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title: Il socialismo realizzato e la crisi delle avanguardie
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author: Manfredo Tafuri
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date: 1971
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Non esiste analisi seria delle vicende delle avanguardie artistiche
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nella Russia sovietica che possa prescindere dal legare la storia di
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quelle avanguardie a quella della «scuola formalista», nata dalla
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convergenza dei due gruppi di ricerca linguistico-letteraria di
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Pietroburgo e di Mosca.
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Se esiste infatti una chiave di volta capace di spiegare le aporie
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interne alla vicenda dell'avanguardia artistica nella Russia sovietica,
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questa è esattamente l'analisi del dibattito che si accentra, ancor
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prima della Rivoluzione di Ottobre, intorno alle tesi dell'*Opojaz*[^1].
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Ciò che è in gioco, sin dall'apparire delle prime indagini critiche di
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Šklovskij, Jakobson, Vinogradov o Eichenbaum, è infatti la
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*funzionalità* dell'arte, in quanto costruzione dotata di leggi e
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strutture affatto specifiche nel contesto istituzionale in cui il
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linguaggio fonda la sua genesi. Se è vero – come ha scritto
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Eichenbaum[^2], – che il gruppo iniziale dei formalisti tendeva a
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«emancipare la parola poetica dalle tendenze filosofiche e religiose che
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avvincevano sempre più i simbolisti», è anche vero che quel tanto
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insistere sul carattere convenzionale, artificioso, sovrapersonale
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dell'arte, non ha altro scopo che isolare l'oggetto poetico in un
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laboratorio anatomico, per indagare, nell'autonomia assoluta della sua
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interna struttura evolutiva, i modi di funzionamento delle istituzioni
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linguistiche[^3].
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E' a questo punto che l'innesto dell'analisi formale sul tronco delle
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avanguardie storiche diviene problematico. La parola-oggetto di
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Chlébnikov, la poesia urbana di Majakovskij, la tensione antiestetica di
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Burljuk e Kručënyck, la disgregazione de i nessi sintattici e la
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«riduzione al fonema» dei futuristi in genere, o al puro segno e al
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materiale-segno, di un Malevič o di un Tatlin – si pensi all'elenco
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degli «strumenti per la rigenerazione della lingua» con cui si apre il
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manifesto del 1913[^4] – sono, contemporaneamente, conferma degli
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strumenti analitici usati dai membri dell'Opojaz e contestazione della
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loro universalità.
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Il dissidio si rivela in tutta la sua ampiezza quando l'avanguardia
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sceglie di legare il proprio destino al farsi della Rivoluzione
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d'Ottobre. Quando essa, in altre parole, sceglie come propria la
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dimensione della «progettazione», quando trasforma – in letteratura come
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in poesia, in architettura, in pittura o nel cinema – la propria
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negazione in proposta costruttiva, quando sceglie insomma di scendere
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sul piano della storia.
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E' tale scelta soggettiva, che vede il realizzarsi dell'avanguardia come
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omologo del «realizzarsi del socialismo», che segna, sin dal '17, le
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tappe di una vicenda storica su cui si è recentemente avuto modo di
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costruire analisi critiche altamente mistificate. E' da questa stessa
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scelta che dovremo ripartire per ripercorrere i momenti di una vicenda
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che è ora di far uscire dal mito.
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In quanto critica all'istituzione linguistica, le tesi dell'Opojaz non
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possono che confermare, anzi storicizzare al livello più alto, la
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struttura stessa delle discipline artistiche. Proprio perché il suo
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sforzo è tutto concentrato nel trovare le vie di una massima efficienza
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nell'organizzazione del materiale linguistico, proprio perché il suo
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mettere fra parentesi tutte le questioni relative alla *genesi* dei
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linguaggi e ai significati da essi convogliati è funzionale a tale
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ricerca di leggi assolutamente «specifiche», il lavoro svolto dai
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seguaci del «metodo formale» ottiene due effetti complementari:
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a) rovescia per intero le artificiose tesi circa la *politicità*
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dell'avanguardia, omogeneizzando tecniche e articolazioni strutturali
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futuriste a quelle dello stesso passato che i *budetljane* aggredivano
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accanitamente[^5];
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b) indica una nuova condizione del lavoro intellettuale, riducendo
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quest'ultimo all'uso coerente ed efficiente di un materiale linguistico
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in sé indifferente all'elaborazione che di esso dovrà fare il *tecnico
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delle combinazioni formali*. Che è come dire consegnare – con un atto di
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*realpolitik* culturale non sappiamo quanto cosciente – tutta la
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responsabilità della *scelta dei materiali* (= la struttura dei
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significati) al «committente politico». (Il che è già abbastanza
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esplicito nelle risposte di Šklovskij alle accuse di parte marxista).
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Tale scelta, dal nostro punto di vista, ha un chiaro significato. L'arte
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– scrive Šklovskij[^6] – «non è una cosa, non è un materiale, ma un
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rapporto di materiali: e, come ogni rapporto, anche questo è di grado
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zero. E' quindi indifferente la scala di misurazione dell'opera, il
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valore aritmetico del denominatore, importante è il loro rapporto. Le
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opere giocose, tragiche, universali o da camera, le contrapposizioni di
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un mondo a un altro o di un gatto a una pietra sono uguali tra loro».
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Ma questa è esattamente la base teorica della riduzione del «materiale»
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a se stesso operata dai controrilievi di Tatlin, o dai *Merzbilden* di
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Schwitters. (L'accostamento non è casuale: si confrontino le immagini
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fotografiche superstiti del Merzbau di Hannover con quelle relative alla
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decorazione del *Café Pittoresque* eseguita nel 1917 da Georgiy Yakulov,
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Rodčenko e Tatlin)[^7]. L'oggetto al suo grado zero è il materiale puro.
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Lo scontro fra i materiali è già applicazione della legge dello
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«straniamento» (il *ready-made* di Duchamp ne è d'altronde la
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quint'essenza), e in un controrilievo o in un *Merz* l'artista è proprio
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quell'«istigatore nella rivolta delle cose» di cui parla lo stesso
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Šklovskij nel caratterizzare la tecnica dello «spostamento semantico» in
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Tolstoj[^8].
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Nasce già, a questo punto, una difficoltà. Fino a quando l'artista guida
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la «rivolta delle cose» – la majakovskijana *rivolta degli oggetti* –
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diviene almeno problematico passare dallo straniamento alla produzione:
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lo «straniamento» specifico di una «cultura dei materiali», come quella
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di Tatlin, è, oggettivamente, *straniamento dalla produzione*.
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«La gente che viene dal mare – scriverà Šklovskij per spiegare il
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significato dello straniamento semantico[^9] – s'abitua talmente al
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rumore delle onde che non lo sente più. Allo stesso modo raramente
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udiamo le parole che pronunciamo. Noi ci guardiamo ma non ci vediamo
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più. La nostra percezione del mondo si è inaridita e dissolta ed è
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rimasta soltanto un puro e semplice riconoscere».
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Il comportamento quotidiano va quindi «corretto» dall'arte. Va, anzi,
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negato nella sua opacità e nella sua opacità e nella sua afona
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omogeneità. La «folla urbana» di Baudelaire o la Cura esistenziale di
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Heidegger sono viste esplicitamente come i prodotti negativi della
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«condizione» tecnologica. Ed è conseguente, a tale lettura idealizzata
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della reificazione prodotta dal dominio crescente dei rapporti
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capitalistici di produzione, il tentativo di rispondere con una astratta
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tecnica di formalizzazione.
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Lo «straniamento semantico» è così identificato da Eichenbaum come la
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ragione stessa dell'esistenza dell'arte: questa non ha altro compito
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specifico che «sottrarsi all'uso quotidiano».
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«L'automatismo quotidiano nell'uso della parola – egli osserva[^10] –
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lascia inutilizzate masse di *nuances* sonore, semantiche e sintattiche,
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che trovano nell'arte letteraria il loro luogo specifico. La danza si
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costruisce su movimenti che non hanno nulla a che fare con i gesti
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abituali. *Se l'arte utilizza il quotidiano, è solo come un materiale in
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un'interpretazione imprevista, o sotto una maschera accentuatamente
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deformata* (il grottesco)»[^11].
