
|
[^63]: Aravena e Iacobelli, *Elemental. Manual* cit., p. 107.
|
|||
|
|
|||
|
[^64]: Aravena e Iacobelli, *Elemental. Manual* cit., pp. 92-94.
|
|||
|
|
|||
|
[^65]: *Ibid.*, p. 503.
|
|||
|
|
|||
|
[^66]: Tra essi, il Premio Bicentenario del governo del Cile nel 2004;
|
|||
|
il Gran Premio Biennale alla XV Biennale di Architettura di Santiago del
|
|||
|
Cile nel 2006; il Leone d'argento alla Biennale internazionale di
|
|||
|
Architettura di Venezia nel 2008; il Brit Insurance Design Award a
|
|||
|
Londra nel 2010; il primo premio INDEX a Copenhagen nel 2010; la
|
|||
|
medaglia d'argento al premio HOLCIM a Basilea nel 2011; il primo premio
|
|||
|
ZUMTOBEL a Vienna nel 2014.
|
|||
|
|
|||
|
[^67]: Nello stesso 2016 ad Aravena viene affidata la direzione della
|
|||
|
Biennale internazionale di Architettura di Venezia. La mostra da lui
|
|||
|
curata, "Reporting From the Front", intendeva scrutare l'orizzonte
|
|||
|
dell'architettura attuale "alla ricerca di nuovi campi di azione,
|
|||
|
offrendo esempi in cui più dimensioni vengono sintetizzate, integrando
|
|||
|
il pragmatico con l'esistenziale, la pertinenza con l'audacia, la
|
|||
|
creatività con il buonsenso": dall'*Intervento* di Alejandro Aravena, in
|
|||
|
*Reporting From the Front*, 2 voll., catalogo della XV Mostra
|
|||
|
internazionale di Architettura -- Biennale di Venezia, Studio Elemental,
|
|||
|
Santiago del Cile, Marsilio Editori, Venezia 2016.
|
|||
|
|
|||
|
[^68]: Motivazioni del premio in *Alejandro Aravena of Chile receives
|
|||
|
the 2016 Pritzker Architecture Prize*, in
|
|||
|
<https://www.pritzkerprize.com/laureates/2016>. La giuria era composta
|
|||
|
da Lord Peter Palumbo, Stephen Breyer, Yung Ho Chang, Kristin Feireiss,
|
|||
|
Glenn Murcutt, Richard Rogers, Benedetta Tagliabue, Ratan N. Tata e
|
|||
|
Martha Thorne.
|
|||
|
|
|||
|
# Libertà e architettura
|
|||
|
|
|||
|
> ... leggere l'ideologia architettonica come elemento -- secondario,
|
|||
|
> forse, ma pur sempre tale -- di un ciclo di produzione ha come
|
|||
|
> conseguenza il ribaltamento della piramide di valori comunemente
|
|||
|
> accettata. Diventerà del tutto ridicolo, infatti, una volta adottato
|
|||
|
> tale metro di giudizio, chiedersi quanto una scelta linguistica o
|
|||
|
> un'organizzazione strutturale esprima o tenti di anticipare modi "più"
|
|||
|
> liberi di esistenza[^1].
|
|||
|
|
|||
|
Yvonne Farrell e Shelley McNamara, curatrici della XVI Mostra
|
|||
|
Internazionale di Architettura alla Biennale di Venezia 2018, hanno
|
|||
|
scelto come titolo della manifestazione la parola *FREESPACE*. Lungo le
|
|||
|
Corderie dell'Arsenale, nel padiglione centrale e nei numerosi
|
|||
|
padiglioni nazionali sparsi per i Giardini, gli architetti invitati
|
|||
|
hanno variamente interpretato lo "spazio libero" in questione: chi --
|
|||
|
come Caruso St John, in collaborazione con l'artista Marcus Taylor --
|
|||
|
lasciando interamente vuoto il Padiglione Britannico, e montando al di
|
|||
|
sopra di esso una terrazza di legno sostenuta da un ponteggio metallico,
|
|||
|
accedendo alla quale si poteva osservare la laguna dall'alto,
|
|||
|
accomodarsi sulle sedie che vi erano disposte, prendere il sole o
|
|||
|
sorseggiare il tè puntualmente servito alle 16; chi invece -- come
|
|||
|
l'architetto portoghese Álvaro Siza -- disponendo all'interno
|
|||
|
dell'Arsenale una panchina di marmo di forma semicircolare, fronteggiata
|
|||
|
da un muro bianco altrettanto curvo, per offrire uno spazio di
|
|||
|
raccoglimento e riposo agli stanchi visitatori; o chi ancora -- come lo
|
|||
|
svizzero Valerio Olgiati -- collocando al termine della lunghissima
|
|||
|
navata delle medesime Corderie una piccola selva di colonne, candide e
|
|||
|
prive di ornamenti o di ordine. Non è chiaro, in quest'ultimo caso, a
|
|||
|
quale libertà si volesse fare allusione. Lo si potrebbe ritenere uno
|
|||
|
spazio evocativo, simbolico, anche se di che cosa precisamente non è
|
|||
|
dato saperlo; o forse -- meglio ancora -- a ciascuno è lasciata la
|
|||
|
libertà di attribuirvi il significato che gli pare.
|
|||
|
|
|||
|
Ma è soprattutto all'interno del progetto curatoriale di Farrell e
|
|||
|
McNamara (architette irlandesi che a partire dal 1978 hanno dato vita
|
|||
|
allo studio Grafton Architects), che lo "spazio libero" occupa un posto
|
|||
|
centrale; un posto che le due curatrici hanno significativamente pensato
|
|||
|
di segnare scrivendo un vero e proprio "manifesto". In esso si legge
|
|||
|
tra l'altro:
|
|||
|
|
|||
|
> FREESPACE rappresenta la generosità di spirito e il senso di umanità
|
|||
|
> che l'architettura pone al centro della propria agenda, concentrando
|
|||
|
> l'attenzione sulla qualità stessa dello spazio.
|
|||
|
>
|
|||
|
> FREESPACE si concentra sulla capacità dell'architettura di offrire in
|
|||
|
> dono nuovi spazi liberi a coloro che la utilizzano, nonché sulla sua
|
|||
|
> capacità di soddisfare i desideri inespressi.
|
|||
|
>
|
|||
|
> FREESPACE celebra la capacità dell'architettura di trovare in ogni
|
|||
|
> progetto una nuova e inattesa generosità, anche nelle condizioni più
|
|||
|
> private, difensive, esclusive o commercialmente limitate.
|
|||
|
>
|
|||
|
> FREESPACE invita a riesaminare il nostro modo di pensare, stimolando
|
|||
|
> nuovi modi di vedere il mondo, di inventare soluzioni in cui
|
|||
|
> l'architettura provvede al benessere e alla dignità di ogni abitante
|
|||
|
> di questo fragile pianeta.
|
|||
|
>
|
|||
|
> ...[^2].
|
|||
|
|
|||
|
Da questo "manifesto" promana un'idea ottimistica e umanistica
|
|||
|
dell'architettura, un'idea che pecca indubbiamente di vaghezza e
|
|||
|
astrattezza ma che altrettanto sicuramente prende le distanze dal modo
|
|||
|
in cui l'architettura è generalmente intesa nell'epoca attuale:
|
|||
|
un'architettura non soltanto finalizzata nella gran parte dei casi a
|
|||
|
scopi commerciali ma anche del tutto immersa in una prospettiva
|
|||
|
esclusivamente economica. Il "manifesto" di Farrell e McNamara, da
|
|||
|
questo punto di vista, risuona più come un appello che come una
|
|||
|
dichiarazione di poetica o la presa d'atto d'una condizione corrente. E
|
|||
|
per quanto possa risultare ingenuo e sotto molti aspetti inattuale, tale
|
|||
|
appello si presenta come la "novità" più interessante della Biennale
|
|||
|
2018.
|
|||
|
|
|||
|
Pur con tutti i suoi limiti, l'appello lanciato dalle Grafton Architects
|
|||
|
ha il merito -- se non di offrire soluzioni per esso -- almeno di
|
|||
|
indicare il problema: quella libertà (dello spazio: ma il discorso si
|
|||
|
lascia applicare anche a un contesto più generale) che a una prima
|
|||
|
apparenza si direbbe a disposizione di tutti nelle società occidentali,
|
|||
|
in realtà è proprio ciò che maggiormente si rivela sfuggente; non forse
|
|||
|
assente del tutto, ma quantomeno *ambiguamente* presente.
|
|||
|
|
|||
|
Sarebbe però semplicistico illudersi di poterla afferrare esclusivamente
|
|||
|
evocandola. Anzi, è proprio nelle sue troppo ripetute ostensioni che la
|
|||
|
libertà dimostra attualmente di appartenere assai più al mondo delle
|
|||
|
apparenze che non a quello della sostanza. Senza peccare di eccessivo
|
|||
|
allarmismo, si può paradossalmente affermare che oggi l'esercizio della
|
|||
|
"libertà" passa attraverso una miriade di condizionamenti. E lo stesso
|
|||
|
vale anche per l'architettura. D'altronde, sono proprio i
|
|||
|
condizionamenti (visibili e invisibili) a rendere avvertito e reattivo
|
|||
|
chi cerca di svolgere il proprio lavoro *dentro* e *contro* le
|
|||
|
circostanze assegnate. Ed è soltanto nella piena coscienza dei *limiti*
|
|||
|
del proprio operare che diviene possibile ritrovare forme effettive di
|
|||
|
libertà.
|
|||
|
|
|||
|
È a partire da qui che dev'essere reimpostato qualsiasi discorso
|
|||
|
sull'architetto intellettuale. Ben lungi dall'identificarsi con una
|
|||
|
vaga propensione culturale, o con un'inclinazione per sterili
|
|||
|
speculazioni filosofiche o elucubrazioni mentali, il suo segno
|
|||
|
distintivo sta nella capacità di appropriarsi di quei margini di libertà
|
|||
|
che ogni società non per forza "offre" spontaneamente ma che tuttavia,
|
|||
|
almeno a volte, consente.
|
|||
|
|
|||
|
In un mondo dominato da una relativistica pluralità di valori
|
|||
|
(abissalmente distante da ciò che Max Weber definiva un "Polytheismus
|
|||
|
der Werte")[^3], quello della libertà è uno dei pochi -- l'unico, forse
|
|||
|
-- sul possesso del quale siamo assolutamente sicuri di non volere o
|
|||
|
potere recedere. In altre parole, tra molti valori su cui si è disposti
|
|||
|
a trattare -- e tra altrettanti ormai "fuori uso", avendo perduto la
|
|||
|
loro importanza --, il valore della libertà resiste pressoché ovunque
|
|||
|
nel mondo come una pietra di fondamento non alienabile. E ciò, tanto
|
|||
|
per chi già ne usufruisce quanto per chi la deve ancora conquistare. Ma
|
|||
|
la libertà ha un'altra caratteristica peculiare: è uno dei pochi valori
|
|||
|
di cui si può ritenere di disporre anche quando in realtà non se ne
|
|||
|
gode. È esattamente questa la condizione in cui si trova al giorno
|
|||
|
d'oggi una buona parte delle società occidentali: una condizione che,
|
|||
|
proprio per la varietà delle scelte che in apparenza vi si possono
|
|||
|
compiere, e per la molteplicità e relatività dei valori che vi sono
|
|||
|
presenti, conferisce a chi vi è introdotto una perfetta "sensazione di
|
|||
|
libertà".
|
|||
|
|
|||
|
Michel Foucault negli anni sessanta parlava di "società
|
|||
|
disciplinari"[^4], cioè di quelle società in cui ogni individuo è
|
|||
|
incasellato dentro a un preciso spazio fisico. Le ricerche di Foucault
|
|||
|
si riferivano a quella che egli stesso chiama l'"epoca classica"[^5],
|
|||
|
vale a dire l'epoca moderna, storicamente intesa, e avevano come
|
|||
|
fondamento un'idea molto esatta, e cioè che il potere si spazializza: il
|
|||
|
potere non è mai assoluto, non è mai astratto, è sempre esercitato qui e
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ora, all'interno di spazi fisici precisi. Gli spazi sono quelli che
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Foucault analizza nei suoi libri, vale a dire il manicomio, l'ospedale,
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la prigione, ma anche la caserma, la scuola, la fabbrica. Questi spazi,
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pur diversi tra loro, hanno però tutti un elemento in comune: in tutti è
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inscritto un "esercizio del controllo" che nel *Panopticon* (1787) di
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Jeremy Bentham era espresso fisicamente, quasi geometricamente[^6], ma
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che negli altri spazi ugualmente sussiste. Si tratta in tutti i casi di
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spazi del controllo, organizzati precisamente a questo fine.
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E tuttavia, nell'epoca moderna, mentre lo spazio viene organizzato in
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termini di controllo, concresce anche l'idea di libertà[^7]. I due
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fenomeni sono tutt'uno, come le due facce di una stessa medaglia. Non
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per nulla lo stesso Bentham è uno dei padri del liberalismo, ovvero di
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quella dottrina che al proprio centro pone i diritti individuali,
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all'interno dei quali campeggia la libertà. Certo, quella delle società
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disciplinari è una libertà in larga parte "vigilata"; e ciò nondimeno,
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nell'accezione moderna del termine, vale a dire illuminista, in quanto
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valore individuale assunto a fondamento sociale, la libertà nasce lí:
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nel momento in cui ciascun individuo è inquadrato dentro lo spazio
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fisico delle diverse "macchine" del controllo[^8].
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Oggi, invece, la società disciplinare sembra essere stata soppiantata da
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una società "trasparente". La "società della trasparenza", come la
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chiama Han[^9], è la società digitale neoliberalista, dove la libertà si
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è trasformata in un'occasione di sfruttamento:
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> Il neoliberalismo è un sistema molto efficace nello sfruttare la
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> libertà, intelligente perfino: viene sfruttato tutto ciò che rientra
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> nelle pratiche e nelle forme espressive della libertà, come
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> l'emozione, il gioco e la comunicazione. Sfruttare qualcuno contro la
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> sua volontà non è efficace: nel caso dello sfruttamento da parte di
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> altri il rendimento è assai basso. Soltanto lo sfruttamento della
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> libertà raggiunge il massimo rendimento[^10].
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più ancora che il lavoro, lo scontro tra classi o l'organizzazione
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spaziale delle città, la vera frontiera critica odierna è divenuta la
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libertà dell'individuo, sottoposto alla costante "attenzione" della rete
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e di tutti gli altri invisibili sistemi di sorveglianza che ne rilevano
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gli spostamenti, ne registrano gli acquisti, ne monitorano i
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desideri[^11]; il tutto, con l'esplicito consenso -- o quantomeno, con
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la muta "complicità" -- dell'individuo stesso. E ancora di più, senza
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la minima parvenza di alcuna privazione della libertà individuale, e
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anzi con quel senso di onnipotenza e di indipendenza che la società
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digitale riesce a trasmettere, come ogni utente di Google, di Wikipedia
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o di un qualsiasi social network ben sa: le cui possibilità, in termini
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di relazioni e di informazioni, inducono spesso a credere di possedere
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un'infinità di conoscenze, un'istantanea rapidità d'azione e
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un'incondizionata fluidità di movimenti. Una somma di elementi che si
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traducono appunto in una totale *illusione di libertà*.
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Tanto più credibile e ingannevole è questa illusione, quanto meno
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risulta coercitiva, ovvero quanto meno è -- almeno in apparenza --
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coartata e vincolante. E proprio qui sta l'astuzia suprema di una
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società "trasparente": all'interno di essa l'individuo non viene
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ordinatamente disposto e inquadrato come nelle società disciplinari,
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bensì -- proprio al contrario -- egli stesso vi aderisce spontaneamente
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e quasi con entusiasmo. Ciascuno collabora alla sua costruzione, al suo
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rafforzamento, al suo perpetuamento. La sensazione che ne deriva è di
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essere "soggetti" perfettamente svincolati, perfettamente liberi; ma è
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proprio in quanto tale, ovvero in quanto *subiectum* (letteralmente,
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sottomesso, assoggettato)[^12] che l'individuo dimostra di essere assai
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meno padrone del proprio destino di quanto comunemente non ritenga. In
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tal modo si disvela tutta l'intrinseca *potenza* di una società della
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trasparenza: in essa, infatti, non soltanto la libertà diviene il nuovo,
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fertile terreno di uno sfruttamento, ma -- come sostiene Han -- tale
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sfruttamento è opera del "soggetto" stesso, il quale cosí realizza un
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*autosfruttamento* vero e proprio, divenendo schiavo di se stesso:
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> L'io come progetto, che crede di essersi liberato da obblighi esterni
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> e costrizioni imposte da altri, si sottomette ora a obblighi interiori
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> e a costrizioni autoimposte, forzandosi alla prestazione e
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> all'ottimizzazione[^13].
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E ancora:
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> I detenuti del panottico benthamiano venivano isolati l'uno dall'altro
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> allo scopo di imporre una disciplina e non potevano parlare tra loro.
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|
> Gli abitanti del panottico digitale, al contrario, comunicano
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> intensamente l'uno con l'altro e si denudano volontariamente.
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|
> *Con*tribuiscono cosí, in modo attivo, alla costruzione del panottico
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|
> digitale. La società del controllo digitale fa un uso massiccio della
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> libertà: essa è possibile soltanto grazie all'autoesposizione,
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> all'autodenudamento volontari[^14].
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E in effetti, nei contesti digitali, *noi, utenti*, consegniamo
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quotidianamente, senza alcuna coercizione, i nostri dati, le nostre
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vite, la nostra intimità, i nostri affetti, tutto quello che siamo
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(pensieri, gusti, esperienze, ricordi) ai grandi motori di ricerca, ai
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grandi social network. Liberi di essere-in-rete (ovvero, letteralmente,
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*irretiti*), e dunque in condizione di spontanea schiavitú. Si tratta
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di quello che Byung-Chul Han definisce un "capitalismo del like", che
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"si distingue nella sostanza dal capitalismo del XIX secolo, che operava
|
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mediante obblighi e divieti disciplinari"[^15]. *Mi piace*, *ci piace*:
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è questa la frontiera di una libertà percepita come "naturale" da un
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lato, e sfruttata dall'altro, e per questo doppiamente insidiosa.
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Come si rapporta a tutto ciò l'architettura? Quali trasformazioni
|
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subisce -- o piuttosto, mette in atto -- nell'epoca della libertà
|
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autoimposta? In una prospettiva moderna, l'architettura che si fregiava
|
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orgogliosamente di questo aggettivo faceva della libertà il proprio
|
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vessillo: libertà assunta come un affrancamento dell'uomo dai vincoli a
|
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cui aveva dovuto sottostare fino ad allora, e che si traduceva tutta in
|
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termini spaziali. *Plan libre*, *façade libre*, risuonano cosí -- non a
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caso -- due dei "comandamenti" lecorbusieriani per "un'architettura
|
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|
assolutamente nuova, dalla casa d'abitazione fino al palazzo"[^16]. Ma
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se per l'ideologia dell'architettura moderna la libertà è una conquista,
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|
per la postmodernità libertà e architettura sembrano ormai coincidenti.
|
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|
A dire il vero, più che di libertà, si dovrebbe parlare di
|
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|
"liberazione"[^17]. A questa si possono riferire alcune delle pratiche
|
|||
|
o tendenze postmoderniste, quali "un certo carattere ludico della forma,
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la produzione aleatoria di nuove forme o l'allegra cannibalizzazione di
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|
quelle vecchie"[^18]. Sono tutte modalità relative a -- e sotto diversi
|
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|
aspetti "reattive" nei confronti di -- quanto le ha precedute,
|
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|
espressamente finalizzate, non per nulla, a una sovversione totale dei
|
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|
"vari rituali" e dei "valori formali" modernisti.
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|
Al giorno d'oggi l'opera di liberazione postmodernista dagli "spettri"
|
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modernisti può dirsi pienamente compiuta nella misura in cui,
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abbandonata l'esclusiva tattica del rovesciamento, l'architettura
|
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odierna utilizza *qualunque mezzo* a sua disposizione per ottenere "ciò
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|
che vuole", ivi *comprese* le forme e i linguaggi moderni. Ripuliti dei
|
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|
loro retaggi ideologici, spogliati ormai di qualsiasi "messaggio", tali
|
|||
|
forme e linguaggi possono cosí tornare a essere usati (insieme,
|
|||
|
potenzialmente, a tutti gli altri). Ciò nondimeno, non si tratta
|
|||
|
affatto di un uso neutrale, meramente "tecnico". Il ritorno a forme e
|
|||
|
linguaggi moderni -- se possibile, sottoposti a depurazioni ulteriori --
|
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|
ha il ben preciso obiettivo di fare dell'architettura attuale un emblema
|
|||
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della libertà in una misura in cui forse neppure alle origini,
|
|||
|
nell'epoca moderna, era immaginabile farlo. Campioni assoluti di questa
|
|||
|
aspirazione a incarnare la "filosofia" (ma al tempo stesso anche
|
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|
l'economia, il *lifestyle*) della società della "trasparenza"
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contemporanea sono proprio gli edifici che rappresentano le grandi
|
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|
aziende produttrici, promotrici e diffonditrici dei prodotti digitali.
|
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|
Loro modello è con piena evidenza la leggerezza, la flessibilità,
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|||
|
l'ingegnosità propria dei dispositivi elettronici contemporanei. Cosí
|
|||
|
gli Apple Store sparsi per il mondo, ad esempio (si pensi soltanto a
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|||
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quello sulla Fifth Avenue a Manhattan, di Bohlin Cywinski Jackson, 2006,
|
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|
e a quello più recente in piazza Liberty a Milano, di Norman Foster +
|
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|
Partners, 2018) si fanno portatori di un'estetica che è la precisa
|
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|
traduzione dell'immaterialità e della virtualità dell'universo
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informatico e del web: pareti vetrate, interamente trasparenti;
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superfici lisce e candide; una luce uniforme, diffusa. Immagini di uno
|
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|
spazio tridimensionale, per quanto possibile privo di "corpo", che
|
|||
|
infonde in chi lo attraversa e vi sosta la sensazione di una completa
|
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|
assenza di gravità: spazio al di sopra di ogni pensiero, di ogni
|
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|
"affanno", dove l'essere-liberi coincide semplicemente con l'essere.
|
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|
Uno spazio dunque dove tutto è possibile, in cui nulla pesa, neppure
|
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|
l'acquisto di uno smartphone o di un laptop.
|
|||
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|
Nella storia -- si usa dire -- i fatti si presentano sempre due volte:
|
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|
"la prima volta come tragedia, la seconda volta come farsa"[^19]. Verso
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|
la metà degli anni sessanta, a fronte del progressivo esaurirsi della
|
|||
|
"funzione storica" dell'architettura moderna, gli architetti si sono
|
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|
trovati a un bivio: abbandonarla a favore di un suo superamento, oppure
|
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|
conservarla radicalizzandone (ovvero depurandone e stilizzandone al
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|
massimo) gli aspetti formali. Da questa seconda possibilità nasce il
|
|||
|
"minimalismo", l'*ultimo* degli stili, non in senso cronologico ma
|
|||
|
logico; lo stile che -- shakerando estetica giapponese e Mies van der
|
|||
|
Rohe, più un'abbondante aggiunta di ghiaccio -- ottiene il brillante
|
|||
|
risultato di far passare per sobri ambienti nella gran parte dei casi
|
|||
|
lussuosi[^20]. Quarant'anni più tardi, il minimalismo ritorna come
|
|||
|
"risposta" alla crisi economica mondiale, ma anche come stile di un
|
|||
|
capitalismo che preferisce pur sempre ottenere "migliori risultati con
|
|||
|
meno mezzi"[^21]. Non è dunque un caso che, nei luoghi di massima
|
|||
|
"intensificazione" della società "trasparente", tali caratteri si
|
|||
|
presentino al massimo livello di concentrazione. Né deve stupire che
|
|||
|
questi stessi caratteri, gradatamente, fuoriescano dall'invisibile
|
|||
|
"recinto" dei *flagship stores*, arrivando a conformare anche altri
|
|||
|
spazi commerciali. Il Westfield World Trade Center Mall (noto anche
|
|||
|
come Oculus), progettato da Santiago Calatrava e inaugurato a Manhattan
|
|||
|
nel 2016, ne costituisce un esempio emblematico. Costruito accanto al
|
|||
|
luogo in cui sorgevano le Twin Towers, con le sue candide ali distese
|
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|
pronte per spiccare il volo, l'edificio dall'esterno sembrerebbe voler
|
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|
rinverdire la tradizione dei *landmarks*. Ma la sua vera natura si
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|
rivela non appena varcato l'ingresso, accedendo alla grande piazza
|
|||
|
ellissoidale che ospita lo shopping center. Qui, sotto la muscolare
|
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|
copertura, caratteristica anche di altri edifici dell'architetto e
|
|||
|
ingegnere spagnolo, lo spazio sembra perdere i propri contorni,
|
|||
|
smaterializzarsi, svanire. Nell'epoca delle "piazze virtuali", la
|
|||
|
piazza reale dell'Oculus pare faccia un passo indietro rispetto alla
|
|||
|
realtà, per "virtualizzarsi" a sua volta. Condizione apparentemente
|
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|
imprescindibile, questa, per infondere quel "senso di libertà" che
|
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|
avvince i consumatori con il potere del *like*.
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|
In altre occasioni l'architettura della società della trasparenza assume
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|
toni esplicitamente ludici. È il caso del Googleplex a Mountain View
|
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|
(Silicon Valley -- California), quartier generale di Google, terminato
|
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|
nel 2004 ma negli anni seguenti continuamente rinnovato, soprattutto per
|
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|
quanto riguarda gli spazi interni. Dall'esterno gli edifici del
|
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|
Googleplex presentano un aspetto riconducibile -- con poche e in fondo
|
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|
marginali correzioni -- a quell'"efficientismo internazionale" che è lo
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|
stile dominante delle sedi delle grandi compagnie in tutto il mondo. Ma
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è dentro gli edifici che accadono le cose più interessanti. Il
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|
brillante e spiritoso "stile della casa", impresso come un saluto di
|
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benvenuto nel logo multicolore dell'azienda, e riassumibile nella parola
|
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d'ordine "smart", produce ambienti che sono interamente penetrati dalla
|
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|
"filosofia" Google: gli uffici (o quelli che dovrebbero essere tali) e
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|
gli altri spazi di lavoro sono concepiti con l'esplicito intento di
|
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comunicare l'idea che "qui non si lavora": ci si diverte. *Smart
|
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working*. E in effetti, all'interno di questi spazi si può giocare
|
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|
davvero. Il carattere ludico si incorpora in essi come una componente
|
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|
essenziale. *Google Play*. E non certo come induzione all'ozio, bensì
|
|||
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per ottenere una maggiore produttività, una maggiore efficienza, una
|
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|
maggiore creatività[^22]. Lavoro e divertimento finiscono per diventare
|
|||
|
una cosa sola, un'unica e indissolubile condizione. L'*homo ludens*
|
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|
situazionista viene cosí recuperato al sistema, "messo al lavoro" senza
|
|||
|
quasi che se ne accorga.
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|||
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Non è un caso che nel vocabolario dell'architettura attuale siano
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prepotentemente entrati -- ormai anche a grande distanza dalla Silicon
|
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Valley, e con specifico riferimento agli spazi del lavoro e del
|
|||
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commercio -- termini come "intelligente", "flessibile", "ibrido"; e che
|
|||
|
gli ultimi miti dell'agenda contemporanea siano "stare insieme",
|
|||
|
"condividere", "interagire". In modo lampante, Google *docet*. Gli
|
|||
|
spazi fisici in cui si svolgono queste azioni al giorno d'oggi vengono
|
|||
|
diffusamente pensati ed offerti come luoghi capaci di infondere in chi
|
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|
li utilizza felicità e benessere, prima e più ancora che idee di
|
|||
|
sobrietà ed efficienza. Per suscitare queste sensazioni gli spazi
|
|||
|
lavorativi sempre più di frequente si travestono da luoghi d'abitazione
|
|||
|
(fenomeno esattamente speculare a quello dell'*home working*).
|
|||
|
Familiarità, informalità, *libertà* della casa diventano i nuovi *idola*
|
|||
|
del "lavoro intelligente". Forse non abbastanza però da non far sorgere
|
|||
|
il dubbio che sia proprio *questo* il luogo di attuazione della
|
|||
|
minacciosa promessa di Auschwitz: "Arbeit Macht Frei".
|
|||
|
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|
Intanto, a poche miglia dal Googleplex, a Cupertino, sorge l'Apple Park,
|
|||
|
realizzato da Norman Foster + Partners e aperto nel 2017. Si tratta di
|
|||
|
un edificio a forma di anello interamente vetrato, di oltre 450 m di
|
|||
|
diametro e di 1,6 km di circonferenza, cui si va ad affiancare lo Steve
|
|||
|
Jobs Theater, di dimensioni molto più ridotte ma anch'esso circolare e
|
|||
|
completamente vetrato nella parte emergente. Nell'epoca del panottico
|
|||
|
digitale -- senza forma, immateriale, ubiquo -- ritorna
|
|||
|
imprevedibilmente in scena il panottico benthamiano: lo spazio di un
|
|||
|
controllo fisico, che nel caso dell'Apple Park però è da intendersi in
|
|||
|
senso soltanto metaforico. Anzi, a ben guardare, in un senso
|
|||
|
esattamente rovesciato rispetto a quello originario: la forma del
|
|||
|
controllo disciplinare come "dimostrazione" della libertà digitale.
|
|||
|
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|||
|
A immagini come queste, di una sin troppo *ambigua* libertà, il panorama
|
|||
|
architettonico contemporaneo -- sovraffollato di molteplici offerte e
|
|||
|
all'apparenza assai variegato -- sembra poter agevolmente fornire la
|
|||
|
*chance* di contrapporne altre più autentiche, e al tempo stesso più
|
|||
|
"esterne al sistema". Gli esempi potrebbero essere tanti, quanto
|
|||
|
soggettive le scelte. Meglio rivolgersi allora a chi ha affrontato il
|
|||
|
tema in maniera cosciente. In una serie di conferenze organizzate da
|
|||
|
Owen Hopkins alla Royal Academy of Arts di Londra nel 2015 su
|
|||
|
*Architecture and Freedom* ("L'architettura è in balia degli interessi
|
|||
|
privati e dei bisogni del capitale come mai prima d'ora")[^23], Reinier
|
|||
|
de Graaf (OMA), J.MAYER.H, Farshid Moussavi (FMA, già FOA) e Patrik
|
|||
|
Schumacher (Zaha Hadid Architects) hanno presentato i loro punti di
|
|||
|
vista sul tema. Quattro architetti diversi, per provenienze ed
|
|||
|
esperienze, che hanno però tutti in comune un'attività all'interno di
|
|||
|
grandi studi internazionali operanti su scala globale, ma anche
|
|||
|
un'attenzione per la speculazione teorica, secondo un intreccio di piani
|
|||
|
che appartiene di diritto all'eredità degli architetti intellettuali.
|
|||
|
Pur non essendoci la possibilità di analizzare nei dettagli le
|
|||
|
argomentazioni dibattute da ciascun relatore, è interessante notare come
|
|||
|
gli architetti in questione -- con la sola eccezione di Reinier de
|
|||
|
Graaf, impegnato a dimostrare come il mondo in cui si trova a operare
|
|||
|
OMA dopo il 1991, in seguito alla dissoluzione dell'Unione Sovietica,
|
|||
|
non sia affatto unito nell'abbraccio delle democrazie liberali
|
|||
|
occidentali, come sentenziato da Fukuyama[^24]; e come ciò, dal punto di
|
|||
|
vista di uno studio di architettura, non rappresenti un dramma --, più
|
|||
|
che compiere una critica della condizione attuale, prendano casomai lo
|
|||
|
spunto da questa per inserire la propria architettura nei processi in
|
|||
|
atto, cercando di leggerli nella maniera il più possibile coerente con
|
|||
|
essa. Cosí per Schumacher soltanto il parametricismo può farsi
|
|||
|
interprete delle dinamiche urbane di un libero mercato "sfrenato" in una
|
|||
|
società post-fordista, riuscendo ad accordare -- in maniera analoga al
|
|||
|
complesso e variegato ordine degli ambienti naturali -- le molteplici
|
|||
|
forze che vi con-fluiscono[^25].
|
|||
|
|
|||
|
Per Jürgen Hermann Mayer la libertà sembra più che altro consistere in
|
|||
|
un carico di potenzialità -- tecnologiche e comunicative -- per le
|
|||
|
attività umane che la sua architettura cerca di tradurre facendosi
|
|||
|
generatrice e luogo d'incontro di interazioni sociali, come nella
|
|||
|
copertura -- terrazza -- spazio urbano *Metropol Parasol* in Plaza de la
|
|||
|
Encarnación a Siviglia (2004-11)[^26]. Farshid Moussavi infine, pur con
|
|||
|
abbondanza di citazioni e definizioni filosofiche del concetto di
|
|||
|
libertà, riconduce la questione a una sorta di *aut aut* tra "stile"
|
|||
|
come affermazione di identità (dell'architetto) e stile come performance
|
|||
|
dell'edificio e dei suoi singoli elementi, analizzati minuziosamente e
|
|||
|
progettati sforzandosi di avvicinarli al massimo grado a un loro uso
|
|||
|
"partecipato" [^27].
|
|||
|
|
|||
|
In conclusione, chi nelle parole degli architetti citati cercasse una
|
|||
|
bussola per orientarsi nella ricerca di una "rappresentanza" in un mondo
|
|||
|
in profondo mutamento rischierebbe di rimanere deluso. Per molti di
|
|||
|
loro, a quanto sembra, quello della libertà non costituisce affatto un
|
|||
|
problema, al contrario di quanto è accaduto in altri momenti ad altri
|
|||
|
architetti[^28].
|
|||
|
|
|||
|
Tra gli ultimi tentativi in ordine di tempo di affrontare il tema del
|
|||
|
rapporto tra libertà e architettura va citata la mostra dedicata dalla
|
|||
|
Fondation Cartier pour l'art contemporain di Parigi, tra marzo e giugno
|
|||
|
2018, all'opera del giovane architetto giapponese Junya Ishigami.
|
|||
|
Ospitata nei diafani spazi pensati da Jean Nouvel (a loro volta
|
|||
|
un'ipotesi di libertà costruita)[^29], la mostra *Freeing Architecture*
|
|||
|
presentava 17 progetti elaborati da Ishigami tra il 2004 e il 2018. Che
|
|||
|
cosa egli intenda con "liberazione dell'architettura" si lascia intuire
|
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|
osservando i grandi modelli e gli altri materiali in esposizione:
|
|||
|
espressione di un'architettura a volte essenziale, strutturalmente
|
|||
|
ardita ma figurativamente esile, al limite dell'anoressia, altre volte
|
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ottenuta scavando, per sottrazione di materia, altre ancora mediante il
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processo esattamente opposto, di accumulazione di quelle che potrebbero
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apparire masse glaciali che danno luogo a corpi globosi e cavernosi.
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Un'architettura al tempo stesso "minimale" e desiderosa di sorprendere,
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ma anche perennemente tesa nella ricerca di un'integrazione con la
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natura. Ciò di cui sembra volersi liberare l'architettura di Ishigami
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sono dunque i legami con quei retaggi disciplinari che provino a
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irreggimentare l'edificio da un punto di vista tipologico, funzionale,
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spaziale, strutturale. La riscrittura da lui proposta in tal senso vale
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come tentativo di sottrazione dell'architettura dai *nomoi* che di
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consueto la regolano, per (ri)condurla a una sorta di "età
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dell'innocenza", dove essa possa continuare a sussistere in una
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dimensione "sospesa". E ancora di più, questo "disegno" risulta palese
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esaminando il catalogo, un libro di grande formato, illustrato con
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immagini a metà strada tra l'infantile e il pittorico, inframezzate da
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brevi testi dal tono quasi poetico[^30].
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L'ingenuità di tali intendimenti è però almeno in parte contraddetta
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dall'efficacia dei risultati ottenuti dalle opere realizzate da Junya
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Ishigami. È il caso del KAIT Workshop, un edificio concepito come spazio
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per gli studenti del Kanagawa Institute of Technology, in Giappone
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(2004-2008). In questo spazio essi possono progettare, scrivere ma
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anche chiacchierare e oziare. Le immagini cui Ishigami fa ricorso per
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spiegarlo sono quelle delle costellazioni e degli alberi di una foresta:
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> Per migliaia di anni noi umani abbiamo osservato il cielo notturno,
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> evocando immagini e storie dalla disposizione casuale delle stelle.
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>
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> La natura ha leggi severe. Sebbene queste possano essere al di là
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> della nostra comprensione, le aggiriamo abitualmente, decifrandole
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> soggettivamente, a nostro piacimento.
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>
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> Può l'architettura essere liberata nello stesso modo?
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>
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> Data la libertà, nonostante sia rigorosa nella sua destinazione d'uso,
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> e progettando di conseguenza, trascendere tutto ciò e vedere lo spazio
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> in modo soggettivo, consentendone usi diversi. Una libertà aperta a
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> molteplici interpretazioni.
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>
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> Un laboratorio per studenti.
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>
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> Questo edificio non ha pareti. Tutte le strutture sono rette
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> esclusivamente da pilastri. Tutti i pilastri hanno proporzioni
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> diverse, sono orientati in modi diversi, posizionati a intervalli
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|
> diversi.
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>
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> Ogni pilastro è progettato individualmente, meticolosamente. Allo
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> stesso tempo, un piano meticoloso è reso trasparente.
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>
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> Pianificare mentre l'intento del piano non è più visibile, diventa
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|
> l'intento di questo piano.
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>
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> Una disposizione casuale. Un pianterreno di alberi in una foresta. La
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|
> disposizione delle stelle assomiglia a quella degli alberi in una
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> foresta. Il fatto che percepiamo una casualità condivisa in queste
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|
> due cose che sembrano non correlate può essere dovuto alla casualità
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|
> che appartiene all'essenza della natura[^31].
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Nonostante gli accenti con cui è presentato, il KAIT sotto molti aspetti
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potrebbe essere assimilato ai *flagship stores* visti più sopra:
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identico il candore della pavimentazione e delle 305 colonne di
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dimensioni variabili, disposte irregolarmente a sostegno della copertura
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piana -- anch'essa bianca -- solcata da lucernari; identiche le pareti
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perimetrali interamente vetrate; identica l'assenza di peso che promana
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dall'insieme. E identiche -- si può pure presumere -- le dotazioni
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tecnologiche a disposizione degli studenti che rendono lo spazio
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perfettamente connesso con il mondo. E tuttavia, predisponendo un
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layout massimamente flessibile, in grado di includere le esigenze
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mutevoli degli studenti, suggerendo usi senza imporli, Ishigami
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sembrerebbe alludere a un altro genere di libertà: più che una "messa a
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disposizione" di possibilità senza limiti, una capacità di *accogliere*
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possibilità illimitate. Un'*apertura* dello spazio a interazioni
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spontanee che potrebbe essere intesa come una condizione di *non*
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|
sfruttamento di esso. Scrive ancora Ishigami:
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> La nostra vita quotidiana si svolge tra la manifestazione di risultati
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|
> attentamente calcolati, e la libera interpretazione.