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Lo straniamento semantico, il divorzio fra segno e significato, la
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creazione di sistemi di segni capaci di indurre significati inediti, si
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rivelano quindi, alla fine, strumenti di lotta contro l'universo
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reificato del «quotidiano». L'appropriazione del mondo tecnologico o
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dei mezzi di comunicazione di massa ha quindi una seconda faccia: poiché
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quell'appropriazione avviene mediante una *distorsione* (il *priëm*,
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l'artificio dei formalisti) e poiché l'obiettivo ultimo di essa è il
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raggiungimento delle «verità» celate dall'universo mercificato, il
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percorso labirintico attraverso la forma, proposto da avanguardie e
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Opojaz, si pone come tentativo di recupero dell'autenticità perduta.
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La *creazione di forma* come terra promessa della vittoria soggettiva
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sull'alienazione, dunque: questo è ciò che i formalisti teorizzano,
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questo è il *contenuto* latente delle loro analisi «scientifiche».
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Ma è chiaro che un tale rovesciamento della negazione romantica
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dell'universo tecnologico, nello stesso momento in cui dichiara
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l'autonomia dell'arte dalla vita, in cui asserisce la necessità di
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spezzare le associazioni abituali, di rendere *strano* l'abituale,
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rivela anche la sua doppia faccia:
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a) da un lato si pone come accettazione della realtà tecnologica e delle
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sue leggi fondamentali;
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b) d'altro lato assume quella realtà solo e unicamente come *materiale
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da deformare*, da assoggettare, da restituire carico dei suoi *valori
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perduti*.
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Ma ciò pone problemi pressoché insolubili: il Costruttivismo sovietico
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oscillerà perpetuamente fra un'architettura *estranea al quotidiano* –
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le ricerche di Mel'nikov e dei Golosov – e un'architettura in dialettica
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*positiva* con esso: le ricerche di Ginzburg, principalmente, o di
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Burov.
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D'altronde, lo stesso Šklovskij aveva già affermato che «la creatività,
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anche quella artistico-rivoluzionaria, è tradizionale. Una infrazione al
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canone è possibile solo quando il canone esiste, l'atto blasfemo
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presuppone una religione non ancora morta. Esiste una 'Chiesa' dell'arte
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nel senso di una congregazione di coloro che la sentono. Questa chiesa
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ha il proprio canone, creato dalla progressiva stratificazione delle
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eresie. Preoccuparsi di fondare un'arte collettiva è altrettanto inutile
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quanto far pratiche perché il Volga si getti nel Caspio»[^12].
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In un primo tempo, quindi, fra il 1919 e il '25, quando gli analisti
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dell'Opojaz indagano sulle opere di Majakovskij, di Puni o di Tatlin, il
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loro sforzo principale è nel dimostrare il legame del tutto arbitrario e
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artificioso istituito dalle avanguardie fra arte e politica. Šklovskij
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dice, della torre di Tatlin, che è «un monumento fatto di ferro, di
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vetro e di rivoluzione»[^13], ma solo in quanto la «rivoluzione» si è
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estraniata da se stessa, per divenire, come il ferro e il vetro,
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*materiale* linguistico. Con un significativo mutamento di rotta, nel
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'23 Osip Brik è costretto a definire cosa l'Opojaz offre alla
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«costruzione culturale del proletariato», asserendo che al «poeta
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tecnico del suo lavoro... creatore del linguaggio al servizio della sua
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classe», è necessaria una conoscenza scientifica delle leggi della
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produzione artistica «al posto di una rivelazione mistica dei misteri
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della creazione», mentre contemporaneamente Arvàtov si incarica di
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mediare Produttivismo e metodo formale, dando a quest'ultimo
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contrassegni marxisti[^14].
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Per il LEF, costituitosi appunto nel '23, il compito dell'artista non è
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che una sperimentazione di «laboratorio», compiuto da «operai che
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eseguono una ordinazione sociale»[^15] – almeno nell'accezione di
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sinistra offerta ora al «lavoro sulla parola»: e tale «costruzione della
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vita» (*ziznestroenie*), attuata per mandato sociale, sfocia nella più
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assoluta conferma della stabilità e immutabilità del Linguaggio come
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istituzione.
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Tutta l'analisi dell'evoluzione morfologica alla scienza delle strutture
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segniche, tutta l'analisi della loro genesi al partito: su questo
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compromesso concorderanno sia Eichenbaum che Arvàtov e Lunačarskij. Ma
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ciò significa dare per scontata, e da entrambi i versanti,
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l'inattaccabilità delle Istituzioni formali.
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Un dare per scontato che ha fini immediati opposti, ma che possono anche
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convergere. Per i formalisti – siano essi i membri dell'Opojaz che più
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tardi gli architetti dell'Asnova e dell'Aru – si tratta di salvaguardare
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un'area minima di assoluto controllo sulla disciplina; per la critica di
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parte «marxista» si tratta di finalizzare il permanere delle ideologie,
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nelle loro diverse espressioni tecniche, alla generale restaurazione
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ideologica operante nell'URSS dopo il '24[^16].
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Non casualmente, quindi, Šklovskij può affermare che il Futurismo,
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riempiendo lo spazio tra le rime con «chiazze di sonorità transazionali
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o metanoiche» porta a consapevolezza «l'opera dei secoli»[^17].
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L'isolamento della parola-oggetto, la distorsione e lo slittamento
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semantico, la disgregazione dei nessi logico-sintattici, la distruzione
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dei canoni ritmici e metrici, la tecnica dello «straniamento», non sono
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– per i teorici del formalismo – strumenti specifici delle avanguardie,
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ma criteri validi in generale per l'attività di configurazione
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artistica. In tal modo essi distruggono spietatamente l'ntera base
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teorica del Futurismo e delle avanguardie, facendo di queste ultime solo
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movimenti il cui compito storico è riportare alle sue schematiche e nude
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leggi il lavoro letterario, reso, in tale opera di riduzione alla sua
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struttura primaria, trasparente e del tutto leggibile nella specificità
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dei suoi attributi[^18].
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L'alleanza tra scuola formale e Futurismo è quindi del tutto ambigua. In
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realtà i formalisti avanzano la più radicale contestazione dei miti e
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delle pretese «politiche» del Futurismo di sinistra. Fra Tolstoj e
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Majakovskij non esiste opposizione: esiste per loro solo un diverso modo
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di articolare – su differenti «materiali» – tecniche del tutto affini se
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non coincidenti[^19].
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Indirettamente il formalismo compie una demistificazione che – se
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condotta fino in fondo e con mutati obiettivi – avrebbe potuto assumere
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i connotati di una vera e propria «critica dell'ideologia» nel senso
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rigorosamente marxista del termine. E' inutile chiedersi perché ciò non
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sia accaduto: la risposta è tutta nella falsa alternativa sorta fra
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scuola formale ed «estetica marxista». Avanzando una teoria marxista
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sull'arte, ignorando che da un punto di vista di classe non si dà altra
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possibilità che di una critica marxista alle istituzioni linguistiche,
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si aprirà la via a quella che sarà l'ambigua integrazione del formalismo
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analitico nei metodi di produzione della forma[^20].
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La poetica dell'oggetto, infatti, è nello stesso tempo una rinuncia e un
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tentativo di dominio sul reale. Riconoscendo che l'universo delle
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*cose*, nella sua brutale realtà, non è più sottoponibile ad
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un'esperienza soggettiva che possa dominarlo con un progetto di
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razionalità globale, le avanguardie europee avevano concluso il lungo
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dibattito dell'epoca romantica sulla scoperta kantiana della
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inconciliabilità fra l'*anima* e le *cose*. Anche il disegno dialettico
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hegeliano era stato mandato in frantumi dal *pensiero negativo*
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dell'avanguardia: Futurismo, Espressionismo e Dada concordano nel
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sottrarsi alla sintesi positiva delle contraddizioni esibendo queste
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ultime come tali[^21].