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>
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|
> Pensare alla progettazione di un'architettura che, anziché postulare
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|
> ordine e disordine come valori opposti, li tratta allo stesso modo.
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|
>
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|||
|
> Scoprire spazi liberamente, assegnando loro ogni volta una funzione.
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|
>
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|
> Ogni volta che un pezzo di architettura è completato, si rivela
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|||
|
> attraente in tutti i modi possibili, al di là delle stesse intenzioni
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|
> dell'architetto[^32].
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Che l'architettura di Ishigami sia profondamente immersa nel mondo
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contemporaneo, che precisamente a esso si rivolga ("Un'architettura per
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l'era del libero accesso all'informazione. Un'architettura per l'era
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della libera connessione. Un'architettura per l'era della libertà dei
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|
valori")[^33], risulta evidente. E però è altrettanto evidente come
|
|||
|
essa non si "accontenti" di ciò che la realtà in quanto tale propone.
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|
In questo senso, la flessibilità degli spazi del KAIT -- almeno nelle
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intenzioni del loro autore -- vorrebbe dimostrare di essere l'esatto
|
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opposto della "flessibilità" come "libera imposizione" che le società
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|
odierne assegnano ai loro "soggetti": là dove infatti a questi ultimi
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viene richiesta una capacità di adattamento, nel suo caso è lo spazio
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che sembra adattarsi alle svariate esigenze di chi lo utilizza.
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|
Si potrebbe denominare questa architettura -- riprendendo una discussa
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espressione di Colin Rowe -- "delle buone intenzioni"[^34]. Intenzioni
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"preterintenzionali", verrebbe da aggiungere, sulla base delle parole
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|
appena citate dello stesso Ishigami; il quale tuttavia, subito dopo,
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richiama la necessità "di essere maggiormente coscienti (...) fin dalla
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|
fase della progettazione"[^35] dei possibili gradi di libertà che
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|
l'architettura *autonomamente* può assumere.
|
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|
Ma la conclusione potrebbe essere anche diversa: che per Ishigami -- al
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|
pari degli altri architetti di cui si è discusso in precedenza -- la
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|
suadente libertà "obbligatoria" della società della trasparenza sia
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|
soltanto un'allettante occasione per scatenare le proprie "fantasie
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|
creative", e dunque per cogliere nuove, fruttuose opportunità di lavoro;
|
|||
|
mentre per tutto ciò una libertà "vera", una libertà incondizionata --
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|
come sembra suggerire Reinier de Graaf -- sarebbe più che altro di
|
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|
ostacolo.
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|||
|
|
|||
|
[^1]: Tafuri, *La sfera e il labirinto* cit., p. 315.
|
|||
|
|
|||
|
[^2]: Yvonne Farrell e Shelley McNamara, *Freespace-Manifesto*, in
|
|||
|
*Freespace*, catalogo della XVI Mostra Internazionale di Architettura -
|
|||
|
Biennale di Venezia, Venezia 2018, p. 51.
|
|||
|
|
|||
|
[^3]: Max Weber, *Il senso dell'"avalutatività" delle scienze
|
|||
|
sociologiche ed economiche* (1917), in Id., *Il metodo delle scienze
|
|||
|
storico-sociali*, Einaudi, Torino 2012, p. 265. Prosegue Weber: "Tra i
|
|||
|
valori si tratta ovunque e sempre, in ultima analisi, non già di
|
|||
|
semplici alternative, ma di una lotta mortale senza possibilità di
|
|||
|
conciliazione, come tra "dio" e il "demonio". Tra di essi non è
|
|||
|
possibile nessuna relativizzazione e nessun compromesso".
|
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|
|
|||
|
[^4]: Oltre ai "classici" testi citati alla nota seguente, vedi
|
|||
|
Foucault, *La società disciplinare*, a cura di Salvo Vaccaro, Mimesis,
|
|||
|
Sesto San Giovanni 2010, e Id., *La società punitiva. Corso al Collège
|
|||
|
de France (1972-1973)*, Feltrinelli, Milano 2016.
|
|||
|
|
|||
|
[^5]: Michel Foucault, *Storia della follia nell'età classica*, Rizzoli,
|
|||
|
Milano 1963; vedi anche Id., *Nascita della clinica. Una archeologia
|
|||
|
dello sguardo medico*, Einaudi, Torino 1969; Id., *Sorvegliare e punire.
|
|||
|
Nascita della prigione*, ivi 1976.
|
|||
|
|
|||
|
[^6]: Jeremy Bentham, *Panopticon ovvero la casa d'ispezione*, a cura di
|
|||
|
M. Foucault e M. Perrot, Marsilio, Venezia 2002.
|
|||
|
|
|||
|
[^7]: Jean Starobinski, *L'invenzione della libertà 1700-1789*,
|
|||
|
Abscondita, Milano 2008.
|
|||
|
|
|||
|
[^8]: È quanto rileva lo stesso Foucault, *Disciplina e democrazia.
|
|||
|
Intervista di J.-L. Ezine* (1975), in Id., *La società disciplinare*
|
|||
|
cit., p. 87: "La disciplina è l'altra faccia della democrazia".
|
|||
|
|
|||
|
[^9]: Byung-Chul Han, *La società della trasparenza*, Nottetempo, Roma
|
|||
|
2014.
|
|||
|
|
|||
|
[^10]: Byung-Chul Han, *Psicopolitica. Il neoliberalismo e le nuove
|
|||
|
tecniche del potere*, Nottetempo, Roma 2016, p. 11.
|
|||
|
|
|||
|
[^11]: Lo aveva intuito già Foucault, *Disciplina e democrazia.
|
|||
|
Intervista di J.-L. Ezine* cit., p. 87 (nel 1975!): "Si vedono apparire
|
|||
|
ora sorveglianze di altro tipo, ottenute senza che quasi la gente se ne
|
|||
|
renda conto, attraverso la pressione del consumo".
|
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|
|
|||
|
[^12]: Questo il significato che Aristotele attribuiva a ὑποκείμενον,
|
|||
|
tradotto con il latino *subiectum*; per una discussione di questo
|
|||
|
termine prima e dopo Cartesio, e dunque con l'imporsi del Mondo Moderno,
|
|||
|
vedi Martin Heidegger, *L'epoca dell'immagine del mondo*, in Id.,
|
|||
|
*Sentieri interrotti*, La Nuova Italia, Firenze 1984, pp. 71-101.
|
|||
|
|
|||
|
[^13]: Han, *Psicopolitica* cit., p. 9.
|
|||
|
|
|||
|
[^14]: *Ibid.*, p. 18.
|
|||
|
|
|||
|
[^15]: *Ibid.*, p. 25.
|
|||
|
|
|||
|
[^16]: Le Corbusier, *Cinque punti per una nuova architettura* (1927),
|
|||
|
in Mara De Benedetti e Attilio Pracchi, *Antologia dell'architettura
|
|||
|
moderna. Testi, manifesti, utopie*, Zanichelli, Bologna 1988, p. 381.
|
|||
|
Continua Le Corbusier a proposito della pianta libera: "Non esistono più
|
|||
|
pareti portanti, ma soltanto membrane dello spessore desiderato.
|
|||
|
Conseguenza di ciò l'assoluta libertà nella progettazione della pianta,
|
|||
|
cioè la libera disposizione delle risorse esistenti".
|
|||
|
|
|||
|
[^17]: Fredric Jameson, *Postmodernismo ovvero la logica culturale del
|
|||
|
tardo capitalismo*, Fazi Editore, Roma 2007, pp. 315-20.
|
|||
|
|
|||
|
[^18]: *Ibid.*, pp. 319-20.
|
|||
|
|
|||
|
[^19]: Karl Marx, *Il 18 brumaio di Luigi Napoleone* (1852), in Marx e
|
|||
|
Engels, *Opere complete* cit., vol. XI, p. 107.
|
|||
|
|
|||
|
[^20]: Vittorio Savi e Josep Maria Montaner, *Less is more. Minimalisme
|
|||
|
en arquitectura i d'altres arts*, Col•legi d'Arquitectes de Catalunya -
|
|||
|
editorial Actar, Barcelona 1996.
|
|||
|
|
|||
|
[^21]: Aureli, *Less Is Enough* cit., p. 8.
|
|||
|
|
|||
|
[^22]: Han, *Psicopolitica* cit., p. 46.
|
|||
|
|
|||
|
[^23]: Owen Hopkins, *Architecture and Freedom: a changing connection*,
|
|||
|
in
|
|||
|
<https://www.royalacademy.org.uk/article/exploring-architecture-and-freedom>,
|
|||
|
2 settembre 2015. Vedi anche "Architectural Design", vol. 88, n. 3,
|
|||
|
maggio-giugno 2018, fascicolo curato dallo stesso Hopkins e interamente
|
|||
|
dedicato a *Architecture and Freedom. Searching for Agency in a
|
|||
|
Changing World*.
|
|||
|
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|||
|
[^24]: Francis Fukuyama, *La fine della storia e l'ultimo uomo*,
|
|||
|
Rizzoli, Milano 1992.
|
|||
|
|
|||
|
[^25]: Su ciò vedi Patrik Schumacher (a cura di), *Parametricism 2.0.
|
|||
|
Rethinking Architecture's Agenda for the 21st Century*, Academy
|
|||
|
Editions, London 2016.
|
|||
|
|
|||
|
[^26]: Jürgen Mayer H., *Metropol Parasol*, Hatje Cantz Verlag,
|
|||
|
Ostfildern 2011; vedi inoltre Id., *Could Should Would*, scritti di
|
|||
|
Georges Teyssot, Ana Miljacki e John Paul Ricco, ivi 2015.
|
|||
|
|
|||
|
[^27]: Farshid Moussavi, *The Function of Style*, Actar, New York 2014,
|
|||
|
ma anche Id., *The Function of Form*, Actar, Barcelona 2009.
|
|||
|
|
|||
|
[^28]: Vedi ad esempio Giancarlo De Carlo e Franco Bunčuga,
|
|||
|
*Conversazioni su architettura e libertà* (2000), Elèuthera, Milano
|
|||
|
2018.
|
|||
|
|
|||
|
[^29]: Scrive lo stesso Jean Nouvel, *Real/Virtual*
|
|||
|
([www.jeannouvel.com/en/projects/fondation-cartier-2/](http://www.jeannouvel.com/en/projects/fondation-cartier-2/)),
|
|||
|
a proposito di quello che significativamente chiama "il fantasma nel
|
|||
|
parco": "L'architettura riguarda la leggerezza, con una raffinata
|
|||
|
struttura di acciaio e vetro. Architettura in cui il gioco consiste nel
|
|||
|
confondere i confini tangibili dell'edificio e rendere superflua la
|
|||
|
lettura di un volume solido tra la poetica della sfocatura e
|
|||
|
dell'effervescenza. Quando la virtualità è attaccata dalla realtà,
|
|||
|
l'architettura deve avere più che mai il coraggio di assumere l'immagine
|
|||
|
della contraddizione". La Fondation Cartier pour l'art contemporain è
|
|||
|
del 1991-94.
|
|||
|
|
|||
|
[^30]: Junya Ishigami, *Freeing Architecture*, catalogo della mostra,
|
|||
|
Fondation Cartier pour l'art contemporain -- LIXIL Publishing,
|
|||
|
Paris-Tokyo 2018.
|
|||
|
|
|||
|
[^31]: Ishigami, *Freeing Architecture* cit., pp. 180-89.
|
|||
|
|
|||
|
[^32]: *Ibid.*, pp. 190-94.
|
|||
|
|
|||
|
[^33]: *Ibid.*, p. 309.
|
|||
|
|
|||
|
[^34]: Colin Rowe, *L'architettura delle buone intenzioni. Verso una
|
|||
|
visione retrospettiva possibile* (1994), Pendragon, Bologna 2005.
|
|||
|
|
|||
|
[^35]: Ishigami, *Freeing Architecture* cit., p. 309.
|
|||
|
|
|||
|
# L'architetto come "produttore" e l'architettura come progetto
|
|||
|
|
|||
|
> Per gli architetti, la scoperta del loro declino come ideologhi
|
|||
|
> attivi, la constatazione delle enormi possibilità tecnologiche
|
|||
|
> utilizzabili per razionalizzare le città e i territori, unita alla
|
|||
|
> quotidiana constatazione del loro spreco, l'invecchiamento dei metodi
|
|||
|
> specifici di progettazione, prima ancora di poterne verificare nella
|
|||
|
> realtà le ipotesi, generano un clima ansioso, che lascia intravvedere
|
|||
|
> all'orizzonte uno sfondo molto concreto e temuto come il peggiore dei
|
|||
|
> mali: il declino della "professionalità" dell'architetto e
|
|||
|
> l'inserimento di questi, senza più remore tardoumanistiche, in
|
|||
|
> programmi in cui il ruolo ideologico dell'architettura sia minimo[^1].
|
|||
|
|
|||
|
Per comprendere quanto si sia trasformata la condizione dell'architetto
|
|||
|
dal momento in cui Manfredo Tafuri ha formulato la sua analisi -- ma al
|
|||
|
tempo stesso quanto di quest'ultima si sia nel frattempo avverato --, è
|
|||
|
necessario ripartire proprio dal punto in cui tale analisi è stata
|
|||
|
giudicata eccessivamente "drammatica", e dunque nella sostanza è stata
|
|||
|
del tutto fraintesa. Si tratta della famosa (e presunta) "profezia"
|
|||
|
della "morte dell'architettura". Lo stesso Tafuri vi allude, facendo
|
|||
|
riferimento alle reazioni a *Per una critica dell'ideologia
|
|||
|
architettonica*, da molti letto come un "omaggio a un atteggiamento
|
|||
|
apocalittico, come "poetica della rinuncia", come estrema denuncia di
|
|||
|
una "morte dell'architettura""[^2]. Tale lettura distorta,
|
|||
|
sorprendentemente diffusa[^3], ha finito per distorcere a sua volta il
|
|||
|
quadro critico successivo. Non soltanto quindi l'analisi tafuriana,
|
|||
|
cosí travisata, è stata bollata come "oscura profezia", del tutto priva
|
|||
|
di "valore scientifico"[^4], ma ha spinto anche molti (architetti non
|
|||
|
meno che storici e critici) a diffidare a priori di ciò che in essa era
|
|||
|
contenuto; mancando in questo modo di scorgervi quanto per loro -- e per
|
|||
|
le generazioni che sarebbero venute dopo di loro -- poteva invece essere
|
|||
|
utile.
|
|||
|
|
|||
|
Quando Tafuri parla di "estinguersi (...) del ruolo di una
|
|||
|
disciplina"[^5], di "crisi della funzione ideologica
|
|||
|
dell'architettura"[^6], intende riferirsi all'esaurirsi di un compito
|
|||
|
storico, non certo formulare catastrofistici pronostici in merito al
|
|||
|
futuro di entrambe. In questo senso, se proprio di "morte" si dovesse
|
|||
|
parlare, ciò non riguarderebbe per nulla l'architettura intesa come
|
|||
|
fatto materiale (costruito o anche solo progettato): piuttosto
|
|||
|
l'architettura come sistema di pratiche, come professione che
|
|||
|
tradizionalmente al proprio centro custodisce l'idea di disegnare (ossia
|
|||
|
progettare)[^7] e organizzare lo spazio, da quello domestico a quello
|
|||
|
urbano (e volendo anche oltre), e che in quanto tale comporta sempre,
|
|||
|
necessariamente, anche aspetti relazionali, sociali, etici e
|
|||
|
politici[^8]. Se "morte" (o forse meglio, eclissi) vi è, ciò che viene
|
|||
|
meno è un certo modo di concepire alcune parti (o addirittura l'intero
|
|||
|
*corpus*) dell'architettura intesa in questo senso.
|
|||
|
|
|||
|
Come l'architettura nella sua dimensione materiale, cosí anche
|
|||
|
l'architettura come processo è soggetta alle dinamiche storiche; e
|
|||
|
dunque, cosí come cambiano gli edifici nel corso della storia, cambia
|
|||
|
anche il modo in cui la disciplina architettonica viene intesa da un
|
|||
|
punto di vista concettuale. In *Per una critica dell'ideologia
|
|||
|
architettonica* e *Progetto e utopia*, Tafuri ha cercato di articolare
|
|||
|
storicamente le cause (e in misura minore, gli effetti) di questi
|
|||
|
cambiamenti. Dall'Illuminismo alle avanguardie del Novecento,
|
|||
|
dall'utopia come progetto ideologico alla depurazione dell'ideologia da
|
|||
|
ogni tratto utopistico, il ciclo storico da lui individuato mostra una
|
|||
|
traiettoria ben precisa per quanto riguarda la concezione
|
|||
|
dell'architettura da un punto di vista disciplinare: l'assunzione su di
|
|||
|
sé di compiti di gestione dei grandi mutamenti produttivi e sociali che
|
|||
|
hanno avuto luogo a partire dalla Rivoluzione industriale, e che si
|
|||
|
prolungheranno fino ai primi tre decenni del XX secolo, per essere
|
|||
|
riattivati ancora dopo la guerra. Per la cultura disciplinare, faro di
|
|||
|
questo vorticoso e spesso contraddittorio sviluppo sono i miti della
|
|||
|
razionalizzazione e della pianificazione, declinati a vario titolo e in
|
|||
|
diversi contesti, fino al momento in cui -- come rileva Tafuri -- le
|
|||
|
verranno sottratti dalle politiche dei "paesi a capitalismo avanzato
|
|||
|
come gli Usa o a capitale socializzato come l'Urss"[^9]. Cosicché,
|
|||
|
|
|||
|
> ... dopo aver anticipato ideologicamente la ferrea legge del piano,
|
|||
|
> gli architetti, incapaci di leggere storicamente il percorso compiuto,
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> si ribellano alle estreme conseguenze dei processi che essi hanno
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> contribuito a innescare[^10].
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La comprensione di tali mutamenti -- oggi come allora -- si rivela un
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elemento fondamentale. Rimanerne all'oscuro, o addirittura negarli,
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equivale a rimanere del tutto estranei alla propria epoca, e di
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conseguenza essere esclusi dalla possibilità di leggerla criticamente.
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Per utilizzare la già richiamata distinzione proposta da Benjamin, in
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una misura non trascurabile questo tipo di condizione costituisce il
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presupposto "migliore" per mettere chi vi si dispone nella posizione del
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"rifornitore", vale a dire in uno stato di muta e cieca acquiescenza nei
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confronti della società per cui opera.
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Ma prima di passare ad analizzare quali siano gli effetti del cambio di
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statuto dell'architettura attuale rispetto a quello di precedenti epoche
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storiche, bisogna sgombrare il campo dalla possibile "impressione" che
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la supposta eclissi di una certa idea di architettura, verificatasi a
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partire dagli anni sessanta e settanta, possa essere il frutto esclusivo
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di una "deformazione" tafuriana. A corroborare l'ipotesi relativa alla
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"crisi della funzione ideologica" dell'architettura, con particolare
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riferimento a quel periodo, può quindi essere utile la coeva
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testimonianza di De Carlo:
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> Guardando con freddezza quel che accade, si può dire che
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> l'architettura non interessa più nessuno. Non interessa i clienti
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> tradizionali perché non risolve in modo efficiente e rapido i loro
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> problemi di investimento e di potere; non interessa le istituzioni
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> perché produce simboli troppo flebili e sbiaditi in confronto a quelli
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> che producono altri settori di attività più potenti e aggressivi; non
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> interessa la gente comune perché non propone nulla che corrisponda
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> alle sue aspettative. Perciò, dal momento che non interessa più
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> nessuno, l'architettura è condannata a una rapida estinzione[^11].
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La fosca premonizione di Giancarlo De Carlo, formulata quasi mezzo
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secolo fa, sembrerebbe a prima vista sconfessata dall'evidenza dei
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fatti: l'architettura -- nonostante tutto -- esiste, continua a
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esistere.
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Tuttavia, a un'analisi più attenta, le parole di De Carlo non sono poi
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cosí lontane dal vero: l'architettura, intesa nel senso in cui la
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intende l'architetto genovese -- qualcosa che sia il frutto di un vero
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*interesse*, ovvero di un effettivo *essere-tra*, un intreccio di
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relazioni tra *esseri* diversi, ciascuno dotato di un proprio status di
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correlazione ma al tempo stesso d'indipendenza dagli altri --, non
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soltanto è destinata a sparire ma probabilmente non esiste già più
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(ammesso poi che, in una forma più "piena", sia mai esistita). E qui,
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ancora una volta, bisogna fare chiarezza: l'architettura esiste, certo,
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nella sua concretezza, in forma di edifici per la "gente comune",
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rispetto alle cui "aspettative" però risulta spesso deludente. Ed
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esiste in forma di sedi di rappresentanza di quelle "istituzioni"
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(pubbliche o private) che tuttavia in effetti, nella gran parte dei
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casi, cercano e trovano altrove i propri simboli, in settori "più
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potenti e aggressivi" -- primi fra tutti il marketing e la pubblicità --
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cui la stessa architettura è subordinata e spesso assimilata. Per
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quanto riguarda i "clienti tradizionali", invece -- appartenenti, lungo
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tutto il corso del Novecento, in modo preponderante al mondo
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imprenditoriale e politico --, sono proprio questi a essere scomparsi,
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soppiantati da nuovi committenti desiderosi assai meno di radicare i
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loro "interessi" in oggetti stabili e materiali, per investirli di
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preferenza in entità immateriali e "volatili". Con significative
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differenze, comunque, tra nuova committenza politica -- strenuamente
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impegnata a ostentare il massimo distacco (apparente) del potere dal
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"palazzo", e dunque poco interessata a farsene emblema --, e nuova
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committenza imprenditoriale. In quest'ultimo caso, il problema non è
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tanto la differente accezione del termine "interesse", la sua
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declinazione in senso prettamente economico anziché relazionale. Che
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gli interessi degli investitori siano di tipo economico è qualcosa che
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non riesce a sconvolgere neanche i più incalliti idealisti. La
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metamorfosi decisiva in questo campo è piuttosto quella relativa al
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passaggio da un capitalismo "padronale", ancora radicato in territori e
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culture, a un capitalismo finanziario, senza volto e senza "testa", e
|
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dunque impersonale e invisibile; un capitalismo per il quale sono assai
|
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poco importanti le appartenenze, le vicende, i linguaggi e le
|
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problematiche locali. Ed è proprio questo sradicamento, con tutte le
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sue conseguenze, di cui De Carlo "pre-sente" minacciosamente l'arrivo.
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Non è dunque tanto sul piano dell'architettura realizzata (o anche solo
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pensata) che oggi sembra avverarsi la "prognosi" di De Carlo, quanto
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|
piuttosto sul piano concettuale e simbolico. Sul piano -- si potrebbe
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dire -- del *senso*. Nella società odierna l'architettura non "conta",
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|
o lo fa molto meno di un tempo. Si legga ancora De Carlo:
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> Per convincersi che non è una battuta terroristica, e neanche una
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> semplice battuta, basta scorrere le diagnosi degli esperti che
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> confortano le decisioni dei politici ai quali sono affidate le sorti
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> del mondo. Queste diagnosi concordano nel dichiarare che la questione
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|
> dell'organizzazione dello spazio fisico è molto grave, ma anche molto
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> semplice. Per risolverla basta identificare i problemi più salienti
|
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> che sono quelli della residenza e del trasporto -- e affidarli a chi è
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> in grado di affrontarli con la massima rapidità e col minimo
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> sforzo[^12].
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Massima rapidità e minimo sforzo: sono le modalità con cui agisce
|
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preferenzialmente la logica capitalista, anzi -- per l'esattezza -- sono
|
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|
i suoi obiettivi primari. D'altronde, dalle parole di De Carlo risulta
|
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|
evidente come, in *questa* logica, "chi è in grado di affrontare" tali
|
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|
problemi non sia niente affatto l'architetto cosí come egli stesso lo
|
|||
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intende, capace di organizzare lo spazio nella sua complessità, fisica e
|
|||
|
concettuale; non certo l'architetto per il quale tempo e lavoro
|
|||
|
costituiscono quantità spesso non precisate, sulle quali comunque non
|
|||
|
lesinare. Piuttosto, il pericolo che egli vede incombente è che, per la
|
|||
|
risoluzione di questioni spaziali, in un futuro ormai prossimo, si
|
|||
|
faccia ricorso "agli strumenti più efficaci utilizzandoli per quel che
|
|||
|
possono dare, senza pretendere prestazioni qualitative che sono estranee
|
|||
|
alla loro natura". Difficile dire con esattezza che cosa abbia qui in
|
|||
|
mente De Carlo; l'utilizzo della parola "strumenti" lascia però
|
|||
|
evidentemente intuire il carattere "strumentale" di tali interventi.
|
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|
Mentre la via d'uscita che per parte sua ritiene possibile -- e che di
|
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|
fatto in diverse circostanze nel corso della sua carriera ha proposto --
|
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|
è quella dell'architettura "dalla parte della gente"[^13],
|
|||
|
l'architettura della partecipazione.
|
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|
|||
|
La natura dell'architettura, intesa come somma dei compiti in carico
|
|||
|
all'architetto è, fin dalle sue origini, essenzialmente organizzativa,
|
|||
|
*gestionale*[^14]. Si tratta in sostanza dell'espletamento di alcune
|
|||
|
mansioni specifiche (progettazione, disegno, estimo, scelta dei
|
|||
|
materiali, ecc.) che tuttavia in larga parte sono assorbite nella
|
|||
|
capacità più complessiva dell'architetto medesimo di sovrintendere,
|
|||
|
coordinare e soprattutto *comprendere* le condizioni di possibilità del
|
|||
|
progetto, quand'anche questo venga realizzato da altri. Pur essendo
|
|||
|
parte costitutiva del suo profilo tradizionale, questa attività di
|
|||
|
gestione si è accresciuta nel tempo in tale misura da divenire la parte
|
|||
|
preponderante del suo lavoro. Ma c'è di più: l'estensione dei mercati
|
|||
|
potenziali in seguito alla globalizzazione, la conseguente crescita
|
|||
|
quantitativa e dimensionale degli edifici, la loro sempre maggiore
|
|||
|
complessità tecnologica, la richiesta di competenze sempre più
|
|||
|
specialistiche e diversificate, sono alcuni dei fattori che hanno
|
|||
|
contribuito a togliere all'architetto quella centralità nella produzione
|
|||
|
del progetto che in precedenza deteneva. Ed è qui che l'analisi storica
|
|||
|
di Tafuri "incontra" le considerazioni sulla professione di De Carlo.
|
|||
|
Se infatti la ricognizione genealogica compiuta dal primo individua le
|
|||
|
cause scatenanti della crisi dell'architettura come disciplina, la
|
|||
|
"fenomenologia" del secondo ne nomina lucidamente gli effetti. Che sono
|
|||
|
appunto alla base delle evoluzioni che stiamo vivendo attualmente.
|
|||
|
|
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|
Il formidabile sviluppo degli studi di architettura, in particolar modo
|
|||
|
dalla seconda metà del XIX secolo in avanti, non soltanto in termini di
|
|||
|
numero di persone impiegate ma anche di articolazione interna, di
|
|||
|
complessificazione organizzativa (basti pensare agli *architectural
|
|||
|
firms* sorti a Chicago dopo l'incendio del 1871, vere e proprie aziende
|
|||
|
di progettazione impegnate a fronteggiare l'enorme richiesta di
|
|||
|
*commercial buildings* e *tall buildings*[^15]; o all'*Architekturbüro*
|
|||
|
scientificamente impostato da Otto Wagner per realizzare le stazioni
|
|||
|
della metropolitana e le chiuse del canale del Danubio, affidategli nel
|
|||
|
1894 dalla municipalità di Vienna in qualità di consigliere superiore
|
|||
|
all'edilizia)[^16], corrisponde in epoche più recenti a un altrettanto
|
|||
|
imponente incremento degli apparati gestionali presenti in tali studi,
|
|||
|
perfettamente espresso dal dispiegamento di computer al posto di quelli
|
|||
|
che un tempo erano i tavoli da disegno. È questa la plastica
|
|||
|
dimostrazione del fatto che oggi i sistemi di elaborazione e di
|
|||
|
controllo del progetto sono diventati pressoché interamente
|
|||
|
*strumentali*, come aveva preconizzato De Carlo. E tuttavia, pur
|
|||
|
trattandosi di un mutamento importante, addirittura epocale, non è in
|
|||
|
fondo cosí rilevante da provocare un vero sovvertimento nel modo di
|
|||
|
mettere in rapporto architettura e architetto. Certamente, crescendo
|
|||
|
dimensionalmente, ma soprattutto facendo proprio il modello della
|
|||
|
taylorizzazione del lavoro, gli studi di architettura hanno visto nel
|
|||
|
tempo accrescersi pure la divisione e la specializzazione delle mansioni
|
|||
|
al loro interno; cosicché, negli studi più grandi, accanto agli
|
|||
|
architetti variamente aggettivati (partner, senior, junior, ecc.), si
|
|||
|
trovano oggi frequentemente caddisti, renderisti, specialisti di
|
|||
|
progettazione computazionale, BIM manager, architetti Revit, modellisti,
|
|||
|
archivisti, responsabili dello sviluppo aziendale, esperti in *public
|
|||
|
relations*, addetti ufficio stampa, per nominare solo alcune delle
|
|||
|
posizioni possibili. Ed è altrettanto innegabile che il lavoro di
|
|||
|
architettura, negli studi maggiori per mole e produttività, possa essere
|
|||
|
assimilato a quello svolto in una fabbrica, con tutti gli effetti di
|
|||
|
sfruttamento e alienazione che ne conseguono[^17]. In questa
|
|||
|
condizione, con l'ampliarsi a dismisura della divaricazione tra chi
|
|||
|
occupa posizioni di vertice, di norma in grado di abbracciare la
|
|||
|
complessità -- e in qualche caso anche il senso -- delle operazioni
|
|||
|
eseguite, e chi invece è relegato nelle zone inferiori della scala
|
|||
|
gerarchica, costretto a produrre semplici "spezzoni" di tali
|
|||
|
operazioni[^18], diventa pressoché impossibile parlare di "lavoro
|
|||
|
dell'architetto" in maniera generalizzata e univoca. Aspetto, questo,
|
|||
|
confermato anche dai diversi "nomi" con cui si suole spesso indicare il
|
|||
|
contributo degli uni e degli altri: "opera", nel caso dei primi,
|
|||
|
semplice "lavoro", in quello dei secondi:
|
|||
|
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|||
|
> La parola "opera" evoca la dimensione autoriale di un prodotto, ovvero
|
|||
|
> l'idea che il prodotto, progetto o edificio, sia il frutto
|
|||
|
> dell'architetto. Al contrario, il lavoro (...) in architettura,
|
|||
|
> supera i risultati architettonici tradizionali e comprende l'intero
|
|||
|
> sforzo -- la fatica -- necessario per sostenere la produzione
|
|||
|
> dell'"opera", dal mantenimento personale agli umili lavori che un
|
|||
|
> architetto deve compiere per eseguire un incarico[^19].
|
|||
|
|
|||
|
Benché ovviamente "l'idea stessa di *opera* come qualcosa che possa
|
|||
|
essere limitato alla creazione di un oggetto -- come è ancora preteso
|
|||
|
nella nostra professione -- sia un'insostenibile farsa"[^20].
|
|||
|
|
|||
|
Ma il vero nodo della questione consiste nella profonda modificazione
|
|||
|
che ha subito l'intero processo produttivo dell'architettura, sottoposto
|
|||
|
alle tensioni delle trasformazioni epocali citate più sopra; una
|
|||
|
modificazione che "scavalca" la stessa organizzazione del lavoro dentro
|
|||
|
gli studi (ormai raggiunti dal "modello" post-fordista, con modalità di
|
|||
|
lavoro più "libere" rispetto a quelle precedenti e con un controllo
|
|||
|
delle conoscenze disponibili al suo interno che porta a intenderle ora
|
|||
|
come un "capitale cognitivo")[^21] e che pone urgentemente l'architetto
|
|||
|
di fronte alla necessità di riflettere in merito al proprio ruolo. Se
|
|||
|
da un lato infatti questo è radicalmente cambiato, dall'altro in molti
|
|||
|
casi gli architetti si ostinano a vederlo immutato, se non nei suoi
|
|||
|
aspetti pratici, nel suo significato intrinseco, nel suo valore
|
|||
|
simbolico. A partire da quell'"immagine ideologicamente costruita
|
|||
|
dell'architetto come indiscutibile creatore"[^22] che ancora resiste,
|
|||
|
non soltanto presso un pubblico distratto e poco informato ma anche
|
|||
|
nell'autorappresentazione di molti architetti. Nell'odierna realtà
|
|||
|
progettuale, invece, non muta soltanto l'"identità" dei protagonisti, ma
|
|||
|
anche -- e radicalmente -- il "punto di vista" secondo cui questi vanno
|
|||
|
osservati: in essa, infatti, non più l'architetto, bensì "il progetto,
|
|||
|
suddiviso in parti condotte separatamente, individua diversi ruoli di
|
|||
|
responsabilità e capacità dispiegati lungo il suo processo"[^23]. È il
|
|||
|
*progetto stesso* a "scrivere il proprio destino", cioè a dettare le
|
|||
|
regole, a imporre la propria agenda a tutte le figure professionali che
|
|||
|
incontra sul suo cammino. Se un tempo "ruotava" intorno allo studio di
|
|||
|
architettura (fatta eccezione per gli indispensabili interventi
|
|||
|
ingegneristici, finalizzati all'elaborazione dei calcoli strutturali e
|
|||
|
all'inserimento dei sistemi impiantistici, nonché -- in casi più rari --
|
|||
|
di progettisti d'interni), oggi si potrebbe dire che il progetto ha il
|
|||
|
proprio "centro" in se stesso: dopo essere stato ideato e sviluppato in
|
|||
|
uno studio di architettura nelle fasi preliminare e definitiva, non è
|
|||
|
infrequente che passi di mano e che venga integralmente trasferito a
|
|||
|
società di ingegneria che lo porteranno in modo del tutto autonomo alla
|
|||
|
fase esecutiva, ottimizzandolo (in linguaggio tecnico,
|
|||
|
"ingegnerizzandolo") in vista della realizzazione. Ma spesso i passaggi
|
|||
|
non sono cosí definiti, perché può capitare che il progetto venga
|
|||
|
rielaborato e modificato, anche radicalmente, sotto un profilo
|
|||
|
strutturale, estetico o dei materiali, da altri operatori, prima di
|
|||
|
arrivare alla fase costruttiva; la quale, anch'essa, è di sovente
|
|||
|
frazionata dalla società capo-commessa in molteplici porzioni, ciascuna
|
|||
|
delle quali eseguita da altre imprese mediante appalti separati. Un
|
|||
|
complesso iter nello svolgersi del quale il progetto (o "servizio di
|
|||
|
progettazione", come lo denomina ora il linguaggio burocratico italiano)
|
|||
|
viene variamente -- e da svariati soggetti -- "processato"; termine,
|
|||
|
questo, che lascia involontariamente intendere come il progetto venga
|
|||
|
sottoposto a revisioni nel corso delle quali -- di passaggio in
|
|||
|
passaggio -- perde via via ogni traccia di una paternità (o
|
|||
|
maternità)[^24] che in altre epoche l'affiancarsi di altri nomi e
|
|||
|
competenze a quelli dell'architetto poteva contribuire semmai a
|
|||
|
precisare, ma in nessun modo mettere in dubbio.
|
|||
|
|
|||
|
Si tratta dunque di un "processo" -- frutto di una competizione più che
|
|||
|
di una cooperazione -- che può portare anche alla completa alienazione
|
|||
|
dei "diritti" sul progetto da parte del suo ideatore originario; sempre
|
|||
|
ammesso poi che abbia ancora senso definire "autore" di un progetto chi,
|
|||
|
come accade in molte circostanze, ne cede di fatto la proprietà
|
|||
|
materiale e intellettuale nel momento stesso in cui questo passa di
|
|||
|
mano.
|
|||
|
|
|||
|
Il fatto che nell'epoca contemporanea il progetto -- dietro apparenze
|
|||
|
spesso ingannevoli -- sia costitutivamente "in cerca di autore",
|
|||
|
dimostra quanto esso sia indipendente dallo stesso architetto. Ma si
|
|||
|
tratta soltanto di una "spia" che segnala una situazione di allarme più
|
|||
|
generale. È la prova che l'architettura, ben lungi dall'essere il punto
|
|||
|
focale del progetto, è ormai soltanto una "tappa" -- e a volte neppure
|
|||
|
la più rilevante -- di un percorso ben più lungo e intricato. Ma
|
|||
|
proprio qui sta il problema: nell'accettare il lavoro di architettura
|
|||
|
come mansione limitata, parziale, scorporabile da una lettura e da
|
|||
|
un'interpretazione più complessiva e allargata della città e della
|
|||
|
società, ovvero della politica e dell'economia -- nell'accettare
|
|||
|
l'architettura come *mestiere specializzato*, come "comparto" operativo
|
|||
|
del capitale --, l'architetto definisce la propria posizione rispetto a
|
|||
|
esso prima ancora di aver compiuto qualsiasi "gesto" progettuale.
|
|||
|
|
|||
|
Certo, si è detto, l'architettura intesa come edificio materiale
|
|||
|
continua -- nonostante tutto -- a sussistere. E, a dispetto delle
|
|||
|
insidie di cui si fa portatore ogni giorno il mondo virtuale, non è
|
|||
|
stato ancora trovato un valido sostituto per gli edifici reali, in
|
|||
|
"carne e ossa". Pur attraversando fasi altalenanti, dunque, il settore
|
|||
|
delle costruzioni rimane sempre uno dei comparti migliori a cui affidare
|
|||
|
capitali in cerca di collocazioni sicure. Di conseguenza, architetti e
|
|||
|
studi di architettura, nella misura in cui riescono a sconfiggere una
|
|||
|
concorrenza che si presenta sempre più numerosa e agguerrita, sembrano
|
|||
|
avere lavoro assicurato. Non tutti naturalmente se la cavano bene, ma
|
|||
|
l'obiettivo comune alla gran parte di essi risulta ben chiaro:
|
|||
|
concorrere ciascuno alla costruzione di un pezzo del mondo come lo
|
|||
|
conosciamo, *lasciandolo cosí com'è* (con soltanto marginali
|
|||
|
aggiustamenti, nella maggioranza dei casi di carattere estetico). Sono
|
|||
|
gli architetti "rifornitori". Ma che cosa ne è degli architetti
|
|||
|
"produttori"? È cosí che Benjamin chiama coloro che trasformano *in
|
|||
|
senso tecnico* l'apparato produttivo[^25].