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Le avanguardie sovietiche in particolare – parallelamente alle
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esperienze collaterali del Bauhaus – tendono a fondare un nuovo tipo di
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dominio su un reale riconosciuto come contraddittorio, non
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assoggettabile ad alcun *a priori* formale: ma per fare questo debbono
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riconoscere che non è più il soggetto a fondare la realtà, ma è
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quest'ultima a fondare il soggetto. «Noi poeti futuristi – è scritto
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nel manifesto *La parola come tale[^22] – ben più che alla Psiche diamo
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valore alla Parola, bistrattata senza pietà dai nostri predecessori. Noi
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vogliamo vivere della parola più che della nostra esperienza». Il che
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non è affatto in contrasto con il manifesto «rumorista» di Russolo
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(1913), e giustamente le esperienze dei rumoristi italiani sono state
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messe in relazione alle prime ricerche di Dziga Vertov[^23]. Le
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*Kino-Pravda* di Vertov (cui collabora, dalla tredicesima in poi,
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Rodčenko) assumono come *materiale* da riorganizzare attraverso la
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manipolazione degli *intervalli* e del montaggio lo spettacolo della
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città di massa, o avvenimenti distanti nello spazio, in cui l'azione
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collettiva in quanto realtà nuova venga scoperta, nelle sue *verità*
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nascoste, dalla legge dello straniamento[^24].
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Anche qui l'esperienza soggettiva è fondata a partire dal riconoscimento
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della sua impotenza di fronte agli oggetti che lo stesso soggetto ha
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posto dinanzi a sé, che il soggetto ha creato, e che gli si ripresentano
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come estranei. I controrilievi tatliniani, le «favole geometriche» di El
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Lisickij, le *Kino-Pravda* di Vertov, sono tentativi di *gestire la
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propria alienazione*; così come i planiti di Malevič erano tentativi di
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sublimare l'alienazione cosmica. «La psicologia – scrive Vertov[^25] –
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impedisce all'uomo di essere esatto come un cronometro, frustra la sua
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|
ambizione di apparentarsi alle macchine. Da noi non c'è ragione perché
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l'arte del movimento non consacri tutta la sua attenzione all'uomo
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futuro piuttosto che all'uomo attuale. E' vergognoso che, contrariamente
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alle macchine, gli uomini non si sappiano comportare. Ma cosa fare, se
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il comportamento impeccabile dell'elettricità ci tocca più che il
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disordine della gente attiva o l'ozio pedante di quella passiva... Noi
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escludiamo per il momento l'uomo come oggetto di ripresa filmica, dato
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che, questi è incapace di dirigere i propri movimenti. La nostra strada
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è di partire dal sedicente cittadino per pervenire all'uomo elettrico
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compiuto, attraverso la poesia delle macchine».
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E' esattamente, la strada opposta – nonostante le apparenze superficiali
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– a quella dell'*Esprit Nouveau*. L'uomo deve *farsi macchina* per
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estinguere la propria colpa di fronte all'universo della produzione da
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lui creato ma non dominato. Ma deve farsi macchina, principalmente, per
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pagare cos1 il proprio scotto alla legge della produzione incessante,
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della produzione per la produzione.
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«Mettere a nudo l'anima della macchina, *far amare la macchina
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all'operaio, far amare il trattore al contadino, far amare la locomotiva
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al meccanico*» [^26].
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Con questi assiomi Dziga Vertov rivela il fine ultimo dell'avanguàrdia
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fattasi produttiva. E' il collettivo, la classe, ora, che è chiamata a
|
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*farsi macchina*, a identificarsi con la produzione. Il Produttivismo è si
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un progetto di avanguardia: ma è progetto di conciliazione fra Capitale
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e Lavoro, operato con la riduzione della forza-lavoro a ingranaggio
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obbediente e muto della macchina complessiva [^27].
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Il progetto iniziale del Suprematismo o della scuola formale – il
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recupero di un lavoro intellettuale opportunamente distanziato e
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differenziato da quello produttivo – regge sempre meno dal '25 in poi:
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lo dimostrano non solo le parole e i films di Vertov, ma anche, e
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principalmente, le crisi di Šklovskij ed Eichenbaum, con le quali lo
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Erlich fa iniziare, giustamente, il dissolvimento del formalismo[^28].
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D'altra parte sarebbe errato dar fede per intero alle pretese
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scientifiche del formalismo stesso nella sua fase più rigorosa. Anche
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quell'ostinato e polemico scavare nelle strutture prime della forma,
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senz'altro obiettivo apparente che la dimostrazione della fondamentale
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tautologicità dell'arte, era a sua volta un «progetto» artistico. La
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distanza dell'analista dall'opera non era che un pretesto: fissando un
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perimetro rigoroso per il proprio scavo analitico, il formalismo
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progettava in realtà il recupero di una *qualità* specifica per il lavoro
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intellettuale, dando coraggiosamente per scontata l'inutilità di
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quella stessa qualità di fronte alla realtà della produzione.
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E' ciò che avviene anche nella vicenda culturale dei paesi occidentali.
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Ma le difficoltà, nella Russia sovietica, vengono accentuate proprio dal
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fatto che la dialettica interna al lavoro intellettuale e il suo
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scontro con il lavoro tutto omogeneizzato, astratto, *senza qualità*,
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direttamente produttivo, insistono sul *dato* insopprimibile della
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Rivoluzione del '17.
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Šklovskij, Eichenbaum, Tret'jakòv non riescono a convincere se stessi
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della correttezza del loro «aureo» progetto di recupero di una qualità
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intellettuale. Il metodo formale, dal '25 in poi, *vuole* inserirsi nella
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produzione come per espiare un complesso di colpa. La letteratura viene
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ora spinta a farsi *literatura fakta*, «fattografia», secondo l'espressione
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dei formalisti: esattamente come per Rodčenko, la pittura deve farsi
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produzione, o, come per Ginzburg, l'architettura deve farsi strumento
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«sociale». Per tutta l'avanguardia sovietica, come per Dziga Vertov, il
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campo da cui trarre i materiali primari della nuova arte produttiva è la
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*banalità quotidiana*.
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«Noi consideriamo elemento essenziale dell'arte oggi – scrive Tret'jakòv[^29] –
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il movimento dei fattografi. Respingiamo decisamente le affermazioni
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sprezzanti di certi compagni del LEF: "Vorrete forse considerare *lefista*
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ogni reportucolo di giornale, ogni ragazzino che sa scattare qualche
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foto?" Ma è aristocraticismo estetico. La massa dei fotografi dilettanti
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le migliaia di reporter e di corrispnndenti operai, nonostante la loro
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bassa qualifica e il loro rigore, sono "fattografi" potenziali. Si deve
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cercare di migliorare la loro qualifica, e per ogni autentica
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socializzazione dell'arte costoro valgono più di qualsiasi pittore o
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letterato qualificato, intento a lavorare in senso progressivo, una
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volta pentito e dopo aver rinnegato il proprio passato».
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La *qualità* sperimentata nel lavoro puro sulla forma deve ora entrare nei
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processi di «socializzazione»: il rifiuto verbale dell'aristocrazia
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culturale è tutto funzionale alla polemica ormai ingaggiata
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dall'intellettuale con se stesso.
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Il banale quotidiano ha la sua *forma* specifica nel giornalismo: non a
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caso il progetto dei Vesnin per la «Pravda» o la grafica di El Lisickij
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assumono dal *collage* cubista (con la mediazione della ricerca
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tatliniana) la degradazione della forma e la sua identificazione con la
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materia. «Quando diciamo che il romanzo sarà sostituito dal giornale –
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scrive Šklovskij[^30] – non intendiamo dire che sarà sostituito da singoli
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articoli. No, è la rivista stessa a rappresentare una determinata forma
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letteraria, com'era ben chiaro all'epoca in cui nacque il giornalismo
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inglese, quando si sentiva in modo cosi lampante il redattore come
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autore». Ma subito dopo la «fattografia» è presentata come medium. di
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«creazione collettiva», di funzione-collaborazione, secondo la
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tradizione più ortodossa delle avanguardie storiche: «trovare il punto
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di vista essenziale, capace di spostare il materiale e di offrire al
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lettere la possibilità di ricostruirlo, ecco un procedimento molto più
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organico di qualsiasi paragone, che ben raramente riesce a raggiungere
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il proprio fine».