|
|||
|
|
|||
|
Va chiarito immediatamente che non esistono architetti "rifornitori" e
|
|||
|
architetti "produttori" *a priori*. È soltanto in relazione alla
|
|||
|
posizione che ciascuno di essi assume nella realtà concreta dei processi
|
|||
|
produttivi dell'architettura -- se li accetta passivamente facendosene
|
|||
|
semplice tramite o se invece piuttosto li reinterpreta criticamente al
|
|||
|
punto da riuscire a *trasformarli* sotto qualche profilo
|
|||
|
dall'interno[^26] -- che si determinerà il loro essere "rifornitori" o
|
|||
|
"produttori". Esattamente la stessa posizione sulla base della quale,
|
|||
|
nota ancora Benjamin, "può essere stabilito o meglio *scelto* (...) il
|
|||
|
posto dell'intellettuale nella lotta di classe"[^27]. E qui è
|
|||
|
necessario affrontare una questione essenziale: ha ancora senso questo
|
|||
|
discorso *al di fuori* della prospettiva della "lotta di classe"? Vale
|
|||
|
a dire, al di fuori di una prospettiva *rivoluzionaria* quale sussisteva
|
|||
|
per Benjamin? Non è forse proprio la mancanza di questa -- o quantomeno
|
|||
|
di un'ideologia o di una finalità condivisa, sia pur meno radicale -- a
|
|||
|
rendere difficile, se non addirittura impossibile, attualizzare il
|
|||
|
discorso di Benjamin? Alla risposta più apparentemente ovvia e immediata
|
|||
|
-- in assenza di una "lotta di classe" tale discorso è *ipso facto*
|
|||
|
destituito di senso -- bisogna opporre una risposta più meditata.
|
|||
|
L'attuale mancanza di un'alternativa politica al capitalismo è un fatto
|
|||
|
assodato. Se mai ce ne fosse bisogno, sotto un profilo disciplinare
|
|||
|
questo è "provato" dall'odierna rilettura in senso puramente
|
|||
|
"scientifico" (con Carl Schmitt si potrebbe dire "neutralizzazione",
|
|||
|
ovvero *de-politicizzazione*)[^28] dell'architettura, i cui obiettivi --
|
|||
|
dall'edificio alla città, per giungere ad *habitat* ancora più allargati
|
|||
|
-- sono umani e sociali, e dunque eminentemente politici. Oggi, al
|
|||
|
posto degli obiettivi collettivi politicamente condivisi il cui
|
|||
|
raggiungimento Benjamin poteva quantomeno indicare, si impongono
|
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|
interessi individuali in cui, al di là di una pur significativa ma nella
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maggior parte dei casi generica vocazione a "cambiare il mondo" con il
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proprio intervento, prevalgono "obiettivi" come l'affermazione personale
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e l'ottenimento di maggiori guadagni.
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E tuttavia, a ben guardare, esiste un più che diffuso malessere nei
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confronti di condizioni di vita e di lavoro che tocca punti di vista non
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soltanto individuali. Si tratta di un disagio che trascende, in larga
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misura, la singolarità di una visione soggettiva, limitata e parziale, e
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che coinvolge ormai quella che Paolo Virno chiama una
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"moltitudine"[^29]. Pur essendo priva di una prospettiva unitaria, la
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moltitudine ha in comune "il linguaggio, l'intelletto, le comuni facoltà
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del genere umano"[^30]. I tanti soggetti individuali che la compongono
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condividono tra loro aspirazioni e bisogni. E ciò tanto più in un
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comparto ben definito qual è quello che ruota intorno al mondo
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dell'architettura. All'interno di questo, da alcuni anni a questa
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parte, si sono individuati non soltanto motivi d'insoddisfazione comuni
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(primo fra tutti, condizioni di sfruttamento selvaggio dei lavoratori
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che spesso non hanno paragoni nel panorama del lavoro intellettuale, e
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neppure di quello manuale)[^31], ma anche forme di relazioni
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intersoggettive che, se non arrivano certo a definire un vero e proprio
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soggetto politico, hanno però almeno la capacità di inquadrare i
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problemi in modo analitico[^32], e istituire reti di comunicazione e di
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scambio tra i soggetti coinvolti. Sono ancora lontani dall'essere messi
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a fuoco, in tutto ciò, comportamenti solidali e rivendicazioni
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condivise; ma soprattutto manca una vera e propria "coscienza di
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classe", sostituita al momento da una più generica consapevolezza di
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appartenenza, di compartecipazione a una medesima condizione o
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"destino". Al tempo stesso, però, vi sono diffusi e ricorrenti segnali
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di un risveglio di attenzione e di interesse nei confronti di una
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lettura politica della disciplina architettonica nel suo complesso, in
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netta controtendenza rispetto all'orientamento ancora dominante che vede
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in essa l'esclusiva espressione di una cultura scientifico-tecnologica,
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cui corrispondere in termini "prestazionali" e professionalistici. Ed è
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sulla strada -- pur lunga e difficoltosa -- dell'individuazione di
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strategie e dell'adozione di tattiche finalizzate all'organizzazione di
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una maggior "resistenza" e di una lotta più efficace e consapevole, che
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i testi di Benjamin -- e in particolare quello citato -- hanno spesso
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rappresentato un fondamentale viatico per la cultura
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architettonica[^33]. Benché naturalmente al di fuori di qualsiasi
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realistica prospettiva di rivoluzione, la *prospettiva rivoluzionaria*
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proposta da Benjamin -- specificamente rivolta al lavoro intellettuale
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-- ha fornito e continua a fornire un impulso e una possibile "linea di
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condotta" per i soggetti coinvolti a vario titolo nel processo
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produttivo dell'architettura. Distogliendo lo sguardo dagli scenari più
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"eroici" della lotta di classe, per fissarlo sull'obiettivo più
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circoscritto delle dinamiche interne ai rapporti di produzione, il testo
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di Benjamin apre uno squarcio in un momento storico quasi senza
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speranze. L'alternativa tra farsi "rifornitori" o "produttori" di tali
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rapporti mantiene infatti la propria validità anche al di fuori di
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prospettive politiche più radicali, offrendosi come opportunità per chi,
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pur essendo *dentro* di essi, intenda porsi *contro* le logiche che li
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informano.
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E proprio dal testo di Benjamin emerge un dato importante: le posizioni
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occupate nel processo produttivo sono frutto di una *scelta*. Nessun
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ostacolo logico esiste, di ordine trascendentale, che impedisca di
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posizionarsi nell'una o nell'altra. Ciò non significa che sia una
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"libera" scelta: essa dipende comunque da condizionamenti e congiunture,
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cosí come dipende dal punto a partire dal quale viene compiuta. Vi sono
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fattori economici in gioco, ma anche culturali e sociali, che vincolano
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tale scelta, orientandola in un senso o nell'altro. Ma pur con tutti i
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limiti ipotizzabili ed entro condizioni storicamente determinate, la
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scelta della propria posizione nel processo produttivo da parte
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dell'architetto si presenta -- se non certo libera in assoluto --
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quantomeno *possibile*. Come in altre contingenze della vita
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individuale e sociale, è il risultato della composizione, in positivo o
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in negativo, di convenzioni e convenienze che possono influenzarla,
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quando non addirittura determinarla del tutto. Ma ciò nondimeno è e
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rimane anche una *decisione*: un "taglio" netto, deliberato, che risolve
|
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la *quaestio* in un modo o nell'altro. Come tutte le decisioni,
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|
comporta un'assunzione di responsabilità e l'esercizio di una
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convinzione[^34]. Non è insomma possibile -- di fronte all'occupazione
|
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dell'una o dell'altra posizione -- invocare l'ineluttabilità delle
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|
circostanze o del "fato", non comunque in una misura determinante.
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|
Ma, come non esistono architetti "rifornitori" e architetti "produttori"
|
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*a priori*, neppure esistono architetti "rifornitori" e architetti
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"produttori" una volta per tutte. Ciascun architetto compie la propria
|
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|
scelta ogni giorno, in ogni momento, spesso inconsapevolmente, e
|
|||
|
altrettanto di frequente in modo inapparente, non dichiarato. Lo fa
|
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nell'ambito del proprio lavoro, accogliendo o meno offerte che le/gli
|
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vengono fatte, soddisfacendo o meno condizioni che le/gli vengono
|
|||
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imposte, ridiscutendo progetti che le/gli vengono commissionati,
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ponendosi o meno a disposizione nell'accettare compromessi o
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|
imposizioni.
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Insomma, si tratta di casi molto frequenti e di scelte molto concrete,
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che portano l'architetto a posizionarsi come "rifornitore" dell'apparato
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di produzione, oppure piuttosto come "produttore". Ma produttore di che
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|
cosa? Come va inteso esattamente questo termine? Non è forse anche
|
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|
l'architetto "rifornitore" un produttore, nella misura in cui realizza
|
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per l'appunto "prodotti"? Innanzitutto si può dire -- anzi ribadire --
|
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|
che tutta l'architettura è un prodotto, vale a dire una merce. La
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|||
|
natura di merce dell'architettura non è minimamente revocata, e neppure
|
|||
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insidiata, dall'intervento dell'architetto "produttore" invece che da
|
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quello dell'architetto "rifornitore", o viceversa. Ma se l'architettura
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|||
|
è senza dubbio un prodotto nel caso di entrambi, in quello
|
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|
dell'architetto "produttore" si può dire che essa è *anche* un prodotto,
|
|||
|
ma non solo: ovvero non è un prodotto-e-basta. Essa è anche -- ed
|
|||
|
essenzialmente -- un *progetto*. Non però quel "progetto" che
|
|||
|
l'architetto in quanto architetto produce (o meglio, dovrebbe produrre,
|
|||
|
se altri operatori, altri "attori" -- come si è visto -- non ne
|
|||
|
insidiassero il compito) in vista di una possibile realizzazione.
|
|||
|
Piuttosto un progetto da intendersi come *idea*, come *finalità* (e non
|
|||
|
come semplice presupposto) dell'architettura medesima.
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|
L'avvicinamento di prodotto e progetto non è affatto inedito o
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sorprendente.
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> Pro-durre e pro-getto sono termini solidali, rappresentano, nel nostro
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> linguaggio, un'unica "famiglia". Il progetto è inteso come
|
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> intrinsecamente produttivo: esso elabora modelli di produzione. Il
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|||
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> pro-durre è compreso nel pro-getto che ne illumina il senso e il
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> fine[^35].
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|
In realtà, molto più di quanto si possa pensare, il progetto è distante
|
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da una dimensione semplicemente produttiva-predittiva (idea che
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|
linearmente anticipa la propria realizzazione), per aprirsi invece alla
|
|||
|
"massima (...) irruzione dell'imprevedibile"[^36]. È questa idea di
|
|||
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progetto che s'affaccia nella produzione dell'architetto "produttore":
|
|||
|
dove dunque l'architettura *come progetto* non indica il mero
|
|||
|
svolgimento di un'intenzione iniziale, l'attuazione di qualcosa di
|
|||
|
interamente presente in essa, e perciò di perfettamente aderente a un
|
|||
|
programma "dato" (e "dato" appunto dal processo produttivo come tale),
|
|||
|
bensì qualcosa che "eccede" da esso, che si apre a possibilità
|
|||
|
ulteriori, non previste, azzardate, che mettono in crisi il processo
|
|||
|
produttivo medesimo.
|
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|||
|
Architettura come progetto significa che l'architettura *nel suo
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|||
|
complesso*, come disciplina pratica *e* concettuale, in tutti i suoi
|
|||
|
aspetti e passaggi -- dall'elaborazione teorica all'organizzazione
|
|||
|
produttiva, passando naturalmente anche per il progetto architettonico
|
|||
|
inteso in senso tradizionale, con tutti i processi che ne rendono
|
|||
|
possibile la realizzazione -- è ripensata in una prospettiva
|
|||
|
progettuale, nell'accezione "aperta", arrischiata al futuro, enunciata
|
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|
poc'anzi.
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|
Per rendere più facilmente comprensibile come ciò vada inteso (e per
|
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|
dissolvere il possibile equivoco ingenerato dalla somiglianza formale
|
|||
|
delle espressioni "architettura come progetto" e progetto
|
|||
|
architettonico, cui corrisponde nei fatti un'abissale distanza), si
|
|||
|
potrebbe richiamare il senso che il termine "progetto" assume allorché
|
|||
|
ci si riferisce a un progetto letterario o artistico o, ancora, a un
|
|||
|
progetto politico, o a un progetto di vita; dove il "progetto" in
|
|||
|
questione non ha palesemente nulla a che fare con pratiche relative a
|
|||
|
quegli ambiti, come accade invece nel caso dell'architettura. Oppure,
|
|||
|
più propriamente, si potrebbe richiamare l'uso che ne ha fatto Tafuri a
|
|||
|
proposito del "progetto" storico[^37]; appare chiaro, infatti, in questo
|
|||
|
caso, come non soltanto il lavoro storico in generale venga assimilato a
|
|||
|
un "progetto" ma come tale "progetto" sia per molti versi assimilabile a
|
|||
|
quello aperto, arrischiato e capace di mettere in crisi il proprio
|
|||
|
stesso processo produttivo descritto in precedenza[^38]: un "progetto"
|
|||
|
che non a caso egli definisce "progetto di crisi"[^39]. È lo stesso
|
|||
|
orizzonte a cui si riferisce Cacciari parlando della tecnica in
|
|||
|
relazione al noto saggio di Benjamin: "Non si dà discorso autentico
|
|||
|
sulle tecniche, finché non se ne *teorizza* la struttura di *crisi*:
|
|||
|
esse non avvengono che in base a crisi -- a causa del trasformarsi degli
|
|||
|
assetti culturali precedenti"[^40]. E ancora: "La crisi non è un
|
|||
|
momento che lo sviluppo delle tecniche attraversa, ma la loro immanente
|
|||
|
struttura". Una "coincidenza" niente affatto casuale, dal momento che è
|
|||
|
l'analisi dello stesso Cacciari a "finire" per occuparsi proprio
|
|||
|
dell'*Autore come produttore*. Qui, quanto precedentemente affermato in
|
|||
|
merito alla capacità del progetto di mettere in crisi --
|
|||
|
*trasformandoli* -- i processi produttivi, viene ulteriormente
|
|||
|
illuminato: infatti
|
|||
|
|
|||
|
> \[La\] crisi non può essere operata speculativamente -- riflettendo
|
|||
|
> *dall'esterno* sul processo di trasformazione. Essa deve essere
|
|||
|
> *prodotta*. (...) Qualsiasi posizione intellettuale che non si ponga
|
|||
|
> come *produttiva* è reazionaria. Ma *produttiva* significa: non
|
|||
|
> soltanto integrata nel rapporto di produzione -- ma in grado di
|
|||
|
> trasformarne-metterne in crisi l'apparato tecnico-linguistico[^41].
|
|||
|
|
|||
|
L'architettura come progetto non indica dunque un "progetto" *per* essa
|
|||
|
o *con* essa: piuttosto indica l'essere progetto *essa stessa*. E un
|
|||
|
progetto non semplicemente confermativo bensì effettivamente
|
|||
|
*trasformativo* degli apparati produttivi; un progetto di crisi.
|
|||
|
Soggetto di tale progetto di crisi è l'architetto come produttore, o per
|
|||
|
dir meglio, l'architetto che accetti di calarsi *dentro* tali apparati,
|
|||
|
confrontandosi con essi, con le loro forme, i loro linguaggi, e al tempo
|
|||
|
stesso scelga di criticarli, andando *contro* una loro riproposizione
|
|||
|
immutata. Non si tratta affatto -- si badi bene -- di mere
|
|||
|
"astrazioni". Piuttosto di ben precise *relazioni* sviluppabili
|
|||
|
all'interno della catena di produzione attraverso i diversi anelli della
|
|||
|
quale il progetto architettonico man mano transita: relazioni con gli
|
|||
|
altri soggetti e le altre competenze della catena di produzione;
|
|||
|
relazioni con le amministrazioni pubbliche, con le istituzioni e con i
|
|||
|
committenti privati; relazioni con le imprese di costruzioni e con le
|
|||
|
maestranze; relazioni con i fornitori; relazioni con l'utenza di un
|
|||
|
edificio e più in generale con la cittadinanza e con il pubblico;
|
|||
|
relazioni con gli altri componenti dello studio; relazioni con gli altri
|
|||
|
studi; relazioni con il mondo della comunicazione dell'architettura
|
|||
|
(editoria, riviste, giornali, internet); relazioni infragenerazionali e
|
|||
|
con gli studenti. Tali relazioni risultano naturalmente tanto più
|
|||
|
significative quanto più i soggetti implicati sono disponibili a
|
|||
|
lasciarsi coinvolgere e a farsi mutare, ma non escludono neppure il
|
|||
|
ricorso a modalità conflittuali[^42]; anzi, spesso ciò è inevitabile.
|
|||
|
|
|||
|
A questo elenco si possono aggiungere l'organizzazione del lavoro
|
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|
interna allo studio; il quadro legislativo entro il quale l'architetto
|
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|
si muove; il corpus teorico disciplinare; le possibili analisi storiche,
|
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|
sociologiche, economiche, politiche compiute su architettura e città; e
|
|||
|
ovviamente il progetto vero e proprio, alle sue possibili scale diverse,
|
|||
|
architettonica e urbana, visto sotto *tutti* i suoi aspetti, e in
|
|||
|
particolare sotto il profilo delle modalità alternative di concepire e
|
|||
|
organizzare lo spazio, unico terreno di applicazione e verifica della
|
|||
|
politica all'architettura. Si tratta di una molteplicità di campi
|
|||
|
diversi, con cui -- in differenti modi e in vari momenti nel corso del
|
|||
|
suo lavoro -- l'architetto viene a contatto. Agendo su uno o più di
|
|||
|
questi ambiti, vale a dire mettendoli in crisi, modificandoli, per
|
|||
|
innovarli -- ma soprattutto per *migliorarli* nella misura del
|
|||
|
possibile[^43] --, l'architetto propone se stesso come intellettuale.
|
|||
|
|
|||
|
Nella condizione attuale, in modo nettamente contrastante rispetto ad
|
|||
|
altre epoche storiche precedenti, la figura dell'intellettuale appare
|
|||
|
fortemente screditata. In realtà, pur non risalendo a tempi troppo
|
|||
|
recenti, la condizione di crisi non sembra affatto essere endemica per
|
|||
|
l'intellettuale: il quale, in un passato più o meno distante, ha
|
|||
|
rivestito posizioni centrali non solo al fianco di regnanti o potenti,
|
|||
|
né solo in qualità di membro della *respublica litterarum*, ma anche in
|
|||
|
settori vitali e operanti della società[^44]. Non è dunque qui il caso
|
|||
|
di ritornare sulla questione già accennata della sua (presunta) "crisi",
|
|||
|
se non per far notare che curiosamente l'intellettuale, stante quanto
|
|||
|
detto sin qui, sembrerebbe porsi in un duplice rapporto con la crisi: da
|
|||
|
un lato come colei/colui che la patisce, dall'altro come colei/colui che
|
|||
|
la impartisce. Al punto da far sorgere il dubbio che la crisi
|
|||
|
dell'intellettuale, in ultima istanza, non sia nient'altro che il
|
|||
|
rovesciamento su di sé della propria stessa attitudine a mettere in
|
|||
|
crisi. Ormai da tempo affermatisi come ceto separato, con un'espressa
|
|||
|
funzione "contemplativa" -- di osservatori privilegiati -- della
|
|||
|
società[^45], gli intellettuali sconterebbero in tal modo la propria
|
|||
|
crescita ipertrofica, o sarebbero vittime di un "delirio di
|
|||
|
onnipotenza", giungendo a rivolgere le proprie armi contro se stessi. O
|
|||
|
forse piuttosto, agendo e "abitando" costantemente la crisi, la loro
|
|||
|
esistenza non è contraddetta dalla presenza di questa.
|
|||
|
|
|||
|
Di certo comunque si può dire che il ruolo dell'intellettuale, oltre a
|
|||
|
quello più ovvio di istruire la società propagandovi la cultura sotto
|
|||
|
varie forme, consista nel "rompere" costellazioni di saperi consolidate,
|
|||
|
riconfigurandole secondo altre strutture di senso[^46]. Quest'opera di
|
|||
|
"rottura" è sempre stata fondamentale per l'intellettuale produttivo e
|
|||
|
progressivo. Ben lungi dal confermare condizioni e opinioni già note e
|
|||
|
diffuse, questi si presenta come un "quieto agitatore", il portatore di
|
|||
|
un conflitto che non è tuttavia frutto di una "visione personale", bensì
|
|||
|
appartiene alle *cose stesse*. "Per "ritornare alla cosa" occorre (...)
|
|||
|
saperla porre nel suo dissidio rispetto alle altre"[^47].
|
|||
|
L'intellettuale weberiano, da questo punto di vista, costituisce forse
|
|||
|
il culmine della capacità di rendere continuamente presente il conflitto
|
|||
|
che è nelle cose, con *disincanto*; una forma di distacco, quest'ultima,
|
|||
|
che non può essere adottata però come un semplice "atteggiamento" e che
|
|||
|
è invece il motore stesso del suo agire.
|
|||
|
|
|||
|
Per quanto concerne l'architettura, le figure analizzate in precedenza
|
|||
|
rispondono perfettamente a questi caratteri: sia che -- come fa Aldo
|
|||
|
Rossi -- si ridisegni a livello teorico il nesso tra architettura e
|
|||
|
città, facendo ampio ricorso ad altre culture disciplinari[^48]; sia che
|
|||
|
-- come fa Aldo van Eyck -- si intervenga a livello urbano escogitando
|
|||
|
un intelligente riuso di un ingente numero di spazi pubblici residuali e
|
|||
|
istituendo al tempo stesso una proficua collaborazione con una
|
|||
|
municipalità[^49]; oppure, sfidando convenzioni sociali e tipologiche,
|
|||
|
si offrano spazi di relazione davvero capaci di commisurarsi agli
|
|||
|
utenti[^50], è sempre e comunque l'impronta di un architetto
|
|||
|
intellettuale quella che qui si lascia riconoscere. Come da questi due
|
|||
|
esempi risulta evidente, nell'entrare in rapporto con singoli ambiti o
|
|||
|
temi, i diversi architetti citati utilizzano metodi e strumentazioni
|
|||
|
differenti: dalla ricerca più tradizionale, svolta individualmente, a
|
|||
|
quella che prevede una pluralità di contributi, che vanno dunque
|
|||
|
selezionati e coordinati tra loro, fino al diretto intervento sulla
|
|||
|
città o su un edificio. E molti altri ancora sono e potrebbero essere i
|
|||
|
mezzi impiegati. Con ciò si dimostra l'ampiezza dello spettro d'azione
|
|||
|
dell'architetto intellettuale, ma anche la sua completa libertà da
|
|||
|
qualsiasi "obbligo" culturalistico. Come avverte Gramsci nel Quaderno
|
|||
|
già ricordato[^51], del resto, per il costruttore, per l'organizzatore
|
|||
|
-- e dunque anche per l'architetto --, l'attività intellettuale si
|
|||
|
estrinseca non più nell'"eloquenza (...) ma nel mescolarsi attivamente
|
|||
|
alla vita pratica". Nessun vuoto "intellettualismo" è pertanto
|
|||
|
richiesto (e concesso) all'architetto che agisca *sub specie
|
|||
|
intellectualis*. Semmai, a questo punto, ostentazioni di cultura e
|
|||
|
fumose "astrattezze" divengono i migliori indici della presenza di ormai
|
|||
|
intollerabili pseudo-intellettuali (architetti o altro che siano)! E
|
|||
|
come l'architetto intellettuale non deve per forza disporre di capacità
|
|||
|
oratorie o retoriche, cosí non per forza deve profondere il suo impegno
|
|||
|
su un terreno diverso da quello dell'architettura.
|
|||
|
|
|||
|
Riletti in questa chiave, i "casi" più interessanti che emergono dalla
|
|||
|
storia dell'architettura sono proprio quelli *produttori di crisi*, più
|
|||
|
che quelli portatori di ordine (oppure quelli portatori di un ordine che
|
|||
|
mette in crisi a sua volta). Sono i momenti di "rottura", più che i
|
|||
|
momenti di continuità. Sono le opere che tolgono certezze, più che le
|
|||
|
opere che le confermano. Ovviamente nella misura in cui ciò sia
|
|||
|
fondato. Da questo punto di vista, persino una nozione pur pesantemente
|
|||
|
gravata da una matrice idealistica qual è quella di "capolavoro"
|
|||
|
potrebbe essere recuperata a una critica produttiva. Idealistica, nella
|
|||
|
categoria di "capolavoro", è la maniera di concepire l'opera d'arte (o
|
|||
|
di architettura) come un prodotto eccezionale, isolato, frutto
|
|||
|
dell'intuizione sublime di un genio; e idealistica è parimenti la
|
|||
|
presunzione dell'esistenza di un rapporto di "continuità" tra il
|
|||
|
presunto "capolavoro" e la sua epoca, di cui esso rappresenterebbe
|
|||
|
semplicemente il "culmine". In realtà, volendosi servire ancora di
|
|||
|
questa vecchia categoria degradata, bisognerebbe riconoscere nel
|
|||
|
"capolavoro" da un lato la piena implicazione nelle vicissitudini
|
|||
|
produttive del proprio autore, e dall'altro una capacità -- questa sí
|
|||
|
davvero straordinaria -- di rompere con il proprio tempo, di mettere in
|
|||
|
crisi l'ordine precedente, e di istituirne al suo posto uno nuovo. Da
|
|||
|
questo punto di vista, lungi dall'esserne estraneo, il capolavoro ha a
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che fare con l'epoca nel preciso senso che esso *fa epoca*, vale a dire
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che provoca un arresto del corso del tempo (*epoché*, sospensione). Ma,
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nel "far epoca", il capolavoro mostra la propria attitudine
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rivoluzionaria, non certamente l'opposta tendenza a occupare un posto
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centrale all'interno d'un quadro lasciato però sostanzialmente immutato.
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Per l'architetto come intellettuale, inoltre, al pari dell'autore come
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produttore di Benjamin, "il progresso tecnico è la base del suo
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progresso politico"[^52]. Tale discorso non va assolutamente confuso
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con un progresso tecnologico. Per quanto rivesta un ruolo fondamentale
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per gli apporti che dà al processo produttivo dell'architettura, la
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tecnologia non ha nulla a che fare con la tecnica nel modo in cui
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Benjamin la intende in questo contesto. Parlando di "progresso
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tecnico", egli si riferisce piuttosto al padroneggiamento di competenze
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specifiche, nonché ai possibili avanzamenti rappresentati dall'ulteriore
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acquisizione di esse. Ma soprattutto, per Benjamin il vero "progresso
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tecnico" non consiste affatto nell'incremento delle potenzialità degli
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strumenti che l'uomo ha a disposizione; esso piuttosto va inteso come
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qualcosa di cui l'uomo di per sé dispone, ovvero -- ancora una volta --
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la capacità di intervenire sui processi produttivi in maniera tale da
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modificarli. A questo fine -- in qualità di architetto -- può anche
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servirsi di dispositivi informatici e digitali, ma non solo: oltre alle
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tecniche tradizionali di rappresentazione legate al progetto e alla
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pianificazione (dallo schizzo al disegno, fino alla fotografia e al
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video), un "buon" architetto sa -- o dovrebbe sapere -- impiegare,
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almeno entro certi limiti, competenze strutturali, estimative,
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giuridiche, sociologiche, psicologiche, politiche e di altre discipline
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ancora. Nel fare tutto ciò egli si avvale della parola (in forma
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scritta o verbale), strumento massimamente duttile e diversificato che
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offre a chi la usa coscientemente la possibilità di fare ricorso a un
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vasto numero di "tecniche". Ed è su questo terreno che si lasciano
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misurare le capacità *produttive* dell'architetto intellettuale. Al di
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là del suo essere mezzo di comunicazione oggi eccessivamente abusato,
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infatti, la parola è -- o dovrebbe essere -- anche e soprattutto suprema
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"innescatrice" di relazioni e impareggiabile apportatrice di
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potenzialità inventive e trasformative. Non "vuote" parole, destinate
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di conseguenza a cadere nel vuoto, dunque, bensì parole corpose,
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precise, circostanziate, la cui fondamentale missione si presenta quella
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di ridefinire ogni volta il senso della disciplina nei suoi diversi
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aspetti, ma anche quella di renderne partecipi gli altri ambiti, il
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"resto del mondo", che troppo spesso ne rimane all'oscuro.
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Rispetto al lavoro di *routine* svolto dal semplice "rifornitore", a
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quello dell'architetto intellettuale è richiesto qualcosa di più: a esso
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non è sufficiente ripetere soluzioni già note; piuttosto deve
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sperimentare soluzioni inventive, conquistando cosí nuovi territori e
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nuovi rapporti da esplorare. In questo senso, "contro" può significare
|
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anche contro il lavoro assegnato, prestabilito, contro le convenzioni,
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contro le abitudini non più verificate. Nell'ottica del lavoro
|
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intellettuale, del resto, proprio il tema della "verifica" è
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fondamentale, come già ricordato in precedenza con parole di Franco
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Fortini che presentano forse inconsapevoli risonanze benjaminiane[^53].
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Non si dà lavoro autenticamente produttivo senza un'attenta verifica
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delle sue implicazioni e ricadute. E come esso non può "confidare" su
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un atto puramente ri-produttivo, cosí il suo autore non può
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"pretendersi" libero dalla necessità di dare continuità al proprio
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operato: soltanto cosí si comprova il suo ruolo. La sua attendibilità
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di "produttore" dipende da essa e va parimenti sottoposta a verifica. E
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in ogni caso, nulla vieta che l'architetto "produttore" torni nuovamente
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a "rifornire". Alla libertà della sua scelta è data anche la
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possibilità dell'incoerenza.
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Può questo *idealtypus* dell'architetto intellettuale -- portatore di
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inquietudine e di "sconvolgimenti" (*produttore di crisi*) nel cuore
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stesso del proprio lavoro, destinato per sua essenza a "edificare"
|
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|
(*ædes facere*), o quantomeno a occuparsi di *rerum
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|
ædificatoriarum*[^54] -- aderire all'architetto attuale? Ovvero,
|
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|
corrispondono gli architetti *reali* a questa figura ideale? Si potrebbe
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|
rispondere che è certamente possibile, come lo è stato in momenti e in
|
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|
epoche precedenti, a patto naturalmente di non idealizzare la realtà in
|
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|
modo eccessivo. Ma la vera questione qui non è dare volti e nomi reali
|
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a un profilo ideale; né compilare liste di eletti e di proscritti, che
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|
per di più sarebbero comunque soggettive e parziali. Alla "famiglia"
|
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degli architetti infatti appartengono non soltanto i "grandi" nomi ma
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anche i nomi "normali", e le miriadi di "anonimi" che compiono il loro
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lavoro quotidiano negli studi, coloro che svolgono le stesse mansioni in
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altre posizioni, coloro che insegnano, coloro che per perversione o
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passione si dedicano alla storia e alla critica...[^55]. Insomma, una
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"famiglia" molto vasta e complessa, tutta impegnata nel suo insieme in
|
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un'attività intellettuale, ma all'interno della quale non tutti i suoi
|
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|
membri risultano *produttivi* nel senso indicato. La vera questione
|
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insomma non è individuale ("non esistono più gli architetti
|
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intellettuali di una volta...") bensì collettiva. Detto in altri
|
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|
termini, la vera questione su cui interrogarsi è la funzione storica
|
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dell'architetto intellettuale *nel momento attuale*.
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|
Se un tratto specifico sembra contrassegnare il momento attuale (vale a
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dire una società neoliberalista), esso potrebbe essere identificato con
|
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un'assoluta "refrattarietà" da parte di questa per qualsiasi tipo di
|
|||
|
critica. La mentalità dominante pare costitutivamente lontana da uno
|
|||
|
spirito critico, cosí come lo è dall'elaborazione di un pensiero critico
|
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|
(un pensiero *di crisi*). Lungi dall'essere una caratteristica
|
|||
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accidentale o neutrale, tale mancanza risponde invece -- almeno in prima
|
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|
istanza -- a una precisa volontà di autoaffermazione apodittica. La
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stessa spasmodica ricerca del consenso va letta precisamente in questa
|
|||
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ottica: come massima avversità per la crisi (il fatto poi che la crisi
|
|||
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si ripresenti ciclicamente sotto forma "economica", non diminuisce di
|
|||
|
certo -- e semmai anzi aumenta -- tale avversità). Ma al tempo stesso,
|
|||
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è proprio in quest'epoca apparentemente priva di spirito critico che si
|
|||
|
può sviluppare uno spirito critico, sia pure sporadico e disorganizzato,
|
|||
|
e complessivamente estraneo alle logiche dominanti. Si tratta di uno
|
|||
|
sviluppo *non imprevisto*; esso cioè non soltanto è tollerato ma in
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|||
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qualche modo finisce anche per essere funzionale al sistema. In una
|
|||
|
società come quella attuale, infatti,
|
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> ... la tensione antagonistica tra diversi punti di vista è appiattita
|
|||
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> nella pluralità dei punti di vista indifferenti. "Contraddizione"
|
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|
> perde cosí il proprio significato sovversivo: in uno spazio di
|
|||
|
> permissivismo globalizzato, punti di vista incoerenti coesistono
|
|||
|
> cinicamente[^56].
|
|||
|
|
|||
|
Inoltre, essendo il capitalismo in quanto tale *sviluppo*[^57], esso
|
|||
|
ingloba al suo interno e *sfrutta* in una certa misura le critiche
|
|||
|
avanzate nei suoi stessi confronti; al punto che -- come è stato
|
|||
|
affermato -- il fattore principale di trasformazione del capitalismo
|
|||
|
sarebbe la critica stessa[^58].
|
|||
|
|
|||
|
Con tutto ciò -- che piaccia o meno -- questo è il momento attuale. E
|
|||
|
se all'interno di esso l'intellettuale (e l'architetto intellettuale)
|
|||
|
può avere un suo ruolo, per quanto esposto a rischi di fraintendimenti e
|
|||
|
di strumentalizzazioni, è questa la partita che è chiamato a giocare:
|
|||
|
senza alcun vano "principio speranza" ma anche senza alcuna preventiva
|
|||
|
disillusione. Semmai con il disincanto -- e/o il distacco -- più sopra
|
|||
|
evocati. Tentativi in tal senso ci sono, e alcuni di essi sono stati
|
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|
oggetto di analisi nelle pagine precedenti. In linea generale, comunque
|
|||
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-- si potrebbe affermare --, tali tentativi appaiono oggi meno
|
|||
|
strutturati, e fors'anche meno "impegnati", rispetto a quelli compiuti
|
|||
|
in altre epoche. Sicuramente minore appare la loro efficacia, se
|
|||
|
l'architetto come intellettuale può risultare pressoché del tutto
|
|||
|
sparito dall'orizzonte attuale, e neppure entrare a far parte -- stando
|
|||
|
a "impressioni" potenzialmente anche ingannevoli -- dell'agenda dei
|
|||
|
maggiori esponenti della disciplina. Ma forse non è lí che bisogna
|
|||
|
cercare. In una situazione come quella attuale, difficoltosamente
|
|||
|
costretta tra crisi e sviluppo, il mondo dell'architettura sembra per
|
|||
|
una parte accontentarsi di quello che ha, e per la parte restante
|
|||
|
aspirare a ciò che non ha, mostrando segni di sfiducia e stanchezza nei
|
|||
|
confronti della possibilità di cambiare qualcosa. Si tratta certo di
|
|||
|
una situazione difficile, magari persino *più* difficile di quelle
|
|||
|
storicamente attraversate sinora. Ma -- come scrive Hölderlin citato da
|
|||
|
Heidegger -- "là dove c'è il pericolo, cresce anche ciò che salva"[^59].
|
|||
|
E proprio la storia dimostra come, in condizioni e momenti cruciali, non
|
|||
|
soltanto le difficoltà non si presentino affatto come un impedimento al
|
|||
|
raggiungimento dei risultati auspicati, ma come a volte questi stessi
|
|||
|
possano essere ottenuti proprio grazie alla presenza di esse. Un caso
|
|||
|
emblematico in tal senso -- vale a dire una lampante dimostrazione di
|
|||
|
come ogni occasione possa essere "buona" per chi operi come
|
|||
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"produttore", anziché accontentarsi di essere un "rifornitore" -- è
|
|||
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rappresentata dal complesso realizzato per "The Economist Group"
|
|||
|
(1959-64) a Londra dai coniugi Alison e Peter Smithson. Ottenuto grazie
|
|||
|
alla vittoria di un concorso a inviti, l'incarico prevedeva la
|
|||
|
realizzazione della sede dell'importante settimanale economico inglese,
|
|||
|
fondato nel 1843 dal banchiere e uomo d'affari James Wilson. Da quel
|
|||
|
momento in avanti la testata ha sempre sostenuto una posizione
|
|||
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liberalista, avente come propri fondamenti la proprietà privata e
|
|||
|
l'economia di mercato. Dovendo inserirsi in un lotto non distante dalla
|
|||
|
City, prospiciente St James Street, ma confinante anche con un club
|
|||
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preesistente costruito alla metà del XVIII secolo, gli Smithson hanno
|
|||
|
disposto i tre edifici (la sede di "The Economist", una banca e un
|
|||
|
edificio residenziale, rispettivamente di 15, 4 e 8 piani) su un plateau
|
|||
|
quadrato sopraelevato rispetto alla quota della città circostante. Pur
|
|||
|
richiamandosi a strutture presenti nella zona (dai vicoli alle *arcades*
|
|||
|
e ai cortili che penetrano negli edifici), la soluzione trovata dai due
|
|||
|
architetti rappresenta una vera e propria "rottura" rispetto agli
|
|||
|
interventi urbani precedenti: la *plaza* pedonale, rivestita di pietra
|
|||
|
arenaria, si offre come un'isola di tranquillità all'interno della densa
|
|||
|
e caotica rete di strade della capitale britannica. Né l'intervento
|
|||
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manca pure di una lucida coscienza del proprio significato strategico e
|
|||
|
del ruolo che potrebbe assumere in una prospettiva urbana più allargata.