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«Lo sviluppo della "letteratura del fatto" non deve seguire una
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direttrice capace di avvicinarlo alla grande letteratura, bensì una
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divergente, e una delle condizioni essenziali è la lotta contro
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l'aneddoto tradizionale che contiene in sé, allo stato embrionale, tutte
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le qualità e tutti i vizi del vecchio metodo estetico»[^31].
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Non sappiamo fino a che punto Šklovskij o Tret'jakòv si accorgessero,
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nel '29, che la loro scoperta della «fattografia» non era che la
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riduzione aggiornata del programma Produttivista del '20, certo apparso
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alle loro orecchie, a suo tempo, come vaniloquio dilettantistico[^32].
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«L'arte collettiva del presente è la vita costruttiva»: nelle parole di
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Rodčenko e della Stepanova, in tutto aderenti alle idee di Tatlin,
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riecheggia l'utopia positiva delle avanguardie del primo dopoguerra,
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dalla *Novembergruppe* al De Stijl. E del resto, lo strumento più
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elementare di quelle avanguardie – la riduzione, del «materiale» formale
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al puro segno, al puro oggetto, come risposta alla scoperta della
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reificazione dell'oggetto in seno all'universo mercificato della
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produzione – è anche lo strumento principe del Costruttivismo russo; in
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tutta la gamma delle sue specificazioni.
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La «*rivolta delle cose*», questo tema che, nella tradizione dell'angoscia
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borghese è esperienza e prefigurazione di un mondo completamente
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dominato da quel simbolo del *negativo* che è, per la falsa coscienza
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intellettuale, la merce, si presenta ribaltato nelle ricerche delle
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avanguardie sovietiche. L'Opojaz aveva ridotto scientificamente l'arte a
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progetto di relazioni specifiche fra puri segni, fra elementari oggetti.
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Il *Vešč* di Ehrenburg e di El Lisickij, l'astrazione geometrica di
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Ladovskij e dei Vesnin, l'oggetto come prodotto, di Rodčenko o del
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Metfak, le immagini virtuali di Dziga Vertov o di Ejzenstejn, le «cose
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di Majakovskij, possono ora ripartire da quelle analisi, utilizzandole
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positivamente, re inserendo le in un'ideologia della produzione che
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rovesci la sospensione di giudizio compiuta dal formalismo circa la
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propria collocazione politica.
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La «riduzione all'oggetto» tuttavia, non è, per il Formalismo, una
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conseguenza diretta della sua analisi scientifica. Essa è piuttosto la
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conseguenza di un compromesso. Trasformare una tecnica di indagine in
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un metodo costruttivo della forma, rovesciare nella produzione la
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medesima teoria che aveva rivelato le aporie delle avanguardie
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produttiviste, ribaltare il valore «negativo» dell'analisi formale in
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teoria «positiva»: questo è l'equivoco cui il gruppo dell'Opojaz in gran
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|
parte e l'ala «sinistra» dell'arte sovietica nella sua totalità non
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riusciranno a sfuggire, dal '25 in poi. Si noti ancora una volta la
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singolare omogeneità di funzioni storiche e di comportamenti che lega
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fra loro avanguardie negative (Espressionismo e Dada) e formalismo
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russo. La «riduzione all'oggetto» è il termine ultimo della loro
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dissacrazione: anche se per le prime si tratta di un risultato ottenuto
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tramite l'*autodegradazione* dell'attività artistica, e per il secondo di
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un estremo tentativo di «salvarsi l'anima». Dada non «si traduce» in De
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Stijl, la Negazione non si rovescia in Positivo attraverso un qualche
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magico reagente. L'aporia dell'avanguardia è tutta qui: nel non saper
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trovare altri strumenti per denunciare il proprio processo di
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mercificazione, la propria incomunicabilità, che in un atto
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comunicativo, anche se ridotto a pura testimonianza di se stesso, a puro
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segnale. Negando la possibilità della comunicazione, l'avanguardia
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rappresenta e rivela la «miseria» di una tipica utopia borghese: la
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scoperta, cioè, che non è più dato altro Valore che il tendere verso
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valori ineffettuali, irraggiungibili, privi di senso. Anche il
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formalismo aveva distrutto – e scientificamente, per giunta – ogni
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|
illusione circa il significato della comunicazione. Eichenbaum o
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Šklovskij hanno un bell'attribuire agli «specialisti del compromesso» -
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primo fra tutti Arvàtov – la responsabilità del dissolversi della teoria
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scientifica della forma in banali artifici. La banalizzazione del
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formalismo è già insita nel suo disperato tentativo di autorecuperarsi
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|
alla *produzione*[^33].
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«L'unità dell'opera letteraria – scrive Tynjanov nel '24[^34] – non consiste
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nella perfetta simmetria delle componenti, bensì... nella loro
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integrazione dinamica... La forma dell'opera letteraria va intesa
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dinamicamente». La «somma degli artifici», in cui nel '21 Šklovskij
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riconosceva il principio cardine del processo formale, si presenta ora
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come un tutto, un sistema, una struttura. Intorno al '25 Eichenbaum
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scopre che nella linea di confine tra fonetica e semantica esiste la,
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sintassi: la legge dello straniamento dovrà ora insistere su un
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recuperato concetto di totalità della forma. Solo che si tratta di una
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forma instabile, di una struttura che ha sempre meno a che fare con uno
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stabilizzato «principio di ragione»: di una forma, insomma, che è
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piuttosto un tendere verso una razionalità progettante. E' esattamente
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il medesimo processo che si rivela nella vicenda delle avanguardie
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figurative: si pensi al passaggio dalla pura «cultura dei materiali»,
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perpetuata da Ladovskij nel Vchutemas, alle prime esperienze dei Vesnin
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nel '23, a quel «manifesto» di sintesi positiva che è Lo stile e
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l'epoca, scritto da Ginzburg nel '24.
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L 'uso di una tecnica di analisi come supporto di una metodologia di
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progettazione (letteraria o architettonica che questa sia ) è già nel
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Tatlin dei Controrilievi; ma è con la costituzione del LEF' che nella
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Russia sovietica avviene qualcosa che solo molto più tardi avverrà
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nell'Occidente capitalista. Facendo funzionare in senso produttivo
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l'analisi formale, tutto il contenuto demistificante della sua analisi
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viene annullato. La sua inquietante contestazione del Futurismo risulta
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neutralizzata:. la scoperta della distanza ineliminabile dell'arte dalla
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vita, della fatale estraneità dell'arte alla «bandiera che sventola
|
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sopra la cittadella»[^35], è fatta funzionare come forza» trainante di
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|
un'ideologia. L'analisi formale si cala tutta all'interno della
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struttura, del processo di formazione, dei congegni di articolazione
|
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delle poetiche che ne ereditano, quindi, il lascito «positivo».
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L'arte costruzione della vita, preconizzata dal LEF, può cos1 assorbire
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in sé tutti gli apporti di movimenti oggettivamente antitetici.
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Il messaggio lanciato nel '23 a futuristi, costuttivisti, produttivisti
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|
e Opojaz è estremamente significativo[^36].
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L'artista «tecnico del suo Javoro» agganciato allo studio delle «leggi
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scientifiche della produzione poetica» può ora recuperare il formalismo
|
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come affossatore delle tradizioni della letteratura borghese e come
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rivèlatore delle leggi della produzione poetica, mentre si profila. una
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nuova utopia, quella dell'arte proletaria come creazione della società
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proletaria[^37].
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Il carattere tutto accessorio e sovtastrutturale delle tesi
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formalistiche circa la riduzione della progettazione alla.pura
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organizzazione si rivela compiutamente nel momento in cui non può più
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essere sottaciuto il predicato specifico di quella generica
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«organizzazione».
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Rovesciare tutta la tematica della «morte dell'arte» nell'ideologia del
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lavoro, funzionalizzare come stimòlo verso il rinnovamento dei mezzi e
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delle tecniche di p roduzione la scoperta marxiana dei connotati di
|
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classe delle Istituzioni e delle discipline, affermare declsamente un
|
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possibile uso di cla.s se più insidioso quanto più raffinato l'ideologia
|
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del «soçialismo realizzato» a quella dell'organizzazione (tettonica,
|
|||
|
fattura, costruzione): questi i compiti che il 10 gruppo di Lavoro dei
|
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Costruttivisti (1920) e il loro massimo teorico, A. Gan, si assumono in
|
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|
proprio[^38].
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Sarebbe però errato considerare chiusa, dal '20 in poi, la partita
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dell'àvanguardia: questa ha solo spostato in là i propri obiettivi.
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L'estraneità delle istituzioni borghesi al destinò del proletariato
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rende legittima la dichiarazione di morte al feticismo dei Valori
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artistici, dà un fondamento < politico» al tradizionale ruolo
|
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distruttivo delle avanguardie storiche. La guerra alle «verità eterne e
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|
incorruttibili»[^39] è solo il polo dialettico della ricostruzione, tutta
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|
ideologica, del ruolo sovrastorico delle discipline: dove il cambiamento
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|
di segno da queste assunto non trova. altra giustificazione che quella
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etica.
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In luogò della classe, il proleta.riato unico arbitro del proprio
|
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destino; in luogo delle contraddizioni ineliminabili insite nella
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gestione operaia del Capitale, l'esaltazione dell'organizza zione
|
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|
socialista; in luogo della rivelazione dell'oggettivo funzionamento
|
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della Russia sovietica come momento di crisi del Capitale
|
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internazionale, abbiamo l'assunzione dell'ttobre proletario come momento
|
|||
|
di palingenesi universale, di epifania etica. Attribuendo al
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proletariato il compito storico di reintegrare l'Uomo a se stesso e al
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|
suo ambiente sociale, il recupero di un l avoro risacralizzato in quanto
|
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|
non più ' alienato si traduce direttamente nell ideologia
|
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dell'organizzazione, nel Piano. Né conta qualcosa l'osservazione dei
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|
«diplomatici sovietici della cultura» in Occidente – Ehrenburg ed El
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Lisicki, non casualmente attaccati sia da Arvàtov che da Gan[^40] circa
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|
la coincidenza delle linee gènerali di sviluppo capitalisti che e
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sovietiche verso l'rganizzazione della produzione e la sua
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pianificazione[^41].
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Solo il socialismo realizzato ammette il Piano come espressione organica
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|
del colloquio mistico fra le masse e il nuovo universo tecnologico: solo
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|
in esso quel colloquio può significare la nuova verità della «raggiunta»
|
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|
fine della divisione sociale del lavoro. La «città comunista» – Gan lo
|
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|
dichiara esplicitamente, e dopo di lui lo ripeteranno fino
|
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|
all'saurimento El Lisickij e tutti i tecnici europei impegnati nella
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|
costruzione reale di quella città, da Hannes Meyer ad Hans Schmidt 4 2 -
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|
è il luogo specifico della manifestazione sociale del Piano, come la
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|
«città borghese» è il luogo delle contraddizioni soggettivistiche e
|
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|
dell'anarchia della produzione».
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|
L'Organizzazione è pronta ora a divenire il campo specifico su cui
|
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|
l'intellettuale può fonaare le proprie speranze di riscatto e di
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|||
|
sopravvivenza; né manca chi, come Kusner, portando fino in fondo
|
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l'deologia costruttivista, individua nel mito dell'rganizzazione la fine
|
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|
del «feticismo della tecnica»[^43].
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|
L'immagine della produzione come celebrazione della socialità del
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|
lavoro, dunque. Produttivismo e Costruttivismo, ereditando, dal '23
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|
aleno, tutte le aspirazioni troricate del Suprematismo, indicano le vie
|
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del rovesciamento del momento col lettivo nell'organizzazione di un
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|
lavoro produttivo in cui la classe operaia sia esplicitamente chiamata a
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riconoscersi completamente. Il macchinismo celebrativo della torre di
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|
Tatlin del '19, i garages e i clubs operai di Mel'ikov dal '25 al '30, i
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|
progetti urbanistici di Lavinskij, di Varentsov e dell'RU – pensiamo
|
|||
|
alla planimetria di Autostroi (1930), in cui Lavrov, Popo e Krutikov
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sembrano tradurre in segno planimetrico reiterato l'equilibrio dinamico
|
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di alcuni famosi Controrilievi tatliniani[^44], – sono le tappe di un
|
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|
progressivo sganciarsi dalla realizzazione di quello stesso piano
|
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sociale che l'rganizzarsi dellé fcirme si assume il compito di
|
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|
comunicare metaforicamente. (L'avvertimento di Maj akovskij agli
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|
studenti del Vchutemas è veramente sintomatico al riguardo, cosi come lo
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è la narrazione autobiografica. della Semenova sul ruolo del
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produttivismo «astratto» in seno alle scuole di architettura) 4'.
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Non vorremmo che si interpretassero le nostre osservazioni come una
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scontata critica rivolta al carattere puramente propositivo, simbolico,
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«non realistico», delle correnti eredi dello spiritualismo suprematista
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e dell'ccezione costruttivista offerta da Gabo e Pevsner. In realtà è
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proprio il formalismo dei membri dell'ASNOVA, di Mel'ikov, dei Golosov,
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|
di Leonidov, a segnare con maggiore chiarezza storica le tappe
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|
successive in cui si realizza il «dover essere» dell'vanguardia.
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Notiamo anzitutto un fenomeno solo in apparenza paradossale. In nome
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dell'autonomia della costruzione formale Tatlin aveva duramente
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criticato il programma di addobbo monumentale delle città promulgato da
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Lenin nel 1918. Nel '19 Tatlin stesso elabora il proprio «monumento»,
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dimostrando involontariamente quale fosse lo sbocco logico delle teorie
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|
produttivistiche sui materiali; nello ste::ro tempo, le avanguardie
|
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danno il meglio di sé nel teatro, nello spettacolo di massa, nella
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|
propaganda urbana: il ribaltamento «produttivo» dell'«arte» sulla città
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diviene la soluzione «naturale» della emblematica della tecnica e delle
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implicazioni libertarie ad essa attribuite. L'ideologia dello sviluppo
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|
si cala nell'p pello al lavoro sociale, all'integrazione della classe
|
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|
nel piano di sviluppo, all'identificazione della classe nello sviluppo.
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|
Lo stesso Lenin aveva confermato la necessità per la classe di
|
|||
|
considerarsi estranea agli strumenti di valorizzazione del Capitale
|
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|
fisso. La NEP aveva sancito implicitamente l'insopprimibilità
|
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|
dell'opposizione dei diretti interessi di classe al pur \ necessario
|
|||
|
sviluppo degli strumenti e dei metodi di produ- zione.
|
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|||
|
Non cogliere la dialettica insita nella NEP e scegliere come proprio
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campo di lavoro l'organizzazione dei modi di produzione – come ideologia
|
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pura per i formalisti, come ambiguo compromesso fra ideologia e tecnica
|
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di intervento settoriale per gli architetti dell'OSA – fa tutt'uno, per
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gli intellettuali sovietici, con il travisamento del progetto leninista
|
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|
rivolto a non annullare la classe nel piano, a liberare, anzi, il
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|||
|
potenziale di lotta della classe stessa, nell'autonomia della propria
|
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estraneità allo stesso capitale sociale dentro al quale essa funge come
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elemento trainante.