|
|||
|
Nelle parole dei suoi stessi autori, esso
|
|||
|
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> ... offre uno spazio di "pre-ingresso", in cui c'è il tempo di
|
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|
> riordinare la propria sensibilità, preparandosi a entrare negli uffici
|
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|
> per una visita o per lavoro. La città è lasciata al di fuori dei
|
|||
|
> limiti dell'area e le si aggiunge un altro tipo di spazio
|
|||
|
> "intermedio"; se, come nel passato, più proprietari contribuissero a
|
|||
|
> realizzare queste "pause", allora altri modelli di movimento sarebbero
|
|||
|
> possibili; l'uomo per strada potrebbe scegliere di cercare il proprio
|
|||
|
> percorso "segreto" attraverso la città, potrebbe ulteriormente
|
|||
|
> sviluppare una sensibilità urbana, elaborando il proprio contributo
|
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|
> alla qualità d'uso[^60].
|
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|
E ancora:
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> The Economist costituisce un insieme "didattico", volutamente
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> asciutto, di edifici. E questo, fra duecento anni, potrà sembrare un
|
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|
> errore; ma nella nostra situazione non c'è altra strada se non quella
|
|||
|
> di "costruire" e di "dimostrare". La lezione non sta solo in ciò che
|
|||
|
> abbiamo fatto, ma in ciò che non abbiamo fatto[^61].
|
|||
|
|
|||
|
Nel sottolineare il significato "pedagogico" del loro intervento (a
|
|||
|
proposito dei "produttori", Benjamin ne rimarca proprio il
|
|||
|
"comportamento didattico")[^62], gli Smithson rivelano in pieno la sua
|
|||
|
natura *politica*: un frammento di "arcipelago" urbano *dentro e contro*
|
|||
|
nel cuore del maggior centro finanziario internazionale. E infatti, in
|
|||
|
perfetto accordo con ciò, il *corretto uso* di questo spazio è indicato
|
|||
|
dalla scena iniziale del film *Blow up* (1966) di Michelangelo
|
|||
|
Antonioni: una jeep carica di una compagnia di mimi mascherati fa
|
|||
|
improvvisamente irruzione nella *plaza*; dopo un breve giro dello spazio
|
|||
|
deserto tra gli edifici, la jeep viene abbandonata e la compagnia di
|
|||
|
giovani festanti si sparge a piedi per le vie di Londra. La città del
|
|||
|
capitale è cosí riletta come palcoscenico di un gran teatro
|
|||
|
dell'assurdo; il seme a "reazione ludica" che vi viene impiantato
|
|||
|
diviene generatore di comportamenti "eversivi" in cui si colgono echi
|
|||
|
surrealisti e situazionisti.
|
|||
|
|
|||
|
A fronte di un "caso" come questo viene da chiedersi se ci troviamo in
|
|||
|
un'epoca in cui una simile "immagine del mondo" è ancora possibile. Non
|
|||
|
è forse un caso che oggi gli incarichi più allettanti, in termini
|
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|
economici e di prestigio, finiscano in larga parte nelle mani degli
|
|||
|
architetti più propensi a "rifornire" (o per dir meglio, trovino
|
|||
|
adeguati studi e progetti a cui affidare il proprio sicuro
|
|||
|
"rifornimento"). Di questo "materiale" sono fatte in prevalenza le
|
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|
città contemporanee: gigantesche confezioni regalo senza sorprese. E
|
|||
|
qui non bisogna lasciarsi ingannare dai facili effetti di carattere
|
|||
|
estetico: la *sostanza* rimane quella di una spesso elegante
|
|||
|
salvaguardia dell'ordine costituito. Ma non sono solo gli incarichi
|
|||
|
importanti quelli con cui un architetto "produttore" deve misurarsi per
|
|||
|
potersi mostrare all'altezza del compito: il ruolo di intellettuale
|
|||
|
pubblico e mediatizzato, con tutte le responsabilità che ne conseguono.
|
|||
|
Né è in questa chiave soltanto che va valutato il suo possibile ruolo di
|
|||
|
intellettuale. Esistono -- per limitarsi all'esclusivo piano
|
|||
|
progettuale -- operazioni di dimensioni assai più misurate, a volte
|
|||
|
persino di dimensioni modeste, che costituiscono però un valido banco di
|
|||
|
prova per effettuare sperimentazioni e innovazioni capaci di originare
|
|||
|
trasformazioni produttive. Si tratta di operazioni in cui l'architetto
|
|||
|
è spesso chiamato a ruoli di "supplenza" che lo impegnano
|
|||
|
nell'elaborazione di programmi che devono variamente tener conto di
|
|||
|
condizioni locali particolari, di fruizioni insolite, di soggetti
|
|||
|
deboli, di situazioni economiche d'emergenza. Ma soprattutto si tratta
|
|||
|
di una questione di "mentalità". Si pensi ai molti interventi compiuti
|
|||
|
negli ultimi vent'anni da Lacaton & Vassal (Anne Lacaton e Jean Philippe
|
|||
|
Vassal), dal Palais de Tokyo di Parigi (2001-14) al FRAC (Fond régional
|
|||
|
d'art contemporain) Nord-Pas de Calais a Dunkerque (2009-15), differenti
|
|||
|
tra loro per genere e dimensioni, ma tutti ugualmente improntati alla
|
|||
|
medesima volontà di offrire qualcosa di più e di diverso rispetto alle
|
|||
|
attese. Arrivando anche a "forzare" le richieste poste dai bandi[^63],
|
|||
|
i progetti degli architetti francesi si segnalano per la "generosità"
|
|||
|
dei loro spazi, spesso quantitativamente maggiori di quelli previsti, e
|
|||
|
per la contemporanea rinuncia ad assumere un ruolo da protagonisti, per
|
|||
|
lasciare piuttosto la scena alle azioni destinate a installarvisi[^64].
|
|||
|
O ancora, ai pochi interventi di Maria Giuseppina Grasso Cannizzo, tanto
|
|||
|
misurati quanto attenti a ogni minimo dettaglio: con ammirevole
|
|||
|
caparbietà e semplicità l'architetta siciliana produce le proprie opere
|
|||
|
-- la Torre di controllo nel porto turistico di Marina di Ragusa
|
|||
|
(2008-2009) e un esiguo numero di case private in Sicilia[^65] --
|
|||
|
controllandone per intero il processo progettuale ed esecutivo secondo
|
|||
|
una modalità "artigianale" apparentemente appartenente ad altri tempi.
|
|||
|
|
|||
|
Denominare questo tipo di interventi "architettura responsabile"[^66]
|
|||
|
significa mettere in evidenza la loro capacità di rispondere a domande
|
|||
|
socialmente complesse, ma anche singolarmente essenziali, anziché
|
|||
|
perdersi in vaniloqui o in narcisistici rispecchiamenti. E non meno
|
|||
|
rilevante, sotto il profilo della dimostrazione di "responsabilità", è
|
|||
|
il fatto che per conquistare il "diritto a esistere" a questi
|
|||
|
interventi, l'architetto -- in ciò "produttore" davvero straordinario di
|
|||
|
conflitti per buone cause -- sia non di rado costretto a ingaggiare vere
|
|||
|
e proprie battaglie *contro* tutte le circostanze che dovrebbero invece
|
|||
|
renderli attuabili.
|
|||
|
|
|||
|
In altri casi -- e per altri livelli e posizioni -- sono sufficienti
|
|||
|
gesti invisibili, dal basso, destinati a non passare alla Storia.
|
|||
|
"Aggiustamenti", "riconfigurazioni", "rimodulazioni", che possono
|
|||
|
riguardare i rapporti interni a determinate condizioni lavorative od
|
|||
|
organizzative. Modalità silenziose di agire in senso migliorativo,
|
|||
|
uguali e contrarie a quelle solitamente adottate dagli apparati
|
|||
|
produttivi, che cambiano nel concreto il modo di operare al suo interno,
|
|||
|
predisponendo a un *minor* sfruttamento e a una *maggior* condivisione
|
|||
|
di saperi.
|
|||
|
|
|||
|
Anche queste ultime modalità d'intervento, cosí come le prime -- per non
|
|||
|
dire poi di quelle di carattere più direttamente culturale --, prevedono
|
|||
|
sempre, al fine di poter essere produttive, uno studio, una conoscenza,
|
|||
|
un'applicazione, un *impegno* che, se non può propriamente essere
|
|||
|
definito politico, si connota però di sovente in un senso civile. Tutto
|
|||
|
ciò deve avvenire -- quando avviene -- senza dar luogo a illusioni di
|
|||
|
false liberazioni o rivoluzioni; spesso piuttosto come un'ardua e oscura
|
|||
|
"opera di resistenza" all'interno delle condizioni date e nei confronti
|
|||
|
di esse. E non deve stupire che questo terreno, alla fine, possa essere
|
|||
|
non soltanto parimenti difficile ma addirittura *più* difficile ancora
|
|||
|
per *star architects* e altri cacciatori di esposizione mediatica che
|
|||
|
non per gli architetti "normali", animati da una reale voglia di
|
|||
|
cambiare e dal coraggio e dalla pazienza di farlo. Per chiunque
|
|||
|
intraprenda questo cammino, comunque, il percorso non manca di rivelarsi
|
|||
|
accidentato e irto di pericoli: innanzitutto quello di "perdersi" nella
|
|||
|
propria stessa immagine di "architetto intellettuale"; inoltre, di
|
|||
|
tradire il proprio "mandato", ritenendolo erroneamente una "delega"
|
|||
|
conferita e ricevuta in modo permanente, e non invece da riguadagnare
|
|||
|
ogni volta da capo, con la credibilità delle proprie "azioni"; e ancora,
|
|||
|
di incorrere in vuote e sterili ripetizioni di se stesso,
|
|||
|
nell'affermazione -- e più di frequente nella difesa -- di posizioni
|
|||
|
(professionali, culturali) ormai superate ed esaurite. Da questo punto
|
|||
|
di vista, sono sempre esistite forme di lotta "intestina" fra
|
|||
|
intellettuali per la conquista dell'egemonia in un determinato ambiente
|
|||
|
e in un certo periodo; e queste, per quanto siano il segnale di una
|
|||
|
"volontà di potere" più e oltre ogni legittima "volontà di sapere",
|
|||
|
possono costituire a loro volta un auspicabile fattore di rinnovamento.
|
|||
|
Ciò, nello specifico ambito architettonico, riguarda gli spesso
|
|||
|
difficoltosi ricambi generazionali, e dunque l'inevitabile scontro tra
|
|||
|
vecchi e nuovi baricentri intellettuali[^67]: dove i primi tendono a
|
|||
|
perpetuare se stessi sulla base delle posizioni acquisite, dell'autorità
|
|||
|
guadagnata, cosí come pure di sterili arroccamenti a protezione del
|
|||
|
proprio universo di riferimenti, concepito come l'unico e il solo
|
|||
|
possibile; mentre i secondi si propongono come nuova "intelligenza" del
|
|||
|
mondo, incardinata su altri "punti archimedici", portatori non soltanto
|
|||
|
di punti di vista ma anche di saperi diversi, alla ricerca del
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riconoscimento di una piena dignità culturale. A ben guardare, allorché
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esuli da contrapposizioni puramente personali, questo scontro
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costituisce a sua volta un elemento capace di far avanzare il dibattito,
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sottoponendo a critica antiche tesi "incrostate" e passando al vaglio
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ipotesi inedite. Per entrambi -- anziani e giovani rappresentanti
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dell'ambizione a detenere l'egemonia intellettuale --, comunque, rimane
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da esercitare una sorveglianza reciproca a fronte del pericolo ulteriore
|
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di vecchi e nuovi accademismi. Non soltanto quello che si verifica
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all'interno delle scuole, dove gli architetti insegnanti -- già in un
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non lontano passato ma nuovamente anche oggi -- rischiano sempre di
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risultare "scollati" dalle problematiche attuali[^68]; ma pure il
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pericolo di una "stilizzazione" dei propri prodotti, di qualunque tipo
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essi siano; pericolo che si concretizza ad esempio nella consueta
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tendenza, da parte degli uni, a "sterilizzare" la propria grammatica e
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sintassi progettuale, e nell'insorgente (ma già sufficientemente
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affermato) orientamento, da parte degli altri, verso l'esercizio di un
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disegno completamente scollegato dalla prassi, nonché soprattutto da
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qualsiasi fondamento teorico.
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Nella scelta che l'architetto *può* sempre compiere -- va rammentato
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ancora una volta -- vi sono in gioco obiettivi e azioni *reali*, non
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utopie o chimere. Ciò a patto naturalmente che dimostri di possedere
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alcune capacità basilari: tra queste, innanzitutto la capacità di
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pensare e fare *insieme*, in modo coerente, come differenti espressioni
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di un'*unica* intenzione; poi la capacità di compiere ricerche, di cui i
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propri progetti siano la conseguenza, e non già il presupposto; la
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capacità di usare la storia con piena consapevolezza, perché possiede
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un'idea, sa a che cosa questa le/gli serve, ancora una volta in vista
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dei propri progetti; la capacità di interrogare parole, concetti, forme,
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figure, anche basilari, che l'architettura utilizza, per riverificarne
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il senso in vista di un loro possibile uso; la capacità di incrociare
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saperi diversi, tutti indispensabili a una comprensione del quadro
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complesso in cui il proprio lavoro si colloca; la capacità di pensare la
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relazione concreta tra lo *spazio* e la *vita*, che in ultima analisi è
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l'oggetto e lo scopo del suo intero lavoro; infine la capacità di
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tradurre tutto ciò in spazio.
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Quanto più l'architetto intellettuale è padrone dei mezzi che ha -- o
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che dovrebbe avere -- a propria disposizione, tanto più "tecnicamente"
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sa intervenire sui processi produttivi. Per fare che cosa? Da un lato,
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si potrebbe rispondere, per produrre grandi o piccoli mutamenti nel
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mondo che lo circonda. E non è tanto importante che si tratti di grandi
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o di piccole visioni; non è la dimensione che conta. Ovvero (si
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potrebbe anche dire), obiettivo dell'architetto come intellettuale
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dovrebbe essere di avere grandi visioni anche in piccole dimensioni. Se
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non è più tempo per le utopie, lo è però sempre ancora per i *progetti*;
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progetti mirati, circoscritti, anche minimi, ma in ogni caso progetti
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nel senso più sopra indicato, aventi per *soggetto* l'architettura nella
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sua accezione più onnicomprensiva. Dall'altro, per far diventare quegli
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stessi processi e il mondo in cui si collocano più comprensibili; non
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per rivoluzionarli, forse, ma almeno per portarli alla luce, per
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renderli riconoscibili. In questa prospettiva, l'opera dell'architetto
|
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intellettuale si presenta (o dovrebbe presentarsi) anche sempre come un
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"disvelamento", un lavoro di scavo all'interno delle condizioni date per
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recuperare da esse qualcosa di sottratto a un sapere collettivo. Perché
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quella che persegue è una causa collettiva, non individuale.
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Conoscere, far conoscere, demistificare, progettare, condividere.
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Espresso in questo modo il programma di un architetto che voglia
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produrre se stesso come un intellettuale apparirà più che improbo: una
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|
molteplicità di prospettive, anche contraddittorie tra loro, troppo
|
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gravose per un singolo individuo. Ma è qui che gli effetti della
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condivisione, "spezzando" la falsa naturalità della divisione del lavoro
|
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e dei processi produttivi, possono farsi sentire.
|
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> L'unico modo per riguadagnare una propensione ad agire è quello di
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> trovare nuove forme di cooperazione nella progettazione architettonica
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> che metterebbero allo stesso livello tutte le professioni che fanno
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> parte del progetto e del processo di costruzione: architetti,
|
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> costruttori e ingegneri, cosí come educatori, storici, critici,
|
|||
|
> grafici, editori, fotografi e tecnici. Coinvolgendo conoscenze
|
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> condivise, anziché specializzate, questo approccio collaborativo
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> all'architettura potrebbe portare a una maggiore forza professionale e
|
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|
> una maggior equità economica, in cui i compiti lavorativi potrebbero
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|
> essere ugualmente e non più gerarchicamente distribuiti. Ciò
|
|||
|
> porterebbe con sé una nuova definizione istituzionale di architettura
|
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> che non sarebbe più basata su relazioni gerarchiche e di sfruttamento
|
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|
> e su autorialità singole ma sulla cooperazione dei lavoratori come
|
|||
|
> co-produttori di architettura[^69].
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Potrebbe essere questa *trasformazione* (non morte!) il futuro
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dell'architettura? Oppure il futuro dell'architettura (come le
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condizioni attuali sembrerebbero far presagire) sarà più spettrale?
|
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Un'architettura non solo prefabbricata ma addirittura preconfezionata?
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Un'architettura *prêt-à-porter*? La semplice risultante della complicata
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equazione "problema = soluzione"? Un vero paradiso per i "rifornitori" a
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venire...
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La risposta però potrebbe non essere già scritta, potrebbe passare anche
|
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attraverso una decisione, una *scelta*, pur nei limiti delle comuni
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|
"alienazioni". La scelta di scacciare i fantasmi affrontando le
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|
questioni.