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La doppia faccia del lavoro produttivo – tutto dentro allo sviluppo e
|
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|
contemporaneamente in lotta contro di esso viene annullata dall'deologia
|
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|
che identifica classe e Piano. E' proprio questo, infatti, che
|
|||
|
Ehrenburg, El Lisickij o i Vesnin indicano con il loro immediato
|
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implicare il proletariato nel progetto di «liberazione collettiva» da
|
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|
realizzare con lo sviluppo pianificato. Non a caso gli architetti
|
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|
«radicali» tedeschi, olandesi o cecoslovacchi, potranno vedere nella
|
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Russia sovietica il paese dell'utopia realizzata, il luogo eletto
|
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dell'rganizzazione dello sviluppo, il campo di applicazione specifico in
|
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cui è possibile attuare ' il sognato recupero di un lavoro intellettuale
|
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riscattato nel suo ruolo di guida – etica e tecnica a un tempo – della
|
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|
Civilisation machiniste[^48].
|
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Il saggio di Vitezslav Prochazka, pubblicato in questo stesso volume,
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documenta ampiamente la tensione ideale verso l'universo dell'umanesimo
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socialista», tipico delle avanguardie progressiste cecoslovacche, da
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Leva Fronta in poi. Ma forse, ancor più dell'opera. dei gruppi tedeschi
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e ceki, è il pro getto elaborato d a Berlage per i l mausoleo di Lenin (
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1 924 ) ad esibire uno spaccato concettuale di tale identificazione
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dell'URSS, da parte della cultura radicale, come il luogo specifico
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della fratellanza. universale, del riscatto miilenario dalla
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oppressione. Il progetto. di Berlage non a caso si struttura intorno a
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due alti fari, che ripetono il motivo del precedente progetto di
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«Pantheon dell'manità» (1915), elaborato come accorato appello
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umanitario contro la «barbarie» della prima guerra mondiale4 1
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Lenin come incarnazione del recupero dell uomo totale e del riscatto
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del, «lavoro», dunque: il corpo di fabbrica laterale, echeggiante con la
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sua copertura a sheds ' un edificio industriale, è esplicito nella sua
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allegoria del lavoro sublimato. L'intera attesa messianica di un futuro
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liberatorio, che agita la cultura olandese della fine dell'800 e del
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primo ventennio del '90 0, con tutto if suo bagaglio di teorie
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teosofiche mistiche e anarchiche, sembra, con il progetto di Berlage,
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aver trovato un oggetto concreto. capace di soddisfare quell'attesa. Fra
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il mausoleo berlagiano, la Stadtkrone di Taut, la cattedrale del futuro
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di Feininger e le «città della pace» di Kampffmeyer, C. Klein e
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Schmidt-Rottluff, le differctPze soo – al di là delle forme – solo
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marginali.
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L'oscillare ambiguo tra l'autoconfinamento nell'deologia e il diretto
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intervento nell'invenzione di forme socialiste di vita dal '28 in poi si
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tratterà dell'invenzione della città socialista – caratterizza il
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dibattito architettonico nel periodo della NEP.
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Ma il continuo insistere sul ruolo della letteratura o del cinema come
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contributi all'organizzazione e alla «costruzione delle coscienze», o su
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quello dell'architettura e della città come immagini sociali di una
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pianificazione possibile, rivela a ben vedere una profonda inquietudine.
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Il ruolo dell'ideologia e dell'utopia, dal periodo della NEP in poi, non
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può più essere mis tificato. Quanto più l'rchitettura salva se stessa
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come disciplina, quanto più tenta la salvaguardia del proprio ruolo
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istituzionale, tanto più essa gettualità del prodotto di massa e, il
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destino del tecnico che ne guida il ciclo di produzione vengono legati
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insieme, in modo non dissimile a quanto faranno Benjamin e Dorner ' 2.
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Non solo rispetto alle condizioni reali dell'industria sovietica degli
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anni '20, ma anche nei confronti della situazione storica più generale
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dell'organizzazione produttiva, quell'invocazione, quella scelta
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soggettiva di proletarizzazione, appare l'ultima prefigurazione
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possibile del Geist borghese. Se ora la Totalità è il proletariato, se è
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questa la classe che porta a compimento la filosofia dialettica tedesca
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- è il tema costante, del resto, delle pagine più mistificanti di Engels
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e del giovane Lukàcs se è solo nel processo di costruzione
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dell'niverso socialista che sembra darsi il nuovo, unico Valore,
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allora non rimane che scavalcare i tempi, scongiurare il momento
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dell'estinzione reale, oggettiva, del lavoro intellettuale e della sua
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trasformazione in lavoro tecnico produttivo, anticipare con una scelta
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soggettiva esattamente questo momento: scegliere insomma la propria
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proletarizzazione per poterne gestire completamente i modi, la
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qualità, i fini generali.
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Che è come dire, per il lavoro intellettuale, mantenere inalterato il
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proprio ruolo di coscienza del mondo, di anticipatore profetico, di
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gestore dei fini etici dell'mrianità ( ora, nell'URSS, dell'umanità
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liberata dalla Rivoluzione d'Ottobre). E' difficile non vedere in tale
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scelta, chiarissima in tutti i documenti delle avanguardie sovietiche,
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il pieno esplicarsi del ruolo specifico dell'ideologia borghese nel
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senso più pieno del termine. Né ci faremo ingannare, in tale
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riconoscimento ( come tanta parte della critica occidentale e sovietica
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recente ), dal fatto che quell'ideologia insista ora su uno spazio
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storico cambiato di segno. Si può seguire agevolmente il processo
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storico delle ideologie artistiche sovietiche nella duplice vicenda che
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fra il '28 e il '30 segna l'estinzione dei ruoli soggettivi datisi dai
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due gruppi dei Razionalisti raccolti nell'OSA e intorno alla rivista
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«SA» e dei Formalisti – non solo i membri dell'ARU, l1' ''. anche, e
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principalmente, Mel'nikov e Leonidov.
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Di fronte al tema della riorganizzazione delle città, Ginzburg o
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Sabsovic non possono rispondere – come, del resto, Ochitovic o Barse -
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che con proposte d'invenzione soggettiva di «città socialiste»: sarà
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Kaganovic, nella sua relazione al Plenum del c.c. del 15 giugn'o 1931 a
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ricordare come non esista spazio colmabile mediante prefigurazioni
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soggettivé, nella gestione dell'conotnia socialista[^53]. L'intervento
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degli architetti ed urbanisti stranieri, dal '29 in poi, si rivela così
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come frutto di una scelta politica conseguente. La gestione
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socialdemocratica della città, sperimentata in Germania dà! '24 in -
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poi, può essere ora utilizzata come utile supporto tecnico allo sviluppo
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regionale fissato dal primo piano quinquennale. Gli sbocohi – che avrà
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il lavoro di May, di Hannes e Kurt Meyer, di Hebebrand, di Stam, di
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Schmidt, nell'Unione Sovietica', saranno studiati in modo
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particolareggiato in questo stesso volume e pertanto possiamo per ora
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tralasciarne l'analisi. Ai nostri fini è sufficiente sottolineare che è
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proprio nel loro presentarsi come puri tecnici del Pi!tno, forniti del
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mio, nimo ideologico ammissibile (o meglio, capaci di dare una veste
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tutta. tecnica al loro minimo di ideologia ), che May o Schmidt
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rivelano, storicamente, il reale volto sòvJ,:astrutturale del dibattito
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interno ai gruppi di ricerca russi.
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Sovrastrutturalità che potrà avere ancora, certo, un suo ruolo: come
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propaganda. E non ' si è mai data propaganda che abbia. scelto
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autonomamente gli oggetti di cui co.p.sigliare la fruizione. Alla luce
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di tali considerazioni acquista 'un. nuovo significato quello che. è
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stato acutaente chiamato il «recu7 pero del Suprematismo» da parte
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-delle ' avanguardie russe tra il '27 e il '33 54
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Nel '27 Aleksei Gari, il più accariitQ lassertore, nel '22, dell'
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estinziqne dell'arte, scrive – e proprio su «SA» – le sue «Note su
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azimir Malevié», in cui il consueto attacco ai formalisti e alla ASNOV
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A, si, traduce. in un, progetto di recupero, delle «composizioni.
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suprematiste astratte» come promotrici di «un nuovo atteggiamento
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psicològico-percettivo di fronte alle mass.e – volumetrico-spaziaIi»[^55].
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Nello stesso tempo – tra il '27 e il '28 Mel'ikov, e dal '27 al '33
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Leonidov – i Formalisti portano al massimo compimento la poetica dello
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«straniamento semantico» dell'ggetto, letto – in chiave neosuprematista
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- non come oggetto-modulo di produzione o di serie, bensì come oggetto
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autonomo inserito in una serie definibile solo in termini ' dir
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linguaggio, di articolazione geometrica. Dal planita e dal Proun,
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piattaforme di passaggio all'rchitettura e alla produzione, produzione
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e architettura riapprodano, con loro, a planiti e Proun «realizzati»,
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ma non per questo meno programmatici.
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Basterebbe intraprendere una compiuta analisi strutturale degli
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assemblages geometrici melnikoviani per scoprire quanto la tecnica del
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montaggio sia per essi non tanto e non solo metafora della catena di
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produzione, quanto piuttosto proposta di recupero di una qualità
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all'interno di questa. I modi di produzione riducono oggettivamente il
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rapporto ' uomomacchina a relazione astratta fra «oggetti»: il club
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operaio sarà il luogo dove tale relazione dovrà ricaricarsi di
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significati. E' proprio la distanza dalla fabbrica del club operaio che
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permette tale recupero: lo straniamento semantico insisterà quindi sulle
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immagini della catena di produzione, astratta fino ad assumere i
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connotati di un insieme di puri segni geometrici. Il lavoro del «tecnico
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della forma» inizierà da qui: suo compite.. non sarà quello di rendere
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significanti quei segni, bensì di fàrli «scontrare» fra loro, di
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assumere il loro vuoto come materiale di una comunicazione volutamente
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ambigua, perché sospesa fra la pura ed ermetica affermazione di se
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stessa e l'indicazione – altrettanto ermetica – di una forma come
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tensione verso un inattuale principio di Ragione.
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Più che nel club Rusakov, club Svoboda (detto «il sigillo per la
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fabbrica «Procellaria» '28-'29. Nel primo è notevole del '28, ciò è
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leggibile nel della libertà» ), o in quello (detto «dei cilindri» ), del
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l'ntroduzione di un invito esplicito a una lettura in movimento, in cui
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il percorso dell'sservatore, indirizzato secondo la direttrice
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avvolgente delle rampe che attraversano e spaccano.trasversalmente la '
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«mac china» formale, segue da vicino l'quilibrio di namico degli oggetti
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geometrici che si contrappongono nella loro assoluta disomogeneità 5 6.
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Nel secondo, la «distorsione», il priem, entra nella stessa definizione
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dei singoli elementi: i cilindri vetrati, che si intersecano e si
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raccordano solo nel «piatto» superiore che unifica la frase geometrica,
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contrastano con la loro articolazione il neutro parallepipedo da cui
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emergono. ( E ' la medesima esibizione di un montaggio di forme
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discontinue che gli allievi di Ladovskij e Doukacaev avevano
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sperimentato allo stato puro nel V chutemas, e che verrà ripreso da Ilya
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Golosov, nel club Zujev o nel progetto di tea tro per Sverdlovsk).
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Ciò che caratterizza tali esperienze, comunque, è – come per le
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Kinopravda di Vertov ' il tentativo di estrarre un massimo di
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comunicazione dal montaggio di segni privi di s ignificati intrinseci.
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L'avanguardia torna su se stessa, ripercorre filologicamente le tappe
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del proprio processo.
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La teoria dell'ir rile vanza della dimensione semantica nel contesto
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poetico ha ormai dato la mano all'utopia del Significato. Il primato
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della parola-segno – o, in architettura, dell'oggetto-segno – si rivela
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come giustificazione di tecniche di montaggio formale che comportino una
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«tensione nella ricerca del significato». 5 7. E' esattamente quanto
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accade nel cinema di Dziga Vertov, nelle ermetiche aggregazioni di
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Mel'nikov e Leonidov, negli assemblages metaforici di El Lisickij.
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Degradandosi volontariamente a combinazione di vuoti segni, il
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linguaggio artistico recupera così l'nica stratificazione di semanticità
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ormai ammissibile, e proietta la questione del proprio senso al di là di
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se stesso, al di là dell'mmediato presente (proprio l'opposto di quanto
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teorizzato da Tatlin, Rodčenko e dalla Stepanova nel '20 ).
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Ancora una volta l'arte, in quanto puro progetto, in qu anto
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anticipazione di una globalità pianificata che ' attende un significato,
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in quanto istanza che dichiara implicitamente la propria impossibilità
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oggettiva a riempire di senso le pro prie antlcIpazioni, cerca nel
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futuro le condizioni della propria sopravvivenza. E nello stesso momento
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in cui essa rinchiude l'intera questione del proprio valore in una
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ipotesi, essa segna le vie della propria estinzione. L'ipotesi vale in
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se stessa, recupera un proprio significato solo se sospende se stessa al
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di sopra del reale: le forme in tensione e in opposizione dei garages e
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dei clubs operai di Mel'nikov non alludono ad alcuna utopia, affermano
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solo se stesse, al di là di ogni attributo funzionale.
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Sotto questo aspetto la vicenda dell'arte russa non si differenzia da
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quella dell'vanguardia nel suo complesso, altro che per la radicalità
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con cui essa si sviluppa nell'Unione Sovietica tra il '20 e il '30. Il
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p'ensiero negativo, questo culmine dell'laborazione dialettica borghese,
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sceglie ancora una volta il terreno dell'ipotesi fine a se stessa, per
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scongiurat e provvisoriamente un'eutanasia paventata come inevitabile.
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Il dilemma, allo scadere degli anni '30, diviene angosciante. Rimanere
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fedeli – come fanno Tatlin, Mel'ikov, i fratelli Golosov o Leonidov -
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alla legge dell'ostranenie, dello «straniamento» dell'ggetto, non può
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che significare il ritorno allo «slittamento semantico», teorizzato dal
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giovane Šklovskij come artificio necessario all'strazione dell'oggetto
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stesso dall'utomatismo della percezione. (I traslati geometrici e le
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intersezioni articolate dei clubs operai di Mel'nikov, la riinvenzione
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continua dei modi di articolazione degli oggetti, l'so dello
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perimentalismo basato sull'associazione arbitraria delle interiezioni
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geometriche nel Dom Narkontiazproma di Leonidov, ne sono solo le prove
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più appariscenti). Ma con ciò si sancisce definitivamente la propria com
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pleta estraneità al progetto cui tutte le avanguardie avevano teso:
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l'organizzazione di un universo tipizzato, dominato dalle leggi
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dell'automatismo percettivo. La distanza, alla fine, da quello che
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Benjamin chiamerà l'uso «politico» della riproduzione tecnologica[^58].
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Né può sfuggire che la protesta implicita nelle metafore di Mel'nikov è
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tutta calata nella tradizione della negazione romantica. L:immagine del
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nuovo universo della produzione
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- cui alludono, malgrado tutto, i suoi «montaggi» formali
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- ha come fine l'esorcizzazione di quello stesso universo, si, risolve
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in un 'ipotesi, data in partenza come ineffettuale, circa la
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possibilità di un dominio soggettivo e intellettuale su di esso.
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Al di là delle autogiustificazioni programmatiche ciò ha un solo
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significato. L'arte – riproponendosi come tale scopre di poter
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sopravvivere solo tornando ac;l estraniarsi dalla «bandiera che sventola
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sulla cittadella». Anche per i formalisti, dopo il '30, non rimane che
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la poesia come atto privato, ermetico, improduttivo, àl limite
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incomunicabile.
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La stessa teoria dell'irrilevanza semantica nel contesto formale implica
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la disponibilità delle strutture geometriche a significati
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predeterminati: ed è innegabile che gli artifici combinatori di Mel'ikov
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sono – al di là del loro macchinismo generieo – oggetti tanto più
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disponibili quanto più concentrati sulla specificità del loro autonomo
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costruirsi.