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|
Potrà essere l'architetto intellettuale a farsene carico? O forse
|
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piuttosto qualcuno che -- come Foucault -- avrà il coraggio e la
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lucidità di riferirsi a se stesso come "un mercante di strumenti, un
|
|||
|
fabbricante di ricette, un suggeritore di obiettivi, un cartografo, un
|
|||
|
rilevatore di piani, un armaiolo..."[^70].
|
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|
|||
|
[^1]: Tafuri, *Progetto e utopia* cit., pp. 166-67.
|
|||
|
|
|||
|
[^2]: *Ibid.*, p. 2. Vedi anche R. Amirante, F. Dumontet, M.
|
|||
|
Perriccioli e S. Pone, *Fortuna critica della "Tendenza"*, in "Op.cit.",
|
|||
|
n. 50, 1981, pp. 5-20, in cui gli autori accennano alla "nota tesi
|
|||
|
tafuriana della "morte dell'architettura"", cui Tafuri replica con una
|
|||
|
lettera ("Op. cit.", n. 51, 1981, p. 83) in cui definisce la frase
|
|||
|
citata "una vulgata da cui mi è persino superfluo prendere le distanze".
|
|||
|
Aggiungendo subito dopo: "Non ricordo (\...) di aver mai cantato su
|
|||
|
tombe inesistenti. (\...) Ma di estinzione di ruoli per vecchie
|
|||
|
discipline ho certo parlato".
|
|||
|
|
|||
|
[^3]: Vedi ad esempio l'intervista di Hans van Dijk a Rem Koolhaas, in
|
|||
|
cui si legge tra l'altro: "Ho la netta impressione che Tafuri e i suoi
|
|||
|
amici abbiano in odio l'architettura. Costoro dichiarano morta
|
|||
|
l'architettura. Per lui l'architettura è una schiera di cadaveri
|
|||
|
all'obitorio": Hans van Dijk, *Rem Koolhaas Interview*, in
|
|||
|
"Wonen-TA/BK", n. 11, 1978, p. 18.
|
|||
|
|
|||
|
[^4]: Paolo Portoghesi, *Autopsia o vivisezione dell'architettura?*, in
|
|||
|
"Controspazio", n. 6, 1969, p. 7. La lunga recensione di Portoghesi è
|
|||
|
comunque la più lucida nel criticare e -- in parte -- nel decostruire le
|
|||
|
posizioni tafuriane.
|
|||
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|
|||
|
[^5]: Tafuri, *Progetto e utopia* cit., p. 3.
|
|||
|
|
|||
|
[^6]: *Ibid.*, p. 169.
|
|||
|
|
|||
|
[^7]: Come noto, Leon Battista Alberti nel *De re ædificatoria*
|
|||
|
definisce *lineamenta* quello che potrebbe essere definito altrettanto
|
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|
"disegno" che "progetto"; vedi Alberti, *L'architettura* cit., vol. I,
|
|||
|
pp. 18-19.
|
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|
|
|||
|
[^8]: "Il ruolo dell'architetto è quello di mediatore tra il cliente o
|
|||
|
committente, cioè la persona che decide di costruire, e la forza lavoro
|
|||
|
con i suoi supervisori, che potremmo chiamare collettivamente i
|
|||
|
costruttori": Spiro Kostof, *Preface*, in Id. (a cura di), *The
|
|||
|
Architect* cit., p. XVII.
|
|||
|
|
|||
|
[^9]: Tafuri, *Per una critica dell'ideologia architettonica* cit.,
|
|||
|
p. 77.
|
|||
|
|
|||
|
[^10]: Tafuri, *Progetto e utopia* cit., p. 167.
|
|||
|
|
|||
|
[^11]: De Carlo, *L'architettura della partecipazione* (1973) cit.,
|
|||
|
pp. 76-77. La sezione a cui appartiene il brano citato s'intitola
|
|||
|
significativamente *È morta l'architettura: Viva l'architettura!*
|
|||
|
|
|||
|
[^12]: *Ibid.*, p. 77.
|
|||
|
|
|||
|
[^13]: De Carlo, *L'architettura della partecipazione* cit., p. 78. più
|
|||
|
in generale va ricordato l'impegno di De Carlo in questa direzione
|
|||
|
attraverso la rivista "Spazio e Società", da lui fondata e diretta dal
|
|||
|
1978 al 2000: vedi Isabella Daidone, *Giancarlo De Carlo. Gli
|
|||
|
editoriali di Spazio e Società*, Gangemi, Roma 2018.
|
|||
|
|
|||
|
[^14]: Si rammenti la già citata definizione vitruviana. Interessante
|
|||
|
tuttavia notare come il ruolo di "controllore" delle forze produttive
|
|||
|
impegnate sul cantiere assegnato all'architetto, affermato nel 1567 da
|
|||
|
Philibert Delorme nel suo *Premier tome de l'architecture* (e, un secolo
|
|||
|
prima prima di lui, da Leon Battista Alberti), appaia ancora
|
|||
|
"sorprendente" nella Francia del XVI secolo: vedi il bel saggio di
|
|||
|
Catherine Wilkinson, *The New Professionalism in the Renaissance*, in
|
|||
|
Kostof (a cura di), *The Architect* cit., pp. 124-60, in particolare
|
|||
|
p. 131.
|
|||
|
|
|||
|
[^15]: Carl W. Condit, *The Chicago School of Architecture. A History
|
|||
|
of Commercial and Public Building in the Chicago Area, 1875-1925*, The
|
|||
|
University of Chicago Press, Chicago 1964.
|
|||
|
|
|||
|
[^16]: Otto Antonia Graf, *Otto Wagner: Das Werk des Architekten
|
|||
|
1860-1918*, 2 voll., Bölhau, Wien 1994; Robert Trevisiol, *Otto Wagner*,
|
|||
|
Laterza, Roma-Bari 2006.
|
|||
|
|
|||
|
[^17]: Su ciò vedi Riccardo M. Villa, *L'architetto e la fabbrica*, in
|
|||
|
GIZMO, *Backstage. L'architettura come lavoro concreto*, a cura di
|
|||
|
Florencia Andreola, Mauro Sullam, Riccardo M. Villa, Franco Angeli,
|
|||
|
Milano 2016, pp. 17-27. più in generale, sul tema dell'evoluzione del
|
|||
|
lavoro di architettura nell'epoca della digitalizzazione, vedi Peggy
|
|||
|
Deamer e Phillip G. Bernstein (a cura di), *Building (in) the Future.
|
|||
|
Recasting Labor in Architecture*, Yale School of Architecture -
|
|||
|
Princeton Architectural Press, New Haven -- New York 2010.
|
|||
|
|
|||
|
[^18]: A ciò per costoro si aggiungono di sovente orari molto pesanti,
|
|||
|
ben oltre le otto ore giornaliere, una "flessibilità" dell'orario che si
|
|||
|
traduce in serate e nottate occupate, un'estensione del lavoro ai sabati
|
|||
|
e alle domeniche. Il tutto all'interno di un quadro in cui le ferie
|
|||
|
sono un sogno, il trattamento di fine rapporto un miraggio e la pensione
|
|||
|
una chimera. Di questi temi mi sono occupato in *L'architettura come
|
|||
|
mestiere*, in
|
|||
|
[www.gizmoweb.org/2012/03/larchitettura-come-mestiere/](http://www.gizmoweb.org/2012/03/larchitettura-come-mestiere/),
|
|||
|
25 marzo 2012, e *Architettura e lotta di classe*, in
|
|||
|
[www.gizmoweb.org/2014/05/architettura-e-lotta-di-classe/](http://www.gizmoweb.org/2014/05/architettura-e-lotta-di-classe/),
|
|||
|
4 maggio 2014.
|
|||
|
|
|||
|
[^19]: Aureli, *Labor and Work in Architecture* cit., p. 72.
|
|||
|
|
|||
|
[^20]: *Ibid.*, p. 74.
|
|||
|
|
|||
|
[^21]: Carlo Vercellone (a cura di), *Capitalismo cognitivo. Conoscenza
|
|||
|
e finanza nell'epoca postfordista*, Manifestolibri, Roma 2006.
|
|||
|
|
|||
|
[^22]: Pier Vittorio Aureli, *History, Architecture and Labour: A
|
|||
|
Program for Research*, in Aaron Cayer, Peggy Deamer, Sben Korsh, Eric
|
|||
|
Peterson e Manuel Shvartzberg (a cura di), *Asymmetric Labors: The
|
|||
|
Economy of Architecture in Theory and Practice*, The Architecture Lobby,
|
|||
|
New York 2016, p. 158.
|
|||
|
|
|||
|
[^23]: Giulio Barazzetta, *Che fare*, in GIZMO, *Backstage.
|
|||
|
L'architettura come lavoro concreto* cit., p. 50.
|
|||
|
|
|||
|
[^24]: Filarete, *Trattato di architettura* cit., libro II, pp. 39-41.
|
|||
|
|
|||
|
[^25]: Benjamin, *L'autore come produttore* cit., pp. 207 sgg.
|
|||
|
|
|||
|
[^26]: In realtà, come scrive Massimo Cacciari, *Introduzione* a Max
|
|||
|
Weber, *Il lavoro intellettuale come professione*, Mondadori, Milano
|
|||
|
2018, p. XXVII, "... per quest'epoca, non si dà (...) interpretazione
|
|||
|
che non sia trasformazione".
|
|||
|
|
|||
|
[^27]: Benjamin, *L'autore come produttore* cit., p. 207 (il corsivo è
|
|||
|
mio).
|
|||
|
|
|||
|
[^28]: Carl Schmitt, *L'epoca delle neutralizzazioni e delle
|
|||
|
spoliticizzazioni* (1929), in Id., *Le categorie del "politico"* cit.,
|
|||
|
pp. 167-83.
|
|||
|
|
|||
|
[^29]: Virno, *Grammatica della moltitudine* cit.
|
|||
|
|
|||
|
[^30]: *Ibid.*, p. 14.
|
|||
|
|
|||
|
[^31]: Su ciò rimando al mio *L'architettura come lavoro concreto*, in
|
|||
|
GIZMO, *Backstage. L'architettura come lavoro concreto* cit., pp. 7-10.
|
|||
|
|
|||
|
[^32]: Oltre ai lavori citati in precedenza, vedi Peggy Deamer (a cura
|
|||
|
di), *The Architect as Worker. Immaterial Labor, The Creative Class and
|
|||
|
the Politics of Design*, Bloomsbury, London 2015. Sul tema, in senso
|
|||
|
più allargato, vedi anche *IWW: Immaterial Workers of the World*, in
|
|||
|
"DeriveApprodi", n. 18, numero monografico, 1999.
|
|||
|
|
|||
|
[^33]: Non è letteralmente possibile dar conto del numero delle
|
|||
|
citazioni di *Der Autor als Produzent* nel dibattito architettonico,
|
|||
|
dapprima degli anni settanta, e poi nuovamente in quello più recente,
|
|||
|
quasi sempre però senza adeguate storicizzazioni di esso. Sulle
|
|||
|
possibili ambiguità del suo impiego, basti ricordare che i medesimi
|
|||
|
passi del saggio sono utilizzati *contra* Tafuri da Portoghesi,
|
|||
|
*Autopsia o vivisezione dell'architettura?* cit. (recensione a *Per una
|
|||
|
critica dell'ideologia architettonica*), e poi dallo stesso Tafuri con
|
|||
|
altre finalità in *L'Architecture dans le Boudoir. The language of
|
|||
|
criticism and the criticism of language*, in "Oppositions", n. 3, 1974,
|
|||
|
pp. 37-62, dove nota tra l'altro che "qui Benjamin si rivela ambiguo e
|
|||
|
può prestarsi a diverse interpretazioni" (p. 62).
|
|||
|
|
|||
|
[^34]: Il rimando è evidentemente a Max Weber, *La politica come
|
|||
|
professione* (1919), in *Il lavoro intellettuale come professione* cit.,
|
|||
|
pp. 49-130.
|
|||
|
|
|||
|
[^35]: Massimo Cacciari, *Progetto*, in "Laboratorio Politico", n. 2,
|
|||
|
1981, p. 88.
|
|||
|
|
|||
|
[^36]: *Ibid.*, p. 114.
|
|||
|
|
|||
|
[^37]: Tafuri, *Il "progetto" storico* cit., pp. 3-30.
|
|||
|
|
|||
|
[^38]: Scrive Tafuri, *ibid.*, p. 13: "L'autentico problema è come
|
|||
|
progettare una critica capace di porre di continuo in crisi se stessa
|
|||
|
mettendo in crisi il reale".
|
|||
|
|
|||
|
[^39]: "Il "progetto" storico è sempre "progetto di una crisi"":
|
|||
|
*ibid.*, p. 5. Su ciò vedi Biraghi, *Progetto di crisi* cit., pp. 9-53.
|
|||
|
|
|||
|
[^40]: Massimo Cacciari, *Di alcuni motivi in Walter Benjamin*, in
|
|||
|
"Nuova Corrente", n. 67, 1975, p. 238. Il saggio di Benjamin cui si fa
|
|||
|
riferimento è *L'opera d'arte nell'epoca della sua riproducibilità
|
|||
|
tecnica* (1936).
|
|||
|
|
|||
|
[^41]: Cacciari, *Di alcuni motivi in Walter Benjamin* cit., p. 241.
|
|||
|
|
|||
|
[^42]: Vedi al proposito la concezione della "relazione" in Enzo Paci,
|
|||
|
*Dall'esistenzialismo al relazionismo*, D'Anna, Messina-Firenze 1957.
|
|||
|
|
|||
|
[^43]: Sugli effetti "migliorativi" delle trasformazioni dei rapporti di
|
|||
|
produzione, vedi Benjamin, *L'autore come produttore* cit., p. 212.
|
|||
|
Ovviamente, nel suo caso, tale "miglioramento" va inteso in relazione
|
|||
|
alla funzione didattico-organizzativa della produzione in vista di una
|
|||
|
rivoluzione comunista. Nella situazione odierna ogni "miglioramento"
|
|||
|
degli apparati citati va invece valutato alla luce della sua capacità di
|
|||
|
apportare una maggiore equità al loro interno e di fornire migliori
|
|||
|
condizioni ai loro fruitori.
|
|||
|
|
|||
|
[^44]: Per quanto limitato alla sola Italia, è interessante
|
|||
|
*Intellettuali e potere* (*Storia d'Italia Einaudi. Annali 4*, a cura
|
|||
|
di Corrado Vivanti, Torino 1981), in cui la figura dell'intellettuale si
|
|||
|
frange in molteplici soggetti che, a seconda dei contesti sociali e
|
|||
|
storici, sono impegnati in settori e a livelli tra di loro molto
|
|||
|
differenti (medicina, pedagogia, arte, religione, ecc.). Vedi inoltre
|
|||
|
Alberto Asor Rosa, *Intellettuali*, in *Enciclopedia Einaudi*, Torino
|
|||
|
1979, vol. VII, pp. 801 sgg.
|
|||
|
|
|||
|
[^45]: Corrado Vivanti, *Presentazione*, in *Intellettuali e potere*
|
|||
|
cit., pp. XIX-XX.
|
|||
|
|
|||
|
[^46]: Sull'intellettuale come "destabilizzatore" e "risvegliatore di
|
|||
|
coscienze" (da Socrate a Heinrich Heine -- ma anche, si potrebbe
|
|||
|
aggiungere, a Karl Kraus e oltre), vedi Maldonado, *Che cos'è un
|
|||
|
intellettuale?* cit., pp. 92-95. Inoltre vedi Edward W. Said, *Dire la
|
|||
|
verità. Gli intellettuali e il potere*, Feltrinelli, Milano 2014.
|
|||
|
|
|||
|
[^47]: Cacciari, *Introduzione* cit., p. XI.
|
|||
|
|
|||
|
[^48]: Il riferimento è a Rossi, *L'architettura della città* cit. Per
|
|||
|
un'analisi delle fonti rossiane del libro, vedi Elisabetta Vasumi
|
|||
|
Roveri, *Aldo Rossi e "L'architettura della città". Genesi e fortuna di
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un testo*, Allemandi, Torino 2010.
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[^49]: Ci si riferisce ai *playgrounds* realizzati da van Eyck ad
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Amsterdam per conto dell'amministrazione pubblica tra il 1947 e il
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1978. Oltre a Lefaivre (a cura di), *Aldo van Eyck. Playgrounds* cit.,
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vedi anche Anna van Lingen e Denisa Kollarova, *Aldo van Eyck.
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Seventeen Playgrounds*, Lecturis, Eindhoven 2016, e Merijn Oudenampsen,
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*Aldo van Eyck and the City as Playground*, in *Urbanacción 07/09*, a
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cura di Ana Mendez de Andés, La Casa Encendida, Madrid 2010, pp. 25-39.
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[^50]: È il caso dell'Orphanage di Amsterdam (1955-60) dello stesso van
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Eyck, su cui vedi Francis Strauven, *Aldo Van Eyck's Orphanage. A
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Modern Monument*, NAi Publishers, Rotterdam 1997.
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[^51]: Gramsci, *Quaderni del carcere* cit., vol. III, Quaderno 12
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(XXIX), § 3, p. 1551.
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[^52]: Benjamin, *L'autore come produttore* cit., p. 209.
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[^53]: Fortini, *Verifica dei poteri* cit., pp. 41-57.
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[^54]: Va qui rammentata l'ambiguità del titolo albertiano *De re
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ædificatoria*, che esclude deliberatamente l'uso dell'ovvio vocabolo
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vitruviano *architectura* per i suoi dieci libri, scegliendone uno più
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"edificante". Per un'accurata analisi di tale titolo, vedi Leon
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Battista Alberti, *Prologo al 'De re ædificatoria'*, a cura di
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Elisabetta Di Stefano, Edizioni ETS, Pisa 2012, pp. 9-17.
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[^55]: Tra coloro che con maggior costanza e serietà si sono impegnati
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in questi anni in una lettura dei ruoli rivestiti dall'architetto e
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dallo storico dell'architettura nel corso del Novecento vi è Carlo Olmo:
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vedi in particolare *Architettura e Novecento. Diritti, conflitti,
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valori*, Donzelli, Roma 2010, e *Architettura e storia. Paradigmi della
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discontinuità*, Donzelli, Roma 2013.
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[^56]: Slavoj Žižek, *Il parallasse architettonico. Pennacchi e altri
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fenomeni di lotta di classe*, in Id., *Il trash sublime*, a cura di
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Marco Senaldi, Mimesis, Sesto San Giovanni 2013, pp. 56-57.
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[^57]: Come scrive Raniero Panzieri (in *Relazione sul neocapitalismo*
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(1961), in Id., *La ripresa del marxismo-leninismo in Italia*, Nuove
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Edizioni Operaie, Roma 1977, pp. 170-71), "si potrebbe dire che i due
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termini capitalismo e sviluppo sono la stessa cosa".
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[^58]: Luc Boltanski e Ève Chiapello, *Il nuovo spirito del
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capitalismo*, Mimesis, Sesto San Giovanni 2014.
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[^59]: Martin Heidegger, *La questione della tecnica* (1953), in Id.,
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*Saggi e discorsi*, a cura di Gianni Vattimo, Mursia, Milano 1980,
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p. 22. L'inno da cui è tratto il verso citato di Friedrich Hölderlin è
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*Patmos* (1803).
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[^60]: Alison Smithson e Peter Smithson, *The Charged Void:
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Architecture*, The Monacelli Press, New York 2001, p. 248.
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[^61]: Alison Smithson e Peter Smithson, in Marco Vidotto, *A + P
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Smithson*, Sagep Editrice, Genova 1991, p. 35. Sul carattere
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"didattico" del progetto per "The Economist" insiste anche Kenneth
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Frampton, *The Economist and the Hauptstadt*, in "Architectural Design",
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n. 194, 1965, p. 62.
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[^62]: E aggiunge: "La migliore tendenza è falsa se non insegna quale
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atteggiamento si deve tenere per soddisfarla": Benjamin, *L'autore
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come produttore* cit., p. 212.
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[^63]: È il caso, tra gli altri, dell'École d'Architecture di Nantes
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(2003-2009) dove, "come uno strumento pedagogico, il progetto mette
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in discussione il programma e le pratiche della scuola tanto quanto
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le norme, le tecnologie e il proprio processo di elaborazione": vedi
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www.lacatonvassal.com/index.php?idp=55#.
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[^64]: Antonio Lavarello, *Indifferenza come forma di impegno politico*,
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in
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www.gizmoweb.org/2015/12/indifferenza-come-forma-di-impegno-politico-edifici-e-spazi-pubblici-nellopera-di-lacaton-vassal/#\_ftn14,
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24 dicembre 2015.
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[^65]: Maria Giuseppina Grasso Cannizzo, *Loose Ends*, a cura di Sara
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Marini, Lars Muller Publishers, Zürich 2014; Sara Marini,
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*Sull'autore. Maria Giuseppina Grasso Cannizzo e le sue foreste di
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cristallo*, Quodlibet, Macerata 2017.
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[^66]: Vedi il capitolo *L'architettura responsabile*, in Biraghi e
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Micheli, *Storia dell'architettura italiana 1985-2015* cit.,
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pp. 329-52.
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[^67]: Su ciò rimando ai miei *L'ultima resistenza ovvero la lotta degli
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anziani contro i giovani*, in GIZMO, *MMX. Architettura zona
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critica* cit., pp. 15-21, e *Non si può fare meno
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dell'architettura*, in Chiara Baglione (a cura di), *Ernesto Nathan
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Rogers 1909-1969*, Franco Angeli, Milano 2012, pp. 196-98.
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[^68]: Vedi il capitolo *Dall'architettura disegnata all'architettura
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insegnata: l'accademia della composizione*, in Biraghi e Micheli,
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*Storia dell'architettura italiana 1985-2015* cit., pp. 183-95.
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Sempre valida -- pur con i necessari adeguamenti -- rimane la
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critica condotta da Massimo Scolari in *Una generazione senza nomi*,
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in "Casabella", n. 606, 1993, pp. 45-47.
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[^69]: Aureli, *Labor and Work in Architecture* cit., p. 81.
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[^70]: Foucault, *Disciplina e democrazia. Intervista di J.-L. Ezine*
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cit., p. 90.
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# vim: spelllang=it spell
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