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Un solo passo avanti e otterremo il Letatlin, l'uomomacchina volante
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elaborato da Tatlin, nel 19;3 0-'31, nel monastero Novodevicky di Mosca.
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Nel Letatlin c'è tutto: la mistica della macchina e l'stanza di un
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dominio «umano» su di essa, la tensione verso il futuro e il naufragio
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nell'arcaico, l'ansia produttiva e il recupero di un'incolmabile
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distanza dalla produzione 9. Ma c'è, principalmente, la scoperta
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dell'nattualità della stessa avanguardia. Per sopravvivere non c'è che
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tornare alle origini, accettare di giocare di nuovo, su un filo da
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equilibrista, una partita con la storia in bilico tra l'utile e il
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ridicolo. La distanza – per il Tatlin del '30 fra l'quilibrista e il
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clown è minima.
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In questo tornare al banale di un'arte che nonostante tutto si ostina a
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volersi presentare come produttiva, è inutile leggere fasi biomorfiche
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della poetica tatliniana o profezi[^60]. bilanciate da un profondo
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disincantamento
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Il gesto-buffonata dei primi budetljane si ripresenta con il Letatlin
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privato di aggressività. Comunicando inequivoca bilmente che il vuoto
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oggettivo che esso occupa è l'eco, la rappresentazione, l'evocazione del
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deserto scoperto nel '13 da Malevic: con la differenza che laddove il
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deserto di Malevic era un campo vuoto, da colmare di infinite forze
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potenziali, quello del Letatlin è il simbolo del definitivo «addio al
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mondo» dato dall'avanguardia. Un addio che è tuttavia tutto scontato
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nelle proprie premesse e che era già contenuto nel coerente rifiuto
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della cosiddetta «ala destra» del Costruttivismo o dei primi saggi
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dell'Opoj az a risolvere l'arte nella produzione.
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E' proprio la «macchina inutile» tatliniana che rende evidente la
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fondamentale ambiguità dell'Avanguardia: una ambiguità che
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l'architettura ha avuto il'compito storico di coprire piuttosto che di
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rivelare.
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Il Formalismo aveva visto giusto: il soggiacere al reale, alle cose,
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alle parole-cose del Futurismo, era in realtà un diabolico artificio per
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sfuggire al dominio del reale. Lo straniamento, la deformazione del
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dato, non è che l'ltimo progetto di dominio soggettivo del!'anima sul
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mondo attraverso le forme.
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Assumendo i connotati della macchina – e di una macchina particolarmente
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carica di valori simbolici, come l'uomo volante – ed estraniando
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quest'ultima dalla concretezza della produzione, Tatlin torna
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all'origine. Il pathos cosmico del Suprematismo, nella sua tensione
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verso la conquista di una riconciliazione globale dell'uomo con
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l'universo, si trasforma
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- nel Letatlin progettato nell'RSS del primo piano quinquennale
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all'interno di una torre monastica[^61] – in un mònito ironico e
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disincantato ad un tempo, che sancisce,.insieme al totale recupero
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dell'estraneità dell'arte alla vita, la nullità di se stessa, in
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quanto groviglio di cuntraddizioni soggettive tanto prive di soluzioni
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quanto del tutto ineffettuali.
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Il ritorno dell'arte a se stessa e il suo estinguersi reale,
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verificabile in tutte le più significative esperienze dell'architettura
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sovietica alle soglie degli anni Trenta, non presenta assolutamente
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nulla di «eroico», nulla di imposto dall'esterno. Il Kitsch staliniano è
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solo una cartina di tornasole che chiarisce un destino storico che
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accomuna l e avànguardie sovietiche a quelle occident aÌi, e che in
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quanto tale attende di essere ristudiato.
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E' piuttosto significativo che nelle recenti rivalutazioni delle tesi
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«eroiche» del Costruttivismo russo, si eviti accura. tamente di
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osservare come 't utto quell'nticipare ideologicamente, metaforicamente,
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simbolicamente, il momento «necessario» dell'rganizzazione produttiva,
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del funzionamento del ciclo economico complessivo come «macchina
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globale, non trovasse altra giustificazione che in ragioni tutte immerse
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in una visione palingenetica ed etica del «mondo nuovo». In tutto
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quell'gitare il vessillo della «conoscenza», dell'indagine analitica,
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della ricerca formale come scavo nelle strutture logiche del reale,
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nessuna indagine oggettiva si è preoccupata di mettere in luce il
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significato ultimo dell'organizzazione e della razionalizzazione del
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lavoro in sé, come modi del controllo e del dominio del capitale sociale
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sui movimenti di classe. L 'ideologia del lavoro, offerta e riprodotta
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dagli intellettuali, proprio per la connessione tutta mistificata da
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essi istituita fra il volto sociale della classe operaia e la rior
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ganizzazione della divisione sociale del lavoro, fra,clàsse e piano
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produttivo, non può che assumere un ruolo celbrativo della
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«costruzione del Socialismo»: tanto da poter capire, in questa chiave,
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le insofferenze di un Gan di un Pasternak o di un Majakovskij nei
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confronti del lucido esperimento della NEP.
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Ma è chiaro che non è solo l'alleanza tutta verbale fra avanguardie ' e
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Rivoluzione che provoca l'impasse. La distanza incolmabile fra
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intellettuali e processo rivoluzionario è proprio nell'impossibilità di
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quegli intellettuali a rovesciare integralmente in analisi politicà i
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loro strumenti di conoscenza, nella loro incapacità a rileggere
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criticamente il ruolo con solidato delle loro discipline. Scoprire il
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ruolo di strumento di valorizzazione del capitale, proprio di
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quell'organizzazione del piano da loro agitato come asse ideologico, ri
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scoprire marxianamente l'pposizione ineliminabile. fra capi tale e
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lavoro, rifiutarsi di agitare, nella prOleZlOne sociale dei rapporti di
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produzione, la mitologia della raggiunta sparizione della divisione
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sociale del lavoro: sono questi 1 compiti politici cui gli intellettuali
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russi si sottraggono storicamente. Cosi, da rendere lampante che la loro
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Rivoluzione aveva ben poco a che fare con quella bolScevica. Come per il
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Lukàcs di Storia e coscienza di classe, come per Karl Korsch, come per
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tutto il Linkskommunismus europeQ o per gli intellettuali «radicali»
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della Germania di Weimar, la rivoluzione è il compimento, per loro, del
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compito storico del proletariato: la restaurazione della categoria della
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totalità, la distruzione immediata e soggettiva della reificazione, il
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recupero dell'integralità dell'Uomo come Sp'irito hegeliano finalmente
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autorealizzato. Confondendo la Rivoluzione bolscevica con la Rivoluzione
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etica auspicata per tutto il corso dell'800 dagli intellettuali
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«dissidenti», l'intelligencija russa rivela come in tutta la sua volontà
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di costruzione del «mondo nuovo» per l'omo nuovo si celi il permanere
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dell'antico sogno dell'intellettuale europeo: porsi come guida morale
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dell'rganizzazione di classe. Perché nient'altro significa quel continuo
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affrontare il tema della costruzione del volto sociale del potere
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proletario, che far passare sopra generici slogans politici il preciso
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obiettivo di una ristrutturazione globale della divisione sociale del
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lavoro, in cui l'elaborazione intellettule continui ad assumere un
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ruolo privilegiato.
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Con il che si scopre che è proprio nelle autogiustificazione politiche
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dell'ASNOVA, dell'OSA, dell'ARU, nella riorganizzazione disciplinare
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compiuta nel Vchutemas e nel Vchutein, nei tentativi di definire
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formalmente l'assetto della «città socialista», che gli intellettuali,
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al di là di tutte le loro pur reali differenziazioni, offrono il loro
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formidabile appoggio all'ideologia del socialismo realizzato. Tanto, che
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è legittimo chiedersi se nella vicenda che vede quel socialismo
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fagocitare le ideologie che ne avevano facilitato la crescita, sia da
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vedersi una tragedia o non piuttosto una «necessaria ironia della
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storia».
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vim: spelllang=it spell
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